Il silenzio del Buddha in Raimon Panikkar: una quiete conciliante

A volte conviene far tornare le parole al silenzio da cui hanno avuto origine.
Chi non ha gustato il silenzio non assapora la parola.

– Raimon Panikkar

[…] e su ciò di cui non possiamo parlare, si deve tacere.

– Ludwig Wittgenstein

Il silenzio ci separa da noi stessi,
e ci fa volare nel firmamento dello spirito
e ci avvicina al Cielo.

– Khalil Gibran

1. Introduzione

Raimon Panikkar, nato a Barcellona la notte del 2 novembre 1918 e morto a Tavertet nel 2010,1 è stato uno dei teologi e filosofi più influenti del Novecento. Figlio di madre catalana (cattolica) e di padre indiano (indù), quest’uomo è stato il frutto di una perfetta sintesi culturale e religiosa tra Oriente e Occidente, tra cristianesimo e induismo – buddhismo. La sua spiritualità è sintetizzata da una massima che lo ha reso celebre nel mondo, e che meglio di ogni altra identifica la sua personalità: «Sono partito cristiano, mi sono scoperto hindu e ritorno buddhista, senza aver mai cessato di essere cristiano».2 Non si tratta di una predisposizione sincretista, ma di una accettazione delle religioni citate nelle loro differenziazioni. Una diversità non più concepita come elemento di divisione ma come fonte di arricchimento. Il teologo Carlo Molari dice di lui: «ha vissuto in profondità e illustrato con la sua intelligenza tre mondi religiosi in contemporanea. In mondo non sincretista o confusionario, bensì mantenendo la specificità e la ricchezza delle distinte spiritualità […]. Il processo non si è realizzato per sincretismo o giustapposizione di pratiche diverse, bensì per lo sviluppo di un livello spirituale nel quale le differenze sono divenute compatibili».3 Lo scopo della sua vita è stato quello di dimostrare che è possibile abbracciare più religioni e più culture contemporaneamente, armonizzandole nel loro insieme senza perdere i tratti peculiari di ognuna. Alcuni lo designano come un vero e proprio costruttore di ponti,4 non solo tra Oriente e Occidente, ma anche tra scienza e religione, mistica e filosofia, dimensione terrena e divina. Lui stesso tiene a ricordarcelo nei suoi diari:

Varānasī, 3 agosto 1970

Ho cominciato la vita con l’esperienza «divina»; solo molto più tardi sono passato attraverso l’esperienza «umana», desiderando per tutto il tempo l’esperienza teandrica, che era presente sin dall’inizio (perché non esiste né l’esperienza puramente umana né quella puramente divina). Ora potrei e dovrei raggiungere la pienezza dell’esperienza teandrica: il distacco mistico e il coinvolgimento intellettuale, il celibato e l’amore, Occidente e Oriente, la scienza e la filosofia, la Chiesa e il mondo, la ricchezza e la povertà, solo e in compagnia, professore e sādhu (o piuttosto samnyāsin), ecc.5

E la sua vita è stata il riflesso del suo pensiero. Un oceano di scritti che aprono la strada a riflessioni inedite rispetto al passato e a una visione spirituale che si inserisce a pieno titolo all’interno della moderna filosofia morale. Una guida pratica di vita che si presenta come una ricetta per una convivenza armonica tra tutti i popoli, al di là dei confini religiosi e culturali che demarcano le identità del mondo. Identità necessarie che devono persistere, ma non come pretesto di prevaricazione, piuttosto come mezzo per un fine più ampio, indirizzato a un riempimento spirituale, intellettuale e materiale del singolo e della collettività. Tuttavia, seppur gli scritti di Raimon Panikkar sono un concentrato di speculazioni filosofico-teologiche volte a conciliare più dimensioni del reale, la sua attenzione si focalizza in modo particolare sul rapporto tra le religioni. Egli «vede la varietà delle religioni come i diversi sentieri che conducono verso la cima: distanti e diversi in partenza, essi tendono a riunirsi quanto più ci si avvicina alla cima: “A una certa altezza non vi sono più baratri; le vie si uniscono oltre le valli”».6 Da qui la necessità di un dialogo intra-religioso e intra-culturale, che non è più soltanto «comparativo» ma anche «“imparativo”, aperto cioè alla possibilità reciproca di imparare, partendo dalle singole prospettive e scoprendo differenti presupposti ed orizzonti culturali al di là dei propri, secondo un impegno in grado di investire e trasformare la vita stessa degli interlocutori».7 Un impegno che ha visto Panikkar coinvolto in modo particolare su due fronti: dapprima si è occupato del rapporto tra cristianesimo e induismo e successivamente del confronto tra cristianesimo e buddhismo. L’aspetto interessante e originale di quest’ultimo, però, come vedremo, è che a differenza del primo ha oltrepassato la dimensione consuetudinariamente denominata religiosa ed è andato a inglobare un universo culturale da sempre considerato in antitesi con la spiritualità, almeno in Occidente: l’ateismo. Questo articolo intende mettere in luce i punti chiave di questo raffronto, con la speranza che si possa fare cosa gradita alla ricerca della verità, e con la consapevolezza che gli scritti di Panikkar, in accordo con quanto sostengono il teologo Vito Mancuso e il vaticanista Raffaele Luise, conducono verso questa direzione. Scrive Mancuso: «Raimon Panikkar […], uno dei più grandi teologi della nostra epoca, destinato a diventare sempre più una permanente sorgente di luce per tutti i cercatori della verità»;8 ribadisce Luise: «Grazie Raimon, […] con te e con i grandi orizzonti che hai dischiuso, le religioni, le culture e i sinceri cercatori della verità dovranno necessariamente confrontarsi».9

2. C’è affinità tra ateismo e buddhismo?

La riflessione che Panikkar10 formula intorno al pensiero buddhista lo porta a compiere un salto di qualità rispetto a quanto aveva già fatto in merito alle concezioni elaborate sul rapporto tra cristianesimo e induismo. Mentre l’incontro con l’India era finalizzato alla ricerca di strutture analoghe, o, come lui dice, omeomorfiche, tra due universi religiosi, la riflessione intorno al pensiero buddhista va ben oltre, in quanto intende coinvolgere quel mondo considerato da sempre un pericolo per l’esistenza stessa della religione: l’ateismo. A tal riguardo, scrive Torrero: «Non si tratta più di fare i conti con un altro culturale, che per Panikkar è insito nella sua stessa storia familiare, ma col fenomeno che minaccia alle radici l’esperienza religiosa in quanto tale: il moderno ateismo».11 La parola ateismo, infatti, non significa anti-teismo, nel senso dato da chi intende negare l’esistenza di Dio,12 bensì a-teismo, cioè senza Dio. Essa deriva dal greco àtheos, e compare per la prima volta nella Bibbia in una lettera di Paolo agli Efesini. L’espressione è al plurale: atheoi, e vuol dire «Coloro che sono senza Dio».

ὅτι ἦτε ἐν τῷ καιρῷ ἐκείνῳ χωρὶς Χριστοῦ, ἀπηλλοτριωμένοι τῆς πολιτείας τοῦ Ἰσραὴλ καὶ ξένοι τῶν διαθηκῶν τῆς ἐπαγγελίας, ἐλπίδα μὴ ἔχοντες καὶ ἄθεοι ἐν τῷ κόσμῳ.

