Recensione a Martin Heidegger, Che cos’è la verità?

Martin Heidegger, Che cos’è la verità?, traduzione a cura di Carlo Götz, Marinotti, Milano 2011, 332 pp.

Il volume rende accessibili per la prima volta ai lettori italiani due corsi pronunciati da Martin Heidegger nell’anno di rettorato. Si tratta di documenti molto importanti1 per ricostruire e capire a fondo un momento decisivo della vita del pensatore tedesco. Nell’aprile del 1933 Heidegger è eletto rettore dell’università di Friburgo e poco dopo aderisce al partito nazionalsocialista, legandosi inevitabilmente alle scelte politiche di quest’ultimo nel settore dell’insegnamento. Il 14 aprile dell’anno successivo lascia l’incarico rassegnando le dimissioni. Nemmeno dodici mesi, e un impegno politico che continua a far discutere ancor oggi.

Il testo di Heidegger è un insieme di appunti, annotazioni volanti, fogli dattiloscritti e note degli studenti: un materiale eterogeneo e lacunoso, nel quale però non viene mai meno il rigore metodologico e linguistico. Nel loro insieme i due corsi documentano — secondo Carlo Götz — «un lavoro filosofico che, nel mezzo dello scatenamento delle più aspre potenze planetarie, tentò con mite fermezza di elaborare un’intesa filosofica di ciò che allora si stava generando».2 Sulla base di questi testi — sostiene ancora Götz — «evitando di prestare ascolto alla chiacchiera contemporanea sul presunto ‘nazismo di Heidegger’, è ormai possibile accorgersi del contributo filosofico di un pensatore che, fin dal 1933, e nonostante il tragico abbaglio, si confrontò con le interroganze che si generano nell’epoca della devastazione».3 Giudizio ancor più netto è dato da Hartmut Tietjen, il curatore dell’edizione tedesca, secondo il quale «certamente entrambi i corsi mostrano una contiguità al modo di parlare politico contemporaneo, tuttavia l’abisso tra la posizione di fondo del pensiero di Heidegger e l’ideologia nazista rimane insormontabile».4 Sul piano strettamente filosofico, i corsi testimoniano come nell’anno del rettorato il pensiero di Heidegger abbia attraversato un mutamento radicale. Ci troviamo, dunque, a un crocevia fondamentale in cui scelte decisive sono già compiute pur restando in fieri.

Il primo corso, Die Grundfrage der Philosophie (L’interroganza di fondo della filosofia), rielabora alcuni temi-cardine di Sein und Zeit. L’attenzione al contesto socio-politico è molto forte: «La gioventù accademica sa della nobiltà dell’istante geniturale che ora il popolo tedesco attraversa»5. La “guida” — dice Heidegger — è l’elemento in cui «il popolo crea il suo Stato»6. Il popolo, nello Stato, cresce e diventa nazione. Alla nazione spetta di assumere «il destino del suo popolo» che così ottiene «la propria genitura».7 È necessario «destare e radicare nel cuore e nella volontà del popolo e dei suoi singoli uomini il sapere di questo incarico».8 Ma la “guida” non s’identifica con un fatto storico determinato. Heidegger lo specifica chiaramente: tale sapere «non ci è dato dalla conoscenza di qualche fatto o circostanza della storia contemporanea, come, per esempio, la presa d’atto dell’odierno stato politico del popolo tedesco».9 Solo nell’esaurimento della metafisica, nel procedere verso l’archi-originario inoggettivabile e inappropriabile, solo in ciò si dà il destino di un popolo.

Seguendo la ricostruzione del testo del corso, emergono due aspetti centrali. In primo luogo, lo straordinario lavoro di approfondimento (terminologico e linguistico anzitutto) cui Heidegger sottopone i risultati della sua riflessione precedente. In secondo luogo, le anticipazioni: si colgono infatti molte intuizioni che rinviano al confronto con Nietzsche e ai Beiträge zur Philosophie, l’opera cui Heidegger lavorò nella seconda metà degli anni Trenta e che egli preparò in vista una pubblicazione postuma. La ripetizione del problema del senso dell’essere coincide con l’avvenire ineludibile dell’Europa, ovvero con il fallimento inteso come tramonto, quel tramonto che è inizio, un altro inizio: il ritorno all’origine pura del pensiero. Attraversare il fallimento verso questo nuovo cominciare significa anzitutto vivere «quella grande inquietudine nella quale siamo concretamente e interamente il nostro destino»10 perché «presagiamo noi stessi interrogando il nostro essere».11 Tale interrogare, «il più alto impegno del genio»,12 è la filosofia, «l’interroganza della postura e della fugata integrità del nostro essere».13

