Yves Bonnefoy, un poeta fenomenologo

1. La resistenza alla concettualizzazione e l’apertura alla speranza. L’elogio della menzogna

«Je voudrais réunir, je voudrais identifier presque la poésie et l’espoir».1 Con queste parole Yves Bonnefoy apre il saggio L’acte et le lieu de la poésie, precisando, però, l’esistenza di due tipi di poesia e di speranza. Individua una prima forma di poesia, chimerica e menzognera, che coltiva la speranza di strappare l’oggetto nominato al tempo, allo spazio, alla materia, per salvarne soltanto l’essenza. Questa poesia, che Bonnefoy definisce divine, dimentica la consunzione e il disfacimento dei corpi, abolisce l’infection de ce qui se perd nella speranza che almeno la scrittura divenga un assoluto in cui poter trovare riposo. La parola poetica acquieta l’uomo angosciato dal nulla e diventa la sua consolazione illusoria, uno spazio miracolosamente non corruttibile. Eppure questa poesia, che sembra dimenticare la morte, accoglie la negazione che le è propria. Quest’ultima osservazione di Blanchot sottolinea il tentativo della scrittura di disfarsi della realtà, la rinuncia del poeta al suo muoversi nel mondo:

le mauvais espoir est celui qui passe par l’idéal — le ciel de l’idée, la beauté des noms, le salut abstrait du concept.2

Questo primo tipo di poesia offre dunque lo stesso illusorio riposo in un «lieu préservé»3 che promette il «concept». Molti degli scritti di Bonnefoy denunciano il potere incantatorio e malefico del concetto, che è la nozione astratta di un sentimento, o di un evento, la quale seduce poiché offre una «demeure éternelle»:4 una dimora incorruttibile e trasparente per il pensiero. Richard nota che «la primitive opacité des choses se mue peu à peu en transparence»:5 il concetto è in grado di acquietare perché muta gli urti che l’esistenza produce e gli stravolgimenti del caso in un equilibrio armonioso, in un «calme discours», secondo le parole dello stesso Richard. Tuttavia questa pace armoniosa può offrirla soltanto l’astrazione, non l’esperienza vissuta, opaca, che Bonnefoy scorge in una foglia d’edera maciullata, segnata dal tempo che l’ha incisa, dalla violenza a cui l’ha sottoposta la vita. Il concetto di foglia è un tradimento della realtà particolare di quella foglia, e dell’Erlebnis che l’ha solcata. Il «concept», così come il primo tipo di poesia individuata da Bonnefoy, oppone un rifiuto all’Erlebnis, a quella che il poeta chiama presenza: il concetto è «le grand refus»6 dell’esistenza, che comporta anche un’inibizione dello slancio e della passione, oltre che una protezione dagli eventi tumultuosi, e

quand il n’y a plus de désirs, d’errements ou de passions, même le vent et le feu ne sont plus réels, la demeure d’absence est grandie aux proportions de ce monde.7

Ogni formulazione linguistica comporta un oblio della finitezza, quindi un invito a sognare e a dimenticare l’esistenza, perché il linguaggio può esercitare un potere sottile e feroce, che consiste nel far sparire «ce qui est» nella parola che lo nomina. Ma è proprio a questo punto che inizia il compito della poesia, nel mettere in discussione il suo stesso strumento, la lingua, con lo scopo di rigenerare le parole, di trasformare l’assenza dell’oggetto nominato in presenza. La poesia si oppone così alla concettualizzazione, la quale slega l’idea dal corpo che la esprime. Afferma infatti Bonnefoy: «la dissociation, c’est quand les mots deviennent concepts.8

La condizione di questo secondo tipo di poesia è la precarietà, giacché non si rassegna a una lingua cristallizzata e a una terra immobile, bensì ricomincia a interrogare il mondo attraverso le parole. La poesia diventa quindi lo strumento di questa nuova speranza, che non è quella di rifugiarsi in ciò che è probabile e neppure nella finzione dell’irrealtà: l’«espoir vrai» consiste nell’affermazione dell’improbabile e nell’attesa di ciò che è.

Tuttavia la difficoltà del linguaggio nell’esprimere l’immediato non è risolvibile: la parola può celebrare la presenza, preparare al suo incontro, ma non la può ricreare. La poesia costituisce soltanto il mezzo di un approccio alla presenza, giacché non è in grado di catturarla. Ma questa mancanza — l’impossibilità di afferrare la presenza — possiede la virtù di inaugurare una ricerca appassionata del poeta, il quale si immerge nel tentativo di riempire questo vuoto.

Ciò che la poesia è in grado di fare è cancellare quel che ostacola il contatto con la presenza: questa «théologie négative», questo attacco violento portato contro il concetto e il sapere stereotipato, contro l’apparente verità delle cose, è la grande risorsa di cui dispone il poeta.

In After Babel George Steiner ha indagato il rapporto esistente tra l’evoluzione del linguaggio e l’enunciazione di verità o falsità. È assai riduttivo pensare alla verità del linguaggio umano come riproduzione di ciò che le cose sono: è quel che sosteneva Hume, il quale condannava le argomentazioni ipotetiche per la mancanza di realtà su cui sono fondate. Steiner fa invece un elogio della falsità nel linguaggio, intendendo per falsità la capacità creativa di negare i fatti, di fuoriuscire dalla realtà, e quindi di rifiutarsi alla logica nella speranza di avvicinare l’improbabile. Le proposizioni condizionali, ad esempio, sono considerate da Bloch la nostra possibilità di rinnovamento. Il linguaggio è dunque lo strumento con il quale l’uomo può rifiutarsi al mondo così com’è. Steiner utilizza il termine «alternità»9 per designare l’altro, la diversità rispetto alle cose come appaiono, e che Bonnefoy chiamerebbe «le réel profond». L’arte, la musica, e soprattutto il linguaggio, sono portatori di questa menzogna rispetto al reale, di immagini ad esempio, e di proposizioni ipotetiche.

