1. Partire dalla «domanda»
Abraham Joshua Heschel, con l’atteggiamento del profeta che ha il compito di consegnare una parola di luce per la situazione in cui l’uomo si trova a vivere, critica la società americana[^1] di allora, fortemente orientata, secondo lui, verso una totale indifferenza per le questioni profondamente umane e religiose. Indifferenza dovuta alla mentalità tecnocratica, ricca di superficialità e capace di produrre solo una visione mediocre dell’umano. Heschel, come abitatore di più mondi culturali, cerca di conciliare l’universo giudaico, «esposto drammaticamente alla fossilizzazione dentro le pratiche confessionali e rituali»,1 con il mondo esterno e multiculturale, vissuto prima a Berlino, e ora concretizzatosi nella società multietnica americana. Heschel tenta, nella sua produzione speculativa e letteraria, di creare una sorta di ‘teologia naturale’, cioè un sistema di pensiero, orientato alla «vita», che trova il suo incominciamento lì dove le persone si trovano quotidianamente a vivere, con tutte le loro fragilità e ignoranze; e che ha lo scopo di condurle davanti all’evento del soprannaturale. Quindi, lungi dall’essere esclusiva per ‘pochi eletti’ di discendenza o di fede ebraica, questo evento del Rivelarsi divino, non solo è accessibile ad ogni uomo che viene al mondo, ma trova esplicitazione piena nell’esperienza sinaitica. L’intento di Heschel è quindi quello di intercettare i punti-chiave della straordinaria ricchezza della Tradizione ebraica per poterli proporre non solo agli ebrei americani ‘assimilati’, in cerca delle motivazioni profonde della loro identità, ma anche ad ogni uomo che si trovava a vivere le dinamiche dissolutrici del secolarismo contemporaneo. Per l’Ebraismo, la Rivelazione non consisteva solo nello straordinario evento di un Dio che avesse parlato all’uomo, ma soprattutto nel miracolo che quest’interlocutore umano fosse stato in grado di sopportarlo, come ci è descritto in Dt. 4, 32ss: «Ci fu mai un popolo che udisse la voce di Dio che parla in mezzo al fuoco come l’hai udita tu, e che rimanesse vivo?». Heschel è convinto che nell’evento sinaitico non c’è stata solo la Rivelazione di Dio, ma anche la ‘rivelazione dell’uomo’: «la rivelazione fu un evento per Dio e un evento per l’uomo».2 La rivelazione è la manifestazione della modalità di relazione con cui Dio vuole rivolgersi alla sua creatura, al suo partner: al centro c’è l’uomo. Ma da dove partire per poter rivelare agli americani e a tutti gli uomini, di ogni latitudine, che Dio è in cerca, personalmente, di ognuno di loro? Lo sforzo di ogni cultura, la forza di ogni spiritualità risiede nella capacità di sollevare degli interrogativi e di cercare di dare delle risposte per l’uomo del proprio tempo. Heschel, da fenomenologo, affida alla filosofia il compito, propedeutico, di impostare correttamente le domande, convinto com’è che l’uomo ha perso di vista Dio perché non riesce più a percepirne l’appello. Se la religione, che per Heschel è fondamentalmente «risposta a Colui che ci chiede di vivere in un certo modo […] coscienza di un […] impegno verso obiettivi superiori»,3 contiene la risposta all’anelito dell’umanità, bisogna previamente capire il presupposto iniziale: l’uomo contemporaneo ha smarrito la domanda: «La religione è una risposta a questioni ultime, radicali. Quando si perdono di vista le questioni ultime, la religione diventa irrilevante ed entra in crisi. Il compito primario del pensiero religioso è di riscoprire le questioni cui la religione dà una risposta […] La condizione della Bibbia nella società moderna è questa: «è una sublime risposta, ma non conosciamo più la domanda cui risponde». La domanda cui risponde è questa: che cosa vuole Dio dall’uomo? L’uomo moderno è insensibile a questa domanda […]».4 Heschel vuole mantenere vivo quel fuoco dentro l’uomo, che gli permette di rimanere sensibile alle questioni ultime, pronto a rispondere all’appello di Dio5 e alla responsabilità per il ‘tu’, visto come colui che mi riporta alla mia ‘stranierità’: «Tu sei lo straniero. E io? Io sono, per te, lo straniero. E tu? La stella, sempre, sarà separata dalla stella; ciò che le ravvicina non essendo che la loro volontà di brillare insieme […]. Lo straniero ti permette di essere te stesso, facendo di te uno straniero»;6 infrangendo l’incapacità cainica di «essere il custode di mio fratello» (Gen. 4, 9).