L’inizio è diremzione — scrive Heidegger — , l’aprirsi dello spazio in cui si rivela la cosa del pensiero (Sache des Denkens). L’inizio è scisma, decisione scismatica: l’impegno nel cogliere «l’intuizione della stringente necessità del dover-operare».14 La diremzione è uno scisma da Hegel in direzione di Hegel. È scisma autentico, il conflitto originale tra verità e falsità. Conflitto che si spegne nell’identità quieta del sapere assoluto. È un’indicazione storica: «Il popolo tedesco non ha ancora perso la sua metafisica, perché non è capace di perderla. E non è capace di perderla perché non possiede ancora la sua metafisica. Siamo un popolo che deve ancora ottenere la sua metafisica e che la otterrà, ossia siamo un popolo che ha ancora un destino».15

Nella volontà della diremzione s’inserisce il confronto heideggeriano con la storia della metafisica (pp. 27-90) che ricalca da vicino le linee tracciate in Sein und Zeit e Die Grundprobleme der Phänomenologie. Interrogare Hegel vuol dire interrogare la filosofia da Aristotele al cristianesimo fino a Kant. In questa storia il concetto di metafisica ha assunto due determinazioni: a) la matematicità (Descartes, Leibniz, Wolff, Crusius, Baumgarten, Meier); 2) la teologicità. La prima riguarda il predominio del metodo matematico con le sue conseguenze: l’ego in quanto subjectum e consapevolezza, il primato della certezza rispetto alla verità e all’essere. Questo predominio ha prodotto il mancato conseguimento «della genuina indole nativa dell’uomo».16 Il presunto radicalismo del dubbio metodico «non solo non è un concreto inizio della filosofia, ma è soltanto l’inizio di un’ulteriore rovina».17 Descartes ha mancato l’interroganza di fondo della filosofia — la domanda sull’essere. La ricerca del fondamento in un summum ens e l’identificazione di quest’ultimo con Dio è la conseguenza di tale errore. Il sistema hegeliano, dove «l’impostazione di Descartes nel soggetto e l’avvio di Wolff dai concetti fondamentali ontologici si fondono in un sistema determinato essenzialmente in senso teologico-cristiano»,18 ha portato alle estreme conseguenze una simile mancanza.

Il secondo corso, Vom Wesen der Wahrheit (Dello stanziarsi della verità), riprende l’omonimo corso del semestre invernale 1931/32 seppur con molteplici variazioni. Il superamento della metafisica in direzione del “proprio” del pensiero si è mostrato in Eraclito, per il quale il conflitto è padre di tutte le cose. Lo stanziarsi della verità sta appunto nel conflitto tra disascosità (a-letheia) e correttezza. Esso si offre nella tensione tra queste due concezioni. Per Heidegger, risalire all’origine di tale lotta e alle ragioni che hanno condotto al trascendimento della a-letheia in favore della correttezza significa confrontarsi con Platone: non “raccontare” che cosa Platone ha detto a proposito di tale o di tal altra questione, ma dialogare con Platone, e precisamente con il mito della caverna. In Platone — spiega Hartmut Tietjen — «l’idea suprema, l’idea del bene, è certamente impostata come giogo della luce del vedere e del visibile, e con ciò in quanto potenziamento dell’essere e della disascosità; tuttavia, in quanto suprema tempra potenziante, essa resta costitutivamente non interrogata riguardo al suo essere».19 Resta cioè non-interrogato l’essere stesso della verità in quanto a-letheia.

Nell’analisi del testo della Repubblica (VII, 514a-517b), suddiviso in quattro parti corrispondenti a quattro stadi della lotta tra disascosità e correttezza, l’essenziale — scrive Heidegger — «non è costituito dai singoli stadi per se stessi, ma da ciò che giace tra essi, dai passaggi dall’uno all’altro».20 Decisiva in tal senso «è l’intera marcia del generarsi, seguendo la quale il nostro proprio adessere deve mettersi in movimento».21 Così, i primi tre stadi (dalla caverna alla liberazione) mostrano tre gradi diversi di disascosità: quello più alto è rappresentato dalle idee, «il più disascosto che possa darsi all’interno della sfera della verità»,22 il «genuinamente afflagrato» e il «genuinamente essente».23 L’idea è l’integralmente essente, il viatico per l’essere, l’intesa preliminare che determina la comprensione della res.