Ricordatevi che in quel tempo eravate senza Cristo, esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio in questo mondo.13

Il valore semantico del termine, dunque, non allude a un significato negazionista della divinità,14 cioè non intende negare l’esistenza del divino, ma vuole semplicemente esprimere una condizione, cioè quella di essere privi di Dio. Ed essere privi di Dio non vuol dire negarlo. Bisogna capire poi a che tipo di divinità si fa riferimento, e dunque se per Dio si intende un Essere personale, come il più delle volte ha inteso la tradizione occidentale, e quindi come un soggetto intellegibile con il quale si può entrare in relazione e verso cui è lecito esprimersi in termini affermativi o negativi; o come un Essere impersonale, che, secondo il pensiero orientale predominante corrisponde alla totalità dell’Essere. Se poi questa dimensione sia conciliabile o meno con l’affermazione della pluralità del reale, rimane una questione aperta. Resta il fatto che, per tale motivo, alcuni studiosi delle filosofie indiane – tra cui ovviamente induismo e buddhismo – o del dharma, le hanno definite religioni atee.15 La tradizione occidentale, invece, avendo sposato quasi sempre l’idea di un Dio personale, ha spesso inteso il concetto di ateismo in senso negativo, in antitesi a quello di teismo.16 Tesi che questo lavoro propone di ravvedere, infatti, se fino ad ora la tradizione cristiana si è impegnata a trovare risposte in grado di confutare l’atteggiamento ateista,17 si pensi ad esempio ad Agostino (prova antropologica),18 Anselmo d’Aosta (prova ontologica),19 Tommaso d’Aquino20 e Leibniz (prova cosmologica),21 la sfida che Panikkar si propone è quella di trovare una strada che possa portare ad accettare l’ateismo e a vedere in esso una possibile via verso la ricerca di Dio, da affiancare a quella delle grandi religioni dell’umanità. Ma la grandezza di Raimon sta nel fatto che questo coinvolgimento non lo attua in forma dialogica o di confronto tra la sfera spirituale e il mondo dell’ateismo, bensì attraverso un processo di fecondazione reciproca, così come era accaduto per l’induismo. Ciò avviene perché la spiritualità buddhista gli permette di inglobare l’ateismo nella dimensione del sacro, e dunque di diventare ateo senza rinnegare la religiosità. Il che significa non solo accettare il punto di vista altrui, ma assimilarlo al punto da diventare letteralmente l’altro. Si tratta della più grande forma d’amore messa in essere. Le sue parole lo testimoniano senza indugio: «Vorrei nello stesso tempo essere fedele all’intuizione buddhista, non allontanarmi dall’esperienza cristiana e non separarmi dal mondo culturale contemporaneo. Un’ambizione non piccola, che solo con una non minore umiltà si può, per lo meno, tentare».22 Siamo davanti solo ad alcuni degli accenni con cui viene introdotto il libro dal titolo Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso. Ma prima di addentrarci in un’analisi dei suoi contenuti, tentiamo un approccio più analitico sulla questione del silenzio, che, come vedremo, sarà l’espediente che permetterà al nostro autore di raggiungere i suoi propositi di conciliazione.

3. Essere e Pensiero, Parola e Silenzio

Un punto cruciale nel pensiero di Panikkar è il modo con cui viene concepita la relazione tra Essere e Pensiero.23 A differenza di quanto si è spesso ritenuto nel mondo occidentale, il filosofo indo-catalano ammette l’impossibilità della totale identificazione dei due elementi, in quanto non tutto ciò che esiste deve essere necessariamente pensabile. Tutto ciò che è pensato “è”, ma non tutto ciò che “è” può essere pensato. La realtà supera i limiti del Pensiero, in quanto non deve essere per forza intellegibile, cioè costretta a adattarsi alle leggi razionali. Essa è libera. Ma superare non significa scansare. L’Essere incontra certamente il Pensiero, lo attraversa, ma non rimane ingabbiato al tuo interno, bensì lo oltrepassa, lo trascende. Tuttavia, va constatato che, anche se «il Pensiero non si trova allo stesso livello dell’Essere, la Parola vi va più vicino».24 Essa si frappone nell’intermezzo tra l’Essere e il Pensiero. Infatti, «l’Essere è pensabile solo nella misura in cui si auto-esprime, nella misura in cui è esprimibile. Il Pensiero scruta l’Essere con la mediazione della Parola».25 In questo modo, la triade Essere/Parola/Pensiero va a sostituirsi alla diade Pensiero/Essere. Per poter acquisire pienamente questa concezione, bisogna capire il significato autentico che Panikkar assegna alla nozione di Parola.26 Egli distingue le parole dai termini. I termini sono segni convenzionali, o nomi, usati dalla scienza per descrivere fenomeni empiricamente verificabili. La loro peculiarità è quella di definire le cose in modo univoco, assegnando a esse un valore oggettivo e imprimendo alla scienza carattere di universalità. Le parole, invece, non possono essere ridotte a semplici segni che ci informano su uno stato oggettivo di cose. Sono anche il frutto di un’attività di comunicazione che si svolge fra persone, tale per cui non possono essere statiche, univoche, riducibili a un solo significato.27 Al contrario, sono polisemiche, dinamiche, flessibili, «perché il loro vero senso è quello che si crea nel dialogo, dato che non esiste solo il nostro mondo, ma anche quello delle altre persone».28 In altro modo, potremmo dire che «ogni parola […] non è una etichetta per chiarire o classificare, ma un chiamare o un rispondere per dire qualcosa che è inseparabile dall’atto del dire e che non può essere ridotto a semplici “contenuti” del dire».29 In tal senso, si può affermare che le parole si configurano come relazione più che sostanza, poiché la loro essenza scaturisce da un processo di relazionalità che si instaura tra più individui.

E il silenzio, invece, cos’è? Panikkar distingue quattro tipi di silenzio. Il primo rappresenta «il soffocamento delle parole», cioè la volontà di tacere appositamente nonostante si abbia molto da dire. In tal caso si tace per prudenza o per paura di esprimere un proprio parere. Il che significa esercitare una violenza, bloccare il flusso della vita. Il secondo costituisce «lo sbigottimento delle parole», ovvero si tace per insipienza, cioè per scarsa conoscenza delle parole. Si tratta di un silenzio che produce distacco nelle relazioni umane e porta all’intorpidimento dei rapporti. Il terzo designa «l’inadeguatezza delle parole». Ciò significa che si tace perché si avverte di aver fatto esperienza di qualcosa che non può essere esprimibile. Il silenzio, quindi, è dovuto alla mancanza di vocaboli idonei a descrivere il proprio vissuto. Il quarto indica «l’assenza di parole». In questo caso non si tace per ignoranza, difficoltà a narrare il proprio vissuto, o altro, ma perché non c’è nulla da dire. Assenza, però, non significa annientamento della parola. Questo silenzio, pur se privo di parola, si esprime, ed esprime quello che la parola non dice perché la parola non descrive la totalità del reale. E tale esperibilità è ciò che permette di definire questo silenzio come il silenzio della parola.30 Ma la parola, a sua volta, non è un’entità a sé stante, essa proviene dal silenzio. Dicono i Veda, il Vangelo e alcune tradizioni africane che «Al principio era la parola», «ma la parola divina non era – non è – il principio, l’origine o l’archè».31 Continua il nostro autore: «Il logos è l’essere, poiché “tutto è stato fatto per mezzo di lui”. Il logos è perciò l’essere che fa sì che ogni cosa esista. Ma la sorgente del logos non è l’essere, così come la sorgente del fiume non è il fiume stesso. La sorgente dell’essere è il silenzio, il nulla, dal quale la parola è generata. Dal silenzio del padre è sorta la parola».32

Se ne deduce pertanto che la parola e il silenzio stanno in un rapporto che non è dialettico, ma dialogico, trinitario, o potremmo dire Advaitico. Per cui non si eliminano a vicenda, ma si includono. L’espressione «il silenzio della parola» non si esclude con l’enunciato: «la parola del silenzio». Questo sta a significare che la parola procede dal silenzio e «solo la parola che esce dal silenzio è vera parola che comunica qualcosa».33 La correlazione tra la parola e il silenzio,34 così come quest’ultimo viene inteso al punto quattro, che è quello a cui Panikkar, ispirato dal Buddha, fa riferimento, ci viene espressa, inoltre, dal fatto che entrambe le dimensioni manifestano la non coincidenza tra Essere e Pensiero.35 Infatti, pur se è vero, come si diceva prima, che la parola è un elemento di intermediazione tra Essere e Pensiero, e quindi che essa è ciò che permette di esprimere tutto l’Essere pensabile, è anche vero che non tutto l’Essere possibile può essere pensabile e dunque esprimibile con la parola. Se dunque la parola è da una parte Essere e dall’altra Pensiero, non riduce completamente a sé né l’uno e né l’altro elemento. Altresì, il silenzio accoglie tutto quello che dell’Essere non è e il Pensiero non può dire. Ne risulta che ambedue negano l’identificazione tra Essere e Pensiero.36 Il silenzio, dunque è, abbiamo detto e lo ribadiamo, il momento che anticipa la parola, il logos. La sorgente del Verbo. In altri termini, la condizione propedeutica all’avvento del divino, e in quanto tale «l’apriori dell’esperienza»,37 ovvero ciò che anticipa la vita, in tutte le sue forme, e prepara la strada affinché questa possa fiorire, crescere ed evolversi. Ma non solo. Alla luce di ciò capiamo che il silenzio è quella condizione di cui dobbiamo riappropriarci per poter predisporci idoneamente ad affrontare un discorso su Dio. E ancora, per avvicinarci a comprendere il significato più puro di questo mistero che è al contempo immanente e trascendente. Riporta Raimon:

