Recensione a Beatrice Centi e Gianna Gigliotti (curatrici), Fenomenologia della ragion pratica. L’etica di Edmund Husserl

Beatrice Centi e Gianna Gigliotti (curatrici), Fenomenologia della ragion pratica. L’etica di Edmund Husserl, Bibliopolis, Napoli 2004.

L’interesse nei confronti dell’aspetto pratico del pensiero di Husserl è andato negli ultimi anni crescendo in modo esponenziale. Ciò è dovuto in primo luogo, come è ovvio, alla pubblicazione di alcuni inediti husserliani — principalmente lezioni universitarie — relativi proprio all’applicazione del metodo fenomenologico a ciò che Husserl chiama Gemüt, vale a dire quel flusso di vissuti che tanta importanza hanno nella vita concreta del soggetto, e che tuttavia non rientrano nelle funzioni conoscitive o “teoretiche” della coscienza: i volumi a cui mi riferisco sono principalmente il ventottesimo della collana Husserliana, Vorlesungen über Ethik und Wertlehre 1908-1914, edito nel 1988, e il recentissimo trentasettesimo, Einleitung in die Ethik. Vorlesungen Sommersemester 1920/1924, apparso alla fine del 2004. Questi testi, in cui si cerca di delineare un’etica pensata come scienza dell’agire razionale in generale, propongono al lettore una serie davvero notevole di sollecitazioni teoriche, che vanno dalla necessità di un’etica formale, analoga alla logica formale e facente capo a una mathesis universalis, fino al problema del valore, dall’individuazione di un imperativo categorico all’analisi della struttura dei Gemütsakte intesi come atti non-oggettivanti, dalla questione della stratificazione dei vari tipi di vissuti intenzionali alla distinzione di atti valutanti e atti volitivi. Queste riflessioni sono feconde non solo perché tramite di esse è possibile ampliare la panoramica sulla fenomenologia husserliana, scorgendola in tutta la vastità dei suoi orizzonti e nella sua esigenza sistematica, ma anche o soprattutto per il fatto che esse permettono di ripensare in modo nuovo e più ampio gli altri temi “classici” del pensiero husserliano: la fenomenologia, infatti, non è mai un’indagine a compartimenti stagni, né tanto meno un sapere che si rinchiude in possessi conoscitivi stabili, ma è sempre e costitutivamente, in conformità al senso pregnante dell’immer wieder, un continuo ritornare sui propri passi, un tornare a vedere le medesime cose da angolature diverse, ogni volta rimettendo in discussione i risultati raggiunti e ri-fondendoli, ri-sintetizzandoli in maniera nuova.

Il volume Fenomenologia della ragion pratica. L’etica di Edmund Husserl, a cura di Beatrice Centi e di Gianna Gigliotti, edito da Bibliopolis nel 2004, vuole offrire proprio una panoramica, la più articolata possibile, sulla riflessione pratica husserliana, mostrandone i piani molteplici, il carattere problematico ovvero “aperto” — in quanto esperimento di analisi — nonché i rinvii interni agli altri temi consueti della fenomenologia. Tale volume nasce dall’omonimo convegno tenutosi a Parma nel marzo del 2003 e si avvale del contributo di alcuni degli esponenti più prestigiosi in seno agli studi fenomenologici: la collettanea che ne viene fuori è estremamente ricca di prospettive diverse e suggestive, poiché basata sul tentativo di dare voce alla radicale complessità delle analisi husserliane, le quali, proprio per il fatto di essere allo stato, per così dire “progettuale”, dell’esperimento fenomenologico, non si presentano certo come perfettamente sistematizzate, ma in compenso testimoniano della mobilità e della vivezza di tutto quel lavoro filosofico dal basso (von unten), che è la cifra inconfondibile del pensiero di Husserl.

