1. L’idea di «una ragione con differenti regioni»
Se si volesse comprendere il senso storico della fenomenologia husserliana, vale a dire la sua posizione nel quadro del pensiero novecentesco e, conseguentemente, dell’intera storia della filosofia, si potrebbe muovere dalla considerazione primaria che essa costituisce l’ultimo grande tentativo di fondazione di quell’epistéme che rappresenta il desideratum principale di tutta una tradizione di pensiero, da Platone in poi. In Husserl si manifesta inequivocabilmente l’esigenza che la filo-sofia diventi sophía a pieno titolo, cioè la persuasione che quello filosofico debba essere un sapere rigoroso e valido sub specie aeternitatis. L’aspirazione ad un sapere ultimo e fondativo si regge evidentemente sulla convinzione che sia possibile una razionalità piena ed autentica: in quest’ottica, la fenomenologia husserliana si discosta da tutte quelle riflessioni novecentesche che, più o meno esplicitamente, ovvero secondo molteplici prospettive, hanno sostenuto la fine della filosofia come scienza dei fondamenti e, con essa, l’impossibilità, da parte della ragione, di valere in modo universale. Husserl si oppone, pressoché nella totalità delle sue opere, a tutte quelle forme di palese o malcelato scetticismo, quando non proprio di aperto irrazionalismo, che pretendono di sottrarre alla ragione le sue legittime pretese di senso. Questo non vuol dire, d’altronde, che Husserl proponga una concezione per così dire «dogmatica» della filosofia, ignara delle profonde problematiche emerse nel corso del ventesimo secolo: tutto al contrario, egli vive in prima persona il «travaglio» del pensiero contemporaneo, la «crisi» della ragione, ma nella convinzione profonda che ciò non debba comportare alcuna resa della filosofia, bensì un ripensamento radicale dell’esperienza filosofica tendente ad attingerne il senso autentico. In altri termini, se non si deve cedere a «tentazioni» scettiche, neppure si debbono riproporre dottrine di stampo metafisico, che concorrono, loro malgrado, a gettare nel discredito le legittime pretese della filosofia. Si delinea chiaramente, in tal modo, lo sforzo titanico della fenomenologia husserliana di fondare una epistéme rigorosa, depurata dalle ingenuità della metafisica e immune, al contempo, da tutte le possibili forme di scetticismo.
Dalle idee, fra di esse correlate, di un sapere rigorosamente fondato e di una piena razionalità, dipende la possibilità di un uomo autenticamente humanus: la filosofia come strenge Wissenschaft porta con sé, come suo correlato inscindibile, la necessità di una prassi filosofica, ovvero di una vita razionale. Infatti, se il ripensamento della filosofia in quanto scienza razionale deve essere effettivo, cioè mirante alla riaffermazione del senso universale della ragione, allora esso non può limitarsi alla dimensione puramente teoretica, ma deve estendersi anche all’ambito pratico, laddove con «pratico» deve intendersi, secondo Husserl, tutto ciò che, non potendo essere ascritto alla sfera logico-conoscitiva stricto sensu, rientra nella vita affettiva, volitiva, emozionale del soggetto: in una parola, in quello che il padre della fenomenologia chiama Gemüt. Ma cosa sta a significare questa estensione della ragione anche all’ambito pratico-emotivo? Ovvero come deve essere compreso in termini fenomenologici il concetto di Vernunft? Se è infatti piuttosto consueto considerare la volontà in connessione con la ragione, non altrettanto si può dire dell’emotività, che in quanto dimensione del sentimento è, secondo l’opinione comune, pulsionale, istintuale, a-razionale in senso lato. Secondo Husserl bisogna però andare oltre queste facili dicotomie, che spesso si rivelano fittizie e nelle quali si perde ciò che è invece fenomenologicamente primario.
Fin dalle Ricerche logiche, Husserl si prodiga nel mettere in guardia da uno dei fraintendimenti più comuni e, con ciò, più gravi in cui possa incorrere la filosofia: l’idea, cioè, che la ragione sia essenzialmente una facoltà dell’uomo. Se infatti si considera la ragione come una facoltà della psiche umana, allora le verità cui essa giunge non possono essere altro che prodotti dell’attività mentale di questo essere animale chiamato uomo: la riduzione della verità a prodotto o funzione dell’anima è, in tutte le sue forme, psicologismo, vale a dire relativismo. Il concetto stesso di verità prescrive, invece, la validità incondizionata, cioè il vigere di uno stato di cose a prescindere dall’evenienza che un soggetto qualsiasi possa pensarlo e conoscerlo: è proprio una tale validità inconcussa che va persa nel momento in cui si cerca di ricondurre la verità alle condizioni di una facoltà psichica. Anche il trascendentalismo kantiano pertanto non si salva dall’accusa di essere, suo malgrado, una velata forma di psicologismo: «Lo psicologismo in tutte le sue varianti e in tutte le sue particolari riformulazioni non è altro che relativismo, soltanto che non sempre lo si riconosce e lo si ammette esplicitamente. Ed è del tutto indifferente che esso si sostenga sulla “psicologia trascendentale”, credendo di salvare, come idealismo formale, l’obiettività della conoscenza, oppure sulla psicologia empirica, assumendo il relativismo come una inevitabile fatalità».1 Se non è opportuno ridurre la ragione a facoltà della psiche umana, tanto meno è lecito considerarla come semplice «raziocinio» al quale farebbe da contraltare la dimensione emotiva, passionale, «non razionale» dello spirito: secondo Husserl la ragione non riguarda primariamente la dimensione dello spirito umano, quindi essa sfugge alla facile contrapposizione intelletto-sentimento, e anzi la mette completamente in discussione. Il concetto husserliano di Vernunft vuole essere un superamento di tutte le interpretazioni per così dire unilaterali della ragione, divenute col tempo dominanti anche nel senso comune: si tratta di sradicare le presunte ovvietà per ripensare il senso universale della ratio.
La specificità del concetto husserliano di Vernunft emerge in relazione a quello che è il tema portante della fenomenologia, vale a dire l’intenzionalità della coscienza. Secondo Husserl, come è noto, l’essenza della coscienza sta nel fatto che essa si pone costantemente in relazione ad oggetti, che si dirige (sich richtet) ad essi: in altri termini, essa è sempre coscienza-di-qualcosa, ovvero ha sempre una direzione (Richtung) oggettuale. L’intenzionalità della coscienza si esplica concretamente in quelli che Husserl chiama vissuti (Erlebnisse), atti (Akte) o anche fenomeni (Phänomene), i quali, nel loro succedersi continuo, costituiscono un ininterrotto “flusso eracliteo”:2 alle differenze che corrono fra gli oggetti intenzionati corrispondono le differenze relative agli atti, che quindi sono di vario tipo e si distinguono per la modalità intenzionale. In gran parte delle sue ricerche filosofiche Husserl si sforza di descrivere proprio le varie modalità intenzionali appartenenti alle molteplici specie di atti e il costituirsi degli oggetti in tali vissuti di coscienza, convinto che la «meravigliosa correlazione»3 di coscienza e mondo sia retta da leggi a priori: la presenza di leggi ideali, che regolano, per dirla con Husserl, la costituzione dell’oggettività nella soggettività, è ciò che distingue, fra l’altro, la fenomenologia husserliana, in quanto scienza d’essenze, dalla psicologia empirica di un Brentano. Tutti i tipi di vissuti intenzionali (e, ovviamente, tutti i tipi di oggetti da essi intenzionati) hanno dunque, in ottica fenomenologica, un proprio eidos, un’essenza di riferimento che deve essere portata a chiarezza concettuale. Per Husserl, conseguentemente, si può rinvenire il senso universale della ragione solo riconoscendo che essa si caratterizza originariamente come quell’ambito di verità a priori che regolano la costituzione delle oggettualità nei corrispondenti atti intenzionali, a parte obiecti, e il modo in cui tali atti sono costitutivi, a parte subiecti. Ciò emerge in più punti dell’opera husserliana, ma con particolare chiarezza nelle Vorlesungen über Grundfragen der Ethik und Wertlehre 1914: «la parola ragione non è qui intesa nel senso di una facoltà umana, cioè nell’abituale senso psicologico, bensì come un titolo per la classe essenzialmente chiusa degli atti e dei loro corrispettivi correlati d’atto che sottostanno alle idee di legalità e illegalità, di verità e falsità, del sussistere e del non sussistere».4 È questa, come sostiene Husserl nelle Vorlesungen über Grundprobleme der Ethik 1908/09, «l’idea più ampia e comprensiva di ragione»,5 solo sul fondamento della quale può avere eventualmente senso la prospettiva «ristretta» di una ragione intesa come facoltà umana. Se la Vernunft è originariamente e primariamente l’ambito delle verità a priori che regolano la correlazione di coscienza e mondo, allora la fenomenologia può caratterizzarsi come l’autentica e genuina critica della ragione.
Come già sottolineato in precedenza, un tale concetto di ragione è originale poiché esso investe potenzialmente tutti i tipi di vissuti intenzionali, anche quelli che rientrano nella coscienza pratico-emotiva (Gemüt): Husserl è infatti mosso dalla convinzione che anche gli atti di sentimento, i Gemütsakte, siano atti specificamente intenzionali, che cioè essi costituiscano delle oggettualità proprie e dunque siano determinati da una peculiare legalità a priori. Per quanto la modalità intenzionale degli atti emotivi rappresenti una questione su cui Husserl ritorna continuamente nel corso delle sue opere, e per quanto la determinazione di un oggetto affettivo, il valore, sia minata da difficoltà innumerevoli, Husserl non mette mai in discussione il carattere autenticamente intenzionale del Gemüt. Ciò è quanto dire che l’ambito pratico-emotivo non costituisce un caos di stati d’animo e di pulsioni che si susseguono senza senso, bensì, tutto al contrario, una sfera di coscienza dotata di un ordine preciso, di una sua propria sensatezza: di più, una sfera basata su una specifica razionalità, «altra» rispetto a quella più strettamente logico-teroretica, sebbene ad essa legata. Il Gemüt, pertanto, rientra nell’orizzonte di una allgemeine Vernunft, estesa ben al di là dei limiti del semplice Verstand e articolata in regioni distinte: Husserl prospetta dunque, sulla scorta della molteplicità dei tipi d’atto e dei relativi correlati oggettuali, una ragione plurale, ovvero, nei suoi termini, «eine Vernunft mit verschiedenen Regionen».6 Nei suoi scritti principali e nelle lezioni di etica, Husserl distingue almeno tre domini della ragione: una ragione logico teoretica o conoscitiva (erkennend), una valutativa (wertend) e infine una volitiva (wollend). A ben vedere, questa tripartizione può essere ulteriormente semplificata se si tiene conto del fatto che il valutare e il volere, come vedremo meglio in seguito, sono reciprocamente legati, per cui rientrano in una comune sfera pratico-emotiva, dalla quale deve essere distinta la dimensione propriamente teoretica. Tali distinzioni riposano, come detto, nei differenti tipi di vissuti, cosicché la possibilità di una ragione pratico-emotiva parallela a quella logico-conoscitiva si fonda su un’analisi fenomenologica dei Gemütsakte nel loro intreccio coi Verstandesakte, cioè con gli atti intellettivi o conoscitivi: infatti, per quanto Husserl sia convinto che si debbano distinguere le varie regioni della Vernunft, tuttavia egli è altrettanto consapevole degli stretti rapporti che sussistono fra vissuti di genere diverso. In quest’ottica, la pluralità della ragione, basata sulla pluralità dei tipi d’atto, non sta a significare il darsi di dimensioni parallele e reciprocamente «impermeabili», bensì il prospettarsi di una serie di piani «profondamente intrecciati l’uno con l’altro (miteinander innigst verflochten)».7 Possiamo anticipare fin d’ora che l’intreccio è operato dagli atti intellettivi (Verstandesakte), cioè da quella che Husserl considera, soprattutto nelle Ricerche logiche, la categoria d’atti fondamentale e primaria in seno all’intera vita di coscienza.