Ogni disciplina parte da alcuni presupposti epistemologici che le consentono di avvicinarsi al proprio ambito. Come per scoprire un elettrone si ha bisogno di laboratori sofisticati e di matematiche complesse, così il metodo pertinente per parlare di Dio esige la purezza di un cuore che sa ascoltare la voce della trascendenza (divina) nell’immanenza (umana). Senza purezza di cuore non solo non è possibile «vedere» Dio, ma è altresì impossibile scorgere di che cosa si stia trattando. Senza il silenzio dell’intelletto e della volontà, senza il silenzio dei sensi, senza ciò che taluni chiamano «terzo occhio» – del quale parlano non solo i tibetani ma pure i Vittorini – non è possibile accostarsi all’ambito in cui la parola di Dio possa avere un senso. […] «Dio» è la parola, alle orecchie di alcuni gradevole e di altri sgradevole, che rompendo il silenzio dell’essere ci offre l’opportunità di recuperarlo ancora una volta.38

Spesso, tuttavia, accade che immersi e affaccendati nelle attività della nostra vita, perdiamo la capacità di ascoltare il silenzio della vita, che non è una vita di silenzio, cioè quella condotta dai monaci dell’eremo, ma è l’arte di far tacere le nostre attività (dimenticare che noi siamo professori, muratori, impiegati, cristiani e persino esseri umani) per giungere alla esperienza più vera della vita e favorire una consapevolezza più profonda del reale. Solo spogliandoci dell’intero complesso degli attributi che strutturano la nostra personalità saremo in grado di reimpossessarci della nostra fonte originaria, il silenzio, appunto. Si badi bene, però, che entrare nel silenzio non equivale a fuggire dal mondo e a mettere in secondo piano le attività della vita quotidiana, come mangiare, sentire, pensare e amare. Tutt’al più serve a comprendere che ciò che facciamo, pur se vitale, è relativo, ed è relativo perché percepiamo che esiste un qualcosa di essenziale, che alcuni chiamano terzo occhio o dimensione mistica, dove la realtà trascende la conoscenza che possiamo acquisire grazie alla mente e ai sensi. Quando si raggiunge questo livello si prende coscienza del fatto che esso è ciò che conta veramente, e che senza «un silenzio dei sensi e della mente questa facoltà resta atrofizzata e allora la vita – l’esperienza della vita, a prescindere dal suo manifestarsi nelle diverse attività, la vita nella sua profondità – ci sfugge».39

4. Il silenzio del Buddha come via conciliante tra buddhismo, ateismo e cristianesimo

Ma da dove proviene l’intuizione che porta Panikkar a formulare questo tipo di silenzio? Dal buddhismo, o meglio dall’atteggiamento che il Buddha assume di fronte ad alcuni quesiti esistenziali che gli vengono posti dai suoi discepoli. Ed è proprio la sua condotta, insolita e per niente banale, che, da una parte porta gli studiosi a definire il buddhismo una religione atea, e dall’altra conduce il nostro teologo ad accostare il buddhismo all’ateismo moderno. Tutte le scuole buddhiste concordano nel ritenere che ci sono quattordici quesiti ai quali il Buddha rifiutò di dare una risposta. Si tratta di quattro problemi fondamentali: l’eternità del mondo, la sua finitezza, l’esistenza dopo la morte e l’identità tra anima e corpo.40 Il problema dell’esistenza di Dio, invece, lo si desume dalla disamina di queste argomentazioni. Tale questione, infatti, non viene esplicitamente menzionata, perché nei confronti dell’ipotesi su Dio, inteso come Essere assoluto e trascendente, il silenzio del Buddha è totale, non riconosce neppure lo spazio creato dalla domanda.41

Ecco le quattordici proposizioni così come vengono riportate nel volume Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso:

  1. Il mondo è temporalmente finito.
  2. Il mondo non è temporalmente finito.
  3. Il mondo è e non è temporalmente finito.
  4. Il mondo né è né non è temporalmente finito.
  5. Il mondo è spazialmente finito.
  6. Il mondo non è spazialmente finito.
  7. Il mondo è e non è spazialmente finito.
  8. Il mondo né è né non è spazialmente finito.
  9. Il Tathāgata esiste dopo la morte.
  10. Il Tathāgata non esiste dopo la morte.
  11. Il Tathāgata esiste e non esiste dopo la morte.
  12. Il Tathāgata né esiste né non esiste dopo la morte.
  13. L’anima è identica al corpo.
  14. L’anima non è identica al corpo.42

Da questi enunciati notiamo chiaramente che Śākyamuni, per ogni questione affrontata, esprime una posizione che né nega e né afferma. Egli vuole farci capire che la verità non segue un principio dialettico, tale per cui una tesi può essere espressa o in senso affermativo o negativo, e l’una esclude l’altra. Non è a questa logica che appartiene la verità. Essa, invece, si trova a un livello superiore, che non può essere ridotto al principio di identità e non contraddizione.43 Una dimensione che supera le facoltà razionali e dimostra la non coincidenza tra Essere e Pensiero.44 Questo è il motivo per cui, secondo Panikkar, il Buddha reagisce con il silenzio, che non vuol dire rifiutarsi di parlare, bensì di rispondere. Così inteso, tale espediente altro non rappresenta che uno scardinamento totale della metafisica inaugurata da Parmenide, ripresa da Aristotele e affermatasi in modo predominante nella tradizione occidentale, e segna il passaggio dall’ontologia all’«ontolatria».45 Esso, inoltre, mette in risalto la superiorità dell’ortoprassi rispetto all’ortodossia. Per Siddhartha Gautama formulare delle idee intorno a queste problematiche non ha alcun senso perché, riprendendo una sua metafora,46 sarebbe come se un uomo colpito da una freccia avvelenata venisse portato da un medico e invece di chiedergli un aiuto per estrarre l’arma dal volto, gli domandasse chi l’abbia ferito, quale sia il suo aspetto, chi sia la sua famiglia, quale faccia avesse e così via. Prima di ottenere delle risposte non farebbe in tempo a sopravvivere. Allo stesso modo, chi tentasse di risolvere i quesiti fondamentali dell’esistenza, «consumerebbe invano la sua vita mentre persistono dolore e sofferenza, rimanendo in quello stato di ignoranza […] che gli impedisce di conoscere le cause del dolore e di adottare le misure appropriate ad estirparlo».47 Leggendo le quattordici asserzioni formulate dal Buddha, il teologo indo-catalano individua quattro tipi di proposizioni che sembrano esaurire completamente le possibilità logiche che qualsiasi affermazione può presentare.48 Esse sono le seguenti:

  1. A è B.
  2. A non è B.
  3. A è e non è B.
  4. A né è né non è B.49

Riguardo i primi due enunciati, se dovessimo ragionare sulla base del principio di non-contraddizione, sembrerebbe che si escludano a vicenda.50 Ciò significa che se si ritenesse valido il primo si rifiuterebbe il secondo, e viceversa. Secondo il nostro autore, invece, l’Illuminato avrebbe usato il verbo «essere» non come sostantivo, bensì come verbo transitivo. Ne risulta che l’espressione «A non è B» può avere un duplice significato: 1) A è non-B; 2) A non-è B. La differenza sta nel tipo di negazione, la quale, nel primo caso si riferisce a «B», mentre nel secondo a «è». Analizzando bene le due sentenze si nota che soltanto una di queste, cioè «A è non-B» contraddice la proposizione I, ovvero «A è B». Ciò avviene perché la particella «è» riduce le possibilità dell’«Essere A» a «B» o a «non-B», per cui avvalora il principio di identità e non-contraddizione. Diversamente, la seconda frase, ossia «A non-è B», non contraddice la prima affermazione, poiché la «è» assume valore di verbo e il principio di identità e non-contraddizione non regge. Analizziamo questa differenza con un esempio.51 La proposizione «Il mondo è finito (temporalmente)» è in antitesi con l’opinione che «Il mondo è non-finito (temporalmente)» poiché in questo caso Essere e Pensiero coincidono, e la loro identificazione, che si basa sul principio di non-contraddizione, fa sì che ciò che esiste, in questo caso il mondo, deve essere necessariamente pensabile in un modo piuttosto che in un altro, come finito o come non-finito. Non esistono altre possibilità. Invece, se si utilizzasse la particella «è» come verbo e non come concetto, la proposizione “Il mondo è finito (temporalmente)”, pur se dichiara che il mondo è finito non sostiene che sia solo quello, per cui ben si concilia con l’espressione «Il mondo non-è finito (temporalmente)», la quale pur se ci comunica che il mondo non è finito, «non ci dice che cosa il mondo sia».52 Ambedue le forme, pur se dicono qualcosa sull’Essere, lasciano aperta la possibilità di definirlo integralmente attraverso le categorie logiche del Pensiero.