2. Il senso dell’ineffabile
In Man is not alone (L’uomo non è solo) troviamo lo sviluppo maturo della concezione antropologica hescheliana. Secondo Fackenheim la ‘vaghezza’ di questa opera è prodotta dall’intersezione di tre metodi differenti: «l’aforistico, il descrittivo, il filosofico-argomentativo […] L’aforisma […] per esprimere verità religiose che possono essere sperimentate o vissute, ma non provate […] il metodo della descrizione, nel ritrarre l’uomo religioso […] Questo è il punto centrale della nostra critica: Heschel definisce questioni filosofiche o teologiche […] egli rivela anche considerevole acume nel modo in cui definisce le questioni e comincia l’argomento; ma ogni volta l’argomento s’interrompe, e si dispone sommariamente dell’oppositore mediante un aforisma o una descrizione di ciò che l’uomo religioso crede».7 Distinguendo tra capacità dialettica razionale e intuizione della fede e quindi fra libri ‘devozionali’ e libri di filosofia religiosa, egli afferma che Heschel non può optare per entrambi, e che non è privo di ambiguità il suo insegnamento riguardo ai temi: della mistica, la concezione ebraica del male, del peccato e della storia.8 Ma questo commentatore conclude con l’affermare che la sua critica è relativa piuttosto alle questioni metodologiche e dottrinarie, che non intaccano la solidità sostanziale del messaggio hescheliano: «[…] è uno dei pochi libri autenticamente religiosi nel Giudaismo contemporaneo, uno dei pochi libri che hanno il potere di parlare a un’anima alla ricerca di Dio».9 Ebbene in questo libro così notevole, Heschel, nel tentativo di delineare la sua antropologia, esordisce con l’affermare che nella modalità di osservare il mondo ci sono tre aspetti della natura che colpiscono l’uomo: «la potenza, la bellezza, la grandiosità. La potenza gli serve, la bellezza gli procura gioia, la grandiosità lo riempie di timore».10 Secondo Heschel nell’uomo c’è come un ottundimento del senso di Dio, una stenosi che gli impedisce di percepire la sacralità ‘del’ e ‘nel’ quotidiano, come — secondo una bella espressione di Heschel — se il mondo fosse un tempio di Dio, un «santuario senza pareti».11 Il nostro autore si pone quindi la questione di come far risvegliare nell’uomo il senso della dimensione profonda dell’esistenza: la holy dimension;12 di ciò che non è consono ad uno scopo, non è omologabile in termini di spiegazione razionale, di ciò che appunto non è coglibile esaustivamente tramite il sapere discorsivo: «La capacità di esprimersi non è monopolio dell’uomo […] Ciò che caratterizza l’uomo non è soltanto la sua capacità di elaborare parole e simboli, ma anche il fatto di essere costretto a distinguere tra quello che si può e quello che non si può esprimere, il fatto di essere costretto a stupirsi per cose che esistono ma che non possono venir tradotte in parole […] L’individuo sensibile sa che la realtà intrinseca, la sua essenza più vera non può mai essere espressa».13 È di grande chiarezza la precisazione, a questo punto, del Rothschild, forse il maggior studioso del nostro autore, il quale afferma che Heschel si rivolge all’esperienza biblica per: «[…] ripristinare la sensibilità verso quella dimensione della realtà che genera meraviglia e adorazione […]. Ivi (nella Bibbia) trova sei termini che descrivono la grandezza e la reazione dell’uomo ad essa in tre coppie in correlazione: il sublime e il meraviglioso, il mistero e il senso di riverenza, la gloria e la fede. Si deve ricordare che in ciascuno di tali tre paia di termini il primo si riferisce a un aspetto oggettivo della realtà e il secondo al modo dell’uomo di rispondere ad esso. L’esperienza dell’ineffabile conduce ad una coscienza del mistero e apre l’anima ad un atteggiamento in cui si può sollevare la questione di Dio».14 Entrando nell’ottica dell’ineffabile si verifica ciò che fenomenologicamente può essere descritto con il presentarsi del reale nella sua essenziale datità ossia «ciò che si dà all’origine e che non si presta ad alcuna interpretazione».15 La nostra conoscenza di Dio insomma non è soggettivisticamente dipendente dalla nostra mente ma ‘si dà’ come intenzionalità oggettiva verso il mistero. Heschel descrive questa realtà come ciò che inerisce alla dimensione liminale, qualitativa della realtà, a ciò che si protende al «significato vero, la sorgente e il termine dell’essere».16 Il senso dell’ineffabile ci fa, secondo