Il presente articolo intende cercare di chiarire fenomenologicamente la peculiarità dei vissuti della coscienza pratico-emotiva e il modo in cui i rispettivi correlati oggettuali, i valori, si costituiscono in essa, mostrando altresì come gli atti afferenti al Gemüt, secondo Husserl, non siano puramente emotivi, ma portino con sé anche componenti specificamente logiche. La gran parte del lavoro fenomenologico husserliano è indirizzata all’analisi della coscienza conoscitiva, poiché esso ha come fine la messa in luce delle condizioni di possibilità di una epistéme rigorosamente fondata: nel suo sforzo poderoso di chiarificazione del sapere logico-teroretico, Husserl nota una sostanziale affinità fra le strutture della coscienza conoscitiva e quelle della coscienza affettiva, per cui si convince della possibilità di edificare una scienza etica in modo analogo alle scienze teoretiche. Chiaramente, Husserl non si dedica alle ricerche fenomenologiche in campo etico con la stessa costanza e sistematicità con cui si occupa delle ricerche logiche: ciò dipende da un lato dal fatto che il suo interesse primario resta quello teoretico, dall’altro da una sua fondamentale convinzione, cioè che la soluzione dei problemi in campo logico-conoscitivo riesca ad illuminare anche le questioni etiche. La chiarificazione fenomenologica dei vissuti del Gemüt e dei rispettivi correlati oggettuali costituisce, in campo etico, la ricerca d’essenza primaria, sul fondamento della quale possono poi articolarsi tutte le altre scienze pratiche (l’assiologia e la pratica formali, la dottrina materiale dei valori e così via8). Ciò che conta, in altre parole, è mostrare la struttura fenomenologica essenziale che rende i vissuti pratico-emotivi dei vissuti intenzionali a pieno titolo, al pari degli atti facenti capo alla coscienza logico-teoretica: il tentativo di chiarire l’apriori emozionale (ma sempre, come vedremo, in relazione all’apriori logico) costituisce uno degli elementi di maggiore interesse della fenomenologia husserliana, che in questo modo prende le distanze da tutte quelle impostazioni filosofiche che per secoli hanno negato alladimensione affettiva qualcosa come una propria «logica», una peculiare struttura di senso. Per cercare di delineare questo percorso husserliano in campo pratico-emotivo ci avvarremo principalmente dei testi del cosiddetto «primo» Husserl, dunque delle Ricerche logiche, del primo libro delle Idee e delle lezioni di etica ad essi coeve (lezioni che vanno dal 1902 al 1914 e che ora sono in gran parte raccolte nel volume XXVIII dell’opera omnia, la Husserliana, sotto il titolo di Vorlesungen über Ethik und Wertlehre 1908-1914). Limitarsi allo Husserl prebellico, pur con significativi richiami ad alcune sue opere successive, è una scelta dettata fondamentalmente da due motivazioni: in primo luogo, molti dei testi del cosiddetto «secondo» Husserl, in particolare le lezioni di etica tenute a Freiburg negli anni Venti, devono essere ancora pubblicate, per cui sono pressoché inutilizzabili per chi non può avere libero accesso all’Archivio Husserl; in secondo luogo, la padronanza dei concetti del «primo» Husserl risulta essenziale al fine di una comprensione effettiva dell’intera riflessione husserliana, nella quale i cambiamenti non si configurano mai come svolte repentine, bensì, in conformità al senso pregnante dell’immer wieder, cioè di un pensiero che ritorna costantemente sui propri passi senza mai ripercorrerli in modo identico, come approfondimenti, aperture di nuovi spazi, variazioni in tema.
2. La questione dell’intenzionalità degli atti di sentimento (Gemütsakte)
Quella peculiare caratteristica della coscienza per la quale essa è sempre coscienza-di-qualcosa, è costitutivamente in rapporto a oggetti, Husserl la chiama intenzionalità: le modalità in cui la coscienza esplica concretamente la sua struttura intenzionale sono molteplici. Un conto, infatti, è il modo in cui un atto di percezione sensibile si rapporta ad un ente reale, per esempio un albero, un altro è il rallegrarsi per qualcosa, cioè il modo in cui un atto di gioia «intende» una situazione gioiosa; o ancora, una cosa è l’atto di giudizio in cui si afferma l’esser così di un determinato stato di cose, altro è il provare piacere per la bellezza di un opera d’arte, cogliendone il valore. Fin dai tempi delle Ricerche Logiche Husserl opera una distinzione fondamentale in seno ai vissuti di coscienza, vale a dire quella fra atti logico-conoscitivi o intellettivi (Verstandesakte) e atti di sentimento, afferenti alla coscienza pratico-emotiva, che egli chiama Gemütsakte (salvo poi utilizzare, a seconda dei casi, anche denominazioni più specifiche, quali wertende Akte -atti valutanti, wollende Akte -atti di volontà, ecc.). A questa distinzione ne affianca un’altra, quella fra atti oggettivanti (objektivierende Akte) e atti non-oggettivanti (nicht-objektivierende Akte): questa ripartizione è ancor più importante della precedente, poiché in essa si rende esplicito l’elemento che differenzia in maniera essenziale le due tipologie di vissuti.9 Mentre gli atti oggettivanti realizzano una piena coscienza dell’oggetto, poiché in essi un qualcosa si manifesta in quanto oggetto essente in un certo modo e dotato di determinate caratteristiche, negli atti non-oggettivanti non si dà una simile coscienza oggettuale in senso stretto. Queste differenze possono essere apprezzate attraverso due semplici esempi: mentre nella percezione sensibile un qualcosa è cosciente come oggetto adombrato secondo una certa prospettiva ed essente in un certo modo, nel piacere estetico per un opera d’arte non si può dire che la bellezza sia data «oggettualmente» così come è data l’opera in quanto statua, dipinto, ecc., ovvero non vi è un’«oggettivazione» del referente intenzionale. Il valore, cioè la bellezza, non è cosciente come un oggetto a pieno titolo, bensì come un qualcosa che «inerisce» all’opera, come una specie di «aura» o di «atmosfera» che la avvolge. Atti non-oggettivanti di questo tipo sono i vissuti della gioia, del volere, della valutazione, del desiderio e così via: bisogna forse dedurne che essi, per il fatto di non oggettivare alcunché, non sono pienamente intenzionali? Husserl non è affatto di questo avviso, anche se a questo punto sorge la questione di come si esplichi l’intenzionalità del Gemüt. Un passo avanti in questa direzione è rappresentato dalla constatazione, fenomenologicamente essenziale, che l’atto emotivo è un atto fondato (fundiert). Per riprendere l’esempio precedente del piacere estetico, il valore dell’opera d’arte, la bellezza, può essere cosciente nella relativa valutazione solo se si dà una rappresentazione di tale opera, solo se questa è percepita attualmente (o ricordata, immaginata, la sostanza non cambia): risulta evidente, dunque, che nell’atto emotivo si possono rinvenire una componente oggettivante fondante, che rende cosciente l’oggetto, e una specifica componente emotiva che si innesta su di essa per poter esercitare la sua intenzionalità. Non si tratta di due atti diversi, bensì di un unico vissuto costituito di un elemento oggettivante o, come vedremo in seguito, rappresentativo, e di un elemento propriamente affettivo fondato su quello: nonostante le modifiche che apporterà soprattutto nelle Idee, Husserl manterrà inalterata la struttura del Gemütsakt in quanto atto fondato, in quanto complesso (Komplikation) intenzionale. Da quanto emerso risulta pertanto che la componente logica non caratterizza solo i Verstandesakte, vale a dire gli atti conoscitivi della coscienza teoretica, ma anche, in qualche modo, gli atti che rientrano nella coscienza affettiva: tale componente innerva, illuminandolo, l’intero tessuto della coscienza, al punto che Husserl le attribuisce addirittura una incontestabile «onniefficacia (Allwirksamkeit)».10 A questo punto si comincia a capire meglio in che senso Husserl parli di un profondo intreccio (Verflechtung) fra coscienza teoretica e coscienza pratico-emotiva, declinato nel senso di una sorta di «dipendenza» della seconda dalla prima: non solo, infatti, i vissuti affettivi si fondano strutturalmente, ontologicamente, su un elemento oggettivante, rappresentativo, ma inoltre essi, per essere chiariti fenomenologicamente, hanno bisogno di nuovi atti conoscitivi che li rendano oggetti di indagine. Su questa centralità degli atti oggettivanti si fonda, secondo Husserl, il predominio della ragione logica, che «formula l’istanza di giudizio, determina la legittimità e predica le leggi della correttezza in quanto leggi non soltanto per ciò che concerne il proprio campo, ma anche per ciò che concerne il campo di qualunque altro genere di intenzione, e dunque per ogni altra sfera della ragione. La ragione valutativa e quella pratica sono, per così dire, mute e in un certo senso cieche».11 Mute perché non possono formulare giudizi, e in parte anche cieche, poiché non riescono a far luce sulla propria attività: sia nel giudicare che nel riflettere su se stesse hanno bisogno della ragion logica. Nonostante questa loro «dipendenza», tuttavia, esse hanno una propria specificità: ciò è quanto dire che negli atti emotivi opera una peculiare intenzionalità, la quale, sebbene sia legata a quella oggettivante, se ne distingue però in manieraessenziale. Il problema sta nel considerare il modo in cui Husserl declina questa intenzionalità del sentimento.
