Paul Ricœur, Emmanuel Mounier. L’attualità di un grande testimone, Troina (En), Città Aperta, 2005, 116 pp.
Mounier e Ricœur: un binomio che ha segnato profondamente la storia di «Esprit», uno scambio intellettuale fecondo, ma allo stesso tempo un impegno civile riformatore, che si trasformerà, con la morte del primo (nel 1950), in un’eredità spirituale irrinunciabile per il secondo.
Maturato nel contesto del cristianesimo socialista degli anni Trenta, sotto l’influenza di André Philip e della rinascita barthiana, Paul Ricœur entra in contatto con il gruppo di «Esprit» solo dopo la guerra e la prigionia nella Pomerania orientale. Da Mounier, egli dice di aver appreso a congiungere e a far convivere le proprie convinzioni spirituali con la passione politica di quegli anni.
È solo nella maturità, tuttavia, che Ricœur traccia con chiarezza le linee fondamentali della propria concezione della persona nel quadro di una rilettura critica e aperta dell’opera di Mounier. Precisamente in due saggi, comparsi entrambi su «Esprit»: Meurt le personnalisme, revient la personne (1983) e Approches de la personne (1990). Nel primo, testo di natura dichiaratamente provocatoria, l’affermazione della morte del movimento personalista acquista il duplice valore di semplice registrazione di un fatto culturale, le cui numerose cause vengono accuratamente passate in rassegna, e di auspicio: che muoia pure il personalismo, diceva Ricœur, se questo può servire a far rivivere la nozione persona, in tutta la sua fecondità politica, economica e sociale. Essa, infatti, resta ancor oggi la categoria più adeguata nelle questioni per le quali la «coscienza», il «soggetto» o l’«individuo» risultano inappropriati. Sotto l’egida di Eric Weil, Ricœur si sforzava di pensare la persona come «attitudine», centrando il suo discorso sulle due categorie di crisi e impegno.
Il secondo testo, scritto circa una decina di anni dopo, corona gli intenti fondamentali del primo. Ricœur dispiega e analizza tutte le ricerche contemporanee sul linguaggio, l’azione, il racconto e l’etica, che possono conferire ad una teoria sulla persona un solido radicamento teorico. Lo scopo, qui, è costruire una fenomenologia ermeneutica in grado di ripercorrere e di riassumere tutti i piani dell’ermeneutica dell’uomo capace di Sé come un altro (1990).
L’ultima tappa, e anche il culmine, del confronto di Ricœur con Mounier è costituita dal saggio Mounier et «Esprit» au milieu du XX siècle, scritto in occasione di un convegno su Mounier tenutosi a Parigi nel 2003, e recentemente tradotto in italiano da Giacomo Losito nel volume dal titolo: Emmanuel Mounier. L’attualità di un grande testimone.
Come afferma Domenico Jervolino nella sua Introduzione, questo testo di Ricœur «merita di essere letto e meditato perché il suo significato profondo va ben oltre la commemorazione di un amico scomparso, il ricordo di un’opera interrotta da una morte prematura, la rievocazione della propria giovinezza col beneficio ormai della distanza di un cinquantennio» (p. 7). Si tratta infatti di qualcosa di più di una riflessione su Mounier e sulla storia del personalismo. È una lucida osservazione dei fatti principali del XX secolo, un bilancio della storia e del destino dell’idea democratica, un giudizio sul significato della politica oggi che si inserisce nel quadro dei forti interessi etico — morali, tanto pressanti per l’ultimo Ricœur (basti pensare a Il giusto 1, Il giusto 2, L’ideologia e l’utopia).
Ma non solo. Il testo si rivela interessante anche ad un livello metodologico. Per condurre una riflessione su Mounier, nel doppio ruolo da lui rivestito di uomo di rivista e autore di testi, Ricœur sottolinea fortemente la necessità di rigettare qualsiasi anacronismo, condannando «l’arroganza dell’interprete che dispone sia di informazioni allora inaccessibili che di strumenti di analisi elaborati successivamente» (p. 55). È proprio per soddisfare una simile esigenza di onestà intellettuale che Ricœur sceglie di imboccare la strada della lettura incrociata, di confrontare cioè la testimonianza che Mounier ha dato del suo tempo con l’analisi, maggiormente articolata e mirante a stabilire un quadro coerente del XX secolo, di altri autori più attuali.
Il saggio è dunque un complesso «lavoro della memoria», in cui presente e passato si confrontano e si intrecciano, e che gioca su una alternanza di ottiche differenti ma in grado di completarsi a vicenda. La critica reciproca, tra esse, è evitata proprio in forza della distanza temporale che regola l’esercizio.
I due testi evocati e incrociati da Ricœur sono: Manifeste au service du personnalisme, scritto da Mounier nel 1936, e Le passé d’une illusion. Essai sur l’idée comuniste au XX siècle, di François Furet (1995). Il primo assume tre fondamentali obiettivi polemici: fascismo, comunismo e civiltà borghese. «Stupefacente trittico — commenta Ricœur — inaugurato da un attacco frontale contro il borghese e il suo individualismo assunto come esempio di decadenza» (p. 61). A metà degli anni Trenta, Mounier ha riconosciuto come la critica della borghesia e del suo sfrenato individualismo rappresenti il comune punto di partenza di fascismo e comunismo, punto di partenza per entrambi e fonte di reciproca condanna. Furet, dal canto suo, a distanza di sessant’anni, individua nell’odio per la borghesia una delle primissime forme di quella che egli chiama la passione ideologica, forse la più costante e potente: «sufficientemente astratta per ricoprire vari simboli — scrive Furet —, sufficientemente concreta per offrire uno spunto ravvicinato di odio, la borghesia offre al bolscevismo e al fascismo un polo negativo e una serie di tradizioni e sentimenti ben più antichi sui quali far leva» (pp. 63-64).