Heschel, prendere coscienza del non conosciuto che avvolge la nostra esistenza e ci fa penetrare intuitivamente l’essenza della realtà colta nella sua inesauribile unicità e ricchezza. Affermare che il senso dell’ineffabile è all’origine della filosofia, per Heschel, significa enfatizzare nessun dualismo ma anzi vuol dire portare l’attenzione sulla ‘doppia fedeltà’ dell’uomo, che non tradendo il carattere ineffabile, rimanga ancorato all’aspetto pragmatico-strumentale della realtà, perché egli è cittadino di «due mondi».17 Ecco perché l’attitudine fondamentale dell’uomo è la via intuitionis che non contraddice la razionalità e la ricerca scientifica. Con il senso dell’ineffabile l’uomo possiede un approccio originale al mondo, insieme alla meraviglia che costituisce non solo il thaumazein platonico (Teeteto 155d),18 ma un’altra fonte di conoscenza con la quale «nulla è dato per scontato».19 La meraviglia è quell’attitudine che gli permette di scorgere» il carattere inatteso dell’essere come tale»20 e esperimentare, dopo aver riconosciuto che il dubbio non «può essere l’origine della conoscenza»,21 la realtà di Dio nel mondo. Si potrebbe, in un certo senso, strutturare «Dio alla ricerca dell’uomo» in tre parti: la I parte inizia dalla necessità di riscoprire l’esperienza della ‘meraviglia’; nella II c’è la scoperta di questo senso della ‘meraviglia’ nei testi della tradizione (Profeti) e nella III e ultima parte, il come trasferire tutto questo in vita vissuta (mitzvoth).22 Heschel esplicitamente afferma sia il carattere esistenziale23 e quindi il polo soggettivo (quasi un a-priori kantiano) del senso dell’ineffabile, sia l’ambito oggettivo24 come un’intuizione universale, accessibile ogni momento all’uomo per «sapere che nella realtà esiste più di quanto egli sappia»,25 che costituisce l’apice del pensiero, capace di creare le più belle opere filosofiche, artistiche e musicali. Heschel ribadisce con forza che: «Soggettivo è il modo non il contenuto della nostra percezione. Ciò che percepiamo è oggettivo nel senso che è indipendente dalla nostra percezione e vi corrisponde. Il nostro stupore radicale è la reazione al mistero, non la sua causa […] Noi non creiamo l’ineffabile, lo incontriamo».26 Con il senso dell’ineffabile cogliamo «l’allusività spirituale della realtà».27 Ecco nascere nell’uomo allora il senso di riverenza, che è la coscienza di essere costantemente di fronte a una grandiosità sublime che ci sorpassa: è la nostra risposta «alla presenza del mistero».28 Il mistero non è un prodotto della capacità o della volontà umana ma «un fatto»,29 o meglio è «un’atmosfera che regna intorno a ogni essere, una condizione spirituale della realtà […] una dimensione dell’esistenza tutta».30 Solo adesso il mondo che incontriamo può diventare, non più un ‘oggetto’ manipolabile,31 ma una realtà che provoca meraviglia, stupore,32 riverenza, tutte reazioni al senso dell’ineffabile, che non sono più riferibili a paradigmi simbolici o estetici.33 In questa prospettiva viene recuperato anche la «tran-soggettività» dell’io, in direzione di un’affinità correlativa fra uomo e realtà; quando l’io riesce a contemplarlo non più con gli strumenti da lui fabbricati ma con «l’anima con la quale è nato […] come un amante che corrisponde all’amore; quando l’uomo e la materia si incontrano da eguali di fronte al mistero, ambedue creati, sostenuti e destinati a passare».34 Heschel vuole affermare che finché l’uomo si ferma all’oggettualità di ciò che gli balza davanti visivamente, rimane nella sua solitudine. Invece riscoprendo la sua comune compartecipazione ontologica può percepire che tutte le cose vibrano di «un significato spirituale», come un grande spartito musicale dove per mezzo della razionalità può decifrare le note delle leggi della natura e tramite il senso dell’ineffabile coglierne l’armonia.35 Ecco perché, addirittura per Heschel, è dal senso dell’ineffabile che nasce la preghiera,36 ma sul tema della preghiera ci ritornerò più avanti. Bisogna infine menzionare il fatto che tutto questo è frutto anche dell’azione educativa, primariamente impartita dal proprio ambito familiare; educazione di tutto l’uomo, tutta la sua personalità, che «deve iniziare chiamando in causa il senso innato dell’uomo per il miracolo e proseguire coltivando la capacità dell’uomo di stupefazione radicale, suscitando problematiche alle quali l’individuo è chiamato a dare risposta nel suo interno, personalmente […] incentrando l’attenzione sulla […] dimensione sacra dell’esistenza umana, insegnando come rapportare la realtà quotidiana alla realtà spirituale».37