I contributi proposti dal volume in questione vanno dall’analisi dei rapporti tra logica dei valori e logica delle norme, presentata da Kevin Mulligan, fino alla inevitabile discussione relativa al formalismo di Husserl, affrontata sotto ottiche diverse dai saggi di Vincent Gérard, Beatrice Centi e Gianna Gigliotti. A tal riguardo, in particolare, nel suo contributo su Il concetto di valore nelle Lezioni di etica (1914) di Husserl: intrecci, nodi e senso della forma, la Centi mostra come in Husserl non si dia un apriori materiale assiologico in senso scheleriano, inteso cioè come dato ontologico che precede l’atto intenzionale e al quale tale atto debba dirigersi e conformarsi. Per Husserl, infatti, ogni esperienza di cose, dunque anche l’esperienza assiologica, non può essere concepita “ingenuamente”, secondo l’atteggiamento naturale, come relazione di due enti, l’uno intenzionante, l’altro intenzionato, che in qualche modo entrano in contatto, si avvicinano, ecc., quasi che l’intenzionalità fosse un incontro casuale: l’intenzionalità, cioè il rapporto che stringe ente intenzionante ed ente intenzionato, comporta la costituzione di tali poli nel e come rapporto stesso, al di fuori del quale essi sono mere astrazioni. Metafisica è per Husserl proprio quella filosofia che, lungi dal riconoscere il carattere costitutivo, a parte obiecti e a parte subiecti, del rapporto intenzionale, assume o nega in modo acritico l’esistenza di soggetto e oggetto, coscienza e mondo, ecc., finendo così con l’assolutizzare e con l’ipostatizzare quelli che sono i termini di una relazione. Stando a questo che appare come il tratto più originale della fenomenologia husserliana, in ottica assiologica non si può porre un dato ontologico originario assoluto, il valore, come qualcosa che si imponga immediatamente al soggetto: il valore si dà in una corrispondente coscienza emotiva, ragion per cui la costituzione di valore impedisce di parlare di un apriori materiale assiologico nel senso appena specificato. Secondo la Centi, quando Husserl parla di apriori materiale fa riferimento al problema dell’universalità del concreto, cioè al problema di come i contenuti di valore che si presentano al soggetto possano assurgere a predicati validi in maniera oggettiva: la validità universale dei predicati assiologici è resa possibile, secondo questa lettura, a partire dalla stratificazione formale del Gemütsakt, nel quale si congiungono la componente specificamente sentimentale, atta a cogliere la dimensione di valore, e la componente rappresentativa o logico-oggettivante, che presenta la cosa cui inerisce il predicato assiologico. L’apriori materiale, allora, viene alla luce solo in riferimento alla struttura apriorica formale dell’atto etico, che si costituisce non solo di specifiche componenti di sentimento, ma altresì di elementi logici deputati all’oggettivazione, e con ciò all’universalizzazione, dei predicati di valore. Per la Centi, la peculiarità della riflessione etica husserliana non sta allora, ancora una volta, in un apriorismo materiale imparentato con quello scheleriano — secondo la lettura classica che Alois Roth presenta nelle sue Edmund Husserls ethische Untersuchungen (1960) —, poiché al contrario “l’aspetto più interessante è invece l’accentuazione dell’intreccio tra gli atti e tra i momenti di ogni atto, dunque la descrizione dei complessi livelli del riferimento intenzionale proprio dell’etica, nel quale — più che in ogni altro — è evidente (per le componenti di rappresentazione, di giudizio, di sentimento, di desiderio, di emozione e di volontà) la struttura pluristratificata e multiprospettica dell’atto, la cui comprensione ha permesso a Husserl di cogliere la dimensione contenutistica del formalismo etico” (Fenomenologia della ragion pratica, p. 269). Paradossalmente dunque, secondo la Centi, la questione dell’apriori materiale riconduce Husserl a Kant, poiché “il valore e la validità non sono entità da raggiungere, ma predicati la cui generalità va reperita attraverso la critica di materie storiche e molteplici, per delineare contenuti generali, universali concreti che permettano nuove valutazioni” (ivi, 299).