Ma la speculazione di Panikkar non finisce qui. Egli, riprendendo il Buddha, porta il suo discorso, ancora una volta, fino a superare il principio del terzo escluso. Giunge ad affermare, dunque, che anche l’espressione «A non-è B» sia respinta dal Risvegliato, perché anche se dovessimo ammettere la conciliabilità tra le proposizioni «A è B» e «A non-è B» rimane comunque una scissione tra l’«è» e il «non-è» che bisogna colmare. Una possibilità per risolvere questo problema potrebbe essere quella di legare le due proposizioni mediante una congiunzione o una disgiunzione. In questo modo, potremmo accettare o una proposizione del tipo III, cioè «A è e non-è B» (congiunzione), oppure una del tipo IV, ossia «A né è né non-è B» (disgiunzione). A dire il vero, neanche questa alternativa può essere accolta. Infatti, alla luce del discorso fatto prima, capiamo che queste due frasi non sono in antitesi l’una con l’altra. La negazione della III sarebbe «A è B ed è non-B», altresì, quella della IV diventerebbe la formula «A né è B né è non-B». Queste due proposizioni violano il principio del terzo escluso poiché fanno leva sul principio di identità e non-contraddizione, invece, le due precedenti non sono in contrasto tra loro. Dire che «Il mondo è e non è finito (temporalmente)» non vuol dire negare ogni altra possibilità di come esso possa essere. Ciò avviene perché è e non è non esauriscono la realtà di «A» («L’uomo è e non è razionale»). «Non è certo che il mondo sia finito e non-finito, perché né la finitudine né la non-finitudine esauriscono o esprimono adeguatamente il mondo».53 Tale sentenza non viola il principio del terzo escluso, allo stesso modo della frase: «Il mondo né è né non è finito (temporalmente)». Entrambe lasciano aperta la possibilità di altre frontiere del reale. Addirittura, quest’ultima proposizione esprime l’idea che l’ente «A», nel nostro caso il mondo, non è riducibile né alla sfera dell’essere né a quella del non-essere. Il che significa parlare di una trascendenza che oltrepassa quella ontologica,54 per cui, Panikkar può concludere: la posizione del Buddha «è inequivocabile: nessuna delle quattro alternative esprime la sua opinione».55

Eccoci al cospetto del famigerato silenzio del Buddha,56 che non è una risposta, al contrario, si manifesta attraverso il rifiuto dell’Illuminato di rispondere alle questioni fondamentali dell’essere dell’uomo, di Dio e del mondo. Esso da una parte intende mettere in luce la non esistenza di una risposta alle domande ultime della realtà, poiché dal momento in cui noi siamo esseri limitati, relativi, contingenti, anche i nostri quesiti lo sono; dall’altra vuole mettere a tacere la domanda, mostrare all’interrogante che il suo quesito è privo di senso e in quanto tale non ha ragione alcuna di essere posto.57 Tale comportamento, a parere del nostro autore, rievoca quello dell’ateismo moderno. L’ateo, infatti, è colui che di fronte le domande sull’esistenza o la non esistenza di Dio, reagisce come il Buddha: pratica il silenzio. Non si sforza di trovare delle soluzioni al più grande problema esistenziale dell’umanità. Scrive Raimon: « Se quindi ci rivolgiamo ora al messaggio del Buddha predicato venticinque secoli fa, non è per un desiderio anacronistico o per un interesse apologetico, ma perché ci sembra di scorgervi un elemento indispensabile per una spiritualità contemporanea. Entrambe le culture, infatti, quella moderna di impronta occidentale e quella buddhista, sono atee e presentano un atteggiamento apofatico di fronte agli interrogativi ultimi della realtà».58 Questa tendenza rappresenta una via intermedia sia rispetto a coloro i quali hanno concepito Dio unicamente in termini di sostanza, come un Essere, mettendo in atto un vero e proprio processo di divinizzazione dell’Essere, e sia rispetto a quanti lo hanno inteso privo di una essenza propria, promuovendo una operazione di deontologizzazione di Dio a senso unico. Nel primo caso, il concetto di Dio, prima con Aristotele59 e poi con i filosofi della scolastica cristiana,60 è giunto a identificarsi con quello di Essere perché si è avvertita l’esigenza di adeguare l’idea dell’Assoluto al bisogno degli uomini, alla necessità di avere un padre che fosse altro da loro e che, non solo li guidasse dall’esterno, imponendo a ognuno il proprio destino, ma che li sostenesse anche dall’interno, nella profondità del loro essere. Mentre nel secondo, l’idea del divino è stata completamente privata della sua dimensione ontologica poiché l’umanità è giunta al punto di poter fare a meno di una trascendenza che la orienti. Lo sviluppo tecnico-scientifico ha fatto sì che l’uomo si sostituisse a Dio, diventasse lui il padrone dell’umanità e l’artefice del suo destino. In questo modo, Egli appare inesistente, «non è né l’Essere né l’Ente Supremo. Dio non è, non è niente».61 E questa è stata la posizione di Nietzsche, espressa dalla formula: «Dio è morto»,62 considerata da Panikkar l’unica minaccia vera e propria dell’ateismo, che non consiste nell’anti-teismo, cioè nel negare il carattere personale di Dio, ma nella negazione della sua esistenza o essenza.

Ecco che emerge, dunque, il punto in cui l’ateismo moderno e il buddhismo si incontrano: la via di mezzo tra due sentieri estremi. Da una parte l’eccessiva bramosia di voler conoscere i principi ultimi della realtà e, in particolare, l’idea di Dio, in virtù della consapevolezza che l’Essere sia completamente riducibile al Pensiero; e dall’altra l’ostinazione ad ammettere, senza compromessi, che, in realtà, l’Essere non esiste. Tale ateismo si esprime mediante «l’accettazione della pura contingenza».63 Un affidamento totale alla realtà che distoglie l’uomo dalla tendenza a voler oggettivare necessariamente l’idea di trascendenza e lo libera dalla fiducia incondizionata nella scienza.64 Si tratta di una tendenza che si esprime attraverso l’attaccamento al presente, a cui viene conferita la stessa importanza che i religiosi conferirebbero al concetto di eternità, senza però permettere che questo venga sostanzializzato, e quindi convertito in eternità, in altro, in idolo. «Tale ateismo non si erige né a combattere né a negare Dio in modo inequivocabile. Ciò che la mentalità moderna esige veramente è che non si assolutizzi Dio, né nel senso teista tradizionale né in una posizione iconoclasta di “morte di Dio”» .65 Allo stesso modo si manifesta il messaggio del Buddha. Siddhartha Gautama vuole far capire agli uomini che struggersi intorno alle questioni ultime della realtà non conduce da nessuna parte. Anzi, proprio nella pretesa di aver il diritto, o peggio ancora, il dovere di scoprire il mistero dell’esistenza, si cela il più «grande inganno umano, l’origine dell’infelicità».66 Ciò che l’Illuminato esige, invece, conclude Panikkar: «è un senso realistico di accettazione della realtà così come si presenta, una fiducia totale nella vita, in ciò che ci è dato, senza cercare di sostituire alla realtà le nostre idee personali».67 Ciò ovviamente non significa che il buddhismo nega l’esistenza di Dio. Qualsiasi eccesso va condannato. «La sete di non-esistenza deve essere eliminata allo stesso modo del desiderio di esistenza»,68 specifica il nostro autore. Ne consegue che, riguardo l’idea di Dio, l’insegnamento buddhista giunge alla stessa conclusione dell’ateismo moderno: «È altrettanto inadeguato dire che egli esiste come affermare che non esiste».69 Si tratta di una predisposizione che riflette l’idea di una trascendenza che, in quanto tale, pur se attraversa il nostro intelletto, lo supera, al punto da diventare inaccessibile al Pensiero nella sua totalità, ma non al cuore. Da qui il silenzio. Il solo atteggiamento in grado di cogliere tale mistero e di rendere capace l’uomo di «raggiungere Dio».70 Tale silenzio, tuttavia, non si limita ad accostare il buddhismo all’ateismo moderno, ma coinvolge anche il cristianesimo, che ben si inserisce all’interno di questo processo di interrelazione o fecondazione reciproca. Lo stesso Gesù, ci ricorda Panikkar, parimenti al Buddha, reagì con il silenzio quando Pilato gli chiese: che cos’è la verità?71

Leggiamo il passo evangelico.

Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo; per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gli disse Pilato: «Che cos’è la verità?». E detto questo uscì di nuovo verso i Giudei e disse loro: «Io non trovo in lui nessuna colpa».72

La verità, dunque, sta nel silenzio, perché il silenzio conduce a Dio. La verità è Dio perché il silenzio è Dio. E questo lo avevano inteso perfettamente i primi cristiani, i quali alla pratica dell’evangelizzazione alternavano sempre quella della meditazione, del silenzio appunto. Anzi, avevano ben capito che non potevano dedicarsi all’una tralasciando l’altra. Il loro rapporto era funzionale. Il silenzio preparava alla parola, e la parola incoraggiava al silenzio come via privilegiata per arrivare a Dio. Non a caso, negli ambienti monastici del primo cristianesimo, tale osservanza divenne una vera e propria regola imposta ai monaci che si apprestavano a intraprendere la vita cenobitica.73 Ad esempio, Benedetto da Norcia, che possiamo considerare il padre del monachesimo occidentale, nella sua regola monastica, scritta agli inizi del VI secolo e divenuta la più praticata in Europa a partire dal IX,74 a proposito del silenzio raccomanda:

Dobbiamo fare come dice il profeta: «Ho detto: veglierò sulla mia condotta, per non peccare con la mia lingua; porrò un freno alla mia bocca. Ho taciuto e mi sono umiliato, e non ho parlato nemmeno di cose buone». Se, come qui ci insegna il profeta, per amore del silenzio è necessario talvolta astenersi anche dal parlare di cose buone, quanto più bisognerà evitare i cattivi discorsi, per non incorrere nel castigo che colpisce questo peccato. Perciò solo raramente si conceda a coloro che sono discepoli perfetti il permesso di parlare, sia pure di cose buone, sante ed edificanti, in modo che possano osservare un silenzio pieno di gravità.75

Scritta con parole semplici e chiara, questa esortazione invita i monaci a praticare il silenzio per evitare il più possibile di parlare, e con il parlare di cadere nel peccato. Il silenzio, dunque, si presenta come l’unico mezzo in grado di allontanare gli uomini dalla tentazione e di avvicinarli alla pace e all’armonia divina. Lo stesso accade negli ambienti monastici buddhisti, e Panikkar ne è testimone: «In ambiente cenobitico, la caratteristica più marcata del monaco tradizionale è una vita di preghiera. Il monaco parla con gli altri solo in rare occasioni ma, d’altro canto, recita, canta, studia, e medita di continuo; il suo politeuma, la sua conversatio, la sua patria, “la sua cittadinanza è in cielo”. […] Il silenzio monastico non vuol dire essere intontito o ammutolito. Il silenzio monastico è quello che è perché ha superato il mentale, è andato oltre le parole, perché ha trasceso i pensieri».76 Le analogie con il cristianesimo sono evidenti, anzi, è di dominio pubblico che le consuetudini dei monaci cristiani e buddhisti si rassomigliano molto, e non solo agli occhi degli studiosi,77 ma anche e soprattutto alla vista di chi abbia avuto modo di osservare, anche solo passivamente e indirettamente, le due realtà religiose, che certamente, ora, potranno vedere nell’ateismo un amico con cui fecondarsi.

5. Conclusione

La scoperta del silenzio come punto di raccordo tra buddhismo, ateismo moderno e cristianesimo non ha il solo obiettivo di registrare teoreticamente su carta questa somiglianza. Panikkar spera che l’uomo traduca realmente a livello pratico questa sua intuizione e si faccia promotore di quella reciproca fecondazione da lui tanto decantata nei suoi scritti. Ciò significa aprire le porte a un mondo completamente interconnesso al suo interno, non solo tra le varie compagini religiose, ma anche tra credenti e non credenti. Una interdipendenza che, però, si badi bene, non vuol dire creare un mega minestrone religioso-culturale, ma prendere consapevolezza di quello che realmente siamo. Siamo noi stessi, si, ma siamo noi stessi grazie all’altro. La nostra identità si definisce solo sulla base dell’alterità. Pertanto, quella alterità è funzionale a noi, è parte di noi, siamo noi. Ma allo stesso tempo è diversa da noi. Entrare in relazione con l’«altro» non significa soltanto conoscere la diversità, ma soprattutto conoscere sé stessi. Una famosa canzone di Niccolò Fabi si intitola: «Io sono l’altro». E conoscere sé stessi, come recita l’antica iscrizione dell’architrave del tempio di Apollo a Delfi,78 non vuol dire solo migliorare la propria persona, ma anche la società civile in cui si vive. Nel volume L’altro come esperienza di rivelazione. Dialogo con Achille Rossi, l’assessore Damiano Stufara coglie a pieno questa verità quando dice: «Ogni individuo che impara a confrontarsi con la diversità di cui l’altro è portatore senza rinunciare alla propria identità, rappresenta un investimento prezioso in termini di qualità della società del domani».79 Viviamo in un mondo all’interno del quale ogni cosa costituisce un sistema. Scrive Vito Mancuso: «Non esiste nulla al mondo che non sia un sistema, il sistema è la logica della vita, e chi vuole servire la vita deve servire la logica del sistema».80 E servire la logica del sistema significa compiere lo sforzo di indossare i panni dei nostri simili, le loro idee, la loro cultura, la loro vita; con la consapevolezza che così facendo non solo non stiamo rinnegando la nostra identità, ma la stiamo migliorando, arricchendo, completando. Si tratta di un esercizio che non può essere attuato dalla ragione, o almeno, non da lei soltanto, perché si finirebbe nell’impossibilità di conciliare ciò che la logica considera inconciliabile. Tale attitudine, invece, è irrazionale, cioè supera le categorie del pensiero e si attua, come ci ricorda Pascal, al livello del cuore: «Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce».81 Solo così saremo in grado di avvicinarci e fecondare il diverso senza annullare noi stessi, ma tramutarci in lui rimanendo noi stessi. «Ed è in questo senso che Panikkar ci propone un esercizio spirituale – la ricerca, la tensione verso l’unità nella diversità – che dovrebbe essere sempre insito nella dinamica della fede, perché è la dinamica propria del vero protagonista di ogni vita interiore e di ogni dialogo autentico: lo Spirito, “la cui gioia segreta sarà sempre lo stabilire la comunione […] giocando con le differenze”».82 Ed è in questo senso che Panikkar auspica una conciliazione tra buddhismo, ateismo moderno e cristianesimo. D’altronde, se questa compenetrazione non fosse auspicabile, non sarebbe fuoriuscito in alcun modo un senso così profondo della parola silenzio, su cui, adesso, però, lo scrivente, per coerenza di principio, si appresta a tacere. Ma la quiete, abbiamo detto, anticipa sempre il logos. Diamo la parola, quindi, ad altri autori e immergiamoci nella lettura di questi brani sul silenzio, che rispecchiano e approfondiscono quanto detto sin ora e che senz’altro sarebbero stati apprezzati dal nostro Raimon, a cui li dedichiamo.