3. La fede
Nella formazione di tutto l’uomo è centrale la dimensione della fede.38 Nel cap. nono di Man is not alone, Heschel delinea un itinerario che parte dall’ansia esistenziale dell’uomo di essere interpellato, per farlo giungere, attraverso l’intuizione, alla Presenza di Dio. Heschel rifiuta le prove classiche razionali per dimostrare l’esistenza di Dio: infatti nel procedimento speculativo si giunge alla credenza nell’esistenza divina, muovendo dall’idea della Sua essenza. Invece il senso dell’ineffabile, che abbiamo sopra descritto e che è all’origine della religione,39 ci conduce «alla presa di coscienza della nostra grande forza spirituale».40 L’atteggiamento di fede fonda un rapporto singolarissimo che legittima il dialogo religioso oltre i limiti della ‘scienza’ e oltre le strettoie della filosofia, quindi per il Nostro tutte le indagini che l’uomo può fare in questo campo non si imbatteranno mai nella constatazione di una Presenza che per definizione è trascendente e quindi altra da ogni rilevamento o dimostrazione possibile. In questo procedimento vi è un altro tipo di evidenza in cui l’argomentazione speculativa non è preludio alla fede che «non è un prodotto della nostra volontà; essa si avvera senza alcuna intenzione […] Non è né una deduzione che parte da premesse logiche né il risultato di un sentimento che ci porta a credere nella sua esistenza; non è un’idea che ci siamo formati stando seduti a osservare oppure penetrando nella nostra anima per ascoltare la voce interiore […] È una svolta avvenuta nel nostro spirito a opera di una forza che lo trascende. Ciò che ci ha costretti a credere è un urto e una collisione con l’incredibile».41 Fedele alla sua impostazione, Heschel attacca la malattia del soggettivismo filosofico e religioso per riaffermare la sua concezione di fede, frutto della propria esperienza di fede, che parte dall’intuizione, ma si declina poi come risposta all’evento42 del rivelarsi di Dio — quindi l’esperienza dello «Shema’ Israel» — e fa nascere l’esperienza della conoscenza l’agire divino: «La nostra consapevolezza di Dio […] è il frutto della acquisita certezza della ricca e mai declinante presenza del divino […] La sola cosa da fare è di lasciare che l’intuizione si verifichi […] La grande intuizione non si verifica quando meditiamo o deduciamo il trascendente da ciò che sta qui. Nel regno dell’ineffabile Dio non è un’ipotesi derivata da presupposti logici, ma un’intuizione immediata, evidente di per sé come la luce».43 La fede secondo Heschel non è il risultato delle nostre scelte quando ci troviamo al bivio del dubbio, ma è l’esperienza ‘reale’ del Dio che supplica l’uomo, che» cerca di incontrarci quando desideriamo conoscerlo […] l’esperienza di venire interrogati».44 In una pagina di rara bellezza il Nostro descrive il processo di liberazione dell’uomo riscattato dall’asservimento all’assoluta lucidità totalizzante, causa della propria inautenticità; per l’uomo affrancato dalle proprie ‘gabbie’ (i propri ridotti schemi mentali): «viene un momento, come un colpo di fulmine, in cui il lampo del non rivelato squarcia l’oscurità della nostra apatia. Colmo di uno splendore irresistibile, esso è come un punto in cui convergono e sono messi a fuoco tutti i momenti della nostra vita […] All’improvviso la nostra apatia si trasforma in splendore. L’ineffabile è entrato come un brivido nella nostra anima […] Il rifrangersi di questo raggio penetrante provoca nella nostra mente una trasformazione: siamo colpiti dalla sua intuizione. Non possiamo più pensare come se egli fosse là e noi qui. Egli è là e qui […] l’essere dentro e al di là di tutti gli esseri […] tutto il nostro essere è scosso da fremiti. E allora un grido dal fondo del nostro intimo riempie tutto il mondo intorno a noi, come se improvvisamente una montagna si fosse posta davanti a noi. È una sola parola: DIO […] santo, santo, santo […] è colui per il quale la nostra vita può essere la composizione di una risposta».45 Heschel con un’affermazione che lo avvicina molto a Paul Tillich46 (fra i due c’era una reciproca stima), parla di Dio come un «presupposto ontologico»,47 quindi non dalle premesse alla conclusione, ma «un ritrarsi dalle concettualizzazioni