Su questa linea, che vede la riflessione etica husserliana come degna e originale erede del formalismo kantiano, si pone anche il saggio di Gianna Gigliotti, dal titolo emblematico di Materia e forma della legge morale nell’interpretazione husserliana del formalismo di Kant. La Gigliotti vuole mostrare come il senso del formalismo cui Husserl fa riferimento non sarebbe in contraddizione con quello kantiano, che pure Husserl critica aspramente. Nell’interpretazione husserliana dell’etica kantiana gioca un ruolo dominante la vulgata, di provenienza hegeliana, che attribuisce al formalismo la pecca di proporre, come fondamento della morale, una pura forma logica — l’imperativo categorico — slegata dalle sue possibili materie concrete. Il fenomenologo Husserl non può essere ovviamente d’accordo con una impostazione che si presenta così astratta, senza sospettare che anche in Kant in fondo le cose non stanno nel modo codificato da Hegel, come sottolinea la Gigliotti: “Mi pare che l’accusa di intellettualismo che rivolge a Kant sia legata in Husserl all’esigenza di non lasciare nell’indifferenziato, quanto al suo contenuto morale, quel referente materiale pur sempre presente anche per Kant nella forma della legge morale” (ivi, p. 70). Se infatti non si legge il formalismo kantiano nei consueti termini “hegeliani”, come pura forma logica, che al limite rischia di essere vuota di contenuti ed irrelata rispetto alla materia concreta, bensì come forma in senso trascendentale, cioè come condizione di possibilità, come relazione o connessione a priori che sola permette al volere di avere oggetti in senso morale, allora il criticismo etico non si contrappone alla fenomenologia pratica husserliana. Anche in Husserl, in quest’ottica, c’è un’analoga esigenza di forma in senso trascendentale, solo che tale forma non deve essere presupposta ma ritrovata, dal basso come è ovvio, nella concretezza dell’esperienza, vale a dire come relazione che “informa” le materie intenzionali. Secondo la Gigliotti, l’attenzione estrema che Husserl dedica all’intentum dell’intentio, cioè all’aspetto noematico dell’atto di coscienza, non inficia la sua adesione alla via trascendentale quale è aperta da Kant: “la ricerca husserliana si viene chiaramente configurando come iscritta nel progetto kantiano di indagare la natura della volontà-ragione pratica, come forma autonoma la cui configurazione non può però per Husserl essere raggiunta a prescindere dal referente noematico degli atti in cui essa si articola” (ivi, p. 99). Leggendo bene le lezioni di etica pubblicate nel volume XXVIII della Husserliana, si può notare come il giudizio su Kant sia non a caso ambivalente: da un lato il filosofo di Königsberg è criticato per il suo approccio astratto, nonché per il fatto di aver completamente escluso dall’ambito della fondazione morale il sentimento; dall’altro tuttavia egli è elogiato per aver posto con forza la necessità di principi pratici a priori, cioè di un’etica basata non su regole e materie empiriche, bensì su un principio trascendentale, universale e incondizionato, che delimiti precisamente la possibilità e i margini di un agire libero e responsabile. L’esigenza trascendentale svolge pertanto nel pensiero husserliano un ruolo che lo pone, volente o nolente, sulla scia del formalismo kantiano: ciò che rende originale l’impostazione fenomenologica è, in quest’ottica, il fatto che la forma, intenzionalmente connotata come “forma-di”, possiede come contenuto o materia un elemento del sentimento. In ottica fenomenologica, infatti, l’ambito della cosalità non è esaurito dagli oggetti della natura, o dagli oggetti “teoretici” in