L’umanità piena inizia soltanto con una risposta che affermi «la cosa che non è». […] La serie di false risposte possibili, di «alternità» immaginate e/o enunciate è illimitata. Non ha un termine né formale né contingente, e questa illimitatezza del falso è fondamentale sia per la libertà umana che per il genio del linguaggio»10

perché oppone una resistenza alla concettualizzazione. Grazie alle forme congiuntive, future e ottative, l’uomo si muove in uno spazio di libertà maggiore rispetto al presente in cui i fatti accadono. Con la speranza, la fantasia, la controfattualità, siamo in grado di allargare la realtà limitante. Steiner ipotizza quindi che l’uomo non sarebbe riuscito a sopravvivere senza lo strumento antideterministico del linguaggio, e conferma un’espressione nietzschiana di Al di là del bene e del male: «inventiamo per noi stessi la maggior parte dell’esperienza».11

2. La funzione della poesia tra fenomenologia ed esistenzialismo

Nell’Entretien avec Bernard Falciola Bonnefoy individua diverse fasi nel processo di scrittura poetica, il cui punto di partenza e di approdo è il «silence». Il poeta compie una tabula rasa per sbarazzarsi della «parole extérieure» — ideologie, sapere stereotipato, mode intellettuali —, della lingua quotidiana che versa in uno stato di inevitabile degradazione e distanza dalla freschezza dell’esperienza vissuta. La funzione della poesia è quella di riannodare il legame tra il linguaggio e l’esistenza, scegliendo all’interno della lingua comune una parola privata, una «parole vraie» che permetta al poeta di vivere. La lingua possiede il potere di costruire un nuovo essere-al-mondo, perché non c’è conoscenza o esperienza profonda che preesistano alla parola che le esprimerà. Heidegger rivendica infatti il linguaggio come luogo ontologico, cioè come momento primo di manifestazione dell’essere. Il silenzio che la poesia instaura prima della creazione poetica garantisce l’autenticità delle parole che sorgeranno, «les mots avertis de la présence». La prima fase consiste allora nel non ostacolare le proposizioni che chiedono di uscir fuori, e che creano un campo semantico di cui solo successivamente il poeta tenterà una spiegazione. In Dévotion Bonnefoy invoca «les mots patients et sauveurs»:12 sono le parole, come «arbre» o come «pierre», che significano altro dal loro referente in quanto nascono dalla vita del poeta. Con esse egli vive un rapporto di intimità autentica. Si tratta nondimeno di un rapporto che deve essere continuamente rinnovato, affinché queste parole schiudano l’esistenza presente del poeta, il suo rapporto con il mondo, anche se ciò ha luogo solo nell’istante in cui sta scrivendo. Al termine del suo lavoro, esse avranno assunto già un significato immobile e concettuale, come lo possiede la parola ordinaria. Per questa ragione il silenzio è anche il punto di approdo della creazione del poeta, che sentirà come inautentiche le parole appena scritte e avrà bisogno di ricominciare a cercarne di nuove, che diano vita a un nuovo ordine. L’effetto che produce questa lingua privata del poeta è la creazione di un nuovo mondo, quello della sua vita presente. Infatti egli ritrova pienamante la cosa soltanto grazie a parole che ha vissuto e che diventano come dei nomi propri nella sua esistenza. Una terra o una casa, investite da un sentimento di appartenenza, diventano come persone amate nella sua esistenza. Bisogna lasciar esistere queste parole, ingrandirsi e permettere che si offrano, per poi abbandonarle e ricominciare il lavoro a partire da quel silenzio carico di una nuova attesa.

Il principio che sta alla base della fenomenologia è la visione originalmente offerente. È l’assunto fondamentale della filosofia husserliana, giacché le cose che si offrono e si lasciano vedere sono l’indubitabile sorgente di conoscenza. Non si tratta di feticci creati, né di immagini, ma di cose in carne ed ossa che si mostrano — che si danno nell’intuizione — di fenomeni che si schiudono al soggetto, come le parole di cui parla Yves Bonnefoy, quelle che sorgono (si offrono) prive di controllo nel «premier travail» della scrittura poetica. La fenomenologia di Husserl è la nuova scienza che agli inizi del Novecento cerca «cominciamenti assolutamente chiari» tanto da definirla «Archäologie», poiché essa intende esplorare sistematicamente le origini dell’essere e della verità: «nulla deve valere che non sia stato giustificato in modo assoluto», scrive Husserl in Erste Philosophie II.13 Il fenomeno è questo cominciamento evidente e luminoso, ma abitualmente coperto dall’atteggiamento naturale e scientifico. Con questa espressione si intende il modo di vivere ingenuo e acritico che relega la conoscenza nel dominio dell’ovvietà. Bonnefoy parla di concetto alludendo a questo stesso oblio dell’esistenza, che copre e che dimentica l’«eau qui sans chimère bouge».14 Il passaggio dal mondo-circostante-già-dato al mondo della vita (la Lebenswelt) avviene attraverso una perdita del mondo stesso per mezzo dell’epoché, che viene poi recuperato dalla coscienza costitutrice di senso.

