La teodicea in Raimon Panikkar e Simone Weil

Introduzione

Il problema della sussistenza del male nel mondo in rapporto alla giustificazione della divinità e del suo operato, o Teodicea,1 è un argomento che ha suscitato da sempre l’interesse di teologi e filosofi. A qualsiasi mente razionale verrebbe spontanea la domanda: come può Dio, l’Assoluto, il Divino, il Dharma, il Tao, (o qualsiasi altro tipo di appellativo si voglia usare per indicare l’Essere infinito o energia cosmica che governa, guida e orienta il mondo fenomenico in cui viviamo), essere pensato in relazione al male?

Se il principio assoluto di tutto è un Essere perfettissimo, o come dice Anselmo: «qualcosa di cui non può pensarsi nessuna cosa maggiore»,2 da dove viene allora, si chiede Agostino, «questo mio volere il male e non volere il bene, se dev’essere giusto scontarne la pena? Chi ha deposto e seminato in me questo vivaio di amarezze, se io derivo tutto dal mio dolcissimo Dio? Se è il diavolo il suo autore, da dove viene il diavolo?».3

Il problema è che la cultura occidentale, tendenzialmente, almeno fino all’epoca di Hegel,4 ha considerato la ragione come il solo ed unico mezzo a disposizione per decifrare la realtà, fisica e metafisica. Questa assolutizzazione dell’elemento razionale, venuta meno con preponderanza a partire dalle intuizioni di Immanuel Kant,5 alle soglie dell’epoca contemporanea ha lentamente perso la consistenza che la caratterizzava fino a quel momento. L’elemento razionale e con esso il tentativo forsennato da parte dell’uomo di voler trovare a tutti i costi delle spiegazioni sicure e inconfutabili sul mondo, sull’universo, su Dio, rischiava di elevare il soggetto della conoscenza al rango stesso di Dio, cioè dell’oggetto supremo della conoscenza. Ma l’infinito e il finito non possono coesistere sullo stesso piano, altrimenti non avrebbe senso la fede, ovvero l’atto di affidarsi a qualcosa o a qualcuno di inconoscibile del tutto. La non coincidenza tra Essere e Pensiero è ciò che, imprevedibilmente, avvalora il concetto di fede, e con esso l’impossibilità di intendere integralmente tutto il reale, ma di accettarlo, e di accettare, in questo modo, anche il paradosso, le contraddizioni, il fenomeno inspiegabile del male. E questo, Panikkar e Weil lo hanno afferrato ampiamente.

Il problema del male in Panikkar

Prima di affrontare il problema del male in Raimon Panikkar, risulta indispensabile chiarire cosa lui intenda per cosmoteandrismo, una delle intuizioni più originali sviluppate dal filosofo e teologo indo-catalano. Egli, per spiegare cosa significa cosmoteandrismo o realtà cosmoteandrica, individua quelli che definisce i tre momenti kairologici della coscienza. Non si tratta di uno sviluppo cronologico di questa. Può anche esserlo, ma non necessariamente. Tutt’al più si tratta di tre stadi che corrispondono a tre atteggiamenti che la coscienza può assumere in qualsiasi arco di tempo. Il primo è il momento ecumenico, in cui la coscienza non si manifesta e predomina una visione cosmocentrica della realtà, il secondo è il momento economico, durante il quale l’uomo si distacca dal cosmo e prevale una visione antropocentrica della realtà, che include anche l’attuale crisi ecologica, e infine il momento della nuova innocenza, che racchiude appunto la visione cosmoteandrica, in cui la vita è intrisa di misticismo.6 Cos’è allora il cosmoteandrismo?