senso lato, in quanto si riconosce che l’esperienza è costellata anche di “cose” del desiderio, dell’emotività, della volontà, ecc., vale a dire i valori. In Husserl si assiste pertanto, come sottolinea opportunamente la Gigliotti, ad un pluralizzarsi delle modalità del referente oggettuale — vale a dire ad un interesse per la concreta moltitudine oggettuale che non trova uguale riscontro in altre impostazioni trascendentali, siano esse kantiane o neokantiane. Il formalismo, in questo senso, ancor più che in Kant, non indica un’impostazione apriorica fondata sull’idea di una formalità vuota di contenuti ed antecedente rispetto ad essi, bensì, tutto al contrario, una prospettiva per la quale la forma è immanente e cooriginaria alle materie dell’esperienza, e le materie sono tali solo in quanto strutturalmente formate, secondo quello che è un nuovo concetto di sintesi: “Husserl lavora così congiuntamente sul versante della forma, tradizionalmente presentato come collocato dal lato della soggettività trascendentale, e del contenuto, riscattandolo dalla semplice fonte di resistenza, di attrito, rispetto alla libertà del plasmare. Husserl non sminuisce il significato della sintesi kantiana: si preoccupa di pluralizzarla e stratificarla” (ivi, p. 38). A questo punto, vista la compresenza di esigenza della forma e di attenzione alle materie, sembra lecito parlare, a proposito del progetto husserliano, non di semplice fenomenologia della ragione pratica, ma di fenomenologia della ragione pratico-emotiva, intendendo con ciò sottolineare quella peculiare centralità dei contenuti emotivi o di sentimento che specifica in modo inequivocabile la riflessione husserliana rispetto alla fondazione kantiana. Ma in che senso Husserl parla di “oggetti emotivi”? Ovvero, detto in altri termini, se anche la sfera di coscienza che chiamiamo affettiva è intenzionale, in quanto costituisce referenti oggettuali, i valori, come debbono essere intesi tali valori?

Il problema dell’intenzionalità del Gemüt (e del valore come suo correlato specifico) è forse il più complesso nel quadro della riflessione pratica husserliana, poiché esso va ad intrecciarsi con la questione più generale dell’intenzionalità della coscienza nella sua interezza. Nei suoi scritti principali, a partire dalle Ricerche logiche, Husserl delinea l’intenzionalità come quella peculiare capacità del soggetto di riferirsi a oggetti, ovvero, in termini trascendentali, di costituire oggetti, quindi, in una parola, come oggettivazione (Objektivierung): nella percezione io mi riferisco alla cosa che mi sta di fronte (Gegen-stand) in carne ed ossa, come ob-iectum, ma a cosa mi riferisco quando vivo il piacere per un avvenimento felice? Si ha in questo caso un’intenzione che presenta un oggetto in senso stretto, oppure in questo tipo di atti non si verifica un’oggettivazione? In questo problema degli atti emotivi in quanto atti non oggettivanti Husserl si è dibattuto a lungo: il contributo di Jocelyn Benoist al presente volume, incentrato proprio su La fenomenologia e i limiti dell’oggettivazione: il problema degli atti non obiettivanti, appare in questo senso alquanto significativo, poiché tenta una lettura piuttosto feconda della questione. Benoist si concentra principalmente sull’analisi del Zweiter Teil der Vorlesungen über Grundprobleme der Ethik 1908/1909 (Hua XXVIII, pp. 237-377), un testo di lezioni universitarie nel quale Husserl affronta in modo radicale la questione della specifica intenzionalità degli atti emotivi. Tali atti costituiscono un vero e proprio rompicapo, poiché risultano essere un complesso intreccio (Verflechtung) intenzionale: in essi