La perdita è dunque il movimento necessario per poi trovare autenticamente il senso delle cose. La parola poetica di Bonnefoy deve prima perdere la lingua ordinaria per poi ritrovare il legame tra il linguaggio e l’esistenza. La perdita intride l’esperienza di tempo, di mortalità, quindi della realtà più profonda dell’uomo. «Tout se défait, pensai-je, tout s’éloigne», scrive Bonnefoy.15 Per potersi muovere in accordo col divenire bisogna perdere la posizione conquistata. L’epoché husserliana consente proprio questo adeguamento alla verità presente.

Il modo autentico di rapportarsi al mondo è ritrovato grazie allo strumento metodologico di cui Husserl parla già nel 1907 in Die Idee der Phänomenologie e che negli anni successivi diverrà un tema centrale del suo pensiero. L’epoché è la sospensione dell’assenso sull’esistenza del mondo, che serve a negare ogni falsa realtà esatta e naturale, ottenuta con un’astrazione; in questo modo il mondo artificiale risulta annientato da un vissuto autentico. Il mettere fra parentesi tutto ciò che non è vivo equivale a quel silenzio da cui ha inizio la poesia secondo Bonnefoy: tacciono le voci del concetto, favorendo una nuova consapevolezza dell’Io, adesso non più smarrito fra le cose del mondo e le parole ordinarie.16 L’epoché non trasforma il mondo, ma impedisce di considerarlo un orizzonte precostituito dell’essere. L’ininterrotto bisogno di destrutturazione che avverte Bonnefoy è sentito anche da Husserl, e ha la funzione di garantire la validità dell’epoché e l’attualità delle sue conquiste, affinché il mettere fra parentesi non diventi un’astensione perenne dal giudizio, né un nuovo concetto slegato dall’esistenza attuale.17

In questo sforzo per non arrestarsi su posizioni già codificate o anche su quelle faticosamente raggiunte, si può scorgere l’adesione di Bonnefoy a una visione esistenzialista. Come è noto, questa filosofia incentra la sua speculazione sul singolo gettato nella sua finitezza, abbandonato alla sua scelta, prigioniero della sua colpa. Riprendendo la nozione kierkegaardiana di esistenza individuale e finita, non riducibile a schemi universali come in Hegel, l’esistenzialismo si oppone a ogni forma di essenzialismo. Secondo Heidegger l’essere è un compito, perché l’uomo non è qualcosa di già dato, possessore di un’essenza: l’uomo «ha sempre da essere il suo essere»18 creando incessantemente i suoi contorni. Questa idea rappresenta anche uno dei punti di contatto fondamentali tra fenomenologia e esistenzialismo, tra Husserl e Heidegger: entrambi riconoscono il senso dell’essere nel trascendersi verso il possibile valore futuro. Questa asserzione è pressoché parafrasata da De Martino, storico delle religioni e studioso di Heidegger, il quale collega questo concetto al tema centrale del pensiero di Bonnefoy: De Martino definisce la presenza come «il movimento che trascende la situazione nel valore».19 Il termine «movimento» è essenziale perché indica lo sforzo che l’uomo compie per sollevarsi dallo stato bruto della natura, dalla sua ciclicità, verso il divenire, che è il tempo della cultura.

3. Dall’esteticità della semplice apparenza all’eticità dell’esistenza. L’irruzione della presenza

Nonostante il pensiero di Bonnefoy sia riconducibile a un orientamento filosofico esistenzialista, egli non aderisce ad alcuna filosofia, perché a tutte imputa la colpa di costruire sistemi che organizzano il pensiero. Ogni filosofia fonda le sue verità sul concetto, allontanandosi quindi dall’esistenza. Secondo Richard «l’irrationalisme, existentiel ou romantique, d’Yves Bonnefoy aboutit ainsi à une non-philosophie».20

La poesia, che consente un ritorno al divenire autentico dell’uomo, è al polo opposto rispetto alla filosofia. L’Improbable si apre proprio con un attacco implicito a quelle filosofie che hanno indagato il tema della morte, tralasciando però le tombe in cui sono sepolti i cadaveri. Per rifiutare la morte, la filosofia ha creato spazi di permanenza, forme ideali che rinnegano la precarietà. Il compito della poesia è invece quello di comprendere l’esistenza e di favorire un ritorno alla realtà. La disgiunzione tra letteratura e esistenza, tra le immagini e i corpi, è risanata, secondo Bonnefoy, dall’intervento della poesia. La parola poetica annoda infatti l’esistenza alla scrittura, di per sé gnostica, poiché comporta un abbandono della realtà quotidiana.

Negli anni del Liceo il suo professore di filosofia, che aveva frequentato a Parigi alcuni gruppi legati all’avanguardia, gli mostra la Petite Anthologie du Surréalisme di Georges Hugnet, dove Bonnefoy scopre la poesia di Breton, Péret, Eluard, ammira De Chirico, Giacometti, gli inizi di Mirò.

«L’image, c’est ce qui m’avait touché le plus, et d’emblée, dans les œuvres surréalistes», annota Bonnefoy nell’Entretien avec John E. Jackson: un’affermazione che suona come l’ammissione di aver ceduto allo stato estetico dell’«image». Ma la fascinazione nei confronti dell’immagine è anche ciò che lo spingerà alla rottura con Breton nel 1947.