Il cosmoteandrismo7 è la teoria secondo cui la realtà si esprime in questa tripartizione: Dio-Uomo-Cosmo. Queste tre dimensioni coesistono tra di loro in un rapporto di inter-in-dipendenza, al punto che ognuna di esse esiste solo in funzione delle altre, in quanto vincolate da un rapporto consustanziale. Tuttavia, questo legame non forma una realtà monistica e neanche duale o plurale. Sono presenti entrambe e si manifestano nella stessa maniera in cui si esprimono nel mistero advaitico8 e trinitario.9 Non a caso Panikkar parla anche di «trinità radicale»10 o di «secolarità sacra».11 La loro natura è pluralistica, cioè unità e differenziazione coesistono insieme, allo stesso tempo. L’essenza di questa realtà è paradossale, contraddittoria, o antinomica, se vogliamo usare un termine kantiano.12 Il principio di identità e non contraddizione non regge, o meglio, non regge in modo assoluto.13 Questa dimensione non è spiegabile solamente a livello razionale. La sua accettazione o assimilazione prevede uno sforzo di fede, l’azione del cuore, letteralmente: il coraggio. Leggiamo direttamente le parole del nostro autore:

Il principio cosmoteandrico potrebbe essere espresso dicendo che il divino, l’umano e il terrestre sono le tre dimensioni irriducibili che costituiscono il reale, cioè ogni realtà in quanto reale. […] Questo principio ci ricorda che le parti sono parti e che esse non sono giustapposte accidentalmente, ma essenzialmente relazionate con il tutto.14

Come inquadrare allora, alla luce di questa visione, il problema del male in Panikkar? Cosa ne pensa a riguardo il nostro autore? Proviamo a intuirlo.

La sua posizione pare essere piuttosto ambigua. Egli, infatti, da una parte si schiera a favore di una realtà dominata dal bene: «Il fondamento ultimo di questa fiducia cosmica sta nella convinzione quasi universale che la realtà è ordinata – in altri termini, che è buona, bella e vera»;15 dall’altra, propende a sostegno di una visione del reale che, oltre al bene, non può non includere anche il male: «Il male, come il bene, può pervadere ogni sfera della realtà. La secolarità, proprio per il suo carattere sacro, è più vulnerabile alle incursioni del male»;16 oppure: «L’esistenza del male va accettata. […] Ne accetto l’esistenza, poiché è una cosa reale e svolge anche una straordinaria funzione rivelatrice».17 Siamo di fronte una vera e propria contraddizione. Come interpretarla? Si tratta di un errore? Di una svista? Oppure semplicemente di un cambiamento di opinione maturato nel corso del tempo?

Ovviamente ognuno potrà farsi una propria idea, la tesi che qui vogliamo condividere non è assoluta e non deve essere presa come criterio universale. Una cosa però è chiara e nessuno di quanti si accostano al pensiero di Panikkar lo negherebbe: il principio di non-contraddizione non è legge assoluta. Non tutto l’Essere è risolvibile razionalmente. E se non tutto il reale è intelligibile può esserci spazio anche per l’antinomia? La risposta è sì! Il nostro teologo, sulla scia delle culture e delle filosofie orientali, si allontana da una visione occidentale strettamente separazionista e accoglie la concezione di una coesistenza armonica degli apposti. Male e bene, dunque, non si annullano l’uno con l’altro, ma si aggrovigliano tra di loro all’interno del fluire della nostra esistenza.

Con quale criterio, poi, noi stabiliamo che una cosa sia bene o male? Esiste una regola universale che lo impone? La risposta è no! La storia ci insegna che, mentre per alcuni il bene può essere la salvezza di un popolo, per altri lo è la sua distruzione. Siamo noi che attribuiamo un valore al bene e al male, i cui contenuti, a seconda delle persone o delle culture possono essere interscambiabili tra loro.

Il problema è che la morale classica occidentale è sempre stata abituata a distinguere, a separare le varie facce del reale, o meglio, ad attribuire a esso delle etichettature, dei nomi, i quali, però, giungono ad acquisire un senso non per il loro valore oggettivo, ma soggettivo. Il pensiero di Panikkar, invece, con tutto il retaggio della cultura orientale che si porta dietro, vuole aiutarci a fuoriuscire da questi vincoli. Il bene e il male,18 dunque, non sono più due facce del reale che si contrappongono, ma semplicemente due modi attraverso cui l’Essere si esprime, entrambi necessari ad alimentare lo scorrere esistenziale dell’umanità. Se poi scopriamo che la stessa parola “separazione” significa “peccato”, capiamo che già l’atto in sé di separare il bene dal male va classificato come un errore. Osserva Raimon: «Molte tradizioni dicono che la conoscenza del bene e del male è il primo peccato originale dell’umanità (cfr. Gen 2,17). Peccato significa in questo caso separazione e distacco dall’interdipendenza di tutto ciò che è».19