della vita quotidiana alla loro premessa soggiacente»,48 infatti: «La ricerca di Dio comincia nel momento in cui si prende coscienza che il vero problema è l’uomo […] la certezza dell’esistenza di Dio non nasce […] come un salto dal regno della logica a quello dell’ontologia […] È, al contrario, un trapasso da una percezione immediata a un pensiero, da uno stato di sopraffazione di fronte alla presenza di Dio alla consapevolezza della sua essenza […] il nostro credere nella realtà di Dio non è uno di quei casi in cui prima si possiede l’idea e poi se ne postula la controparte ontologica; o per usare una frase di Kant, si ha prima l’idea di cento dollari e si pretende poi, in base all’idea, di possederli. Ciò che si ha qui è prima l’effettivo possesso dei dollari e poi il tentativo di contare la somma».49 L’incontro reale di Dio fa sì che l’uomo non parli più di Lui in terza persona,50 non è più costretto a ‘parlare su’ Dio o una via più breve per giungere a Lui, ma accede ad una relazione personale, perché essa è: «un momento in cui l’anima dell’uomo comunica con al gloria di Dio […] l’atto di aprirsi la via, il passo che l’anima deve costantemente scavarsi attraverso la montagna dell’insensibilità […] è frutto di cura e attenzioni difficili e costanti […] un’aspirazione a conservare viva la nostra capacità di rispondere a lui […] l’arte di sentire la sua presenza nella nostra vita quotidiana».51 Fedele all’insegnamento chassidico Heschel ribadisce che la fede non si appoggia su un tentativo di contraffazione del nostro io: «La rispondenza a Dio non è qualcosa che si può copiare; essa deve essere originale in ogni anima».52 Dopo aver affermato che la fede non si fonda sul percepibile fisicamente e quindi sul miracolo, in quanto» senza il possesso della fede nessuna esperienza sarà in grado di trasmetterci un significato religioso», Heschel, a conoscenza della struttura tripartita della visione antropologica biblica secondo la quale l’uomo è: sôma (basar), psychê (nefesh), pneuma (rûah),53 afferma la priorità pneumatologica dell’atto di fede: «La fede è un atto dello spirito. Lo spirito può permettersi di riconoscere la superiorità del divino; ha in sé la forza di comprendere la grandezza del trascendente, di amarne la superiorità […] Il segreto dello spirito, che non è rivelato alla ragione, sta appunto in questo: nell’adattamento dello spirito a ciò che è sacro, nell’umiltà intellettuale di fronte al supremo. Lo spirito si arrende davanti al mistero dello spirituale, non per rassegnazione ma per amore. Esponendo il proprio destino al supremo, essa entra in un rapporto intimo con Dio».54 Sempre secondo Heschel la fede non ha solo un aspetto soggettivo ma vive in una dimensione «collettiva», costituendosi essenzialmente come «memoria», la fede è quindi un «ricordare» nel senso forte del termine.55 Distinguendo tra l’atto del credere e il contenuto della fede (il credo) la sintesi che Heschel arriva a dare del rapporto che deve vigere fra fede e dogmi è: «un minimo di credo e un massimo di fede».56 Infine, rispetto alla ragione la fede vive questo rapporto di grande equilibrio: «La fede senza ragione è muta; la ragione senza la fede è sorda».57
4. L’esistenza
Heschel denuncia la debolezza, anzi il ‘fallimento’ non solo della filosofia ma dell’intera cultura Occidentale, perché si è interessata al problema della conoscenza piuttosto che quello della vita: «il problema del vivere».58 Ma comprendere che cos’è il vivere per Heschel dobbiamo raccogliere la sua sottile osservazione circa il rapporto di questo con la temporalità: «Qual è il significato positivo e diretto dell’esistenza? Anche se aggiungiamo che l’esistenza implica sempre un minimo di continuità o di permanenza, non ne ricaviamo niente più che uno sguardo sul rapporto tra l’esistenza e il tempo, affermando che l’esistere presenta una qualche forma di sequenzialità nel tempo. Il concetto di ciò che è assolutamente fondamentale si sottrae, dunque, all’analisi. È persino impermeabile alle domande, poiché chiedere che cosa l’esistenza è rappresenta quasi una tautologia. Tuttavia, possiamo chiedere: che cosa significa l’esistenza per noi? Come intendiamo la nostra esistenza?».59 Situare il problema sull’esistenza per Heschel significa porre la questione non in senso astratto, ma declinarla concretamente in prima persona, perché: «Ogni filosofia è una apologia pro vita sua».60 Heschel è