sono rinvenibili una componente oggettivante o rappresentativa fondante, senza la quale non vi sarebbe alcun riferimento intenzionale diretto a cose, e una o più componenti di sentimento che prendono posizione emotivamente su ciò che è rappresentato. Tornando all’esempio precedente, in un atto di gioia per un avvenimento lieto possiamo distinguere un’intenzione rappresentativa, che ci presenta l’oggetto “avvenimento”, e correlata ad essa un’intenzione affettiva che ci porge l’oggetto sotto la luce della lietezza, ovvero come dotato di un valore positivo che, per così dire, “colpisce” il nostro animo. Ma la lietezza, come valore che inerisce all’oggetto, non è un oggetto nel senso in cui è oggetto l’avvenimento in questione, per esempio una gita in montagna: i valori sono i correlati intenzionali degli atti emotivi, ma essi non si costituiscono originariamente come oggetti (sebbene, tuttavia, essi possano divenire oggetti del relativo sapere teoretico, per esempio dell’assiologia, ma questa è una trasformazione, non la modalità originaria del loro darsi). Il valore è certamente un qualcosa che appartiene all’oggetto e che emerge da esso, ma solo in virtù di una valutazione del soggetto, cioè di un orientamento affettivo soggettivo: esso si sottrae alla troppo facile dicotomia soggetto/oggetto, poiché si pone nella zona “indecidibile” della loro indistinzione o sovrapposizione. Secondo Benoist, pertanto, queste lezioni di etica del 1908/09 segnano un passo in avanti decisivo rispetto alle Ricerche logiche, poiché in esse, pur tra mille incertezze e rischi di derive aporetiche, viene meno la restrizione del campo della fenomenalità alla coscienza d’oggetto, quindi si amplia il concetto di intenzionalità: non più sinonimo di oggettivazione, l’intenzionalità esce dal solco ferreo e astratto (teoreticista) del rapporto soggetto-oggetto, per tornare ad indicare, più modestamente e veracemente, ogni rapporto alle cose, ogni apertura della coscienza al mondo cui appartiene, e “in questo senso, uscendo dallo schema generale del rapporto all’oggetto, è appena un’intenzionalità” (ivi, p. 173) — (ma al riguardo Benoist avanza il dubbio che non si debba più parlare propriamente di intenzionalità in senso stretto, cioè nel senso brentaniano, che è poi anche quello che pervade le Logische Untersuchungen). Questo paradigma interpretativo, che Husserl di certo apre ma forse non sviluppa appieno, è secondo Benoist di fondamentale importanza, poiché libera l’etica fenomenologica husserliana, assestata su posizioni di “realismo”, dai problemi propri di un realismo di oggetti, pur senza rinunciare all’oggettività: “L’intenzionalità etica dunque è un’intenzionalità colpita da diplopia, che guarda altrove rispetto al proprio ”oggetto“, e verso qualcosa che non è un oggetto — ma che non ha minore oggettività” (ivi, p. 173) — (Benoist parla al riguardo di un’intenzionalità come conformità a norme, che non sono per l’appunto oggetti, se non sotto la considerazione della teoria). Stando a quanto emerso, appare evidente come questa “apertura” del concetto di intenzionalità in campo etico comporti un ripensamento dell’intenzionalità nel suo complesso, al punto da chiedersi se non siano state anche le ricerche pratiche ad aver spinto Husserl ancora di più verso il progetto di una chiarificazione genetica della vita di coscienza, vale a dire di un rischiaramento delle origini passive della vita egologica: le analisi sulla costituzione originaria e sulla Lebenswelt, che egli conduce per lo più nel suo periodo friburgese, fanno infatti leva su un rapporto coscienza-mondo che non è ancora quello teoretico di soggetto-oggetto.