Qualcuno allora potrebbe obiettare: se la divisione tra bene e male è un errore, cioè un male di per sé, cadiamo nuovamente nella trappola scissionista? Stiamo nuovamente creando una identità al male a cui si può opporre un contraddittorio? Stiamo, cioè, nuovamente avvalorando il principio di identità e non-contraddizione? Probabilmente sì! Ma la questione non ci intacca. Il punto che Panikkar vuol far emergere dai suoi scritti non è quello di negare categoricamente il principio di identità e non contraddizione, ma di superarlo. La razionalità è parte di noi, ma non è sufficiente.

La prospettiva di Weil

Alcune tracce inconfondibili sul problema del male in Simone Weil sono presenti nel terzo tomo dei Quaderni,20 ultimo lavoro di una raccolta di tre volumi che racchiudono le considerazioni più emblematiche del pensiero filosofico della studiosa francese. Quest’ultimo volume, in linea generale, si sofferma sui grandi temi del mito e della speculazione greca, senza tralasciare importanti raffronti con il mondo orientale. Nello specifico, Weil intende portare alla luce la stretta corrispondenza che si annida tra rivelazione pagana e rivelazione cristiana, nesso occultato dalla constatazione di una duplice colpa: la prima attribuita al Rinascimento, che ha tradito il cristianesimo per la Grecia, con l’obiettivo di cercare nella Grecia qualcosa di diverso dal cristianesimo; la seconda attribuita al cristianesimo stesso, il quale si è considerato altro dalla Grecia. Superando questi presupposti, la filosofa francese si propone di individuare e riconoscere nel pensiero greco tutta la profondità del messaggio cristiano. Già a partire dalla prima pagina dello studio sopracitato si evince il fine di questo progetto. Weil, infatti, identifica il fuoco di Eraclito e degli storici non solo con il concetto di energia utilizzato nell’ambito delle scienze fisiche o della psicologia, ma anche e soprattutto con quello di Spirito proclamato dal Vangelo. Leggiamo:

Lo Spirito, per gli Stoici, che dipendono da Eraclito, è l’energia (nel senso in cui impieghiamo questa parola nella scienza, fisica o psicologia), la cui immagine nel loro pensiero è il fuoco. L’energia soprannaturale è lo Spirito, la cui immagine nel Vangelo è il fuoco. La folgore e il fuoco sono in Eraclito immagini dello Spirito Santo.21

In questo modo, presentando Eraclito come precursore del cristianesimo, viene prima avvalorata l’idea di fondo su cui si regge l’intera struttura del pensiero eracliteo, ovvero il principio di contraddizione, e successivamente, questa stessa idea, viene incanalata entro le ossature teologiche cristiane. Ne consegue che lo Spirito esprime in sé le stesse caratteristiche del fuoco, il quale si configura come portatore di una dinamica contraddittoria del reale. La contraddizione, quindi, è in Dio ed «è il nostro cammino verso Dio».22 La creazione stessa, sottolinea Weil, è contraddizione.23 «È contraddittorio che Dio, che è infinito, che è tutto, a cui non manca nulla, faccia qualcosa che è fuori di lui, che non è lui, pur procedendo da lui».24 E poi continua: «questa contraddizione fondamentale si riflette in quella del necessario e del bene»,25 cioè nell’idea che ciò che è necessario, ordinato e segue un preciso andamento logico, non sempre collima con ciò che è bene. Va pertanto operato un distacco tra la completa identificazione del necessario con il bene, permettendo al reale di esprimersi anche diversamente. Concetto espresso già nel secondo volume dei Quaderni, quando scrive: «Identità del reale e del bene. Necessità come criterio del reale. Distanza tra il necessario e il bene. Sbrogliare questo. È della massima importanza. È qui la radice del grande segreto».26 Con questa constatazione la filosofa francese intende avvalorare l’intuizione antinomica. Da una parte sostiene che il bene è identico all’ordine che governa questo nostro mondo; dall’altra invita, con urgenza, a distinguere il necessario, cioè questo ordine che governa il mondo, dal bene, facendo emergere così il primato della libertà, e con essa anche la possibilità del male, oltre che del bene.