convinto, in radice, che non si può parlare di esistenza in sé stessa, ma che essa «[…] appartiene sempre a un esistente, ma non si identifica con esso. Ogni esistenza appartiene a qualcosa che, in sé, è meno dell’esistenza. Ma questo rapporto tra l’esistenza e l’esistente è transitorio, mortale».61 Questo implica che il vivere ha una realtà bi-fronte: «[…] esistere significa appartenere a un esistente e, al contempo, a qualcosa che supera l’esistenza. L’esistenza ha due facce: una rivolta a noi; l’altra aperta a Dio. Essere significa appartenere a Dio e all’uomo. Questa doppia appartenenza è il valore della vita».62 Ma all’esistenza compete volgere l’attenzione a come l’uomo si rapporta con i bisogni, che Heschel utilizza nel senso di ‘consapevolezza della mancanza reale’, quindi sinonimo di ‘interesse’, «facoltà insoddisfatta che corrisponde a una condizione non realizzata».63 Il problema dei bisogni fa prendere coscienza del senso di precarietà, vivere è come dicevano i Chassidim: «camminare sul filo del rasoio. Da una parte c’è l’abisso, dall’altra pure».64 Heschel è convinto della capacità dell’uomo di trasfigurare non solo la sua esistenza ma addirittura il cosmo: «L’uomo non è fatto per essere neutrale, per starsene in disparte o essere indifferente, né il mondo può rimanere un vuoto; se non lo trasformiamo in un altare dedicato a Dio, esso viene invaso dai demoni».65 Per capire l’esistenza occorre, secondo Heschel distinguere tra bisogni fittizi e bisogni autentici, e contro la tentazione di idolatrare i nostri interessi propone un antidoto: «[…] essere capaci di dire di no a noi stessi, in nome di un si superiore».66 Ma per risolvere alla radice il problema bisogna andare in profondità: «Per capire il problema dei bisogni, dobbiamo affrontare il problema dell’uomo, che ne è il soggetto».67
5. Chi è l’uomo?
In quest’opera, scritta nel 1965,68 Heschel porta avanti un’indagine fenomenologica sulla scia di un’analisi rigorosamente filosofica,69 ponendo inequivocabilmente la questione: chi è l’uomo? Infatti anche Max Scheler registra la stessa problematica quando afferma: «[…] in un certo senso tutti i problemi fondamentali della filosofia si possono ricondurre alla domanda che cosa sia l’uomo e quale posto e posizione metafisica egli occupi».70 Heschel, contrapponendosi alla frantumazione dell’umano che ne hanno fatto le scienze moderne, intende esaminare che cosa l’uomo significhi in se stesso e per il prossimo, non operando una pura descrizione ma rivelando un significato che nell’essere umano va al di là del semplice esistere:71 Heschel, che secondo Fox vuole sviluppare una “teologia dell’uomo”,72 è cosciente che ogni antropologia determina l’“essere uomo”, in quanto: «Una teoria sull’uomo penetra nella sua coscienza, determina la sua comprensione di sé e modifica la sua stessa esistenza. L’immagine dell’uomo influisce sulla natura dell’uomo»,73 è intenzionato a «ricercare i modi di essere che caratterizzano la unicità dell’essere umano».74 Questo tipo di filosofia, che non si riduce più a circoscrivere la domanda sull’essenza, al ‘che cosa è’? — colpevole di aver prodotto i totalitarismi del ’900 e le armi nucleari75 —, deve necessariamente porre in questione l’io medesimo,76 per comprendersi al di là dei tentativi di classificazione zoologica: «La sua ricerca, il fatto che si trovi in uno stato d’incertezza nei propri confronti, è soprattutto un atto di dissociazione e di disimpegno dalla mera esistenza, sia essa animale o altro. Il tentativo di comprendere sé stesso è una ricerca dell’autentica essenza, una ricerca del genuino che è introvabile nell’anonimo, nell’usuale e nella persistente connaturalità […] L’uomo è un essere specifico che vuole comprendere la sua unicità. Non è la propria origine che egli insegue, ma il proprio destino. Il modo con cui l’uomo è diventato ciò che egli è non spiega né la sua situazione immediata né la destinazione ultima. L’abisso tra l’umano e il non umano può essere concepito soltanto in termini umani. Anche il fatto stesso che l’umano derivi dal non umano è un problema umano. Quando, perciò, miriamo all’origine dell’uomo ritorniamo alla domanda: quale significato attribuiamo all’uomo, la cui origine cerchiamo di esplorare?».77 Più importante infatti della definizione di ciò che l’uomo è, è l’indicazione di ciò che l’uomo dev’essere e ciò, ma questo lo vedremo più avanti, che per essere deve fare.