L’ineffabile83

Giacché ognuno si rende conto che non si raggiunge la percezione di ciò che è in nostro potere percepire se non mediante una negazione, e che la negazione non fa assolutamente conoscere nella sua reale natura la cosa della quale è stato negato ciò che è stato negato, gli uomini tutti, passati e presenti, hanno spiegato che Dio non viene percepito dagli intelletti, e solo Lui stesso percepisce che cosa Egli sia […]. Tutti i filosofi dicono: siamo sopraffatti dalla Sua bellezza, ed egli ci è celato per la forza del Suo apparire, come il sole è celato agli sguardi che sono troppo deboli per percepirlo. […] L’espressione più eloquente a questo fine è il detto dei Salmi: «Il silenzio, per Te, è lode» – la cui interpretazione è: il silenzio intorno a te è una lode. Questa è un’espressione molto intensa di questo concetto, perché noi, in qualunque cosa diciamo con l’intenzione di magnificarLo e lodarLo, troveremmo qualcosa che si applica a Lui, ma vedremmo anche qualcosa di manchevole. Dunque, è meglio mantenere il silenzio e limitarsi a percepire gli intelletti separati, come ordinano i perfetti dicendo: «Parlate in cuor vostro sui vostri giacigli, e tacete».84

La parola di Dio è il silenzio85

Le creature parlano attraverso suoni. La parola di Dio è silenzio. La segreta parola d’amore di Dio non può essere altro che il silenzio. Cristo è il silenzio di Dio. Non c’è albero come la croce, e non c’è armonia come il silenzio di Dio. I pitagorici coglievano questa armonia nel silenzio infinito che circonda eternamente le stelle. La necessità quaggiù è la vibrazione del silenzio di Dio. La nostra anima fa continuamente rumore, ma c’è un punto in essa che è silenzio e che non sentiamo mai. Quando il silenzio di Dio entra nella nostra anima, la trafigge e viene a unirsi a quel silenzio che è segretamente presente in noi, e così da allora in poi abbiamo in Dio il nostro tesoro e il nostro cuore; e lo spazio si apre davanti a noi come un frutto che si divide in due, perché vediamo l’universo da un punto situato fuori dallo spazio.86

Nella divinità silenziosa e disabitata87

Non mi rimane che tacere. O quam salubre, quam iucundum et suave est sedere in solitudine et tacere et loqui cum Deo! Tra poco mi ricongiungerò col mio principio, e non credo più sia il Dio di gloria di cui mi avevano parlato gli abati del mio ordine, o di gioia, come credevano i minoriti di allora, forse neppure di pietà. […] Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e incommensurabile, in cui il cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell’abisso il mio spirito perderà sé stesso, e non conoscerà né l’uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze, sarò nel fondamento semplice, nel deserto silenzioso dove mai si vede diversità, nell’intimo dove nessuno si trova nel proprio luogo. Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c’è opera né immagine.88


  1. M. Bielawski, Panikkar. La vita e le opere, Fazi Ed., Roma 2018, p. 41. ↩︎

  2. R. Panikkar, Tra Dio e il cosmo. Una visione non dualistica della realtà. Dialogo con Gwendoline Jarczyk, trad. di M. Sampaolo, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 65. ↩︎

  3. C. Molari, La profezia di R. Panikkar, Rocca 2010, p. 54. ↩︎

  4. G. Ravasi, Raimon, maestro dello spirito, Il sole 24 ore (24 luglio 2011), p. 32; L.V. Tarca, Prefazione. Per una valorizzazione del dialogo panikkariano, in L. Marcato, Le radici del dialogo. Filosofia e teologia nel pensiero di Raimon Panikkar, Mimesis, Milano-Udine 2017, p. 12. ↩︎

  5. R. Panikkar, L’acqua della goccia. Frammenti dai Diari, a cura di M. Carrara-Pavan, Jaca Book, Milano 2018, p. 57. ↩︎

  6. R. Gibellini, La teologia del XX secolo, Queriniana, Brescia 2004, pp. 553-554. ↩︎

  7. M.R. Cappellini, Sulle tracce del sogno dell’uomo. A colloquio con Raimon Panikkar tra tradizioni e pensiero contemporaneo, Mimesis, Milano-Udine 2010, p. 12. ↩︎

  8. V. Mancuso, Addio a Panikkar. Teologo del dialogo, la Repubblica (28 agosto 2010), p. 43. ↩︎

  9. R. Luise, Preghiera e liturgia, in E. Baccarini,C.G. Torrero e P. Trianni (a cura di), Raimon Panikkar. Filosofo e teologo del dialogo, Aracne, Roma 2014, p. 48. ↩︎

  10. Questo articolo è una rielaborazione di un paragrafo della mia tesi di dottorato, ancora in corso. ↩︎

  11. C.G. Torrero, La reciproca fecondazione di cristianesimo e buddhismo, in Baccarini, Torrero e Trianni (a cura di), Raimon Panikkar. Filosofo e teologo del dialogo, p. 129. ↩︎

  12. Cfr. P. Draper, Where Skeptical Theism Fails, Skeptical Atheism Prevails, Oxford Studies in Philosophy of Religion, 7 (2016), pp. 63-80. Allo stesso modo la pensano S. Bullivant e M. Ruse: «“Atheism” is a term that has historically carried a wide range of meanings and connotations […]. This chapter therefore surveys the sheer variety of ways of defining “atheism”, before outlining the pressing need for a generally agreed-upon usage in the growing – and, thus far, Babel-like – field of scholarship on atheism. It then outlines and explains the precise definition used throughout the Handbook: an absence of belief in the existence of a God or gods. The utility of such a broad definition, taking atheism to be an 'umbrella concept' that admits of a range of subdivisions, is then explored and defended at length». Cfr. S. Bullivant e M. Ruse, The Oxford Handbook of Atheism, Oxford University Press, Oxford 2013, pp. 11-21. ↩︎

  13. Ef 2,12. ↩︎

  14. Nell’antichità il termine ateo, prima di assumere valore negazionista, era utilizzato per indicare i credenti di religioni differenti dalla propria. Ad esempio, Clemente Alessandrino (II-III secolo) riferisce nei suoi Stromateis che i greci dell’epoca consideravano atei i primi cristiani perché non adoravano le divinità tradizionali. Cfr. B. Mondin, Dizionario dei teologi, esd, Bologna 1992, pp. 179-184. ↩︎

  15. S.S. Chakravarti, Hinduism. A Way of Life, Motilal Banarsidass, Delhi 1991, p. 71; L.R. Joshi, A New Interpretation of Indian Atheism, Philosophy East and West, 16 (1966), pp. 189-206. ↩︎

  16. Per un approfondimento sulla tematica dell’ateismo cfr. D. Morin, L’ateismo moderno, trad. di P. Crespi, Queriniana, Brescia 1996; A. Del Noce, Il problema dell’ateismo, il Mulino, Bologna 1964 (ultima edizione 2010); G. Rensi, Apologia dell’ateismo, La Vita Felice, Milano 2012. ↩︎

  17. W. Breuning, Prove dell’esistenza di Dio, in W. Beinert (a cura di), Lessico di teologia sistematica, trad. di C. Danna, Queriniana, Brescia 1990, pp. 529-533. ↩︎

  18. Agostino, La natura del bene, trad. di L. Alici, Città Nuova, Roma 1998, p. 57 (1). ↩︎

  19. Anselmo d’Aosta, Proslogion, a cura di L. Pozzi, Bur, Milano 2018, pp. 81-85 (cap. II, 1-2, 4-5). ↩︎

  20. Sum. Theol., I, q. 2, a. 3. ↩︎

  21. In realtà Leibniz formula due prove sull’esistenza di Dio, una ontologica e una cosmologica. Qui, a titolo di esempio e non per importanza, ci limitiamo a citarne solo una, quella cosmologica. Cfr. G.W. Leibniz, Monadologia, a cura di G. Preti, Se, Milano 2007, p. 23 (cap. VI, 36-38). ↩︎

  22. R. Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, Mondadori, Milano 2006, p. 5. ↩︎

  23. Per una disamina chiara e sintetica sulla relazione tra Essere e Pensiero cfr. R. Panikkar, Thinking and Being, in A. Moutsopoulos (a cura di), Du Vrai, du Beau, du Bien. Études Philosophiques présentées au Professeur Evanghélos, Vrin, Paris 1990, pp. 39-42. ↩︎

  24. R. Panikkar, Pensiero filosofico e teologico, in R. Panikkar e M. Carrara-Pavan (a cura di), Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2020, vol. X, tomo 2, p. 472. ↩︎