In altre parole, Weil, proprio come Panikkar, vuole comunicarci che male e bene, come qualsiasi altra componente del reale, sussistono in modo interconnesso. E poi precisa: ogni bene porta con sé un male quasi altrettanto o altrettanto orribile per la coscienza di quello che deve sopprimere. Compiere il bene implica un comportamento che costituisce sotto un altro aspetto una disposizione al male. In altre parole, «Il bene porta con sé il male, il male il bene […]. Il male è l’ombra del bene. Ogni bene reale, provvisto di solidarietà e spessore, proietta del male […]. Così pure il falso è l’ombra del vero. Ogni affermazione vera è un errore se non è pensata contemporaneamente al suo contrario, e non le si può pensare contemporaneamente».27 Bene e male sono semplicemente delle etichette con cui definiamo porzioni del reale senza accorgerci del loro intrinseco legame. D’altronde anche Paolo di Tarso era d’accordo su questo, e nella lettera ai romani lo spiega chiaramente:

Io non riesco a capire neppure ciò che faccio: infatti non quello che voglio io faccio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, io riconosco che la legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè che nella mia carne, non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io trovo dunque in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me.28

Weil, sulla stessa scia di Panikkar, dicendo che «ogni affermazione vera è un errore se non è pensata contemporaneamente al suo contrario», altro non sta facendo che convalidare il principio di “contraddizione”; ma allo stesso tempo, affermando: «e non le si può pensare contemporaneamente», intende non rinnegare del tutto il principio di identità e non contraddizione, o per intenderci meglio l’elemento razionale. La ragione è importante e non va negata, va accettata, ma allo stesso tempo superata. È ciò che voleva far capire a tutti i costi anche Panikkar, il quale, in questa sentenza lo esprime senza mezzi termini: «Bisogna passare attraverso l’intelletto senza negarlo, trascendendolo».29

Conclusione

A questo punto i più scettici potrebbero porre una domanda: se già è un'impresa accettare il principio di contraddizione e far coesistere in noi, sulla base di questo, il bene e il male in modo intrinseco, come può coesistere in noi anche il principio opposto a questo, ovvero l’idea che il bene e il male, nonostante siano intrecciati, sono pur sempre entità distinte? O meglio, come può sussistere di per sé il principio di contraddizione se la base su cui poggia ammette il suo contrario, cioè il principio di identità e non contraddizione? Questa è la domanda a cui hanno voluto rispondere sia Panikkar che Weil.

Il punto è che il principio di contraddizione, non navigando nelle acque della sola mente umana, non è riducibile in modo esclusivo alle categorie dell’intelletto. Motivo per cui, mentre l'ammissione del suo contrario, per una mente razionale, significherebbe sfaldare o negare le basi sui cui esso si regge, per una mente a-razionale (che supera la ragione e non la nega), significherebbe allargare ancora di più le profondità del suo mistero, riempirlo di linfa vitale - non a caso il paradosso è ciò di cui esso si nutre. Il concetto stesso di negazione, di annullamento, se andiamo a guardare alle religioni-filosofie orientali, sta a indicare il raggiungimento della pienezza vitale, il massimo della fioritura spirituale di un individuo.30 Questa “negazione”, in altri termini, porta al riconoscimento dei limiti della mente umana e riempie di pieno significato la dimensione della trascendenza, poiché attraverso la nullificazione del principio di contraddizione l’essere umano si rende conto ancora una volta di aver umanizzato e dato un nome a qualcosa di innominabile, di divino, a qualcosa che supera i confini della dimensione fenomenica. Capisce allora che oltre di esso, invece, vi è altro, un qualcos’altro che non ha nome, è inintelligibile e non può essere qui spiegato. Per intenderci, potremmo dire che il principio di contraddizione demolito non è quello puro, ma è quello relativo alla dimensione divina pensata dall’uomo, che, in quanto tale, viene demolita. Ciò che al contrario rimane in vita e su di cui non possiamo parlare perché non ne abbiamo gli elementi – il famoso apofatismo buddhista31 – appartiene esclusivamente al Non-Essere.32 E il Non-Essere è il divino per eccellenza, di cui otteniamo il riconoscimento, non la conoscenza, proprio attraverso questa demolizione. È lì che risiede la trascendenza autentica, dove il bene e il male non hanno nome, ma sono al di là dell’Essere. E se sono al di là dell’Essere non possono essere qui totalmente intesi.