Presso l’Archivio-Husserl di Lovanio è in preparazione un nuovo volume della collana Husserliana, inerente in gran parte proprio alle ricerche di Husserl in ambito pratico-emotivo e intitolato Studien zur Struktur des Bewusstseins: uno dei curatori del volume, Thomas Vongehr, ce ne fornisce giustappunto una presentazione di massima nel suo contributo su Husserl über Gemüt und Wille. Nel 1927 Husserl affida al suo assistente Landgrebe il compito di riunire e risistemare, ai fini di una pubblicazione, alcuni manoscritti risalenti agli anni 1901-1916, in modo analogo a quanto Landgrebe farà poi per i manoscritti che andranno a costituire il volume di Esperienza e giudizio: i manoscritti erano appunto studi sulla struttura della coscienza e rientravano nel progetto, per dirla con l’ottimo Fink, di una “gigantesca vivisezione della coscienza”. Buona parte di questi lavori sono incentrati sull’analisi della vita emotiva e volitiva della coscienza: da quel che ci dice Vongehr, appare evidente che in essi ritornano i motivi principali della riflessione pratica husserliana di quel periodo, la quale ci è nota attraverso le già citate lezioni di etica risalenti a quegli anni, le Ricerche logiche e il primo libro delle Idee. I temi sono quelli della stratificazione intenzionale dell’atto emotivo, ovvero del suo essere fondato su una componente oggettivante-rappresentativa, del rapporto di dipendenza che lega l’atto della volontà a quello del valutare, tale per cui ogni volere richiede un sentimento di valutazione sul quale orientarsi, della differenza essenziale tra atti emotivi intenzionali (Gemütsakte), e sensazioni di sentimento (Gefühlsempfindungen) non-intenzionali. Vale la pena soffermarsi un poco su quest’ultima questione. Già nelle Ricerche logiche Husserl distingue, nel campo del sentire, tra sentimenti che si riferiscono ad oggetti, e che quindi sono intenzionali (es., il piacere per una bella giornata di sole), e sentimenti che invece sono localizzati nel soggetto, quindi irrelati rispetto a cose (es., una certa sensazione di benessere senza “riferimento”). In che rapporto stanno i due tipi di sentire? Nella prima grande opera di Husserl le sensazioni di sentimento (o sentimenti sensibili) sono analoghe a quei contenuti primari (primäre Inhalte), ad esempio la sensazione di rosso, che sono propri della coscienza percettiva o oggettivante in generale: tali contenuti primari, che sono immanenti alla coscienza, subiscono un’“apprensione animante” (beseelende Auffassung), in virtù della quale essi sono intenzionalmente riferiti all’oggetto trascendente come sue proprietà specifiche. Anche le sensazioni di sentimento, secondo l’Auffasungsschema appena sintetizzato, sono sottoposte ad una simile apprensione o appercezione: questo modello non cambia sostanzialmente nel primo libro delle Idee,1 nel quale Husserl parla, invece che di contenuti primari, di componente iletica, e sostituisce apprensione animante con morphé intenzionale (a queste due parti, che costituiscono la noesi, egli aggiunge, per la verità, la novità del noema, ma questo è un tema che per il momento non entra in gioco). Nei manoscritti che andranno a comporre il volume di studi sulla struttura della coscienza, invece, secondo quanto ci anticipa Vongehr, lo schema apprensionale è posto in dubbio per gli atti emotivi: diventa a questo punto quanto mai interessante capire se Husserl appronta una soluzione diversa, oppure se si limita a rilevare le inadeguatezze della soluzione precedente. Tuttavia, quale delle due strategie sia quella di Husserl, è d’obbligo accennare al fatto che con lo sviluppo della fenomenologia genetica, e in particolare con gli studi sulla sintesi passiva e sulla coscienza interna del tempo, Husserl arriverà a mettere in dubbio l’Auffassungsschema anche in campo percettivo.2 L’analisi della vita di coscienza antecedente rispetto ad ogni attività egologica, dunque la “scoperta” di un’intenzionalità fungente e costitutiva, ma passiva, cioè pre-egologica, emergono proprio attraverso la considerazione dell’inadeguatezza di una concezione che fa ancora leva, idealisticamente, su un’“interpretazione” egologica di dati sensibili altrimenti privi di struttura: i dati sensibili, vale a dire le sensazioni immanenti al flusso di coscienza, possono invece essere considerati come pre-datità, dunque come elementi che prefigurano una certa precostituzione della cosa, la quale può essere poi pienamente e con evidenza dispiegata dall’operare attivo dell’io.