Le creazioni surrealiste, come è noto, si muovono nelle morbidezze dell’inconscio che prorompe attraverso la dimensione onirica, e determinano la costruzione di mondi illusori la cui unica realtà risiede nella forza psichica del soggetto che ne mette assieme gli elementi. Bonnefoy rifiuta questo abbandono, ma non rinnega l’uso dell’immagine, facendo così compiere alla scrittura poetica un doppio movimento, di «dispersion et retour»,21 di ricerca dell’immagine e poi di lotta contro il suo potere illusorio, mistificatore, al fine di tornare all’esistenza concreta.

Tuttavia per comprendere il valore di questa conquista faticosa occorre soffermarsi sulle virtù incantatorie dell’immagine e sul bisogno, avvertito da Bonnefoy, di cedere alle sue fascinazioni, le quali preparano in tono dimesso l’alternativa al reale, poiché irretiscono gli occhi dello spettatore con lusinghe sottili, e non con scenari magnificenti. Bonnefoy precisa infatti che le terre del «là-bas» non sono costruite con «parois d’ozone pur»,22 le quali segnerebbero l’entrata in un mondo altro, distillato e liberato dalle compromissioni del vivere umano. Il potere delle immagini consiste nel creare mondi riscattati dalle sofferenze della realtà. Mondi che siano in grado di offrire riposo.

La prima raccolta poetica di Bonnefoy, Du mouvement et de l’immobilité de Douve (1953), è un incontro con la finitezza, con ciò che nella vita dell’uomo più dolorosamente ferisce e più profondamente umilia. Douve è il recupero dell’elemento mortale della vicenda umana, è l’epopea del corpo che si trasforma e si corrompe. Il paesaggio che si compone nelle poesie di Douve è fatto di oggetti destinati alla consunzione: alberi, terra, fogliame, e «l’immense matière indicibile».23 Ma ci sono anche elementi immutabili — la pietra, la notte, il sangue antico — e le mitiche figurazioni che hanno origine nei primordi dell’immaginazione umana — la Menade, la Fenice, la salamandra. Immagini insieme mutevoli e eterne: in Douve le cose sostano, incerte, tra stasi e propensione al moto.

Prima di lavorare a questa raccolta poetica, Bonnefoy scrive un racconto (una sorta di poema in prosa) intitolato Rapport d’un agent secret, che in seguito distruggerà, come egli stesso riferisce negli Entretiens sur la poésie, e in cui descrive l’arrivo in una città di strani esseri, dalla natura incerta, che hanno una missione: alterare l’aspetto del mondo affinché si frantumino le abitudini e si diffonda il male. Il numero di questi «agenti» aumenta nel corso del racconto, il loro scopo è di spargere il nero in quell’esistenza mediocre e inaugurare una nuova era. Tra le figure di questi agenti ce n’è una, di nome Douve, che nello svolgimento dell’opera acquista sempre maggiore importanza, al punto che al termine della composizione Bonnefoy aggiunge «sept poèmes du mouvement et de l’immobilité de Douve», due o tre dei quali passeranno alla nuova opera. Insoddisfatto dalla scrittura del racconto, Bonnefoy si sofferma sulle poesie e sul personaggio di Douve, divenuto l’emblema del suo personale bisogno di oltrepassare o di destrutturare i rapporti raggelati. Il lettore non riesce a identificare questo nome con un personaggio e neppure con un oggetto24 perché Douve è l’agente di trasgressione che ha il compito di liberare la parola poetica dalla trappola dell’immagine, dalla fissità a cui questa la costringe. Le immagini sono per il poeta l’equivalente di ciò che è la figura per l’artista: l’esempio di Giacometti, al quale Bonnefoy ha dedicato molti anni di studio, dimostra come le figure debbano essere pressate, scavate, assottigliate, affinché ciò che esse nascondono abbia la speranza di apparire. La mutevolezza del personaggio di Douve rappresenta la vittoria di una parola sulle figure che tendono a bloccarla, ad esempio quella femminile-materna, di tipo edipico, che ossessiona l’inconscio di Bonnefoy. Nella Lettre à John E. Jackson scrive ad esempio:

cette Egypte, ce fleuve, ces servantes, ces belles étoffes peintes, cet enfant qui tend ses bras inconscients encore à ce soleil qui se lève ne sont-ils une fois de plus, et malgré l’émotion qui traverse l’œuvre, que la structure serrée de la demande oedipienne qui cherche et trouve dans des objets séduisants sa satisfaction symbolique?25

Bonnefoy allude spesso al combaciare della «grande image immobile»26 col dramma edipico che blocca l’affettività, chiude in un sistema di immagini preesistenti, facendo così perdere la possibilità di un contatto autentico con gli altri, i quali vengono ridotti a tante marionette che soddisfano simbolicamente un desiderio inappagato. L’abbandono all’immagine di cui parla Bonnefoy sembra dunque svolgere la stessa funzione di questi oggetti-marionette privi di spessore: quella di impedire la possibilità di una vera ricerca, dello sforzo di esistere, beandosi invece dell’illusione che la bella immagine dipinge.