In sintesi, il merito di Panikkar e di Weil è quello di aver prima riconosciuto l’esistenza del bene e del male come due elementi contradditori in perfetta armonia; successivamente quello di aver “negato” questa constatazione in virtù del principio di identità e non-contraddizione, secondo cui, se è vero che il bene e il male sono due opposti in perfetta armonia, è anche vero il contrario, ovvero che la loro distanza è irriducibile. Ma quest’ultima constatazione non è stata fatta per annientare la prima, ma semplicemente per avvalorarla; o meglio per “annientarla” in quanto umanamente acquisita, e darle, in questo modo, un significato autentico, quello della piena trascendenza, in cui il concetto di contraddizione si manifesta nella sua vera essenza e non può essere per niente esperito qui da noi.

Una non esperibilità, quella della trascendenza, che, tuttavia, sebbene nella sua vera essenza non ci intacchi, ci abbraccia tramite la luce del bagliore che emana dalle sue profondità. Una luce riconoscibile nella bellezza del creato, nella perfezione del suo funzionamento, nella meraviglia del suo ordine (che comprende anche la morte, o se vogliamo il male – si pensi ad esempio che dalla morte di una stella se ne può generare un’altra o che dalla morte di una cellula ne ha vita sempre un’altra) sia al livello del microcosmo (organismo umano) che del macrocosmo (universo); oppure si pensi al complesso e sublime mondo delle nostre emozioni, al senso di giustizia che ci pervade, al desiderio di moralità, e ancora, alla potenza delle nostre capacità intellettive. Tutti elementi del reale che, sebbene non ci permettano di entrare in contatto diretto con l’esperienza del trascendente ci impongono di credere nel bagliore di luce che esso effonde e nell’esistenza della sua pura essenza che qui, a ragion di causa non possiamo che definire “mistero” o “fede”, nel senso puro di fiducia verso un qualcuno o un qualcosa di ignoto, ma sicuramente di straordinariamente sorprendente. Quel mistero che, sia Panikkar, con l’appellativo di «Terzo occhio»,33 sia Weil, con la denominazione di «Spirito»34 ci hanno voluto infondere con tutte le loro energie.


  1. Il termine «teodicea» fu coniato dal filosofo tedesco Gottfried Wilhelm von Leibniz (1646-1716). Cfr. G.W. Leibniz, Sämtliche Schriften und Briefe, a cura di J.G. O’Hara, C. Wahl, R. Krmer et. al., Akademie Verlag, Berlin 2011, vol. XII, pp. 622-627. ↩︎

  2. Anselmo d’Aosta, Proslogion, a cura di L. Pozzi, bur, Milano 2018, p. 83 (cap. II). ↩︎

  3. Agostino, Confessioni, trad. di R. De Monticelli, Garzanti, Milano 2014, p. 109 (VII, 3). ↩︎

  4. Scrive Hegel: «Ciò che è razionale, è reale; e ciò che è reale, è razionale». Cfr. W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1998, p. 59; oppure cfr. Id., Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano 1996, pp. 101-103. ↩︎