3. Gli atti emotivi nelle Ricerche logiche
Si è visto come il Gemütsakt sia un vissuto complesso, per così dire «stratificato», risultante dall’unione di una componente oggettivante e di una specifica componente di sentimento. Questo elementare dato fenomenologico può essere facilmente riscontrato attraverso molteplici esempi: affinché io possa volere qualcosa, devo prima averne quanto meno un’idea, vale a dire devo «rappresentarmelo»; analogamente, per avere un atto di desiderio devo in qualche modo sapere cosa desiderare e così via. Viceversa, negli atti intellettivi non si dà una simile stratificazione intenzionale: la percezione di un qualcosa, ad esempio, non è altro che coscienza adombrante di questo qualcosa, senza «aggiunte» di altro tipo; l’immaginarsi una cosa non significa altro che rendersi presente un qualcosa che non è attualmente percepibile, senza bisogno di elementi ulteriori, e via dicendo. Nella Quinta ricerca logica Husserl esprime questo peculiare stato di cose attraverso il celebre principio secondo il quale «ogni atto o è una rappresentazione o ha rappresentazioni a proprio fondamento»,12 ovvero ogni vissuto o è un atto oggettivante o si fonda su un atto di questo genere. Ma come deve essere intesa più precisamente questa fondazione dell’intenzionalità affettiva sull’intenzionalità oggettivante o rappresentativa? Sempre nella Quinta ricerca logica, Husserl cerca di venire a capo della questione attraverso la distinzione, intrinseca ad ogni atto, fra la materia (Materie), la quale «conferisce […] ad esso il riferimento ad un’oggettualità»,13 e la qualità d’atto (Aktqualität), in virtù della quale il riferimento all’oggetto è di tipo giudicativo, dubitativo, desiderativo e così via. Materia e qualità sono due momenti astratti (abstrakte Momente) del vissuto, poiché il fatto che possano essere distinti non sta a significare che essi possano sussistere autonomamente l’uno rispetto all’altro: come sottolinea Husserl, infatti, non avrebbe senso, ad esempio, una qualità di giudizio che non fosse al contempo un giudizio su una qualche materia e, viceversa, una materia che non fosse materia di una specifica qualità d’atto, come appunto quella di giudizio. Questo sta a significare che è proprio nella materia che va ricercata quella specifica componente rappresentativa senza la quale non si può parlare di «direzione oggettuale» del vissuto in senso stretto, e che d’altra parte tale materia non può presentarsi se non congiuntamente ad un carattere d’atto che le inerisca, come sostiene Husserl: «La materia non può presentarsi isolata, ma essa può evidentemente concretizzarsi solo se viene integrata da momenti qualsiasi che sono idealmente predelineati nel genere superiore “qualità d’atto”».14 In virtù di questa impostazione, le differenze fra i vari tipi di vissuto vanno ricercate nelle differenti qualità d’atto: le qualità d’atto propriamente oggettivanti sono quelle ascrivibili alla categoria del credere o, come dice anche Husserl con termine greco, della dóxa, la quale è caratterizzata dalla peculiarità di porre un qualcosa come essente in un certo modo (laddove è possibile anche una modificazione «non-posizionale» di questo credere, come quando nel «mero» rappresentarsi qualcosa si rimane per così dire indifferenti, «neutrali» rispetto alla questione della sua esistenza o meno). Gli atti intellettivi del percepire, del giudicare, dell’immaginare, del ricordare, ecc. condividono pertanto il medesimo genere qualitativo, quello dossico per l’appunto, pur distinguendosi poi fra di loro in base alle differenti qualità specifiche e al tipo di materia, a seconda che questa sia semplice o articolata. Viceversa, le qualità d’atto non-oggettivanti non rientrano nella categoria del credere, poiché in esse non si afferma l’esser così di un qualcosa: esse si riferiscono ad un oggetto, cioè hanno una materia, ma ciò solo grazie alle intenzioni oggettivanti, poiché una materia non può darsi primariamente se non come materia di un atto oggettivante. Queste considerazioni mettono in evidenza come le qualità d’atto non-oggettivanti siano fondate in quelle oggettivanti, al punto che Husserl parla, nelle Logische Untersuchungen, rispettivamente di intenzioni «secondarie» e «primarie», e dell’essere intenzionali di quelle solo in forza di queste: «Noi dobbiamo distinguere, in un certo modo, le intenzioni primarie da quelle secondarie: queste ultime sono debitrici della loro intenzionalità al fatto che sono fondate nelle prime».15 Da quanto detto sembra inevitabile concluderne che l’atto emotivo non-oggettivante è composto da un atto oggettivante completo, quindi da una materia e da una qualità che possiamo chiamare dossica, sulla quale si innesta una nuova qualità d’atto specificamente affettiva che «si dirige» sulla materia del vissuto fondante. Questo è il senso della fondazione del Gemütsakt sul Verstandesakt che emerge dall’argomentazione husserliana: «ogni vissuto intenzionale è un atto oggettivante oppure ha un atto di questo genere al proprio «fondamento», ovvero, in quest’ultimo caso, esso ha necessariamente in sé come elemento costitutivo un atto oggettivante la cui materia complessiva è al tempo stesso, nella sua individualità ed identità, la sua stessa materia complessiva».16 Stando alle parole di Husserl, dunque, si deve convenire sul fatto che ciò che distingue l’atto emotivo da un qualsiasi vissuto intellettivo sta tutto in una specifica qualità d’atto, l’affettiva per l’appunto, che si edifica sulla sottostante qualità oggettivante, «approfittando», per così dire, del riferimento intenzionale offerto dalla materia di questa: non si dà, in altri termini, almeno in questa prospettiva delle Ricerche logiche, una specifica «materia emotiva», ma solo la materia che è oggettivata nell’intenzione fondante.17
Questa considerazione è alquanto significativa se si rammenta la motivazione per cui si palesa, a livello concettuale, la necessità di una chiarificazione fenomenologica della coscienza pratico-emotiva: come si ricorderà, tale analisi era guidata dal problema di fondo relativo al darsi di una specifica intenzionalità affettiva, vale a dire dalla domanda se effettivamente sussistano intenzioni di sentimento in cui si manifestano peculiari dati oggettivi. La soluzione prospettata nelle Ricerche logiche non sembra però andare nella direzione sperata: come si è visto, infatti, da una parte l’intenzionalità emotiva è risultata «secondaria» e in un certo senso «derivata» da quella oggettivante della coscienza logico-teoretica; dall’altra, per di più, non è emersa la possibilità di un’oggettualità propriamente emotiva, il valore, ragion per cui sembra che il tema di una coscienza pratico-emotiva risulti troppo «schiacciato» su quello della coscienza logica per poter avere uno spessore rilevante. La difficoltà sta nel fatto che, nel riconoscere le diversità esistenti fra i vari tipi di vissuti, Husserl opera quella partizione in atti oggettivanti e non-oggettivanti che, a ben vedere, si rivela per così dire «statica», inadeguata a dar conto delle differenze di cui è intessuto l’ordito della coscienza: l’attribuzione di una intenzione non-oggettivante ai vissuti di sentimento impedisce di parlare, a proposito di essi, di una costituzione oggettuale in senso pieno. Questa soluzione non soddisfa Husserl, tanto che fin dagli studi immediatamente successivi alle Ricerche logiche, soprattutto nelle Vorlesungen di etica e poi nelle Idee, cerca di reimpostare l’intera questione nel tentativo di rafforzare l’intenzionalità emotiva, il che significa spiegare il paradosso di come possano atti non-oggettivanti costituire oggetti.
Se nelle Logische Untersuchungen Husserl non riesce a mostrare la possibilità di un riferimento oggettuale specificamente emotivo, il valore, nondimeno egli arricchisce l’analisi dei Gemütsakte attraverso la considerazione di quei vissuti di sentimento che non sono intenzionali, quali le sensazioni sensibili di piacere e di dolore: le sensazioni di sentimento (Gefühlsempfindungen), analogamente alle sensazioni sensibili in ambito teoretico, costituiscono il contenuto reale (reell) o descrittivo (deskriptiv) dei vissuti emotivi. Ogni atto di coscienza, infatti, non si costituisce solo di elementi strettamente intenzionali: l’atto emotivo, in particolare, non consta solo dell’atto oggettivante che fornisce la materia e della specifica qualità d’atto affettiva che vi si riferisce, ma anche di sentimenti sensibili, i quali «condizionano» l’intenzionalità propriamente emotiva. Le Gefühlsempfindungen non sono componenti intenzionali, poiché esse non «scaturiscono» dall’io per dirigersi verso oggettualità che trascendono la coscienza, bensì sono «localizzate» in essa come contenuti reali della recettività sensibile (non a caso nelle Idee Husserl svilupperà questo argomento in relazione alla tematica del «corpo vivo» — Leib). Pur non essendo intenzionali, in quanto appartenenti all’ambito dei contenuti descrittivi della coscienza, le sensazioni di sentimento «accompagnano» per così dire l’intenzionalità emotiva, al punto che per loro tramite l’oggetto intenzionato appare affettivamente determinato, come mette in evidenza Husserl nel celebre esempio della gioia di fronte ad un avvenimento felice: “questo atto […] comprende nella sua unità non solo la rappresentazione di un evento gioioso ed il carattere d’atto del piacere (Gefallen) ad esso riferito; alla rappresentazione si connette una sensazione di piacere (Lustempfindung), che da un lato viene appresa e localizzata come stimolo che eccita l’affettività (Gefühlserregung) del soggetto psicofisico e, dall’altro, come proprietà oggettiva (objektive Eigenschaft); l’evento appare avvolto da un’atmosfera rosea”.18 Nell’intenzione della gioia si manifesta dunque, contemporaneamente, un piacere sensibile riferito ad essa; analogamente, in un atto di tristezza si dà contemporaneamente una sensazione di dolore e così via. Su questo tema si avrà modo di tornare quando si tenterà di mostrare come il darsi del valore in quanto specifico oggetto emotivo porti con sé, per principio, ovvero in conformità ad una precisa legalità a priori, un piacere concomitante.
4. L’intenzionalità emotiva nelle Vorlesungen di etica e nelle Idee
Stando a quanto emerge nelle Ricerche logiche, la questione dell’intenzionalità degli atti emotivi non sembra trovare una soluzione adeguata. L’impostazione che viene ivi prospettata non è infatti priva di difficoltà o, addirittura, di vere e proprie aporie, riconducibili in ultima analisi al fatto che in forza di essa il carattere d’atto specificamente emotivo non ha un referente oggettuale proprio, poiché la sua materia non è altro che la materia complessiva dell’atto oggettivante che lo fonda. Se dunque il Gemütsakt trae la sua intenzionalità dall’oggettivazione «primaria» che è posta a suo fondamento, è ancora lecito sostenere che esso è un atto intenzionale a pieno titolo?
Husserl cerca di ovviare a questa difficoltà attraverso la considerazione che gli atti emotivi sono sì debitori della loro intenzionalità, ma che in certo modo «essi hanno ciò di cui sono debitori».19 Questa precisazione serve a far «quadrare il cerchio» nella Quinta ricerca logica, ma alla lunga risulta essere troppo debole per fugare il dubbio che l’atto di sentimento non sia un vissuto intenzionale in senso stretto. Il nodo aporetico della questione sta nel fatto che, se si mantiene una rigida distinzione fra atti oggettivanti e non-oggettivanti, con ciò riconoscendo diverse funzioni della coscienza e della ragione, allora l’atto emotivo non può avere un’oggettualità propria, ragion per cui emerge un legittimo sospetto sulla sua intenzionalità; viceversa, se si vuole attribuire all’atto non-oggettivante un’intenzione e un oggetto specifici, allora rischia di venir meno la sua differenza con l’atto oggettivante e, di conseguenza, il riconoscimento, basato su un’evidenza indubitabile, dell’esistenza di diverse modalità intenzionali della coscienza.20 È anche in considerazione di queste difficoltà che Husserl parla, in più parti delle sue Vorlesungen di etica, degli atti emotivi come di un «groviglio» apparentemente inestricabile. Per evitare di ricadere nella prospettiva per così dire «ingenua» delle Logische Untersuchungen, Husserl deve da un lato tener ferma la differenza dei vissuti affettivi rispetto a quelli logico-conoscitivi, mentre dall’altro riconoscere ai primi un riferimento intenzionale proprio, sebbene in qualche modo fondato su quello dei secondi: nel tenere insieme queste due istanze apparentemente inconciliabili, vale a dire un’intenzionalità non-oggettivante e una certa oggettualità emotiva, sta la peculiarità della nuova impostazione husserliana, tesa a mostrare il legame e al contempo la specificità della coscienza pratico-affettiva rispetto a quella logico-teoretica.
Nei corsi universitari sull’etica del semestre invernale 1908/09 Husserl manifesta chiaramente l’intenzione di seguire questa «strategia»: per un verso, infatti, egli insiste sulla differenza fra Gemütsakte e Verstandesakte, sulla diversità del loro «riferimento-a» (Beziehung-auf),21 per l’altro, invece, cerca di coniugare questo punto fermo delle analisi con un «rafforzamento» dell’intenzionalità dei primi. È in tal guisa che egli arriva a prospettare un’oggettualità assiologica che costituisca il referente oggettuale proprio del Gemüt:
Ci si può chiedere d’altra parte se tutti gli atti in quanto tali, quindi anche gli atti emotivi, in quanto posseggono una loro intenzionalità, una loro peculiarità nel riferirsi ad un’oggettualità, non racchiudano in qualche maniera un’intenzione (Meinung) ed eventualmente una manifestazione (Erscheinung), cioè non semplicemente attraverso gli atti fondanti, bensì in quanto atti emotivi […]. In qualche modo bisogna rispondere di sì a tale domanda e comprendere la risposta affermativa. Si deve allora sicuramente dire che, in certo modo, anche negli atti valutanti si manifesta (erscheint) qualcosa, che in essi si manifestano proprio oggetti di valore (Wertobjekte), vale a dire non semplicemente gli oggetti che hanno valore, bensì i valori in quanto tali (Werte als solche).22
In questo passo assai significativo, Husserl pone l’accento sul fatto che, se gli atti di sentimento debbono essere vissuti intenzionali a pieno titolo, allora devono possedere un’intenzione specifica, cioè una direzione oggettuale peculiare, e conseguentemente un’oggettualità propria, che non sia riducibile a quella manifestata negli atti oggettivanti fondanti. Il correlato oggettuale della coscienza emotiva è, secondo Husserl, il valore, che dunque non è semplicemente il referente intenzionale di atti specificamente valutativi, bensì il correlato di tutti i vissuti che rientrano nella sfera del sentimento.23 Spesso Husserl parla di «atti valutanti» invece che di «atti affettivi», e ciò fondamentalmente per due ragioni: in primis perché gli atti valutanti sono esemplificativi del funzionamento del Gemüt nel suo complesso, e poi perché essi svolgono un ruolo centrale all’interno della vita pratica, soprattutto, come vedremo in seguito, in riferimento agli atti di volontà.
Anche nei Gemütsakte, pertanto, si danno in certo modo manifestazioni, si manifesta qualcosa, e ciò è quanto dire che nel loro lato oggettuale non si trova più solamente l’oggettualità dell’atto fondante, ma anche il valore che si riferisce ad essa come sua qualità affettiva. L’affermazione di questa prospettiva, per quanto centrale e innovativa rispetto alle Ricerche logiche, non comporta, tuttavia, la soluzione di tutti i problemi, poiché rimane insoluta la questione di come possano gli atti emotivi costituire le corrispondenti oggettualità assiologiche. Nell’atto di sentimento, infatti, il valore si presenta come un qualcosa di inerente ad un oggetto, ma non esso stesso come un oggetto: nonostante l’individuazione di un correlato specificamente emotivo, la coscienza affettiva continua ad essere non-oggettivante, e non potrebbe essere altrimenti, stante la sua differenza dalla coscienza logico-teoretica. Nelle Vorlesungen 1908/09 Husserl non trova altra soluzione se non quella di affermare che solo una nuova oggettivazione, dunque un nuovo atto oggettivante che si edifichi sull’atto affettivo, può costituire il valore come un oggetto in senso stretto. Il valore, come afferma Husserl, è «qualcosa di oggettivabile (etwas Objektivierbares)»,24 ma solo se nuovi atti oggettivanti, attraverso un movimento riflessivo, si volgono verso quei vissuti emotivi in cui si manifestano i valori e li colgono in quanto oggetti essenti in un certo modo.25 Neanche questo però, è il punto di approdo definitivo della peregrinazione husserliana nel mare magnum dell’intenzionalità degli atti affettivi: infatti, ciò che continua a far problema è questa distinzione fra objektivierende e nicht-objektivierende Akte, poiché essa sembra non riuscire a dar ragione, se presa come struttura «ultima» della coscienza, della specificità dell’intentio emotiva.