  25. Ivi, 473. ↩︎

  26. Per un approfondimento più ampio sulla nozione di Parola in Raimon Panikkar cfr. G.J. Forzani, Lo spirito della parola. Raimon Panikkar e il rinnovamento della lingua religiosa, in Baccarini e Torrero - Trianni (a cura di), Raimon Panikkar. Filosofo e teologo del dialogo, pp. 147-154. ↩︎

  27. R. Panikkar, The Threefold Linguistic Intrasubjectivity, in M.M. Olivetti (a cura di), Intersoggettività. Socialità. Religione, Archivio di filosofia, 1-3 (1986), pp. 594-596. ↩︎

  28. R. Panikkar, Verità-Errore-Bugia-Esperienza Psicoanalitica, Quaderni di psicoterapia infantile, 13 (1986), pp. 26-27. ↩︎

  29. R. Panikkar, Words and Terms, in M.M. Olivetti (a cura di), Esistenza, mito, ermeneutica, cedam, Padova 1980, vol. II, pp. 117-133. ↩︎

  30. R. Panikkar, Wort und Schweigen, Meditation, 30 (2004), pp. 3-6; R. Panikkar, The silence of the word: non-dualistic Polarities, Cross-Current, 24 (1974), pp. 154-171; R. Panikkar, The Power of Silence, Point of Contact, 5 (2001), pp. 3-10. ↩︎

  31. R. Panikkar, La dimora della saggezza, a cura di M. Carrara-Pavan, Mondadori, Milano 2005, p. 99. ↩︎

  32. Ibidem. Cfr. R. Panikkar, L’esperienza della vita. La mistica, a cura di M. Carrara-Pavan, Jaca Book, Milano 2005, pp. 35-38. ↩︎

  33. Panikkar, La dimora della saggezza, p. 102. ↩︎

  34. R. Panikkar, El silencio de la palabra. Polaridades no dualísticas, Cielo y Tierra, 10 (1984-85), pp. 25-40. ↩︎

  35. R. Panikkar, The Invisible Harmony, a cura di H.J. Cargas, Fortress, Mineapolis 1995, p. 60: «Il presupposto metafisico ultimo della maggior parte della civiltà occidentale, a partire dai Presocratici, è la convinzione dell’intima corrispondenza fra pensiero ed essere. Essi possono essere la stessa cosa o essere diversi ma 'teoreticamente' corrispondono l’uno all’altro. La mia tesi è che questa geniale intuizione non sia umanamente universale e che, pertanto, non si possa universalizzare se si vuole comprendere l’intera gamma dell’esperienza umana, ovvero l’elemento umano». ↩︎

  36. A. Calabrese, Il paradigma accogliente. La filosofia interculturale in Raimon Panikkar, Mimesis, Milano-Udine 2012, pp. 93-94: «Sul piano euristico il significato del silenzio è espresso da un’intuizione di apparente comprensione immediata: il silenzio accoglie ciò che dell’Essere non è o non può essere pensato. […] Ora, il silenzio dice tutto ciò che il Pensiero non può dire. In termini più rigorosi diremo che nella visione di Panikkar la nozione di silenzio si riferisce euristicamente a quelle dimensioni dell’Essere che non sono oggetto dell’azione del Pensiero». Per un approfondimento sul rapporto tra silenzio e parola in Raimon Panikkar cfr. H. Coward, Panikkar’s Philosophy of Language, in J. Prabhu, The intercultural Challenge of Raimon Panikkar, Orbis Book, Maryknoll/New York 1996, p. 61: «Panikkar suggest that silence is the source of every real word. Panikkar situates silence at the source of our being, at Brahman, which is at the same time the source of language». ↩︎

  37. R. Panikkar, L’esperienza di Dio, trad. di M. Nicolosi, Queriniana, Brescia 2002, p. 21. ↩︎

  38. Ivi, 10-19. ↩︎

  39. Per visionare questo discorso interamente cfr. ivi, 21-24. La citazione virgolettata è a p. 23. ↩︎

  40. Così si esprime il Buddha nel Cūlāmalunkya sutta (Breve discorso a Malunkya): «Perciò, Mālunkyāputta, ciò che da me non è stato spiegato, tenetelo per non spiegato; e ciò che da me è stato spiegato tenetelo come spiegato. Ma che cosa, o Mālunkyāputta, non ho spiegato? Che il mondo è eterno, ciò, Mālunkyāputta, non ho spiegato; che il mondo non è eterno, ciò non ho spiegato; che il mondo ha fine, ciò non ho spiegato; che il mondo non ha fine, ciò non ho spiegato; che la vita e il corpo sono la stessa cosa, ciò non ho spiegato; che la vita e il corpo sono due cose diverse, ciò non ho spiegato; che il Tathāgata esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathāgata non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathāgata esiste e non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato; che il Tathāgata né esiste né non esiste dopo la morte, ciò non ho spiegato». Cfr. R. Gnoli (a cura di), La rivelazione del Buddha. I testi antichi, Mondadori, Milano 2001, vol. I, pp. 228-229. ↩︎

  41. R. Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, p. 123. ↩︎

  42. Ivi, 125. ↩︎

  43. R. Panikkar, Identity and Non-Contradiction: Two Schemes of Intelligibility, in T.R.V. Murti and Indian Philosophical Tradition, Banaras Hindu University, Varanasi 1989, pp. 207-215. ↩︎

  44. Cappellini, Sulle tracce del sogno dell’uomo. A colloquio con Raimon Panikkar tra tradizioni e pensiero contemporaneo, pp. 165-166. ↩︎

  45. Termine coniato dal nostro autore e utilizzato non per indicare la negazione dell’ontologia, ma il suo superamento, che consiste nell’affermazione di una metafisica libera sia dalle dicotomie dialettiche che dai riduzionismi monistici. ↩︎

  46. Pasqualotto mette ben in evidenzia come la metafora della freccia serva al Buddha per affermare la supremazia dell’ortoprassi sull’ortodossia. Tutt’ora predominante nel buddhismo: «Il contenuto della parabola dell’uomo ferito dalla freccia è a questo riguardo affatto esplicito e chiaro: mentre ci si sforza di sapere se l’anima coincida o no con il corpo, se l’universo sia o no infinito ed eterno, se esista o no un’entità trascendente e immortale, la vita scorre nel dolore e nell’angoscia, senza più tempo per conoscere le cause profonde dell’uno e dell’altra. Questa avvertenza, ribadita dal Buddha contro ogni distrazione dall’obiettivo della salvezza dal dolore, rende evidente l’orizzonte entro cui si muove il fine principale del discorso buddhista: più importanti di ogni fondazione e giustificazione logica sono le pratiche per rendere possibile il superamento delle cause profonde che provocano la sofferenza». Cfr. G. Pasqualotto, Illuminismo e illuminazione, Donzelli, Roma 1997, p. 28. ↩︎

  47. R. Marangoni, Buddhismo, Ed. Bibliografica, Milano 2017, p. 78. ↩︎

  48. R. Panikkar, Buddhismo, in R. Panikkar e M. Carrara-Pavan (a cura di), Opera Omnia, Jaca Book, Milano 2019, vol. V, pp. 185-206. ↩︎

  49. Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, p. 127. ↩︎

  50. Per un approfondimento chiaro e semplificato di come Panikkar interpreta ed elabora le proposizioni del Buddha cfr. Marcato, Le radici del dialogo. Filosofia e teologia nel pensiero di Raimon Panikkar, pp. 51-53; Calabrese, Il paradigma accogliente. La filosofia interculturale in Raimon Panikkar, pp. 93-103; P. Barone, Spensierarsi. Raimon Panikkar e la macchina per cinguettare, Diabasis, Reggio Emilia 2007, pp. 38-45. ↩︎

  51. L’esempio che Panikkar prende in considerazione fa riferimento alla questione relativa all’eternità del mondo. Ciò, ovviamente, non toglie che il risultato a cui arriva vale anche per le altre questioni affrontate dal Buddha nelle sue quattordici proposizioni. A proposito di queste, tuttavia, va puntualizzato che quelle riguardanti l’anima differiscono dalle altre perché, a differenza di queste, si presentano come «mere contraddizioni». A tal riguardo, riporta Raimon: «Le proposizioni 13 e 14, […] escludono ogni altra possibilità, mentre le proposizioni che le precedono necessitano della doppia negazione per non lasciare degli spiragli attraverso cui potrebbe introdursi all’interno dell’ordine concettuale qualsiasi altra risposta. Se c’è identità tra l’anima e il corpo, dire che l’anima è e non è identica al corpo è privo di significato; se non c’è identità, affermare che l’anima è e non è, o che né è né non è identica al corpo, perde ogni intelligibilità». Cfr. Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, p. 133. ↩︎