  5. Afferma Kant: «Ho dovuto distruggere la metafisica come scienza per poter creare un luogo per la fede!»; citazione contenuta in H.C. Schmidbaur, Esistenza ed attributi di Dio (Teologia naturale/filosofica), dispense del corso di Teologia dogmatica, Lugano 2020, p. 8. ↩︎

  6. R. Panikkar, Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo, in R. Panikkar, Opera Omnia, a cura di M. Carrara-Pavan, Jaca Book, Milano 2010, vol. VIII, pp. 191-228. ↩︎

  7. R. Panikkar, La realtà cosmoteandrica. Dio-Uomo-Mondo, a cura di M. Carrara-Pavan, Jaca Book, Milano 2004, pp. 85-120. ↩︎

  8. R. Panikkar, I Veda. Mantramañjari, a cura di M. Carrara-Pavan, bur, Milano 2018, pp. 890-918. ↩︎

  9. R. Panikkar, Trinità ed esperienza religiosa dell’uomo, trad. di A.A. Chimenti, Cittadella Ed., Assisi 1989, pp. 73-106. ↩︎

  10. S. Monti, Trinità e cristofania: un’armonia cosmoteandrica (Raimon Panikkar 1918-2010), Glossa, Milano 2021, pp. 136-140. ↩︎

  11. R. Panikkar, Secolarità sacra. Secolarità, in R. Panikkar, Opera Omnia, a cura M. Carrara-Pavan, Jaca Book, Milano 2020, vol. XI, tomo 1, pp. 3-4. ↩︎

  12. I. Kant, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile, G. Lombardo-Radice, Laterza, Roma-Bari 2005, pp. 290-305 (dottr. trasc. degli elem., parte II: Logica trasc., II. Dialettica trasc., lib. II, cap. II, sez. II). Per un’analisi più approfondita sulle antinomie kantiane, cfr. E. Berti, Contraddizione e dialettica negli antichi e nei moderni, L’Epos, Palermo 1987, pp. 164-175; E. Bencivenga, Logica dei paradossi, Utet, Milano 2022, pp. 113-116; J. Bennet, Kant’s Dialectic, Cambridge University Press, Cambridge 1974. ↩︎

  13. R. Panikkar, Identity and Non-Contradiction: Two Schemes of Intelligibility, in T.R.V. Murti and Indian Philosophical Tradition, Banaras Hindu University, Varanasi 1989, pp. 207-215. ↩︎

  14. R. Panikkar, Visione trinitaria e cosmoteandrica: Dio-Uomo-Cosmo, pp. 236; 229-261. ↩︎

  15. R. Panikkar, Religione e religioni, in R. Panikkar, Opera Omnia, a cura di M. Carrara-Pavan, Jaca Book, Milano 2011, vol. II, p. 220. ↩︎

  16. Panikkar, La realtà cosmoteandrica. Dio-Uomo-Mondo, p. 174. ↩︎

  17. Citazione pronunciata in una intervista realizzata con il cantautore italiano Franco Battiato. Cfr. F. Battiato, Il silenzio e l’ascolto. Conversazioni con Panikkar, Jodorowsky, Mandel e Rocchi, a cura di G. Pollicelli, Castelvecchi, Roma 2021, p. 15. ↩︎

  18. Sulla questione cfr. anche M. Bielawski, Panikkar. La vita e le opere, Fazi Ed., Roma 2018, pp. 273-282. ↩︎

  19. R. Panikkar, La dimora della saggezza, a cura di M. Carrara-Pavan, Mondadori, Milano 2005, p. 26. ↩︎

  20. Scritti in un arco di tempo che va dal 1940 al 1942, quando la Weil, a causa dello scoppio della Seconda guerra mondiale, si trasferì, insieme alla famiglia, da Parigi a Vichy, dove prese vita un governo di tipo collaborazionista tra Francia e Germania. Cfr. F. Veltri, La città perduta. Simone Weil e l’universo di Linguadoca, Rubbettino, Soveria Mannelli 2002, p. 158; M.C. Bingemer, G.P. Di Nicola (a cura di), Simone Weil. Azione e contemplazione, Effatà, Cantalupa 2005, p. 4. ↩︎