La raccolta di Douve è carica di furia, della decomposizione dei corpi, della pulsione erotica che si nutre del dissolvimento, de «l’attachement du lierre aux pierres»,27 e di «braise». La sezione di Théâtre si apre con questa violenza, che produce un senso di apertura e di liberazione dall’immobilità, «la joie folle d’un équilibre brisé»:28

Je te voyais courir sur des terrasses, Je te voyais lutter contre le vent, Le froid saignait sur tes lèvres. Et je t’ai vue te rompre et jouir d’être morte ô plus belle Que la foudre, quand elle tache les vitres blanches de ton sang.29

La corsa sulle terrazze e la lotta contro il vento suggeriscono un tentativo di Bonnefoy di rottura, di destrutturazione, che è cosa ben diversa dall’abbandono facile e rassicurante al sogno.

La conoscenza dell’essere, secondo Bonnefoy, avviene passando per l’esperienza della morte, da cui, ad esempio, Douve è investita. In questo senso l’opera di Bonnefoy rappresenta una manifestazione del pensiero esistenziale. Richard scorge nel pensiero di Bonnefoy un movimento che ci sembra analogo all’anticipazione heideggeriana della morte:

rêver la vérité d’un être, ce sera donc imaginer sa mort future, ce sera voir à l’avance l’effusion affreuse et merveilleuse de son sang, ce sera prévoir ce spasme, cette agression d’une nuit charnelle.30

Quel che è interessante sottolineare è la distanza che Bonnefoy sente tra l’esteticità della semplice apparenza e l’eticità della scelta che egli compie in favore dell’esistenza. Il poeta non si limita a osservare la realtà credendo di trovare in superficie, nel succedersi di eventi o gesti, la vera trama dell’esistere umano. Al contrario, fugge la percezione immediata e predilige l’intuizione che sia in grado di cogliere lo spessore e la profondità del reale. In questo senso è da intendersi il «sérieux» di Bonnefoy e che d’altra parte caratterizza anche la scelta etica di Kierkegaard. Bonnefoy ha infatti studiato filosofia al Liceo Descartes e all’Università della Sorbonne a Parigi, seguendo i corsi di Jean Wahl e Jean Hyppolite. E nel 1948 la sua Licence de Philosophie è seguita da un diploma proprio su Baudelaire e Kierkegaard.

Il nucleo fondamentale di Aut-Aut, testo del 1843 in cui Kierkegaard presenta i temi fondamentali del suo pensiero, è la distinzione fra momento etico ed estetico. L’atteggiamento estetico è caratterizzato dalla riduzione dell’esistenza e della storia al momentaneo, al succedersi superficiale delle cose. L’esteta vive nell’attimo, in quello stato d’animo improvviso e capriccioso che i tedeschi chiamano «Stimmung». Il contrario della Stimmung è la continuità etica, la memoria per la propria vita, la serietà e la fedeltà al proprio essere. Quando Bonnefoy parla di mondo sensibile si riferisce al modo in cui l’uomo etico guarda alla realtà, cogliendone le linee profonde, e non la trama apparente.

Ne L’Acte et le lieu de la poésie Bonnefoy precisa che il vero luogo è un frammento di tempo intriso di eternità. L’approccio all’essere, dunque, si ha nel corso della durata, ma in un istante, in cui lo scorrere del tempo è improvvisamente sospeso. Nota Richard:

je veux dire qu’au sein de la durée la plus volubile et la plus apparemment hétérogène se creuse soudain un espace vivant d’immobilité, une plage de paix, ce que Bonnefoy nomme une «éternité de présence».31

La presenza è portatrice di un sentimento totalizzante, che nulla potrà cancellare: in un istante di esperienza profondamente vissuta, di vita attraversata dall’Erlebnis, la presenza assapora un vivo frammento di eternità. Bonnefoy chiarisce che la presenza avvertita in quell’istante non è artefatta come quella prodotta dal pensiero. Il divenire imprime il suo peso sulla foglia, bruciandola, distruggendola, ma intridendola così di vita vissuta. Calpestando il concetto, il poeta avverte, in una misteriosa sospensione del tempo, un’aderenza totale alle tortuosità del divenire. In quest’istante di immersione assoluta nel reale, l’uomo realizza la perfezione della sua esistenza. Tutta l’opera di Bonnefoy mostra la sua ricerca di occasioni improvvise e insperate, grazie alle quali l’essere possa svelarsi: sono istanti che danno voce alla pienezza del tempo, il quale normalmente scorre senza che noi riusciamo ad afferrarlo. Questi frammenti interrompono la durata, fuoriescono dalla continuità, parlando però in nome della totalità da cui provengono. In questi «moments d’approche à l’être» si assiste alla sospensione dello scorrere del tempo profano e all’avvio di un tempo sacro, che è immobile e che permette, scrive Poulet, «l’épiphanie plénière de l’être».32 Una caratteristica della presenza è quindi la sua possibilità di afferrare una trascendenza nell’immanenza. Bonnefoy scrive a proposito di Giacometti che nel riprodurre una figura egli tenta di cogliere il modo in cui l’altro abita i propri tratti. Nello scolpire una testa, quel che vuole far esplodere sono le protuberanze del cranio: se del corpo umano non conserva che la struttura, è perché, scarnificandolo, vuol far apparire l’idea dell’esistenza che muove quell’individuo.