Nelle Idee, come è noto, Husserl sottopone ad una profonda revisione il concetto di intenzionalità della coscienza, in vista di una caratterizzazione rigorosa della nuova scienza fenomenologica: la revisione è operata attraverso un approfondimento del tema del «porre», già emerso nelle Logische Untersuchungen in riferimento agli atti oggettivanti. Il carattere di riferimento-a proprio della coscienza viene interpretato nelle Idee come capacità di «prendere posizione» rispetto a qualcosa, vale a dire di «porre» questo qualcosa in un certo modo: tutti i vissuti intenzionali o cogitationes, come anche li designa Husserl con termine cartesiano, sono pertanto «prese di posizione» (Stellungnahmen). Questa nuova impostazione ha il pregio di «mettere fra parentesi» la questione dell’oggettivazione, dunque la distinzione fra atti oggettivanti e non oggettivanti — la quale aveva per così dire aperto un baratro fra i diversi tipi di coscienza — non perché la neghi, bensì perché permette di considerarla come secondaria e in certo modo derivata da un carattere più «originario». Tale carattere originario e comune a tutte le modalità della coscienza è quello posizionale o tetico, in virtù del quale, come già accennato, ogni atto può dirsi intenzionale solo in quanto pone un qualcosa in questo o quest’altro modo: nella percezione evidente di un fiore, ad esempio, questo è posto come realmente esistente e dotato di certe determinate caratteristiche (profumo, colore, forma, ecc.); o ancora, in una valutazione che vi si riferisca, esso è posto come bello, piacevole, grazioso e così via. La determinazione dell’intenzionalità come posizionalità non significa d’altronde che in tutti i tipi di atto il porre assuma lo stesso senso, poiché, al contrario, vi sono modalità posizionali diverse e, fra di esse, una dominante e potenzialmente estendibile ad ogni tipo di vissuto, vale a dire quella della credenza o dossica: la posizione dossica o dossotetica è centrale in quanto, analogamente al «vecchio» atto oggettivante, afferma l’esistenza di un qualcosa, stabilisce il suo esser così o in altro modo, in una parola pone l’essere in generale. Husserl sostiene che vi è una credenza o «doxa originaria» (Urdoxa) la quale, nell’ordito complessivo della coscienza, costituisce per così dire il carattere razionale «primordiale» dell’io: solo in essa si dà la verità come correlato oggettuale,26 quindi solo in virtù di essa ci sono conoscenze in senso rigoroso. In questa nuova prospettiva, gli atti emotivi sono ancora dipendenti da atti fondanti, in questo caso atti dossici, ma hanno una specifica modalità di prendere posizione e ovviamente anche un riferimento intenzionale proprio. Come riesce Husserl a tenere insieme l’intenzionalità intesa come posizionalità, in quanto tale comune a tutti i vissuti di coscienza, e le differenze fra atti emotivi non-dossici e atti dossici?
Al paragrafo 37 del primo libro delle Idee Husserl opera una distinzione essenziale nel quadro dell’intenzionalità complessiva del cogito: l’essere-diretto dell’atto intenzionale su qualcosa non significa eo ipso l’afferrare (erfassen) questo qualcosa, piuttosto tale «afferramento» rappresenta una modalità intenzionale peculiare, tipica degli atti dossici, che può tuttavia essere assunta anche dagli altri tipi di atto. I vissuti pratico-emotivi sono sì intenzionali, ma si distinguono dagli atti della credenza poiché in essi l’oggetto intenzionale non è «afferrato», bensì, per così dire, meramente intenzionato:27 tale obiectum intenzionale può però diventare obiectum afferrato attraverso un «caratteristico rivolgimento “oggettualizzante”»,28 vale a dire in virtù di una trasformazione dell’atto emotivo in atto dossico. Questa trasformazione secondo Husserl è per principio sempre possibile in virtù del carattere originario e potenzialmente onnipervasivo della Urdoxa, grazie alla quale «in tutti i caratteri tetici sono nascoste modalità dossiche».29 L’afferramento dell’oggetto dipende pertanto da un’oggettivazione, la quale è sì propria strutturalmente dell’atto dossico, ma può essere compiuta anche dai vissuti pratico-emotivi, i quali possono per principio «mutarsi» in atti dossici. Ciò è quanto dire che tutti gli atti sono in certo modo dossici e oggettivanti, laddove il loro carattere oggettivante può essere pienamente attuale o semplicemente potenziale: «ogni atto di coscienza compiuto in maniera non-dossica è […] potenzialmente oggettivante; soltanto il *cogito dossico compie un’oggettivazione attuale».30 L’intepretazione dell’intenzionalità come posizionalità e il carattere potenzialmente oggettivante di tutti gli atti non-dossici rappresentano gli strumenti concettuali attraverso i quali Husserl riesce a superare le difficoltà e le vere e proprie aporie in cui era incappato fin dai tempi delle *Ricerche logiche: «Un atto posizionale pone, ma indipendentemente dalla “qualità” che esso pone, pone anche dossicamente; qualunque cosa sia posta attraverso di esso in altri modi, è quindi posta anche come esistente: solo che non è posta attualmente».31 In questo modo, Husserl afferma da un lato la specificità dell’elemento pratico-emotivo, mentre dall’altro ripropone l’universalità del logico, sempre sostenuta, fin dai primordi del suo filosofare, come una potenzialità immanente alla vita di coscienza.
La possibilità che gli atti afferenti alla coscienza pratico-emotiva divengano atti dossici è testimoniata, secondo Husserl, dal duplice senso in cui utilizziamo il termine «valutare»: da un parte con esso si intende una «disposizione emotiva dell’animo»,32 dall’altra, viceversa, un atto teoretico tramite il quale attribuiamo una qualità assiologica ad un qualche oggetto. Il primo caso è, ad esempio, quello della valutazione estetica, grazie alla quale noi «viviamo» nell’atteggiamento affettivo del piacere per un qualcosa; il secondo, invece, è quello, proseguendo l’esempio, del giudizio estetico che può scaturire da quella valutazione e in forza del quale noi non ci limitiamo a fruire dell’oggetto, ma attribuiamo ad esso dei predicati di valore in quanto caratteristiche che gli appartengono in virtù del suo essere così.33 In altre parole, mentre il primo atteggiamento è semplicemente tetico o posizionale, il secondo è propriamente dosso-tetico, vale a dire teoretico in senso stretto. Nelle lezioni di etica anteriori alle Idee Husserl non aveva ancora sviluppato pienamente il concetto di intenzionalità in quanto presa di posizione, o meglio non aveva ancora prospettato la possibilità che un atto emotivo potesse trasformarsi in atto dossico: nona caso, come visto, egli sosteneva che il valore come oggetto potesse darsi solo in un atto oggettivante che si volgesse riflessivamente verso il vissuto affettivo e il suo referente oggettuale. Nell’impostazione che domina nelle Idee, invece, il valore può darsi come «mero» correlato intenzionale di un semplice atto di sentimento, oppure può essere afferrato come obiectum in senso stretto, come essente in un certo modo. A tal riguardo è bene sottolineare il fatto che, in ogni caso, qualunque apprensione di valore ha comunque origine primariamente nel Gemüt, cioè che non può darsi coscienza teoretica del valore, la quale non scaturisca da una coscienza specificamente emotiva.
5. L’intenzionalità «fruitiva» della coscienza emotiva
Distinguendo i due significati principali di «valutare» Husserl mette in evidenza come la coscienza pratico-affettiva possa diventare coscienza teoretica in senso stretto, cioè possa oggettivare i propri referenti intenzionali, i valori, in modo da predicarli in un giudizio. I vissuti di sentimento possiedono in sé degli elementi dossici in forza dei quali essi possono trasformarsi in atti pienamente dossotetici: in altri termini, essi possono diventare atti oggettivanti a tutti gli effetti e, con ciò, costituire i valori come oggetti in senso stretto. In tali atti emotivi divenuti oggettivanti il valore può essere posto, in virtù del carattere dossico della credenza originaria, come un qualcosa che è in qualche modo: la posizione d’essere che caratterizza la Urdoxa diviene così il carattere intenzionale dominante anche del valutare, che in tal guisa può affermare il valore come un oggetto che è e che ha queste e queste altre caratteristiche. Ad esempio, se dal semplice atto pratico-emotivo in cui io intendo qualcosa come utile e lo utilizzo come tale, passo all’atteggiamento dossico, allora io non vivo più come coscienza affettiva: l’atto emotivo si trasforma in un atto dossico con il quale io affermo il valore dell’oggetto, la sua utilità, come essente in un certo modo. Parafrasando Husserl, io «afferro» teoreticamente la cosa, in questo caso il valore, «fisso» il suo senso attraverso la rigorosa determinazione del suo essere così: la cosa è posta nei limiti del suo essere così, cioè in modo tale che non possa essere altrimenti, pena il suo snaturamento in qualcosa d’altro, e in tal modo essa è «compresa» (il legame fra afferrare e comprendere, ovvero il darsi di un comprendere in quanto afferrare, emerge con chiarezza nel termine tedesco utilizzato da Husserl a questo riguardo, vale a dire erfassen). È ovvio che questa oggettivazione del valore si compie sulla scorta della originaria coscienza emotiva assiologica, dunque di una coscienza non-afferrante: senza una apprensione sentimentale non si darebbe alcuna oggettualità assiologica, ragion per cui Husserl sostiene a più riprese che «“sentire il valore” (Wertfühlen) rimane l’espressione più generale per dire coscienza di valore».34 Risulta pertanto indispensabile un’ulteriore approfondimento della questione dell’intenzionalità affettiva: se infatti gli atti dossici hanno una intentio oggettivante, afferrante (erfassend), come si caratterizzerà la modalità intenzionale del Gemüt?