6. Il significato
Quindi l’uomo è qualcosa di «più»78 dell’uomo, per Heschel; e questo di più rappresenta per lui una sfida incessante. Infatti porsi l’obiettivo di definire l’uomo significa, secondo il Nostro, afferrarne il significato. Heschel raccoglie la sfida e tramite la sua indagine filosofica si spinge fino a penetrare la radice del bisogno, dove trova che nell’uomo abita un’ansia prometeica e illusoria di gestirsi autonomamente, di rendersi padrone della sua vita, tentando così di evadere gli «interrogativi ultimi».79 L’uomo può sfuggire l’“eclissi dell’umanità”, secondo Heschel, ponendo correttamente la domanda sull’uomo: «Chi è l’uomo? », perché solo nel Chi e non nel cosa si manifesta l’insondabile ricchezza e meraviglia della persona che è «insieme mistero e sorpresa».80 L’uomo vive costantemente tra due polarità dialettiche: tra cielo e terra, tra animalità e divinità, fra provvisorietà e indefinitività, fra ciò che è più e ciò che è meno dell’umanità,81 ma essenzialmente e ontologicamente è in relazione con Dio, un legame che neanche col tradimento più profondo potrà mai recidere: questo costituisce il significato profondo della sua esistenza. Egli è portatore di un tesoro inestimabile e quando perde di vista quest’ottica non riesce più a comprendere il significato della sua esistenza. Heschel individua due modi per esaminare l’essere umano: cogliere il mio stesso essere dall’interno, mentre dall’esterno posso incontrare l’esser-ci del mio prossimo.82 Solo nella prima prospettiva l’uomo può cogliersi nella sua preziosità, quindi come qualcosa che non può essere ripetuto, di cui non v’è possibilità di replica, e questo genera in lui la libertà.83 Non solo, ma l’uomo prende coscienza di essere portatore di un ‘nome’ e di un ‘volto’, cifre della sua unicità che trova la sua epifanizzazione in «momenti singolari».84 La differenziazione dell’uomo dagli animali non si ferma qui, ma è nella sua smisurata e impensabile capacità di sviluppare tutta la sua virtualità interiore, quindi il suo arcano non è consegnato «in ciò che egli è, ma in ciò che egli è capace di essere».85 Heschel vuole evitare che l’uomo prenda il suo essere come un mero dato,86 quindi gli rivela che l’essere uomini è una meta da conquistare, attraversata dalla difficoltà di «rimanere in silenzio, se si vuole ascoltare»,87 ma anche dalla capacità di vivere la dimensione della comunionalità perché: «Per l’uomo essere significa essere insieme con altri esseri umani. La sua esistenza è co-esistenza».88 L’uomo perviene in questo modo ad autocomprendersi — una comprensione avvolta nel mistero — come ‘essere donato a sé stesso’ e quindi compiuto solo nella possibilità di ‘contraccambiare’ ciò che riceve. Dalla coscienza che ciò che abbiamo non ci appartiene deriva la percezione della sacralità dell’esistenza: l’uomo è l’unico essere infatti a cui è possibile associare il concetto di santità, che si traduce nel sentire «che cosa è caro a Dio».89 Quindi l’essenza dell’uomo si trova non in ciò che fa, ma in ciò che egli è. Indagare il significato profondo dell’esser-ci umano porta Heschel ad evidenziare quella realtà eccedente di cui l’uomo è portatore. L’uomo non è un puro ‘essere’ ma nella sua umanità è iscritto un ‘oltre’, rimanda a qualcosa che gli da il suo senso compiuto, cioè alla dimensione del significato: «Nel momento in cui acquista consapevolezza di sé, egli non si accontenta di sapere: «Io sono»; ma vuole sapere «che cosa» egli è. Infatti, l’uomo potrebbe essere caratterizzato come un soggetto in cerca di un predicato, come un essere in cerca di un significato della vita […] nel suo insieme».90 Questo significato non è creazione dell’uomo, egli non se lo può auto-conferire o inventare ma è una realtà ‘donata’ che lo trascende; in quanto l’essere è essere significativo che equivale ad un «andare oltre».91 A questa profondità l’uomo intuisce che a lui non interessa solo avere dei bisogni, delle necessità, non solo di essere soddisfatto, ma di essere in grado di soddisfare, di essere cioè «una necessità anziché un fine. La felicità può essere definita come la certezza di essere necessari. Ma chi ha bisogno dell’uomo?».92 Questa antropologia è alla base di un tipo di educazione che la società è chiamata, con urgenza, a trasmettere, pena la «disintegrazione dell’uomo»93 e la strumentalizzazione dell’umano, alle nuove generazioni. Si tratta di educare «la gioventù al senso dell’essere significativo»,94 perché l’educazione stessa è un «accadimento significante»,95 in quanto «Il significato di una persona è irrilevante se non è rapportato a un significato transpersonale».96