Bonnefoy descrive l’irruzione della presenza nei termini di un incontro insperato. Eppure molti versi e molta della sua prosa preparano a questo evento, mostrano l’attesa del poeta. Un’evidente contraddizione spinge Bonnefoy a ricercare qualcosa che per definizione insorge inaspettatamente. L’improbabile dovrebbe infatti coincidere con la sorpresa, altrimenti l’attesa nervosa e sovraccarica di aspettative rischia di vanificare la ricerca. I personaggi beckettiani di En attendant Godot aspettano sin dalla prima scena qualcuno che non arriverà: la loro attesa diventa assurda e riempita da follie. Ma l’attesa di Bonnefoy ha un valore doppiamente positivo. Da una parte mostra il suo sforzo di non adeguarsi al già dato, e di scardinare il pensiero concettuale, dall’altra riempie di tensione emotiva i suoi scritti, di quell’aspirazione all’alto che muove l’esistenza umana.

Ne Les Tombeaux de Ravenne Bonnefoy non esita a legare alla presenza la gioia che risveglia il sapore di una vera eternità:

dans la mesure où il est présent, l’objet ne cesse de disparaître. Dans la mesure où il disparaît, il impose, il crie sa présence. S’il demeure présent, c’est comme un règne qui s’instaure33

Queste parole sintetizzano il significato che Bonnefoy attribuisce alla trascendenza della presenza: l’edera che è stata maciullata si è appropriata di quella porzione di tempo e di spazio che l’ha segnata e distrutta. L’esperienza vissuta ha una sua irrefragabile eternità giacché niente potrà cambiarla, né il tempo che continuerà a scorrere, né qualcuno che vorrà ignorarla. Mentre nella sfera dell’ideale la foglia può essere scalfita e poi ricomposta, quell’edera concretamente calpestata non potrà più essere sanata. L’oggetto sensibile riesce a gridare la sua presenza solamente accettando l’inevitabilità della sua sparizione: in questa espressione apparentemente oscura e contraddittoria, Bonnefoy racchiude tutta la bellezza della nozione di presenza.

È Richard a utilizzare l’espressione «transcendance immanente» per indicare l’eternità della presenza che ritroviamo nei seguenti versi di Bonnefoy:

Présence exacte qu’aucune flamme désormais ne saurait Restreindre […].34

4. La rinuncia al «moi» e l’esaltazione del «je». L’apertura all’altro

Questa nozione di trascendenza nell’immanenza occupa anche il pensiero fenomenologico. In Ideen I Husserl spiega che dopo aver neutralizzato con l’epoché il mondo e la soggettività a esso inerente, resta soltanto l’io puro, che si presenta quindi come una trascendenza nell’immanenza. Dunque l’epoché consente un ritorno all’io puro e alle cose stesse. Nell’atteggiamento naturale l’io era smarrito nel mondo ed era un semplice oggetto fra gli oggetti: la conquista che l’epoché consente è quella di un ritorno all’essere. Bonnefoy si pone lo stesso obiettivo, utilizzando, come si è già spiegato, lo strumento poetico in luogo dell’epoché:

La poésie comme l’amour doit décider que des êtres sont. Elle doit se vouer à cet Ici et ce maintenant […], et faire de ses mots qui, en effet, quittent l’être, un profond et paradoxal retour vers lui.35

Il linguaggio, che solitamente allontana dall’esistenza, costituisce per Bonnefoy il mezzo per toccare l’essere.

La parabola che conduce Bonnefoy dalla tentazione di evadere in mondi alternativi all’accettazione del reale passa necessariamente per un ridimensionamento della soggettività. L’esaltazione dell’io conduce alla costruzione di mondi falsificati dal proprio desiderio, dilagante, il quale occupa tutto lo spazio a disposizione. L’affermazione narcisistica di sé non può che separare dalla realtà, perché l’individuo non accetta la sua incompiutezza e imperfezione. È animato dall’orgoglio e da un istinto di possedere gli altri in quanto cose appartenenti al suo mondo. Bonnefoy contesta all’Idealismo il riconoscimento del solo pensiero, che rappresenta l’adorazione di un riflesso di sé. L’Idealismo tedesco, ad esempio, nega l’esistenza delle cose al di fuori del pensiero, le quali dipendono quindi dall’attività del soggetto che le crea. La poesia auspicata da Bonnefoy chiede la rinuncia alla parola del «moi», che resta irriducibilmente un’esperienza esclusiva dell’autore, non condivisibile da altri. Quel che caratterizza questa poesia è la voce del «je», che deriva da una consapevolezza di sé e dei propri limiti, e dall’assunzione da parte del soggetto di un ruolo attivo e responsabile.

Nella filosofia husserliana è proprio attraverso l’autoresponsabilità dell’io che si è condotti all’intersoggettività. In Erste Philosophie II è visibile il passaggio dalla fenomenologia incentrata sull’individuo a quella comunitaria. In un primo momento il soggetto va alla riscoperta di un mondo attuale e valido per lui, rifiutandosi al mondo-circostante-già-dato. In questo modo si assume la responsabilità di mettere continuamente fra parentesi la conoscenza naturale e di superare la semplice vita dentro il mondo. Nelle Meditazioni Cartesiane Husserl presenta la sua filosofia come possibilità di realizzare un’autoconoscenza, di affermare il proprio mondo primordiale. Ma lo scopo ultimo della fenomenologia è quello di giungere a un’autocoscienza dell’umanità, quindi della comunità, e non soltanto del singolo. L’autoresponsabilità del soggetto porterà a considerare l’altro come presenza, e spingerà anche lui all’autoresponsabilità. Allo stesso modo, Bonnefoy allarga il suo tentativo di riaccostamento all’essere alla collettività, affermando di essersi allontanato dai Surrealisti anche a causa della restrizione della conoscenza, che essi riservavano a un numero limitato di eletti. Come è noto, Husserl individua nella corporeità l’elemento essenziale per la costituzione dell’alterità, perché l’io guarda agli altri corpi come soggetti simili a lui, ma diversi, estranei. Nell’esperienza empatica l’io esperisce la coscienza dell’altro io. La teoria dell’Einfühlung (empatia) è fondamentale, giacché risponde all’accusa mossa a Husserl di idealismo solipsistico. Dunque in un primo momento ci sono io e ci sono gli altri; in una seconda fase ci siamo io e gli altri nel mondo.