Vivendo come coscienza pratico-emotiva, il soggetto non ha a che fare con mere «cose» indifferenti, con gli oggetti per così dire «neutrali» delle scienze naturali e del sapere teoretico in generale: egli non si pone in modo «distaccato» e, per dirla con termine weberiano, «avalutativo» di fronte ai suoi oggetti, poiché il suo interesse non è di tipo specificamente teoretico, bensì pratico in senso lato (valutativo, volitivo, desiderante, ecc.). La coscienza pratico-affettiva pone il soggetto in un rapporto di interazione con gli oggetti intenzionali: il soggetto si dispone praticamente ed emotivamente nei confronti del suo obiectum, e questo gli si pone dinanzi, gli si impone come elemento di interesse stimolando la sua affettività. Solo in questo rapporto biunivoco, nel quale un soggetto «partecipa affettivamente» di una cosa, può emergere il valore come referente intenzionale peculiare del Gemüt, ovvero, nei termini di Husserl: «La costituzione più originaria del valore si realizza nell’ambito emotivo, è quella dedizione preteoretica e fruitiva [jene vortheoretische geniessende Hingabe] (nel senso più largo della parola) del soggetto egologico che sente».35 Da ciò emerge chiaramente che la modalità intenzionale specifica della coscienza emotiva, ovvero del soggetto che sente (fühlendes Subjekt), è quella della fruizione (Genuß), in virtù della quale il soggetto riconosce nell’oggetto particolari qualità assiologiche in quanto egli partecipa affettivamente di esse, ne gode. In altri termini, la costituzione di valori oggettivi è per principio legata alla fruizione soggettiva di essi. Questo non significa peraltro che il valore sia riducibile a funzione di un soggetto o di molteplici soggetti, che esso sia una creazione soggettiva «arbitraria»: «Il “valore” non è qualcosa che si dissolva nella soggettività e, in questo senso, nella relatività del valutare, quasi che ciò che per uno ha valore, possa non averlo per un altro ed essere indifferente per un terzo».36 Nell’ottica husserliana i valori devono avere una loro obiettività, cioè un loro darsi «in sé», a prescindere da opinioni soggettive contingenti, ma al contempo devono costituirsi nella coscienza emotiva come senso per ogni soggetto possibile in generale. In certo modo il valore emerge dall’«incontro» fra l’oggetto e il soggetto valutante, o meglio dalla «stimolazione» che quello esercita sulla coscienza di questo, «coinvolgendolo» emotivamente. Il riconoscimento del valore come qualità assiologica spettante a un oggetto passa dunque attraverso la fruizione emotiva del soggetto, al punto che Husserl mette esplicitamente in risalto un ruolo della soggettività in campo pratico-affettivo che non trova riscontro in ambito logico-teoretico: laddove la posizione d’essere attribuisce alle cose predicati obiettivi, i quali non dicono nulla del soggetto che pone dossicamente, la posizione affettiva rivela invece le qualità assiologiche degli oggetti in virtù di orientamenti fruitivi soggettivi. Nel riconoscere che il colore di questa superficie è, ad esempio, una particolare tonalità di rosso, io non faccio altro che attribuire ad una cosa, la superficie, un predicato che le spetta obiettivamente, cioè la tonalità di rosso, senza che in questo giudizio emerga qualcosa che riguardi me in quanto soggetto giudicante; diversamente, se io valuto questa superficie come bella, magari proprio per il suo colore particolare, allora io fruisco di essa, vivo in quella peculiare modalità intenzionale in base alla quale la particolare connotazione assiologica dell’oggetto è cosciente in quanto suscita nel soggetto un interesse affettivo. In altri termini, la superficie rossa mi si impone come bella provocando in me, al contempo, un certo «godimento»: io fruisco piacevolmente di essa. Queste relazioni non sono, come Husserl ripete spesso, semplici rapporti psicologici, bensì nessi eidetici retti da leggi a priori: la dimensione del sentire può rientrare nell’ambito di una ragione universale proprio in quanto sottostà ad una legalità ideale specifica. In forza di tale legalità a priori non si può interpretare quanto detto finora come una sorta di edonismo in senso comune: non si è infatti sostenuto che qualcosa ha valore poiché piace, come se il piacere fosse il criterio per la determinazione delle qualità assiologiche delle cose, bensì che la manifestazione di un qualcosa che si dà come valevole avviene in una coscienza emotiva che, in quanto tale, fruisce affettivamente di esso. In altri termini, la datità del valore negli atti emotivi suscita un sentimento concomitante senza il quale non vi sarebbe, per il soggetto, alcuna coscienza del valore (non a caso, nel puro atteggiamento teoretico, scevro di ogni affettività, non vi è alcuna coscienza assiologica). Non è il piacere a stabilire cosa vale, ma è ciò che vale a darsi sempre, per principio, in un piacere.
Husserl sottolinea spesso come il carattere fruitivo (genießend) della coscienza emotiva consista nel fatto decisivo che l’oggetto di valore tocca, per così dire, le «corde dell’animo», che esso «muove» l’affettività in modo piacevole (o spiacevole, nel caso di un disvalore). Nell’esempio di Husserl: «Quando sento una nota di violino, la gradevolezza, la bellezza è originariamente data se la nota muove il mio animo (Gemüt) in modo originariamente vivente (ursprünglich lebendig), e la bellezza come tale è data appunto attraverso il medium di questo piacere (Gefallen)».37 La coscienza del valore non è pertanto un mero aver-presente, un «vedere frontale» analogo, ad esempio, a quello di una semplice percezione sensibile nella quale l’oggetto si pone «frontalmente» rispetto ad un soggetto, bensì, in modo più pregnante, un «coinvolgimento emotivo» basato sull’azione motivante che l’oggetto di valore compie sul Gemüt. In virtù di quanto emerso, in ambito pratico-emotivo non si dà una presenza «statica» dell’oggetto intenzionale nel rispettivo atto di sentimento, ma, più specificamente, una sorta di «relazione coinvolgente»: il valore stimola l’emotività, la quale partecipa fruitivamente di esso. A questo punto sembra più chiaro in che senso Husserl parli di una modalità intenzionale non-afferrante: se da un lato, infatti, il cogito dossico pone gli oggetti in modo «neutrale», come essenti dotati di certi predicati specifici, dall’altro la coscienza emotiva o «senziente» risulta affettivamente «coinvolta» con il suo correlato oggettuale, ovvero non mantiene rispetto ad esso una distanzatale da consentirle di «afferrarlo» come oggetto in senso stretto. La comprensione di un qualcosa, il suo afferramento teoretico, comporta la posizione di questo stesso qualcosa come un oggetto di un certo tipo, dotato quindi di una sua identità, di un suo senso univoco: ciò non avviene nella coscienza emotiva, poiché in essa il soggetto che viene stimolato affettivamente da un’oggettualità assiologica, si rapporta a quest’ultima non cercando di afferrarne il senso per così dire ontico, bensì per fruirne in un sentire preteoretico (laddove «preteoretico» deve essere inteso in senso lato, vale a dire non come privo di elementi logici, ma come non ancora teoretico in senso proprio). Il darsi di una specifica intenzionalità fruitiva rende possibile quella che noi chiamiamo vita comune, quell’esistenza quotidiana nella quale ci muoviamo già da sempre: in essa la distinzione soggetto-oggetto risulta per così dire «sfumata», poiché le cose non sono «meri» oggetti che ci si pongono dinanzi in modo neutrale, bensì cose presso le quali noi ci troviamo costantemente, cose che amiamo, che utilizziamo, che desideriamo, che distruggiamo e così via. Nel senso dell’espressione «fruizione» si manifestano non a caso i due significati reciprocamente correlati di usufruire e godere: l’avere a disposizione, il giovarsi di un qualcosa non stanno a significare altro se non il godere di questo qualcosa, inteso sia come un trarne vantaggio che come un trarne piacere (laddove l’uno, evidentemente, non può stare senza l’altro). Lo stare fra le cose proprio dell’intenzionalità fruitiva, il suo dedicarsi ad esse in quanto stimolata da esse, in quanto affettivamente coinvolta, costituiscono il tratto caratteristico del Gemüt inteso come specifica coscienza pratica ed emotiva.
6. La costituzione del valore in quanto oggetto «fondato» o «secondario»
Finora il discorso si è incentrato sulla peculiare modalità intenzionale del Gemüt, poiché si trattava di verificare se e come essa potesse configurarsi effettivamente. Come visto, l’intenzionalità affettiva si declina originariamente come fruizione, sebbene essa, in virtù del suo carattere potenzialmente oggettivante, possa esplicitarsi anche in atti pienamente dossici. Un discorso analogo può essere fatto per il suo referente oggettuale, cioè il valore, che può essere semplicemente intenzionato in un vissuto emotivo oppure oggettivato nella corrispondente trasformazione dossica del medesimo vissuto: si tratta quindi di vedere in che modo esso si costituisca nella coscienza emotiva e il modo in cui possa «oggettualizzarsi», vale a dire in cui possa essere un oggetto, benché sui generis.
Nel paragrafo 88 del primo libro delle Idee Husserl introduce una delle distinzioni fenomenologicamente più determinanti, cioè quella fra noesi e noema. Senza entrare molto nello specifico (cosa che non può essere fatta in questa sede e che sarebbe per di più ridondante ai fini del presente articolo), basterà qui ricordare che noetici sono definiti da Husserl quei momenti in cui consiste l’atto in quanto Erlebnis soggettivo, che dunque possono essere trovati «grazie a una analisi effettiva del vissuto»,38 laddove noematici sono invece quei momenti che costituiscono il «di-qualcosa» del vissuto, il suo «senso»: tale senso non deve essere confuso con l’oggetto intenzionato, che in quanto tale è «fuori» dalla coscienza, la trascende, bensì deve essere assunto «esattamente quale si trova “immanentemente” nel vissuto della percezione, del giudizio, del godimento, ecc., ossia quale ci viene offerto dallo stesso vissuto, se noi lo interroghiamo nella sua purezza»,39 ovvero in una riflessione fenomenologica. In altre parole, mentre nell’ambito delle noesi rientrano i vari tipi di prese di posizione (percezione, giudizio, ricordo, valutazione, ecc.), in quello dei noemi si trovano i sensi che costituiscono il correlato oggettuale delle intenzioni noetiche (il percepito, il giudicato, il ricordato, il valutato e così via). Nel caso degli atti emotivi, ovviamente, la noesi complessiva è fondata, poiché il carattere d’atto specificamente affettivo si basa su uno dossico (una valutazione su una percezione, ad esempio). Come si ricorderà, Husserl sostiene da sempre questa caratteristica fondazione del Gemütsakt, ma nelle Idee, conformemente a quanto prospettato già nelle Vorlesungen 1908/09, egli parla anche di una piena oggettualità affettiva, fondata su quella manifestata dall’atto dossico sottostante, eppure distinta da essa. Tale oggettualità emerge evidentemente nella sfera noematica, poiché è in essa che si mostra ogni senso intenzionale. Secondo lo Husserl delle Idee, a noesi fondate corrispondono necessariamente anche noemi fondati, in base al principio che «non vi è alcun momento noetico senza un momento noematico a esso specificamente inerente».40 L’atto emotivo possiede pertanto, in conformità al suo statuto noetico globale, un noema complessivo risultante dall’unificazione di due sensi, quello dossico fondante (ad esempio il percepito, il ricordato, ecc.), e quello specificamente emotivo (il valutato, il desiderato e così via). In tale prospettiva, il valore come correlato oggettuale, ovvero come senso noematico della corrispettiva noesi valutante, può essere considerato come un qualcosa di oggettuale, che si «innesta» su un oggetto in senso stretto: «da un lato parliamo della mera “cosa” che è valevole, che ha un carattere di valore, una qualità-valore (Wertheit), dall’altro parliamo degli stessi valori concreti o della oggettità-valore (Wertobjektität) […]. L’oggettività-valore implica la corrispondente cosa materiale e vi introduce la qualità-valore come nuovo strato oggettivo».41 Questo senso noematico assiologico può essere semplicemente intenzionato, come in un wertender Akt, oppure «afferrato» (erfasst) in una corrispondente trasformazione dossica del medesimo atto valutante.
Sebbene nelle lezioni di etica del 1908/09 non avesse ancora approntato completamente l’apparato concettuale delle Idee, tuttavia in esse Husserl già prospettava un’oggettualità intenzionale specifica per gli atti di sentimento, il valore: queste riflessioni sul valore come correlato oggettuale della coscienza emotiva sono alquanto interessanti e si coniugano bene con i risultati raggiunti nel capolavoro di qualche anno successivo. Nella coscienza emotiva, in quanto caratterizzata primariamente da un’intenzionalità non-oggettivante, non può darsi ovviamente il valore in quanto oggetto, piuttosto solamente in quanto semplice correlato fruitivo. Riprendendo ancora una volta la distinzione, emersa al paragrafo 37 del primo libro delle Idee, fra obiectum afferrato e obiectum intenzionale, si può affermare con Husserl che «“prestare valutativamente attenzione a una cosa” non significa avere il valore «come oggetto», nel senso specifico dell’oggetto afferrato»,42 bensì, per così dire, come semplice «referente» intenzionale. Nel Gemüt, pertanto, il valore è semplicemente «preso di mira» come «un qualcosa che spetta agli oggetti» (etwas den Objekten Zukommendes), ovvero come«un qualcosa che si riferisce all’essere o al non-essere (etwas auf Sein oder Nicht-Sein Bezügliches)».43 Mentre gli atti oggettivanti intenzionano oggetti, laddove con oggetti si deve intendere un qualcosa di essente (Seiendes), gli atti emotivi sono diretti ai valori, che non si manifestano come oggettualità vere e proprie, cioè come un qualcosa che è in senso stretto. Il valore, in quanto referente fruitivo della coscienza pratico-affettiva, non è «afferrato» come oggetto, ma, per utilizzare ancora l’immagine della Quinta ricerca logica, «percepito» come un’atmosfera che aleggia attorno ad un qualcosa. Se però tale valore viene oggettivato in una corrispondente trasformazione dossica del vissuto di sentimento, allora esso viene afferrato come obiectum teoretico in senso stretto: solo in virtù di questa oggettivazione si può condurre una riflessione conoscitiva su di esso la quale abbia per fine l’edificazione di discipline filosofiche assiologiche (come l’assiologia formale che Husserl tratteggia nelle già citate lezioni di etica del 1914).