Il parallelismo si rivela «istruttivo in modo stupefacente» (p. 64), anche se lascia aperti significativi spazi di divergenza e contrasto. In primo luogo, il borghese non è detestabile per gli stessi criteri: Mounier parla riferendosi all’utopia della persona e della comunità; Furet invece alla passione rivoluzionaria ereditata dalla Rivoluzione francese e dalle frustrazioni del XX secolo.
In Mounier, inoltre, risulta spaventosamente assente il punto finale dell’analisi di Furet: ciò che l’odio per il borghese nasconde è la radicale condanna della democrazia parlamentare. A Mounier manca la sensibilità nei riguardi del pericolo che la comune avversione al borghese da parte di fascismo e comunismo rappresenta davvero: il crollo della democrazia.
Mounier non coglie il lato istituzionale della faccenda, il doppio valore della società borghese. Quella fragile ambiguità in forza della quale essa rappresenta sì l’individualismo e il culto dell’interesse, ma anche il valore dell’universalità e della libertà. Un’ambiguità terribile: «Anche Mounier lo dice — scrive Ricœur — . Ma per lui è un segno di decadenza. Per noi, che usciamo dalle rovine e dalla ricostruzione, è tornato ad essere un grande enigma “che l’idea dell’eguaglianza e dell’universalità degli uomini (dichiarata dalla borghesia come elemento fondante e di fatto reale, novità da essa introdotta) venga costantemente negata dalla disuguaglianza della proprietà e della ricchezza, prodotta dalla competizione tra gli individui”» (p. 71). Ma riconoscere questo non significa avere il diritto di collocare Mounier nel campo pre-fascista. «Deve costituire piuttosto — commenta Ricœur — l’occasione di mettere in chiaro i termini di una tensione che rimane ai miei occhi feconda, quella fra la tematica dello spirito e l’analisi istituzionale» (pp. 76-77).
È infatti questo il filo conduttore che il saggio Ricœuriano persegue, e che supera anche le considerazioni e i singoli giudizi espressi sull’opera di Mounier. La dialettica tra spirito e istituzione deve essere il principio di una rifondazione radicale dell’idea democratica. Si tratta dunque di ridare senso all’istituzione, di completare la dimensione procedurale/formale con una simbolica in grado di mediare l’agire sociale, dunque di ridargli senso.
Scrive infatti Ricœur: «Una crisi latente della democrazia rappresentativa s’è manifestata proprio nel momento in cui essa ha trionfato, una prima volta nel 1944 e una seconda con la caduta del muro di Berlino. Essa appare nel momento in cui la democrazia rappresentativa è priva di credibili alternative. È comunque degno di nota che tale crisi non si lasci cogliere ed interpretare se non mediante una lettura lunga, come lo è stata quella che ha presieduto all’interpretazione retrospettiva delle due catastrofi del XX secolo» (pp. 97-98). In rapporto ad essa le suggestioni di Mounier sul concetto di spirito possono essere riprese e reinterpretate: «È proprio nella prospettiva dispiegata in questa lunga storia che le esitazioni, le tergiversazioni, le ambiguità di Mounier scrittore e le tensioni fra gli animatori della direzione di “Esprit”, prima e dopo la guerra relativamente alle istituzioni della Repubblica parlamentare, si rivelano, a cose fatte, portatrici di un senso potenzialmente positivo» (p. 99).
È dunque quel che Ricœur chiama la risimbolizzazione del politico (p. 114), la via maestra per uscire dalla crisi: «Non bisognerebbe allora parlare di pluri-fondazione e dunque di una co-simbolizzazione a cui sarebbero convocate tutte le famiglie spirituali che hanno contribuito al processo storico della fondazione delle democrazie occidentali? È una prospettiva simile a quella su cui si incammina Rawls nei suoi scritti sulla democrazia politica: quelle che definisce concezioni del bene sono congiuntamente convocate al capezzale delle democrazie costituzionali nel quadro di uno Stato di diritto» (p. 115).
Ricollegandoci implicitamente alla «piccola» etica di Sé come un altro, risimbolizzare il politico significherebbe investire l’etica, cioè la prospettiva di una vita buona, del ruolo di mediatrice tra i cittadini e il lato formale dell’istituzione.
«È forse qui — scrive Ricœur — che la parola spirito (esprit), priva del suo iniziale catastrofismo e del sovraccarico rivoluzionario, conserva la sua funzione e ritrova una possibilità. Dopo la fine del teologico — politico rivisitato, c’è forse un tempo per il contributo degli spirituali, fra gli altri dei cristiani, alla risimbolizzazione del politico, in sinergia con l’apparato procedurale della rappresentanza parlamentare e nel quadro di una laicità aperta. Co-fondatori, ecco quanto possiamo restare o diventare» (p. 116).