Il saggio di Vongehr si sofferma infine brevemente sullo scritto di Moritz Geiger Das Bewusstsein von Gefühlen (1911), attentamente letto da Husserl, sebbene come bersaglio critico: Geiger, infatti, sostiene il carattere intenzionale dei sentimenti, ma ritiene che essi non possano essere colti nella loro specificità, poiché, volgendoci ad essi attraverso la riflessione, li possiamo cogliere solo come oggetti teoretici, come contenuti oggettivi della coscienza, con ciò snaturandoli rispetto al loro statuto di vissuti soggettivi. Ogni riflessione sulla vita emotiva del soggetto, in quanto rinuncia all’immediatezza del sentire, comporta un suo snaturamento. Ciò evidentemente non può essere accettato da Husserl, per il quale la riflessione costituisce il principio metodico, ovvero la fonte per eccellenza della fenomenologia: nel primo libro delle Idee, in particolare, Husserl pone il principio, ricordato da Vongehr, secondo cui “il modo d’essere del vissuto è tale da essere in linea di principio percepibile nella maniera della riflessione (Die Seinsart des Erlebnisses ist es, in der Weise der Reflexion prinzipiell wahrnehmbar zu sein)” (Hua III/1, p. 95, trad. mia).

L’ultimo saggio della raccolta, e uno dei più importanti, è Husserls personalistische Ethik di Ullrich Melle, il quale costituisce una vera e propria autorità nel panorama degli studi sul pensiero pratico husserliano e sulla fenomenologia in generale. Segno del profondo interesse di Melle per le questioni pratico-emotive è il suo lavoro all’Archivio-Husserl di Lovanio, nel corso del quale egli ha curato l’edizione del già più volte ricordato volume XXVIII della Husserliana e ora lavora, insieme a Vongehr, alla pubblicazione degli Studien zur Struktur des Bewusstseins. Lo studio ormai decennale e la gran quantità di saggi che ha prodotto su questi temi gli permettono di avere del pensiero pratico husserliano la veduta più ampia e articolata: il suo contributo al presente volume si connota, pertanto, come una piccola summa o un intenso excursus lungo le tappe principali della riflessione pratico-emotiva di Husserl. Già fin dal titolo è chiara la chiave di lettura che Melle suggerisce: l’etica, in quanto sapere che concerne la vita pratica razionale nel mondo, riguarda il soggetto inteso come persona, cioè, kantianamente, come essere dotato di libertà e autodeterminazione (Selbstbestimmung). Il fondamento dell’etica sta dunque nell’ontologia della persona: le analisi che Husserl conduce sui vari tipi di coscienza non stanno a significare altro che una simile indagine sulla natura del soggetto. Inizialmente, a partire dalle Ricerche logiche e ancora in Idee I, Husserl si preoccupa di fare distinzioni molto nette tra i vari tipi di vissuti, stabilendo fra di essi rapporti fondativi e quindi gerarchici (come visto, atti non-obiettivanti fondati su atti obiettivanti, e poi volizioni fondate su valutazioni, ecc.): in seguito, però, ancora un volta, con l’approfondimento delle analisi genetiche egli si rende conto che tali distinzioni rischiano di risultare fittizie o comunque troppo rigide, che non si dà un predominio trascendentale della rappresentazione o oggettivazione, poiché la vita di coscienza si presenta primariamente non come un contemplare, come una teoresi, bensì come un fare (Tun) e un tendere (Streben). La coscienza è sempre coscienza di un corpo organico (Leib), dunque si muove in una dimensione materiale e sensibile: affinché essa sia coscienza-di, deve subire primariamente un’affezione, cioè deve ricevere uno stimolo che ecciti il suo sentire. A livello della passività originaria, pertanto, non sono ancora distinguibili le funzioni rappresentative, emotive, volitive, ecc.: “Sul fondo oscuro della coscienza giace la fatticità iletica — la materia