Il valore che emerge da tale trasformazione oggettivante può essere considerato un oggetto, un qualcosa che ha il suo modo d’essere, anche se peculiare e del tutto originale. In più punti delle Vorlesungen 1908/09, infatti, Husserl sostiene che esso è un oggetto «fondato» (fundiert) e «secondario» (sekundär):44 ma fondato su cosa e secondario rispetto a quale presunto oggetto «primario»? Per rispondere a queste domande bisogna tener presente che il valore è dato primariamente in un atto di sentimento, il quale è a sua volta un vissuto che si costituisce di più caratteri d’atto, vale a dire di una componente dossica e di una specificamente emotiva fondata su quella: nel valore in quanto correlato intenzionale si ripropone un rapporto di fondazione analogo a quello dell’atto valutante, in quanto la qualità assiologica non può darsi a prescindere dall’oggetto cui inerisce (zukommt). In altri termini, il valore non può sussistere se non in quanto valore di una cosa, cioè di un oggetto che funge in qualche modo da portatore (Träger). Questa «dipendenza» del valore dagli oggetti cui esso spetta è sottolineata spesso da Husserl, secondo il quale «il valore è ciò che è solo in quanto valore di un oggetto».45 Nell’apprezzamento di un valore estetico, per fare il solito esempio, tale valore non può presentarsi se non come inerente ad un’opera d’arte, un fenomeno naturale, una persona, ecc.; o ancora, nel riconoscimento di un valore morale, quest’ultimo non può darsi se non in riferimento ad un’azione, un proposito, una decisione e così via. È in virtù di questo elementare dato fenomenologico che nel linguaggio comune si utilizza il termine «valore» in modo duplice, intendendo con esso, da una parte, la cosa che vale, dall’altra il suo valore in senso stretto, cioè in quanto qualità assiologica. Dal punto di vista fenomenologico, pertanto, il valore si connota come fundierter Gegenstand, laddove il suo portatore è ovviamente oggetto fondante e, in quest’ottica, primario: poiché la sua datità è legata, in forza di una legge essenziale, a quella del suo oggetto portatore, l’obiectum assiologico non costituisce un essente autonomo dotato di una sua pienezza, bensì, per l’appunto, un qualcosa di «secondario». Il valore può essere considerato anche di per sé, a prescindere dagli oggetti cui inerisce, ma questa astrazione, di principio sempre possibile, nulla toglie alla connessione essenziale fra il Wert e il suo Träger, connessione sulla quale Husserl torna continuamente sia nelle Idee che nel lezioni di etica del 1914: «i valori hanno il loro lato oggettuale e al contempo il loro specifico lato del valore, e il primo fonda il secondo».46 Ma come deve intendersi questa fondazione dei valori sui loro portatori?
Nell’atteggiamento teoretico i valori «sono presenti (vorhanden) solo attraverso predicati di valore (Wertprädikate)»:47 così come in ambito logico si pongono dossicamente le caratteristiche di una determinata cosa, cioè si attribuiscono ad un soggetto i suoi predicati (ad esempio largo, grande, alto, verde, ecc.), allo stesso modo nella sfera del valutare razionale si predicano le qualità assiologiche dell’oggetto valutato. Secondo Husserl i predicati di valore si fondano su quelli logici, vale a dire sulle caratteristiche ontiche dell’oggetto di valore, ma non nel senso di una «causazione», cioè di un rapporto diderivazione simile a quello che lega l’effetto alla propria causa. I predicati assiologici hanno infatti una loro specifica peculiarità, sono irriducibili ai predicati logici poiché appartengono, come sostiene Husserl, ad un’«altra dimensione (eine andere Dimension)»,48 ovvero costituiscono, nei termini delle Idee, una regione particolare, una nuova stratificazione di senso. Tale dimensione non è però, come già accennato, una «oggettualità piena e intera» (volle und ganze Objektivität), non è autonoma, non può sussistere da sola, ma deve presupporre una sfera di oggetti già «compiuti» su cui innestarsi: in questo senso Husserl ribadisce a più riprese che «i predicati assiologici presuppongono quelli logici».49 Il rapporto di presupposizione è tale che il predicato di valore può darsi solo in virtù di un oggetto dotato di certi determinati predicati logici, per i quali, tuttavia, esso è «inessenziale» (außerwesentlich): in un oggetto utile, per fare un esempio, l’utilità come predicato assiologico si basa su certe caratteristiche, poniamo fisiche, che sono e rimangono quello che sono a prescindere dalla loro utilità, che in quanto tale può anche venir meno (magari perché l’oggetto non viene più usato, perché viene sostituito, ecc.). È proprio in forza di questo rapporto che il valore può essere considerato un oggetto secondario, poiché esso ha bisogno di un’oggettualità «piena» cui riferirsi, laddove tale oggettualità invece può sussistere anche senza di esso: togliere (wegstreichen) i predicati assiologici noncomporta, infatti, alcun cambiamento sostanziale nella natura della cosa.50 Il valore non appartiene, dunque, all’essenza specifica dell’oggetto in senso teoretico, inteso cioè come essente dotato di determinati predicati logici: esso «pertiene» all’oggettualità, ma in quanto oggetto secondario esso non è una «proprietà costitutiva dell’oggetto valutato (keine konstitutive Eigenschaft des bewerteten Objekts)»,51 cioè un qualcosa di riconducibile alle sue caratteristiche logico-ontologiche, alla sua natura in senso lato. Che il predicato assiologico presupponga quello logico, ovvero che il valore sia fondato su un oggetto in senso pieno, tutto ciò deriva dal dato fenomenologico originario secondo il quale la qualità assiologica emerge dalla stimolazione che un certo qualcosa opera sull’affettività: il valore non è dunque riconducibile all’essenza della cosa, poiché esso, pur inerendo a oggetti, è legato agli orientamenti fruitivi della coscienza pratico-emotiva.
7. Schönwerte, Gutwerte e praktische Werte
Nel sostenere che l’oggettualità assiologica si dà primariamente come correlato intenzionale di atti di sentimento, Husserl mette in evidenza come tutti i tipi di valore rientrino nell’orizzonte della coscienza affettiva. Si tratta di indagare ora in che modo si distinguano, a livello fenomenologico, le varie classi di valori in relazione ai differenti tipi di atto, vale a dire di comprendere non più la differenza fra coscienza dossica e coscienza emotiva, bensì le distinzioni in cui si articola il Gemüt in quanto specifico ambito di senso. Se è infatti vero che il valore è il correlato intenzionale di tutti gli atti sentimento, è altrettanto innegabile che in ciascuno di questi esso si manifesta in maniera differente, a seconda che si tratti di una valutazione, di un desiderio, di una gioia e via dicendo. In particolare, visto che in questa sede non si possono delineare tutte le differenziazioni interne alla coscienza pratico-emotiva, si proverà a concentrare l’attenzione su due famiglie di atti fondamentali, le valutazioni e le volizioni, in relazione ai rispettivi tipi di valori. Ma perché gli atti di valutazione e di volontà meritano questa attenzione particolare? Come già accennato in precedenza, Husserl attribuisce grande importanza alle valutazioni (Wertungen), poiché in esse emergono quei valori che possono poi essere apprezzati in un semplice piacere estetico, o posti come un obiettivo del desiderio, o ancora come fini di un’azione, dunque come oggetti della volontà e così via. Gli atti volitivi, neiquali si esplica concretamente la vita morale del soggetto, e che per tale motivo sono essenziali ai fini dell’edificazione di un sapere etico rigoroso, sono dunque legati agli atti valutanti, come Husserl sottolinea spesso nelle sue lezioni: “il corretto volere si regola (richtet sich) sul corretto valutare”.52 Questo significa che i valori specificamente morali, ovvero quei valori che debbono poter essere posti dalla volontà come fini dell’azione, si danno solo sul fondamento di qualità assiologiche che emergono in semplici valutazioni. Risulta dunque chiara la centralità dei wertende e dei wollende Akte, gli uni essenziali per ogni possibile apprensione di valore, gli altri per la realizzazione pratica di tali valori, o meglio di quei valori che si sono presentati come concretamente realizzabili.
Nel capitolo delle Vorlesungen 1914 relativo all’assiologia formale, Husserl aveva operato, senza approfondirla a sufficienza, la distinzione fra valori «esistenziali» e «non-esistenziali»: nelle Aggiunte a tali lezioni, egli ritorna sull’argomento in modo più articolato, sostenendo che bisogna tenere distinto il valutare che si effettua a prescindere dalla questione dell’esistenza o meno dell’oggetto valutato, e che proprio per questo rimane in certo modo «sospeso» in una sorta di irrealtà, dal valutare che invece risulta esplicitamente interessato all’esistenza del valutato («existenzial interessierten “Werten”»53): è in virtù di questa distinzione che Husserl può parlare di existenziale e nicht-existenziale Werte, vale a dire di Gut- e Schönwerte. Il valutare che non si interessa dell’esistenza del bewerteter Objekt è chiamato da Husserl «valutare-come-bello» (Schönwerten), laddove «bello» deve essere inteso in senso ampio come quella qualità assiologica positiva che si predica in riferimento al semplice darsi di un qualcosa, alla sua pura rappresentazione: se una rappresentazione non-posizionale, la quale cioè non prenda posizione riguardo all’esistenza o meno del suo oggetto, mostra un contenuto (Inhalt) assiologicamente positivo, allora questo viene valutato come bello. A questo genere di valutazioni appartengono chiaramente anche le valutazioni estetiche, che hanno la peculiarità di riferirsi specificamente al modo di manifestarsi del contenuto rappresentato. Ogni oggetto può infatti manifestarsi attraverso molteplici e differenti rappresentazioni, ragion per cui il valutare estetico dipende proprio dal come di queste modalità manifestative: «Il piacere estetico è con ciò un “prendere posizione”, un valutare attuale del rappresentato in quanto tale nel come (im Wie) del suo essere-rappresentato (Vorgestelltheit)».54 Poiché interessata non solo al contenuto manifestato, ma anche al come della sua manifestazione, la valutazione estetica è anche chiamata valutazione manifestativa ((Erscheinungswertung), laddove il semplice Schönwerten è invece solo una valutazione del contenuto (Inhaltswertung),55 come mostrato in precedenza. Già nelle Vorlesungen 1908/09 Husserl aveva posto l’accento sulla specificità dell’esperienza estetica, «disgiunta» dalla realtà, o meglio disinteressata all’esistenza reale in senso comune, sospesa in una dimensione che confina con l’irrealtà. Ciò è particolarmente evidente nelle arti figurative: ad esempio, osservando valutativamente un affresco, abbiamo a che fare con immagini (Bilder) che in quanto tali non sono reali in senso stretto come il muro da cui emergono o i colori stesi sull’intonaco. Esse si impongono all’attenzione in se stesse, si «librano» di fronte a noi come semplici manifestazioni, in modo quasi irreale; ciò che conta, dunque, non è la loro esistenza o meno, ma il loro valore estetico. Il valore non sta nell’oggetto reale dotato di certe determinazioni cosali, bensì nella sua manifestazione estetica, che in quanto tale si innalza al di sopra del reale: «il bello (das Schöne) non è la cosa appesa al muro, il bello non è la cosa che possiede valore di mercato, né la cosa che è rappresentata attraverso l’immagine (come la persona raffigurata nel ritratto e ritenuta reale), bensì l’immagine stessa: la manifestazione».56 Il valore estetico costituisce l’esempio paradigmatico di un valore-bello, di uno Schönwert inteso in generale come qualità assiologica positiva che inerisce ad un oggetto, a prescindere dal fatto che questo esista o meno.