È inevitabile l’accostamento di quest’analisi del mito della caverna — con tutto il significato politico di cui è carico — alla situazione storica in cui Heidegger pensa e agisce. A un tale accostamento inducono soprattutto le pagine dedicate alla critica di Erwin Guido Kolbenheyer, scrittore aderente al partito nazionalsocialista, molto letto nel Terzo Reich e dal 1933 funzionario culturale dell’Accademia Prussiana delle arti. L’attacco al biologismo di Kolbenheyer — esso non coglie, scrive Heidegger, «che l’uomo, in quanto popolo, è uno stanziarsi geniturale, e che all’essere geniturale appartiene la decisione scismatica per un determinato voler-essere e per un destino»24 — va di pari passo con la critica della psicoanalisi e del marxismo. La cecità di Kolbenheyer sulla determinazione ontologica dell’uomo si manifesta anche in una cecità politica, ossia nel fatto che «la rivoluzione è stata falsificata come mera azienda organizzativa».25 Kolbenheyer è la manifestazione di uno spirito borghese, nient’altro che il «tipico atteggiamento di un borghese reazionario nazionale e popolaresco».26 Il cambiamento vero — in filosofia e in politica — non ci sarà fino a quando «ci si appella a un motto del Führer: finita la rivoluzione, inizia l’evoluzione».27

È molto difficile stabilire se queste affermazioni vadano intese come una reale presa di distanza dal nazismo, e su questo punto il silenzio di Heidegger resta, con tutta la sua inquietante complessità, l’unica vera risposta. Certamente i due corsi del 1933/34 inducono a formulare il problema in senso nuovo: aggiungono degli elementi, ci aiutano a capire meglio il travaglio vissuto dal pensiero heideggeriano. In quei mesi, come scrive Hartmut Tietjen, «l’accentuazione dell’indispensabilità e della stringente necessità di un più originario e più radicale interrogare (l’essere e la sua verità) non poteva più scardinare le sciocche risposte dell’ideologia nazista, diffuse e sostenute con enorme dispendio di mezzi propagandistici».28 Occorreva prendere una strada nuova, ripida e densa di pericoli. Come ha scritto Nietzsche, occorreva «aspettare e prepararsi: aspettare lo zampillare di nuove sorgenti, prepararsi nella solitudine a voci e volti estranei; lavare la propria anima e renderla sempre più pura dalla polvere e dal chiasso da fiera di quest’epoca; […] diventare gradualmente più vasti, più sopranazionali, più europei, più orientali, infine più greci».29


  1. I due corsi sono compresi nel volume 36/37 della Gesamtausgabe intitolato Sein und Wahrheit. ↩︎

  2. M. Heidegger, Che cos’è la verità?, Edizioni Marinotti, Milano, 2011, p. 7. ↩︎

  3. Ibid. ↩︎

  4. Ibid., p. 321. ↩︎

  5. Ibid., p. 13. ↩︎

  6. Ibid. ↩︎

  7. Ibid. ↩︎

  8. Ibid. ↩︎

  9. Ibid., p. 14. ↩︎

  10. Ibid. ↩︎

  11. Ibid. ↩︎

  12. Ibid. ↩︎

  13. Ibid. ↩︎

  14. Ibid., p. 91. ↩︎

  15. Ibid., p. 93. ↩︎

  16. Ibid. p. 56. ↩︎

  17. Ibid. ↩︎

  18. Ibid., p. 61. ↩︎

  19. Ibid., p. 321. ↩︎

  20. Ibid., p. 146-147. ↩︎

  21. Ibid., p. 147. ↩︎

  22. Ibid., p. 186. ↩︎

  23. Ibid., p. 187. ↩︎

  24. Ibid., p. 231. ↩︎

  25. Ibid., p. 232. ↩︎

  26. Ibid. ↩︎

  27. Ibid. ↩︎

  28. Ibid., p. 322. ↩︎

  29. F. Nietzsche, Frammenti postumi 1884-1885, in Opere di Friedrich Nietzsche, vol. VII, tomo III, a cura di G. Colli e M. Montanari, traduzione italiana di S. Giammetta, Adelphi, Milano, 1975, pp. 329-330. ↩︎