  52. Ivi, p. 129. ↩︎

  53. Ivi, p. 131. ↩︎

  54. R. Panikkar, The Rhythm of Being. The Gifford Lectures, Orbis Book, Maryknoll/New York 2010, p. 263: «Se 'esiste', la trascendenza è così trascendente da superare sia il nostro Pensiero che il nostro Essere, e quindi anche ogni tentativo di darle un nome. Per il Buddha, dare un nome all’Assoluto sarebbe la grande bestemmia. L’apofasi buddhista è al tempo stesso ontica e ontologica. Il silenzio viene preso sul serio, non come un’altra forma di espressione o di linguaggio». ↩︎

  55. R. Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, p. 132. ↩︎

  56. Per un approfondimento sul silenzio del Buddha cfr. F. Sferra, Il silenzio del Buddha, in G.M. D’Erme (a cura di), Fedi e culture oltre il Dio di Abramo, Guida, Napoli 2003, pp. 115-133; <R. Emanuele, Il silenzio del Buddha. Misticismo e tradizione buddhista, Magnanelli, Torino 2002; M. Nicolini-Zani, Il nobile silenzio. Prospettive buddhiste, Mimesis, Milano-Udine 2020. ↩︎

  57. R. Panikkar, Mito, fede ed ermeneutica. Il triplice velo della realtà, a cura di M. Carrara-Pavan, Jaca Book, Milano 2000, pp. 259-263. ↩︎

  58. Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, p. 179. ↩︎

  59. Aristotele, Metafisica, a cura di G. Reale, Bompiani, Milano 2017, pp. 567-575 (XII, 1073a 14 - 1074b 15). ↩︎

  60. R. Panikkar, The Experiential «Argument» of Abhinavagupta. A Cross-cultural Consideration, in M.M. Olivetti (a cura di), L’argomento ontologico, cedam, Padova 1990, pp. 489-520; Id., Pensiero filosofico e teologico, p. 497: «L’impresa ontologica è lo sforzo di costruire un ponte dal puro pensiero all’essere. Dio è quell’entità che ci pone sull’orlo dell’abisso per saltare dal pensiero dell’id quo maius cogitari nequit all’esistenza effettiva di tale Essere. Il salto non viene eseguito a partire dal trampolino delle cose ma affidandosi al puro pensiero, sforzandosi di concepire il maius e accorgendosi che non lo si potrebbe fare se quel maius non esistesse. Il pensiero ci conduce all’Essere». ↩︎

  61. Panikkar, Buddhismo, p. 271. ↩︎

  62. F.W. Nietzsche, La gaia scienza, trad. di F. Ricci, in Opere 1882/1895, Newton Compton, Roma 1993, p. 121 (125): «L’uomo folle. Non avete sentito parlare di quell’uomo folle che, nel chiarore del mattino, accendeva una lampada, andava al mercato e gridava incessantemente: “Cerco Dio! Cerco Dio!”. Poiché molti di coloro che si trovavano là non credevano in Dio, suscitò una gran risata. “Si è forse perduto?”, disse uno. “Ha smarrito la strada, come un bimbo?”, disse un altro. “O forse si è nascosto? Ha paura di noi? Si è imbarcato? È emigrato?” E così gridavano e ridevano insieme. Il folle balzò in mezzo a loro e li trafisse con lo sguardo. “Dov’è andato Dio?” gridò. “Ve lo dico io. L’abbiamo ucciso noi, – voi e io! Noi tutti siamo i suoi assassini […]»; Id., Così parlò Zarathustra, trad. di A.M. Carpi, in Opere 1882/1885, p. 233 (paragrafo 3): «[…]. Io vi scongiuro, fratelli miei, restate fedeli alla terra e non prestate fede a coloro che vi parlano di speranze ultraterrene! Sono avvelenatori, lo sappiano o no. Spregiatori della vita sono, moribondi e loro stessi avvelenati, di cui la terra è stanca: vadano dove vogliono! Un tempo il sacrilegio contro Dio era il maggiore dei sacrilegi, ma Dio è morto e con esso sono morti anche questi sacrileghi. Un sacrilegio contro la terra è ora la cosa più terribile, e venerare le viscere dell’imperscrutabile più del senso della terra! […]». ↩︎

  63. Panikkar, Il silenzio del Buddha. Un a-teismo religioso, p. 170. ↩︎

  64. Ibidem: «Intendiamo dire che è un ateismo che “salva” l’uomo dagli artigli di una trascendenza alienante (senza la corrispondente immanenza), che lo libera dalla superstizione così come dalla credulità nella scienza. E una delle funzioni di ciò che chiamiamo “religione” è quella di cercare una “salvezza”, comunque la si voglia intendere. Si tratta di un ateismo che, vincendo l’illusione del passato e il miraggio del futuro, si trova nuovamente di fronte al presente e si vede obbligato, in un modo o nell’altro, a riconoscergli tutta la consistenza che gli “eternalisti” vorrebbero conferirgli senza però sostanzializzarlo, senza convertirlo in eternità, in altro (aliud), in idolo». ↩︎

  65. Ivi, p. 171. ↩︎

  66. Panikkar, Mito, fede ed ermeneutica. Il triplice velo della realtà, p. 262. ↩︎

  67. Ibidem↩︎

  68. Ivi, p. 263. ↩︎

  69. Ivi, p. 350. ↩︎

  70. Ibidem↩︎

  71. Ivi, p. 269. ↩︎

  72. Gv 18,37-38. ↩︎

  73. Cfr. E. Bianchi, Regole monastiche d’Occidente, trad. di C. Falchini, Einaudi, Torino 2001. ↩︎

  74. C. Azzara e A.M. Rapetti, La Chiesa nel Medioevo, il Mulino, Bologna 2009, pp. 107-110. ↩︎

  75. Benedetto da Norcia, La regola, a cura di G. Picasso, trad. di D. Tuniz, San Paolo, Cinisello Balsamo 2015, pp. 55-56 (cap. VI, 1-3). ↩︎

  76. R. Panikkar, Beata semplicità. La sfida di scoprirsi monaco, Cittadella Ed., Assisi 2007, pp. 98-99. ↩︎

  77. Per un’analisi comparativa tra il monachesimo cristiano e i monachesimi orientali cfr. C. Bonivento (a cura di), Monachesimo cristiano, buddista, indù. Incontro interreligioso sulla vita monastica. Praglia, 3-8 ottobre 1977, emi, Bologna 1978. ↩︎

  78. Senofonte, Memorabili, a cura di A. Santoni, Bur, Milano 2010, p. 323 (IV, 24). ↩︎

  79. D. Stufara, L’Umbria e lo spirito di Assisi, in R. Panikkar, L’altro come esperienza di rivelazione. Dialogo con Achille Rossi, l’altrapagina, Città di Castello 2008, p. 14. ↩︎

  80. V. Mancuso, Il bisogno di pensare, Garzanti, Milano 2019, p. 123. ↩︎

  81. B. Pascal, Pensieri, a cura di F. Masini, Ed. Studio Tesi, Pordenone 1992, p. 99 (277). ↩︎

  82. M. Nicolini-Zani, Introduzione, in Baccarini, Torrero e Trianni (a cura di), Raimon Panikkar. Filosofo e teologo del dialogo, p. 21. ↩︎

  83. V.L. Carozzi (a cura di), Nel silenzio. Una guida letteraria, ets, Milano 2021, p. 40. ↩︎

  84. Moshe ben Maimon (Maimonides / Mosè Maimonide), Dalalāt al-Hayirīn (1190). ↩︎

  85. Ivi, p. 55. ↩︎

  86. Simone Weil, Pages retrouvées faisant suite à l’amour de Dieu et le malheur (1940-1943). ↩︎

  87. Ivi, p. 78. ↩︎

  88. Umberto Eco, Il nome della rosa (1980). ↩︎