Accanto al valutare-come-bello sussiste un «valutare-come-buono» (Gutwerten) che, invece, considera proprio l’esistenza del qualcosa di valore, in base al principio, enunciato da Husserl nelle Vorlesungen 1914, secondo il quale se un qualcosa è valutato come bello, se è un valore di bellezza in senso lato, allora la sua esistenza è eo ipso anche un bene (Gutwert): «Il fatto che ciò che è in sé bello, che ciò che già piace secondo la sua manifestazione, sia reale […], è giusto, è bene».57 Che ciò che ha valore positivo in senso lato esista, che esista ciò che è stato valutato come un qualcosa di bello, tutto ciò è un bene: si può quindi dire che il Gutwert è, in certo qual modo, il correlato reale dello Schönwert, in quanto ne costituisce la realizzazione, la concretizzazione. Il valutare che è interessato all’esistenza del valutato è pertanto fondamentale, dal momento che attraverso di esso emergono quei valori reali che, in quanto tali, possono non solo essere semplicemente apprezzati — come nel constatare, ad esempio, che è un bene che esista qualcosa di bello come il coraggio — ma anche posti come fini dell’agire — come nel sostenere, proseguendo l’esempio, che bisogna essere coraggiosi: il Gutwerten, in altri termini, rappresenta la conditio sine qua non del praktischer Wert, di quel valore che può essere scelto dal volere come fine dell’azione ragionevole. In questo modo appare ancor più chiaro il significato del principio secondo cui il volere si regola sul valutare. In quanto capace di considerare la realtà degli oggetti di valore, il valutare prospetta quelle possibilità che possono effettivamente sussistere, ovvero che possono essere poste come fini pratici da un volere che si indirizzi ad esse: la volontà è allora in quest’ottica strettamente legata alla valutazione «esistenziale»,58 senza la quale essa sarebbe in certo modo «cieca», vale a dire priva della possibilità di dedicarsi ad un qualche obiettivo pratico. Il valore pratico, prospettato come tale in virtù di un Gutwerten, costituisce proprio l’obiettivo del volere, che, in quanto votato all’agire e al fare, si caratterizza intenzionalmente per essere una posizione realizzante (realisierende Setzung):59 la volontà tende dunque alla realizzazione del voluto, laddove questo, in quanto valore pratico, viene inteso come un qualcosa che deve essere compiuto. Il praktischer Wert, come oggetto del volere, si connota pertanto come un qualcosa di dovuto (Gesolltes), o meglio che-deve-essere (Seinsollendes): in tal modo risulta chiaro il legame che stringe il volere da una parte al valutare, dall’altra al dover essere.60
Questi dati fenomenologici sono di estrema importanza, poiché mostrano come i valori pratici (nei quali rientrano ovviamente anche quelli strettamente morali) emergano in quanto oggetti degli atti di volontà solo se essi sono stati mostrati dal Gutwerten come concrete possibilità pratiche, come fini possibili dell’agire, come valori «esistenziali»: in altri termini, solo in quanto le sfere d’azione in cui ci si imbatte non sono assiologicamente neutre, bensì determinate, ovvero solo in quanto si danno beni (Gutwerte) nei contesti pratici in cui ci si viene a trovare, è possibile che questi beni diventino oggetti del volere, praktische Werte. Il darsi di un campo o sfera pratica in cui siano presenti valori esistenziali o, come anche li chiama Husserl, «valori d’essere» (Seinswerte), è uno dei punti fermi della riflessione etica husserliana, affermato a più riprese non solo nelle lezioni del 1914, ma già prima nelle Vorlesungen über Grundprobleme der Ethik und Wertlehre 1911, nelle quali è evidenziata la peculiare costituzione del valore pratico: «Il valore pratico dipende dal valore d’essere, dal semplice bene (Gutwert) che giace di fronte al campo della volontà».61 Questa constatazione fenomenologica richiama evidentemente quel principio fondamentale, espresso nelle Vorlesungen del 1914, secondo il quale «la perfetta correttezza del volere è un’idea che si edifica sull’idea di sfera pratica e sull’idea dell’optimum di questa stessa sfera».62 Husserl sembra dunque voler dire che la volontà può essere buona solo se si indirizza ad un bene d’essere che viene riconosciuto primariamente in una valutazione esistenziale come possibilità concreta di un determinato campo pratico. A partire dal carattere fruitivo della coscienza emotiva, dunque, si è potuto stabilire il modo in cui i valori possono divenire coscienti nelle varie forme del valutare, e in particolare il processo fenomenologico lungo il quale essi possono essere assunti dal volere come fini pratici dell’agire.
8. La possibilità di un sentire «razionale»
La ricostruzione delle analisi fenomenologiche husserliane in campo pratico-emotivo ha messo in evidenza alcune delle specifiche strutture intenzionali nelle quali si articola il Gemüt. Ciò è quanto dire che si è cercato, seguendo Husserl, di fare luce sulla peculiare legalità a priori che regge le correlazioni della dimensione affettiva, nella persuasione che anche questa possegga qualcosa come un proprio «ordine», una propria «logica», una propria configurazione di senso. In tal modo siamo ricondotti alla questione iniziale di una «ragione con differenti regioni», estesa oltre i limiti del semplice intelletto e comprendente anche il Gemüt: la descrizione di alcune delle strutture a priori della sfera emotiva getta le basi per la fondazione di una «ragione pratico-affettiva», o quanto meno prospetta la possibilità concreta di una «emotività razionale». È Husserl stesso a parlare in questo senso di un sentire razionale: «Chi agisce correttamente fa ciò che è giusto, fa il bene; il bene è perciò un bene pratico. Ma prima esso deve valere come buono, come valore, e ciò avviene in un sentire “razionale”».63 In questo passo alquanto significativo emerge non solo la «genesi» del bene pratico, che, come mostrato nel precedente paragrafo, può essere posto come tale solo se già vige anteriormente come valore, come Gutwert, in un atto di sentimento: la cosa principale, nel presente contesto, è che tale sentire non è qualcosa di casuale e «disordinato», ma possiede una sua razionalità, una sua sensatezza che in quanto tale può essere predelineata a priori. L’attribuzione di una certa «razionalità» al sentire, dunque al Gemüt, è possibile poiché il carattere peculiare della razionalità non sta, ancora una volta, nel mero intelletto o raziocinio, bensì in una essenziale conformità alla legge (Gesetzmäßigkeit). Anche la coscienza emotiva è sottoposta, come del resto il cogito dossico, a leggi specifiche, come quella che Husserl enuncia nelle lezioni del 1914, secondo la quale l’eventuale esistenza di un valore-bello (Schönwert), ovvero il darsi di un bene effettivo (Gutwert), comporta un conseguente rallegrarsi per esso64 (si ricordi a tal riguardo l’esempio del coraggio); questa che secondo Husserl è addirittura una«ovvietà del sentire» (Gefühlsselbstverständlichkeit) trova fondamento nel carattere essenzialmente fruitivo della coscienza emotiva, in virtù del quale ogni costituzione del valore comporta una stimolazione affettiva, in una parola un «piacere» (non necessariamente ed esclusivamente sensibile). Ma se il valore si dà in una coscienza senziente di questo tipo, al punto che non vi è datità assiologica se non in un’intenzionalità fruitiva, allora si può dire che non vi è costituzione di valore senza una gioia corrispondente, come sostiene Husserl in un piccolo testo del 1923: «in ogni caso il valore per me non sarebbe valore, se io non mi rallegrassi nella sua apprensione, e senza gioia (Freude) il mondo sarebbe privo di valore (wertlos). La felicità (Glück) appartiene dunque al valore».65 Valore e gioia sono quindi correlati attraverso una legge a priori in virtù della quale la fruizione emotiva delle qualità assiologiche delle cose comporta un corrispondente rallegrarsi per esse da parte del soggetto: tale gioia costituisce la condizione di possibilità della felicità, cioè di una vita interamente felice.
Questa «scoperta» di un apriori emozionale, grazie al quale Husserl rivaluta la sfera sensibile-affettiva — «sottovalutata» da tuttauna tradizione di pensiero risalente agli albori della speculazione filosofica — come una sfera dotata di una sua specifica sensatezza, rappresenta a nostro avviso uno degli elementi di maggior fecondità della fenomenologia husserliana. In virtù di essa, infatti, il piacere, la gioia, la felicità, ovvero il dispiacere, la tristezza, l’infelicità, non debbono essere considerati come fenomeni meramente sensibili ed empirici, riconducibili in ultima analisi all’amor proprio dell’io, bensì come fenomeni intenzionali a tutti gli effetti, dotati di una propria legalità a priori. La valutazione di un qualcosa come buono e la sua scelta come bene pratico da realizzare, dunque gli atti del valutare e del volere, implicano per principio un piacere, una gioia concomitante: in quest’ottica, se il fine dell’etica è una vita interamente buona, non è meno vero che questa bontà è tale solo se si accompagna ad una corrispondente felicità: «Perché l’uomo deve essere felice (zufrieden)? Egli deve poter essere felice per potersi porre l’obiettivo non solo di essere buono, ma di diventare sempre migliore (besser und immer besser)».66 Da ciò si evince che il sussistere di un apriori emozionale comporta una vita pratica ricca di contenuti affettivi, nella quale la gioia e la continua realizzazione dei beni procedono di pari passo: questa impostazione va pertanto oltre qualunque relativismo, poiché mostra come la sfera emotiva sia retta da leggi ideali, e al contempo oltre il rigorismo di un’etica del dovere di ispirazione kantiana, dal momento che in essa non si dà una vita buona che non sia anche vita felice. La «rivalutazione» della coscienza emotiva, la persuasione che essa possegga un suo ordine intrinseco, una sua struttura di senso, sono elementi tipici della scuola fenomenologica nel suo complesso, e in particolare, ovviamente, del pensiero di uno Scheler. È infatti Scheler, come è noto, a portare alle sue più rigorose conseguenze l’idea che vi sia un apriori emozionale analogo a quello logico ma del tutto autonomo rispetto a questo; è Scheler, in altri termini, a fondare un’etica materiale dei valori basata in un’ultima analisi sul fatto che si dà una specifica esperienza assiologica, ovvero un’intuizione sentimentale pura del valore. A tal riguardo sarebbe assai interessanteuno studio approfondito che mettesse a confronto l’impostazione scheleriana e quella husserliana. Ciò che può essere posto in evidenza fin d’ora è che laddove Scheler parla di un’emotività autonoma, che non necessita di alcuna componente logico-rappresentativa, Husserl è invece maggiormente interessato a mostrare i legami che stringono il Gemüt al Verstand, nel quadro di quella che è stata definita come una «ragione plurale». Questo approccio husserliano si presenta come particolarmente fecondo, poiché in virtù di esso si può dar conto della complessità della vita di coscienza, vale a dire degli intrecci intenzionali che costituiscono il suo ordito. Sembra infatti più plausibile l’idea che la coscienza non abbia una composizione per così dire a «compartimenti stagni», ma sia piuttosto modulata in modo tale che le sue componenti fondamentali formino un complesso intreccio intenzionale. Ciò emerge in maniera evidente nel caso degli atti emotivi: tutte le analisi condotte in precedenza non stavano ad indicare altro se non l’impossibilità di una intuizione sentimentale pura, cioè priva di elementi logico-rappresentativi. È pur vero che l’intreccio si risolveva in una centralità degli atti oggettivanti, vale a dire in una supremazia della coscienza logico-teoretica: tuttavia, mentre nelle Ricerche logiche tale supremazia era schiacciante, al punto che l’intenzionalità emotiva non sembrava avere una propria consistenza, nelle Idee la caratterizzazione dell’intenzionalità come posizionalità dava nuovo vigore all’intentio del Gemüt, mantenendo l’universalità e l’onniefficacia dell’elemento logico solo come potenzialità immanente alla vita di coscienza. Nel corso delle sue analisi, in altri termini, Husserl sembra abbandonare l’impostazione iniziale, che prevedeva una sorta di semplice «aggiungersi» della componente affettiva a quella specificamente oggettivante, la quale costituiva l’intenzione primaria e originaria, per privilegiare un modello descrittivo più articolato, nel quale il cogito pratico-emotivo, pur non essendo di certo privo di elementi logici o dossici, possiede tuttavia una peculiare modalità intenzionale. Nelle modifiche cui è sottoposta l’intenzionalità nelle Idee si palesa pertanto una maggiore attenzione di Husserl verso la vita della coscienza emotiva, la quale non può essere considerata come una sorta di «appendice» del cogito dossico, bensì deve essere riconosciuta come quella verace dimensione intenzionale che caratterizza la nostra esistenza quotidiana. Rimane da chiedersi se non sia legittima l’ipotesi secondo cui l’ulteriore approfondimento del tema dell’intenzionalità che Husserl conduce soprattutto negli anni Venti, ovvero l’analisi dell’intenzionalità «passiva», possa essere in qualche modo connesso con le ricerche relative all’intentio emotiva: in altre parole, si tratterebbe di capire se lo «scavo» nella coscienza logica che Husserl compie nel suo periodo friburghese sia motivato anche, fra l’altro, dall’interesse per la sfera affettiva, ovvero dalla constatazione di un legame più «originario» di sentire e pensare. Ma questa sorta di «genealogia della ragione» può essere il tema per un’altra ricerca ad ampio raggio nella fenomenologia husserliana.