In Bonnefoy si assiste alla stessa apertura all’altro verso cui si muove la filosofia husserliana. L’accettazione di un essere diverso da sé conduce a quel ridimensionamento del «moi» che è necessario affinché l’individuo muova i suoi passi in uno spazio reale:

car on ne peut rejoindre la finitude, c’est-à-dire se pénétrer de la relativité de notre être propre, de l’illusoire de notre «moi», qu’en s’ouvrant au fait difficile de la différence d’autrui, point de vue qui dénie le nôtre.36

Secondo Starobinski la poesia di Bonnefoy, seppure dominata dalla prima persona, è una produzione niente affatto narcisistica. Egli giustifica questa sua asserzione37 sottolineando la presenza dell’altro sulla scena della poesia di Bonnefoy: i suoi scritti sono rivolti verso l’esterno, e hanno per oggetto il rapporto con il mondo, non una riflessione interna dell’io. L’affermazione soggettiva è soltanto il primo termine di una relazione che ha bisogno del diverso per confrontarsi.

Nota bio-bibliografica

Yves Bonnefoy nasce il 24 giugno del 1923. L’infanzia del poeta è segnata dall’esistenza di due luoghi: Tours, la città in cui è nato, una casa in un quartiere povero; e Toirac, dove ogni estate trascorre le vacanze con la famiglia fino al 1936.

Studia filosofia al Liceo Descartes di Tours e all’Università della Sorbonne a Parigi, seguendo i corsi di Jean Wahl e Jean Hyppolite. Nel 1948 la sua Licence de Philosophie è seguita da un diploma su Baudelaire e Kierkegaard. Nel corso degli anni Quaranta Bonnefoy compie anche studi di matematica, logica formale e storia delle scienze al Liceo Descartes, all’Università di Poitiers, segue i corsi di Bachelard all’Institut d’Histoire des Sciences.

La sua carriera di scrittore comincia nel 1946 con una raccolta poetica intitolata Anti-Platon, nella quale il lettore scorge immagini di impronta surrealista. Bonnefoy ama infatti la poesia di Breton, Péret, Eluard, ammira De Chirico, gli inizi di Mirò, frequenta gli ambienti surrealisti fino alla rottura con Breton avvenuta nel 1947.

Bonnefoy raggiunge fama internazionale con la pubblicazione nel 1953 delle raccolta poetica Du mouvement et de l’immobilité de Douve, personaggio nato nel corso della stesura di un racconto intitolato Rapport d’un agent secret ma che il poeta distruggerà senza mai pubblicare.

Nel 1958 Bonnefoy pubblica la raccolta poetica Hier régnant désert, seguita da Pierre écrite del 1965, Dans le leurre du seuil nel 1975, e ancora Ce qui fut sans lumière nel 1987, Là où retombe la flèche nel 1988, Début et fin de la neige nel 1991 e La vie errante nel 1993 (tutte le raccolte poetiche sono pubblicate da Mercure de France).

Oltre a un’intensa attività poetica, Bonnefoy è scrittore, saggista, autore di numerosi lavori sull’arte italiana, dal Trecento al Seicento, e sulla pittura francese del nostro secolo, si occupa di mitologia, di traduzione (in particolar modo dell’opera shakespeariana), è stato professore associato all’Università di Aix-en-Provence, professore al Collège de France dal 1981 e ha beneficiato della curiosità di compositori, quali Tolia Nikiprowetzky, Zygmunt Krause, Paul Mefano, Joël-François Durand. Recentemente Frédéric Durieux ha dedicato a Yves Bonnefoy la sua ultima opera dal titolo Du lieu qui n’est qu’un rêve.

Tra le più belle pubblicazioni in prosa ricordiamo L’Improbable, raccolta di saggi sull’arte e la poesia (Mercure de France, 1959); Rimbaud (Le Seuil, 1961); Rome, 1630 (Flammarion, 1970), splendida ricognizione delle opere del barocco romano; L’Arrière-pays (Skira, 1972); Le Nuage rouge (Mercure de France, 1977); Entretiens sur la poésie (Mercure de France, 1981); Récits en rêve (Mercure de France, 1987).