  21. S. Weil, Quaderni, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 20094, vol. III, p. 19 (quaderno VIII). ↩︎

  22. Ivi, p. 42 (quaderno VIII). ↩︎

  23. Per far capire quanto è importante il concetto di contraddizione, e per far sì che la questione possa essere assimilata più nel concreto, la Weil riporta un piccolo racconto Zen emblematico. Si narra che un giorno un maestro chiese a un suo discepolo di tagliare dei rami, ma questo non aveva alcun coltello. Il maestro, allora, gliene porse uno, ma non dalla parte del manico, bensì da quella della lama. Il discepolo, a quel punto, rimase perplesso e gli chiese di darglielo dalla parte corretta, ma il maestro rispose: «Che cosa te ne fai dall’altra parte?». L’insegnamento era chiaro: se necessiti della lama per tagliare i rami, non puoi fare a meno neanche del manico. Cfr. Ivi, p. 54 (quaderno VIII). Tutto è in correlazione con tutto, per cui, conclude Simone Weil: «La verità si produce al contatto di due preposizioni nessuna delle quali è vera; è vero il loro rapporto». Cfr. Ivi, p. 75 (quaderno VIII). ↩︎

  24. Ivi, p. 42 (quaderno VIII). ↩︎

  25. Ivi, p. 68 (quaderno VIII). ↩︎

  26. S. Weil, Quaderni, a cura di G. Gaeta, Adelphi, Milano 1985, vol. II, p. 330 (quaderno VII). ↩︎

  27. S. Weil, Quaderni, vol. III, p. 86 (quaderno VIII). ↩︎

  28. Rm 7,15-21. ↩︎

  29. R. Panikkar, La dimora della saggezza, p. 28. ↩︎

  30. V. Mancuso, I quattro maestri, Garzanti, Milano 2020, pp. 185-192. ↩︎

  31. Cfr. R. Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, Mondadori, Milano 2006, pp. 177-291. ↩︎

  32. Panikkar definisce il Padre come il Non-Essere per eccellenza; poiché tutto ciò che conosciamo di Dio altro non è che il suo riflesso nel mondo: il Figlio Gesù Cristo; un vero e proprio intermediario tra il cielo e la terra. Cfr. Panikkar, Trinità ed esperienza religiosa dell’uomo, pp. 76-85. Si tratta della stessa funzione ricoperta nell’induismo (madre delle religioni indiane) da Ȋśvara, in relazione a Brahman; (cfr. R. Panikkar, Māyā e apocalisse. L’incontro dell’induismo e del cristianesimo, Abete, Roma 1966, pp. 342-345) e dalla sefirà nascosta Da’at in rapporto a Keter, nella cabala (madre delle religioni abramitiche). Cfr. N.H. Crivelli, La via regale. Viaggio attraverso le Sefirot dell’Albero della vita, Psiche 2, Torino 2011, pp. 193-230. ↩︎

  33. R. Panikkar, Tra Dio e il cosmo. Una visione non dualistica della realtà. Dialogo con Gwendoline Jarczyk, trad. di M. Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 8. ↩︎

  34. Scrive la Weil: «O lo spirito sostiene in sé stesso la realtà della nozione simultanea dei contraddittori, oppure è sballottato dal meccanismo delle compensazioni naturali da un contrario all’altro». Cfr. Weil, Quaderni, vol. III, p. 44 (quaderno VIII). E poi aggiunge: anche la Gītā sostiene lo stesso quando riporta: «O discendente di Bharata, a causa dello smarrimento riguardo alle coppie dei contrari derivati dall’attrazione e dall’avversione, tutti gli esseri, alla loro venuta al mondo, sono preda della confusione, o tormento dei tuoi nemici! Ma le persone dagli atti meritori il cui male [passato] è giunto al suo termine, libere dallo smarrimento riguardo alle coppie dei contrari, mi adorano, ferme nelle loro osservanze». Cfr. A-M. Esnoul (a cura di), Bhagavadgītā, trad. di B. Candian, Adelphi, Milano 1991, pp. 90-91 (VII, 27-28). ↩︎