Per quel che concerne invece le considerazioni fatte finora, è appropriato sottolineare come le riflessioni fenomenologiche in ambito pratico-emotivo possano rappresentare un contributo importante, al di là del fatto che esse sono radicate nell’ordito complessivo del pensiero di Husserl, dunque al di là dei «tecnicismi» che sembrano impedirne una comprensione immediata ed un’ampia diffusione: esse infatti costituiscono un paradigma «forte», dotato del più grande rigore, ma al contempo ricco di spunti e suscettibile di nuove aperture tematiche, nelle quali possano essere rimessi in gioco i risultati raggiunti. L’infinita ricchezza di motivi e la costitutiva apertura di fondo sono infatti, ancora oggi, elementi di grande fecondità della fenomenologia husserliana.
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E. Husserl, Ricerche logiche, vol. I, Est, Milano 2001, p. 138. ↩︎
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E. Husserl, L’idea della fenomenologia, Bruno Mondatori, Milano 1995, p. 99. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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«[…] das Wort Vernunft hier nicht im Sinne eines menschlichen Seelenvermögens, also psychologisch im gewönlichen Sinn verstanden ist, sondern einen Teil für die wesensmäßig geschlossene Klasse von Akten und ihren zugehörigen Aktkorrelaten befaßt, die unter Ideen der Rechtmäßigkeit und Unrechtmäßigkeit, korrelativ der Wahrheit und Falschheit, des Bestehens und Nichtbestehens usw. stehen», Hua XXVIII, p. 68, trad. it. parz. (limit. alle Vorlesungen 1914) a cura di P. Basso e P. Spinicci, Lineamenti di etica formale. Lezioni sull’etica e la teoria dei valori del 1914, Le Lettere, Firenze 2002, p. 85. ↩︎
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«Die umfassendste Idee von Vernunft», Hua XXVIII, p. 290. ↩︎
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Ibid., p. 183. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Per quel che riguarda l’assiologia e la pratica formali, Husserl se ne occupa nel già citato corso universitario del 1914, Vorlesungen über Grundfragen der Ethik und Wertlehre 1914 (a tal proposito, si vedano l’introduzione di P. Basso e P. Spinicci all’edizione italiana di tali lezioni, Indicazioni per una lettura dei «Lineamenti di etica formale» di Edmund Husserl, in E. Husserl, Lineamenti di etica formale, cit., e il saggio di G. Gigliotti su Materia e forma della legge morale nell’intepretazione husserliana del formalismo di Kant, in Aa. Vv., Fenomenologia della ragion pratica, Bibliopolis, Napoli, di prossima pubblicazione). Per quel che riguarda invece la dottrina materiale dei valori, Husserl non ne sviluppa una in modo organico: ve ne sono degli abbozzi nelle sue lezioni di etica e in alcuni manoscritti del Nachlaß (sulla ricostruzione di una tale dottrina materiale dei valori si concentra il volume ormai classico di A. Roth, Edmund Husserls ethische Untersuchungen, Martinus Nijoff, Den Haag 1960, alle pagg. 111-123). ↩︎
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La distinzione fra atti oggettivanti e non-oggettivanti, anche se analoga a quella fra atti intellettivi e atti emotivi, non coincide però perfettamente con essa: ai tempi delle Ricerche logiche, infatti, Husserl ritiene che alcuni vissuti intellettivi, come il supporre e il domandare, non rientrino nella classe degli atti oggettivanti (ma questa posizione cambierà poi nelle Idee). ↩︎
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E. Husserl, Lineamenti, cit., p. 76. ↩︎
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Ibid., p. 85. ↩︎
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«[…] jeder Akt etweder eine Vorstellung ist oder Vorstellungen zur Grundlage hat», Hua XIX, 1, p. 345, trad. it. a cura di G. Piana, Quinta ricerca logica, in E. Husserl Ricerche logiche, vol. II, Il Saggiatore, Milano 1982, p. 136. Husserl ammette di aver tratto questo principio da Brentano, ma lo approfondisce e lo modifica notevolmente attraverso le nozioni di rappresentanza e rappresentazione nominale, che in questa sede, per ovvie ragioni di spazio, non possono essere prese in considerazione. ↩︎
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E. Husserl, Ricerche logiche, vol. II, cit., p. 201. ↩︎
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Ibid., p. 242. ↩︎
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Ibid., p. 280. ↩︎
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Ibid., p. 279. ↩︎
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Anche U. Melle mette l’accento su questo aspetto nel suo articolo Objektivierende und nicht-objektivierende Akte (in S. Ijsseling, hrsg., Husserl-Ausgabe und Husserl-Forschung, Kluwer Academic Publishers, Dordrecht/Boston/London 1990, pp. 35-49): “Negli atti non-oggettivanti non si costituisce alcun riferimento oggettuale al di fuori di quello dell’atto oggettivante fondante” (ivi, p. 40) . ↩︎
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E. Husserl, Ricerche logiche, vol. II, cit., pp. 182-183. A tal riguardo si veda anche R. Donnici, Intenzioni d’amore, di scienza e d’anarchia. L’idea husserliana di filosofia e le sue implicazioni etico-politiche, Bibliopolis, Napoli 1996, pp. 54-63. ↩︎
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E. Husserl, Ricerche logiche, vol. II, cit., p. 179. ↩︎
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Questo problema emerge chiaramente in più punti delle Vorlesungen 1908/09: come esempio pregnante si vedano le pagine 333-334 di Hua XXVIII. ↩︎
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A tal riguardo sono interessanti le pagine 335-336 di Hua XXVIII, nelle quali Husserl indugia sulla differenza fra atto di giudizio e atto di gioia, mettendo in risalto come quest’ultimo si costituisca di due parti principali, la gioia come carattere d’atto peculiare, e «un “di-cui” (Worauf) del riferimento» (ivi, p. 335), in virtù del quale essa è gioia «di qualcosa», laddove tale qualcosa è fornito da una rappresentazione fondante. Ciò non vale ovviamente nel caso del giudizio né in ogni altro tipo di oggettivazione. ↩︎
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«Adererseits kann man doch fragen, ob dann nicht alle Akte als solche, somit auch Gemütsakte, sofern sie ihre Intentionalität, ihre Eigenart in der Beziehung auf Gegenständlichkeit haben, in gewisser Weise Meinung und eventuell Erscheinung enthalten, und zwar nicht bloß durch die fundierenden Akte, sondern als Gemütsakte […]. Irgendwie muß die Frage sich bejahen lassen und muß die bejahende Antwort sich Verstehen lassen. In gewisser Weise, muß man doch sicherlich sagen, erscheint auch in den Wertakten etwas, es erscheinen darin eben Wertobjekte, und zwar nicht bloß die Objekte, die Wert haben, sondern die Werte als solche», Ibid., p. 322-323 . ↩︎
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Ciò si evince da alcuni esempi husserliani simili a questo del piacere: «Se noi compiamo un atto di piacere (Gefallen), allora non si manifesta solo l’oggetto che piace (das Gefallende), che apparirebbe anche se non ci fosse alcun atto di piacere, ma semplicemente il medesimo atto fondante dell’oggettivazione; è invece presente ciò che piace in quanto tale (das Gefallende als solches) o piuttosto in quanto piacevole (als Gefälliges)», Ibid., p. 323. La piacevolezza, in quanto valore inerente all’oggetto piacevole, è dunque il correlato oggettuale del Gefallen: discorsi analoghi potrebbero essere condotti per tutti gli altri tipi di vissuti affettivi. . ↩︎
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Ibid., p. 340. ↩︎
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«I valori in quanto oggetti sono oggetti di certi atti oggettivanti, si costituiscono in queste oggettivazioni fondate sugli atti valutanti e non negli atti valutanti stessi», Ibid. . ↩︎
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Su questo punto Husserl è esplicito: «Manifestamente, la verità è il correlato del perfetto carattere razionale della doxa originaria, della certezza della credenza», Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, vol. I, Einaudi, Torino 2002, pp. 346-347. ↩︎
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«Nell’atto del valutare, in quello del gioire, nell’amare, nell’agire, prestiamo però attenzione, rispettivamente, al valore, all’oggetto che ci rende felici, all’oggetto amato, all’azione, senza afferrare nulla di ciò», Ibid., p. 87. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Ibid., p. 294. ↩︎
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Ibid., p. 295. ↩︎
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Ibid., p. 293 (corsivo mio). ↩︎
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E. Husserl, Idee, vol. II, Einaudi, Torino 2002, p. 19. ↩︎
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«Nel giudizio estetico, nella valutazione estetica, non ci si rivolge all’oggetto semplicemente per fruirne; esso è invece oggetto di un particolare senso dossotetico: l’intuito si dà col carattere qualitativo (costitutivo del suo esser-così) della gradevolezza estetica», Ibid., p. 14. ↩︎
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Ibid., p. 15 (corsivo mio). ↩︎
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Ibid. (corsivo mio). ↩︎
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E. Husserl, Lineamenti, cit., pp. 104-105. ↩︎
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E. Husserl, Idee, vol. II, cit., p. 191. ↩︎
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E. Husserl, Idee, vol. I, cit., p. 224. ↩︎
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Ibid., p. 225. ↩︎
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Ibid., p. 238. ↩︎
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Ibid., p. 243. ↩︎
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Ibid., p. 88. ↩︎
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Hua XXVIII, p. 340. ↩︎
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Soprattutto nei paragrafi 4 e 11, Ibid., pp. 255-260 e 310-331. ↩︎
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«Der Wert ist, was er ist, nur als Wert eines Objekts», Ibid., p. 359. ↩︎
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E. Husserl, Lineamenti, cit., p. 89. ↩︎
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Hua XXVIII, p. 255. ↩︎
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«I predicati di valore ineriscono ad esso [l’oggetto] veramente, sarebbe sbagliato negarglieli. Ma essi appartengono per così dire ad un’altra dimensione», Ibid., p. 262. ↩︎
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«Axiologische Prädikate setzen logische voraus», Ibid., p. 256. ↩︎
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I predicati assiologici «non appartengono alla “natura” propria dell’oggetto. Ovvero: se noi ci raffiguriamo la rimozione dei predicati estetici e degli altri predicati di valore, allora l’oggetto continua ad avere la sua propria “natura”, è e rimane un oggetto pieno e intero», Ibid., p. 262. ↩︎
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Ibid., p. 396. ↩︎
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E. Husserl, Lineamenti, cit., p. 142. ↩︎
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Hua XXVIII, p. 154. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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La Inhaltswertung «non riguarda le manifestazioni, bensì il “contenuto” dell’oggetto, la sua materia (Gehalt) obiettiva», Ibid. ↩︎
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Ibid., p. 311. ↩︎
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Ibid., p. 154. ↩︎
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«Alla base del volere sta un ritenere-valido (Werthalten): se io mi immagino in un volere, allora il voluto è presente come un ritenuto-valido (Wertgehaltenes) e ad esso si indirizza l’“intenzione volitiva”», Ibid., p. 231. Se il volere sia un atto che incorpori in sé in qualche modo un valutare, oppure se si tratti di due atti distinti, come sembra emergere in più punti, è un problema fenomenologico di estrema complessità cui Husserl non dà una risposta univoca e definitva. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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A proposito del legame fra volere e dover essere Husserl sostiene: «Ogni volere è un “porre”, e precisamente il porre di un dovere; esso è in se stesso coscienza di un dovere (Bewußtsein eines Sollens)», Ibid., ovvero, riprendendo quanto già emerso, coscienza di un dover-realizzare. . ↩︎
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«Der praktische Wert hängt vom Seinswert, dem bloßen Gutwert ab, der vor dem Willensgebiet liegt», Ibid., p. 223. ↩︎
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E. Husserl, Lineamenti, cit., p. 152. ↩︎
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«Wer recht handelt, tut das Richtige, tut das Gute; das Gute ist insofern ein praktisch Gutes. Vorher muß es aber al gut, als Wert gelten, und das tut es im “vernünftigen” Fühlen», Hua XVIII, p. 414. ↩︎
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E. Husserl, Lineamenti, cit., pp. 89-90. ↩︎
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E. Husser, Wert des Lebens. Wert der Welt. Sittlichkeit (Tugend) und Glückseligkeit «Februar 1923», pp. 231-232 (in «Husserl-Studies», 13 (1997), pp. 201-235). ↩︎
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Ibid., p. 226. ↩︎