Roberto Giovanni Timossi, Nel segno del nulla. Critica dell’ateismo moderno, Lindau, Torino 2015.
Uno studio storico sul rapporto tra nichilismo e religione è particolarmente benvenuto in un momento, come quello attuale, in cui il religioso è tornato al centro di numerosi dibattiti e il nichilismo è oggetto di una rinnovata attenzione, come ben testimonia il numero monografico del Bollettino filosofico del 2015. Timossi ha inoltre già mostrato in numerose occasioni una grande abilità nel gestire una cospicua mole di dati storico-teoretici al fine di offrire delle sintesi efficaci, storicamente informate e teoreticamente convincenti. Fin dalla prefazione vengono anticipati alcuni temi rilevanti quali: l’importanza di uno studio sull’ateismo, in quanto esso appare caratteristica unificante di diverse concezioni filosofiche (da quelle analitiche a quelle continentali) contrapposte per molti versi, ma accomunate proprio dal rifiuto di Dio; l’opportunità di indagare il nesso tra ateismo, pluralismo e relativismo; il ruolo che la scienza moderna svolge all’interno dell’ateismo. Più discutibili risultano i presupposti secondo cui l’ateismo sarebbe un prodotto della secolarizzazione e la sua matrice, prevalentemente pratica, ostacolerebbe un’autentica vita religiosa. Nel corso della trattazione tali presupposti vengono comunque approfonditi, mostrandone la cogenza. A questo proposito, Timossi si inserisce nel dibattito attuale, prendendo una posizione netta, fondata sulla genesi storica dell’ateismo moderno e contemporaneo. Proprio sul terreno storico-critico, l’autore offre il meglio di sé, non solo in quanto fa dell’ateismo una categoria storiografica capace di distinguere due orientamenti di pensiero in cui includere le più disparate correnti della filosofia contemporanea, ma anche perché offre «una classificazione quantomeno orientativa, ossia da assumere quale strumento ipotetico di analisi di un fenomeno assai complesso e in continua evoluzione» (p. 108). Tale tassonomia individua quattro tipologie di ateismo teoretico: quello antropologico, quello socio-politico, quello scientista e quello antiteodicetico. A ciascuno di essi è dedicato un capitolo del libro, rispettivamente dal terzo al sesto. Questa classificazione si pone in continuità con gli studi di Del Noce e Fabro e tiene conto dei suggerimenti di Küng, Abbagnano, Morra, Mondin, Sciacca e Tripodi, aggiornandoli alla situazione contemporanea.
Prima di presentare nei dettagli la sua proposta, Timossi reputa importante affrontare, nei primi due capitoli, alcune questioni preliminari con l’intento di definire la nozione di ateismo.
Nel primo capitolo (La sfida dello «stolto») l’ateo viene indicato come la prova vivente che la realtà di Dio, a cominciare dalla sua esistenza, non risulta scontata e che pertanto, pur nel rispetto delle esperienze soggettive di natura mistica, è necessario fornire dei «punti di confronto intersoggettivi» (p. 12) al non credente. Timossi si riferisce a questi ultimi, considerandoli dimostrazioni adeguate su cui fondare le credenze religiose, il che tradisce un taglio eccessivamente apologetico, che comunque non inficia la trattazione successiva. Riconosciuta la dignità della posizione atea e la necessità di accettare la sfida da essa posta, si tratta di distinguere l’ateismo contemporaneo dai suoi precedenti storici. Timossi propone quali caratteristiche distintive dell’ateismo attuale il cercare di giustificare i suoi fondamenti a partire dalla scienza e la capillarità con cui è diffuso nel mondo globalizzato, tanto da avere tra gli alleati anche dei teologi. Numerose distinzioni si rivelano indispensabili a circoscrivere la nozione di ateismo: vengono discusse quelle tra ateismo, empietà, scetticismo, agnosticismo, materialismo, deismo e panteismo (sia esso spiritualistico-emanazionistico, sostanzialistico-spinoziano, immanentistico-naturalistico o panenteistico-del processo). Un excursus storico a partire dall’Illuminismo fino ai suoi esiti rivoluzionari a livello politico nei regimi comunisti, porta a concludere che «dal punto di vista filosofico l’ateo moderno è pertanto colui che nega l’esistenza di un Ente trascendente quale origine e fondamento di tutto quanto esiste, che crede nella sola esistenza del nostro mondo, dove gli uomini sono esseri finiti come tutti gli altri viventi, ma che possono gestire in assoluta autonomia buona parte del loro destino» (51-2).