  1. Y. Bonnefoy, L’Acte et le lieu de la poésie, in L’Improbable, cit., p. 107. ↩︎

  2. M. Blanchot, Comment découvrir l’obscur?, in «Nouvelle Revue Française», 83, 1959, p. 867. ↩︎

  3. Y. Bonnefoy, L’Acte et le lieu de la poésie, in L’Improbable, cit., p. 107. ↩︎

  4. Y. Bonnefoy, Les Tombeaux de Ravenne, in L’Improbable, cit., p. 14. ↩︎

  5. J.-P. Richard, Yves Bonnefoy, entre le nombre et la nuit, in «Critique», 168, 1961. Ripreso in Onze études sur la poésie moderne, 1981, p. 254. ↩︎

  6. Y. Bonnefoy, L’Acte et le lieu de la poésie, in L’Improbable, cit., p. 107. L’ espressione «le grand refus» è stata poi scelta da Blanchot per intitolare un articolo che mira a sottolineare l’oblio dell’esistenza che il concetto e certa poesia producono, il «refus de s’arrêter auprès de l’énigme qui est l’étrangeté de la fin singulière». M. Blanchot, Le Grand refus, in «Nouvelle Revue Française», 82, 1959, p. 683. ↩︎

  7. Y. Bonnefoy, L’Acte et le lieu de la poésie, in L’Improbable, cit., p. 121. ↩︎

  8. Y. Bonnefoy, La Poésie française et le principe d’identité, in L’Improbable, cit., p. 251. ↩︎

  9. G. Steiner, After Babel, New York and London, Oxford University Press, 1975 (trad.it.: Dopo Babele, Firenze, Sansoni, 1975, p. 213) . ↩︎

  10. Ivi, p. 214. ↩︎

  11. Citato da G. Steiner, Dopo Babele, cit., p. 214. ↩︎

  12. Y. Bonnefoy, Dévotion, in Poèmes: Anti-Platon, Du mouvement et de l’immobilité de Douve, Hier régnant désert, Dévotion, Pierre écrite, Dans le leurre du seuil, Paris, Mercure de France, 1980, p. 157. ↩︎

  13. Citato da E. Baccarini, La Fenomenologia, Roma, Edizioni Studium, 1981, p. 19. ↩︎

  14. Y. Bonnefoy, L’été de nuit, V, in Pierre écrite, raccolto in Poèmes, cit., p. 167. ↩︎

  15. Y. Bonnefoy, Le Seul témoin, VI, in Douve, raccolto in Poèmes, p. 50. ↩︎

  16. In una lettera privata inviatami da Bonnefoy in risposta ad alcuni interrogativi circa il suo rapporto col pensiero fenomenologico, egli mi ha indicato l’apertura dello sguardo che la poesia consente come movimento analogo al ritorno all’evidenza promosso da Husserl. ↩︎

  17. «Le monde n’est pas crée une fois pour toutes pour chacun de nous», gridava il narratore della Recherche tenendo fra le mani il telegramma che annunciava la scomparsa di Albertine. L’irruzione improvvisa di eventi che sconvolgono le nostre certezze è il movimento autentico dell’esistenza, e rispetta la verità più profonda del reale, che è la mortalità. Consapevole di questa precarietà, Bonnefoy usa la decostruzione come arma per non identificarsi una volta per tutte con il riposo trovato. ↩︎

  18. Citato da E. Severino, La filosofia contemporanea, Milano, BUR Supersaggi, 1997, p. 231. ↩︎

  19. E. De Martino, Storia e metastoria, I fondamenti di una teoria del sacro, a cura di M. Massenzio, Lecce, Argo, 1995, p. 103. ↩︎

  20. J.- P. Richard, op. cit., p. 256. ↩︎

  21. Y. Bonnefoy, L’Acte et le lieu de la poésie, in L’Improbable, cit., p. 131. ↩︎

  22. Y. Bonnefoy, L’Arrière-Pays, Genève, Skira, 1998, p. 14. ↩︎

  23. Y. Bonnefoy, Douve parle, III, in Du mouvement et de l’immobilité de Douve, raccolto in Poèmes, cit., p. 63. ↩︎

  24. Enrico Guaraldo ha scritto in proposito: «Douve è, letteralmente, la doga di una botte, ma poi in senso traslato la muraglia che circonda un castello, e quindi il fosso che attornia il castello, e ancora le acque morte di palude che in esso si depositano, e infine la donna morta giacente in queste acque, il cui corpo si disfa inarrestabilmente». AA.VV., La letteratura francese, Il Novecento, Milano, Edizioni Accademia, 1987, p. 629. ↩︎

  25. Y. Bonnefoy, Entretiens sur la poésie, Paris, Payot, 1981, p. 142. ↩︎

  26. Ibidem↩︎

  27. Y. Bonnefoy, Théâtre, II, in Douve, raccolto in Poèmes, cit., p. 24. ↩︎

  28. J.-P. Richard, op. cit., p. 265. ↩︎

  29. Y. Bonnefoy, Théâtre, I, in Douve, raccolto in Poèmes, cit., p. 23. ↩︎

  30. J.-P. Richard, op .cit., p. 266. ↩︎

  31. J.-P. Richard, op. cit., p. 272. ↩︎

  32. G. Poulet, Yves Bonnefoy, in La Pensée indéterminée, Paris, P. U.F., 1985, p. 272. ↩︎

  33. Y. Bonnefoy, Les Tombeaux de Ravenne, in L’Improbable, cit., p. 26. ↩︎

  34. Y. Bonnefoy, Théâtre, XVIII, in Douve, raccolto in Poèmes, p. 40. ↩︎

  35. Y. Bonnefoy, Paul Valéry, in L’Improbable, cit., p. 101. ↩︎

  36. Y. Bonnefoy, Entretiens sur la poésie, cit., pp. 33-34. ↩︎

  37. J. Starobinski, Yves Bonnefoy, la poésie entre deux mondes, in «Critique», 385-386, 1979, pp. 508-509. ↩︎