originaria, indeterminata e non-oggettuale, per l’intera opera costitutiva (Auf dem dunklen Grund des Bewusstseins liegt die hyletische Faktizitätder unbestimmte und ungegenständliche Urstoff für den ganzen konstitutiven Bau)” (Fenomenologia della ragion pratica, p. 336). Questa fatticità iletica, precisa Melle, è un “sentire pre-preconscio (vor-vorbewusstes Empfinden)” (ivi), nel quale risulta ancora indistinto (ungeschieden) tutto quel materiale sensibile che poi si “specializzerà” nelle funzioni dell’oggettivazione percettiva, della valutazione emotiva, dell’impulso volitivo, ecc. Da questo sentire originario emerge secondo Husserl anche un istinto della ragione, un Vernunfttrieb, che spinge l’io ad attivarsi per conquistare, gradino dopo gradino, la piena evidenza, la piena autodeterminazione, quindi a realizzare la libertà che più gli è propria. Negli anni del suo insegnamento a Göttingen, periodo al quale risalgono le lezioni del volume XXVIII, Husserl delinea questa libertà come legata all’edificazione di un sapere etico rigoroso al pari di quello logico e avente, come suo vertice, l’individuazione di un imperativo categorico in grado di garantire la realizzazione del sommo bene. Successivamente, tuttavia, anche in seguito agli eventi drammatici della Grande Guerra, egli ritiene che quel progetto sia privo di elementi importanti, di tutta una serie di fenomeni centrali nell’esistenza soggettiva, quali il rinnovamento, l’amore, la felicità, la responsabilità intesa come chiamata della coscienza, che non erano stati presi troppo in considerazione e che invece meritano la massima attenzione. Pur rimanendo sempre legata all’idea di un sapere etico rigoroso, la riflessione pratica e morale dello Husserl friburgese è ora maggiormente interessata ad aspetti più personali ed in particolare all’amore, inteso come la radice più profonda della persona, come l’unica cosa che ci permette di superare quei conflitti di valore che paralizzano l’esistenza. Verso la fine della sua vita, negli anni ’30, Husserl cerca di mediare queste due necessità, la scientificità razionale e l’amore come radice prima della persona, attraverso il concetto di una fede razionale, quindi una fede in Dio che tenga insieme i due elementi: in essa sembra rivivere per l’ultima volta l’esigenza kantiana di una religione nei limiti della semplice ragione, anche se è pur vero che l’idea, pure abbozzata da Husserl, di una teleologia come spiegazione, o meglio speranza di un senso ultimo nell’apparente illogicità della storia del mondo, rimanda anche ad ascendenze leibniziane.

La straordinaria ricchezza di temi e problemi emersa finora dovrebbe far comprendere come il pensiero pratico-emotivo di Husserl non sia poi così “secondario” nel quadro del suo progetto fenomenologico: non solo perché le tematiche etiche che ci propone sono solide e di assoluto valore, ma soprattutto perché anche per la fenomenologia vale ciò che vale per ogni altra grande filosofia, cioè a dire il fatto che qualunque ingresso conduce direttamente al cuore e al tutto del pensiero. Non ci sono accessi secondari, solo prospettive e inquadrature differenti della medesima cosa.


  1. Le differenze fra lo schema apprensionale proposto nelle Ricerche logiche e quello del primo libro delle Idee sono messe in rilievo magistralmente, per ciò che attiene la questione degli atti di sentimento, da U. Melle nel suo saggio Objektivierende und nicht-objektivierende Akte, in S. Ijsseling (hrsg.), Husserl-Ausgabe und Husserl-Forschung, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1990, pp. 35-49. ↩︎

  2. Interessante al riguardo lo studio di T. Piazza, Esperienza e sintesi passiva. La costituzione percettiva nella filosofia di Edmund Husserl, Guerini e Associati, Milano 2001. ↩︎