Nel secondo capitolo (Fede e ateismo) Timossi si confronta con le principali interpretazioni dell’ateismo offerte, in tempi recenti, dalla neuroteologia e, nel corso del XX secolo, da autori quali Maritain, Fabro, Del Noce, Gilson, Tresmontant, Vergote, Guitton. Tutti costoro hanno raccolto la sfida dell’ateismo, analizzandola da diverse prospettive: quella speculativa, quella etico-sociale e quella psicologica. Oltre alla filosofia, anche la teologia, nello specifico quella cristiana, ha dovuto (e deve) fare i conti con l’ateismo, considerandolo, in maniera ambigua, ora come un’occasione di purificazione della fede (Moltmann, Barth, Bonhoeffer), ora come un elemento perturbante. Timossi argomenta come alla radice di tale divergenza stia il prendere sul serio le radici cristiane dell’ateismo moderno (Prini e Guardini). Sempre a tale proposito viene tratteggiato l’approccio all’ateismo proprio del magistero cattolico a partire dal Concilio Ecumenico Vaticano I e fino all’enciclica Fides et Ratio. Un altro dibattito rilevante e preliminare riguarda la possibilità o meno di considerare quella atea una presa di posizione originaria non intenzionale (il primo Flew — il cui itinerario intellettuale viene tratteggiato per intero —, Tillich e Daniélou) il che decide se attenga al teista o all’ateista l’onus probandi circa l’esistenza di Dio.
Al termine dei primi due capitoli, l’autore propone la sua tassonomia quadripartita, sulla cui base elabora la successiva parte della sua opera.
Il terzo capitolo (L’uomo contro Dio) prende in esame l’ateismo antropologico, cioè quella forma di ateismo che interpreta la natura umana e l’esistenza dei singoli come incompatibili o addirittura contrari all’atteggiamento religioso. Questo ateismo, sostiene Timossi, ebbe origine con un rovesciamento di prospettiva originatosi nell’umanesimo rinascimentale. Telesio e Pico della Mirandola sarebbero i primi autori a contrapporre l’esistenza di Dio alla libertà, alla responsabilità umana e allo stesso senso dell’esistere dei singoli. Sulla scia di Maritain e Taylor, l’autore considera tale posizione incoraggiata dalla riforma protestante e rafforzata dall’immanentismo soggettivistico avviato dal cartesianesimo. Tappe di questo cammino sarebbero i libertini seicenteschi, i fautori delle etiche razionalistiche e convenzionalistiche e i sostenitori di una visione materialistica e meccanicistica dell’universo. La prima manifestazione di ateismo antropologico viene attribuita al barone Paul-Henry Thiry d’Holbach, mentre il fondatore moderno di esso sarebbe Ludwig Feuerbach, sostenuto dai tentativi teologici di demitizzazione (Strauss). Gli epigoni nichilisti di tale forma di ateismo vengono rintracciati, da un lato, in Nietzsche e in chi proclama, a vario titolo, la morte di Dio e, dall’altro, in quei protagonisti dell’esistenzialismo che, come Sartre (e, stando a lui, Heidegger) e Merleau-Ponty, sostennero la non esistenza di Dio. Tutti gli ateismi antropologici fanno «della negazione del divino la premessa o precondizione dell’affermazione dell’essere umano, fino al punto di equiparare o innalzare l’uomo stesso alla funzione o all’essenza di Dio» (p. 166) con l’esito di fare dell’umanità (o del singolo) un surrogato di Dio o, per converso, di far sprofondare l’essere umano nell’abisso del nulla.
L’oppio dei popoli è il titolo del quarto capitolo, dove l’ateismo preso in considerazione è quello socio-politico, stando al quale «l’autodeterminazione politica del soggetto umano nella società civile, oltre a ricevere grave nocumento dalla religione, sarebbe resa addirittura impossibile dal teismo per il fatto che essa pone sopra le coscienze individuali e collettive un’autorità superiore e trascendente: quella di Dio» (p. 181-2). La paternità dell’ateismo socio-politico è attribuita al presbitero Jean Meslier (1664-1729). Tra gli autori presi in esame con la consueta dovizia di dettagli e di citazioni che caratterizzano i testi di Timossi, vanno annoverati i fondatori dell’anarchismo Proudhon, Bakunin e Stirner e gli esponenti del socialismo scientifico, che consideravano la religione una sovrastruttura sulla scorta del materialismo assoluto e storico di Feuerbach. Engels e Marx rappresentano l’apice della teorizzazione di un ateismo socio-politico capace di convincere intellettuali e persone comuni che la religione «rappresenta a un tempo uno dei tanti mezzi coercitivi del predominio di classe e una manifestazione dell’anelito di liberazione da parte degli oppressi sotto le mentite spoglie dell’aspirazione a una salvezza eterna» (p. 211). Anche in questo caso gli epigoni sono duplici. Per un verso, vi sono quelli politico-pratici rappresentati dalla rivoluzione socialista e dall’ateismo militante di matrice leninista; per l’altro, vi sono quelli più filosofici rappresentati dal pensiero di Bloch e dalla Scuola di Francoforte, fino a Lyotard.
Il quinto capitolo, Il destino di un’illusione, concerne l’ateismo scientifico — o scientista — il quale «si fonda su un’estensione del metodo e delle conoscenze delle scienze naturali alle questioni di Dio e del valore della religione» (p. 235). La contrapposizione concerne l’interpretazione teologico-finalistica dell’universo, e quella naturalistic e anti-finalistica sorta in seno al rinascimento è considerata oggi più vivida che mai. L’originalità di Timossi, in questo capitolo, consiste nell’interesse rivolto agli scritti degli scienziati, oltre che nell’esposizione critica del positivismo di Comte e di Le Dantec, del neo-positivismo antimetafisico con riferimenti a Wittgenstein e Russell, della psicanalisi freudiana e del naturalismo nelle sue varie forme (ontologico, epistemologico, metodologico). Una volta individuate le due maggiori fonti del teismo scientifico contemporaneo nel filone fisico-cosmologico e in quello biologico, l’autore prende in considerazione le affermazioni di numerosi premi Nobel, per poi soffermarsi su Hawking e mostrare come questo autore non abbia sempre chiara la distinzione tra scienza e speculazione filosofica. Tra gli autori più noti vengono considerati Dennett e Dawkins.
Nel capitolo seguente, dal titolo Lo scandalo del male, viene proposta una sintesi della storia della teodicea, da Agostino all’Olocausto, indugiando sulla figura di Darwin. L’autore nota come la presenza del male possa essere considerata un problema solo dall’interno della posizione teista, poiché in un ordine naturale dominato dal caso o dalla necessità dovrebbe suscitare solo indifferenza. Tra i molti autori considerati, Dostoevskij, Onfray, Harris e Hitchens. Dopo aver osservato come «l’ateismo contemporaneo antireligioso più in voga è quello militante, che si distingue per la riproposizione di attacchi spesso offensivi nei confronti dei credenti, considerati spesso come affetti da una forma di malattia o aberrazione mentale, e delle religioni quali fomentatrici di divisione, odio e violenza» (p. 344), Timossi presenta il dilemma di Epicuro, le posizioni di alcuni padri della Chiesa, la soluzione leibniziana e il male di vivere in autori quali De Sade, Schopenhauer, Leopardi e Camus.
La breve conclusione presenta alcune caratteristiche dell’ateismo nel suo complesso: esso nasce per lo più come contrapposizione al teismo; predilige una visione monista del mondo, sia essa materialistica o idealistica; intende l’idea di Dio come proiezione o alienazione di aspetti inespressi della natura umana; ha un carattere postulatorio. Prendendo spunto da quest’ultimo aspetto, Timossi presenta alcuni argomenti proposti dagli ateisti, per evidenziare come la logica sottesa ad essi non sia confutatoria, ma postulatoria, cioè ricorra a petizioni di principio, quando non ad argomentazioni strumentali e di comodo.
La chiarezza espositiva propria dell’autore e la leggibilità del libro, arricchito da una bibliografia aggiornata al 2014 e da un utilissimo indice dei nomi, rendono il testo adatto a un vasto pubblico. L’accuratezza delle citazioni, lo sforzo interpretativo e le analisi storiche ne fanno uno strumento di riferimento per gli studiosi specialisti. Timossi non cede mai all’erudizione (tranne, forse, a pagina 202 in una citazione estemporanea tratta dal sapiente greco Cleobulo di Lindo) ed evita di essere prolisso, pur utilizzando molteplici fonti di prima mano che cita per intero con accuratezza. La gradevole veste grafica, eccezion fatta per l’indecisione sulla punteggiatura da mettere prima o dopo gli apici delle note a piè di pagina, e la spaziatura adeguata contribuiscono a ben predisporre il lettore ad una migliore fruizione del testo.