7. Il tempo
Per capire come l’uomo in tutto ciò che è e che fa sia alla ricerca di un significato bisogna continuare, secondo Heschel, a scrutare la nostra vita interiore per giungere alla coscienza della temporalità dell’esistenza,97 anche perché «la filosofia dell’educazione dell’uomo è determinata dalla filosofia della natura dell’uomo«.98 Questa preziosa annotazione ci fa fare passo ulteriore, introducendoci in una delle opere più poetiche di Heschel: Il Sabato, pubblicato nel 1951,99 dove esprime la sua originale visione filosofica del tempo. Il tempo per Heschel è «il cuore dell’esistenza»100 e mentre la civiltà tecnica, le religioni e una gran parte del pensiero filosofico101 s’interessano allo spazio: «La Bibbia s’interessa più del tempo […]»,102 perché Israele imparò ad attribuire più significato spirituale agli eventi straordinari della sua storia che non ai «processi ricorrenti del ciclo della natura, anche se da quest’ultimo dipendeva il loro sostentamento fisico».103 Ecco perché, secondo Heschel: «L’ebraismo è una religione del tempo104 che mira alla santificazione del tempo».105 Dio tramite la sua parola creatrice, squarcia l’eternità e s’immerge in quella realtà che radica l’uomo all’interno del suo specifico orizzonte. Insieme al mondo viene creata la storia106 (non a caso il sintagma davar — parola — è un termine utilizzato dalla Bibbia anche nel significato di ‘storia’107), quella concatenazione temporale di avvenimenti che diventano luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo, epifania di Colui che sfida ad entrare in una relazione imprevedibile con Lui, attraverso appunto la temporalità. Ed è nel contesto di una «architettura del tempo» che si comprende la centralità del Sabato; centralità sottolineata dalla stessa Scrittura: «E Dio benedisse il settimo giorno e lo santificò».108 È attraverso il Sabato che veniamo introdotti, secondo il nostro scrittore, nella santità del tempo in quanto esso riattualizza l’opera creativa divina attraverso la ferialità: «Il Sabato è fatto per celebrare il tempo, non lo spazio. Per sei giorni alla settimana noi viviamo sotto la tirannia delle cose dello spazio; il Sabato ci mette in sintonia con la santità nel tempo: in questo giorno siamo chiamati a partecipare a ciò che è eterno nel tempo, a volgerci dai risultati della creazione al mistero della creazione».109 Il Sabato lungi dal riproporre falsi dualismi è rivolto alla santificazione di tutto l’uomo.110 Il Sabato è un ricordo di «due mondi»111 e questo spiega la sua differenza con gli altri giorni. Differenza che non è quantitativa, nell’ordine della spazialità, ma qualitativo cioè «nella dimensione del tempo, nel rapporto dell’universo con Dio».112 Il settimo giorno si traduce nella conquista della nostra indipendenza dalla civiltà tecnologica, un giorno quindi in cui l’uomo impara a distaccarsi dalle cose. Il Sabato è tempo di umanizzazione, in cui l’uomo recupera la sua dignità, non fuggendo dal regno dello spazio, ma innamorandosi dell’eternità.113 Il Sabato, introducendo l’eterno nell’oggi, libera l’uomo dalla schiavitù di piegare la temporalità al possesso della spazialità, dalla tentazione della manipolazione, perché non riesce a bloccare il flusso del tempo, e gli da la capacità di affrancarlo dagli pseudo obiettivi esistenziali. Heschel vuole rispondere alla ‘morte del tempo’114 dell’epoca contemporanea — in cui l’uomo sembra tragicamente appiattito su un presente «vuoto» e senza senso — con la valorizzazione della simbologia coniugale e metaforica presente nella Sacra Scrittura e nella letteratura talmudica e rabbinica, perché: «Il tempo di tutti i fenomeni il meno tangibile (. .) Quando celebriamo il Sabato, noi veneriamo qualcosa che non vediamo. Chiamarla regina, o sposa, è soltanto un alludere al fatto che il suo spirito è una realtà che noi incontriamo e non un periodo di vuoto che decidiamo di dedicare alle comodità o al ricupero delle forze».115 Il Sabato e l’eternità hanno la stessa sostanza,116 il Sabato — quindi anche il tempo — allora è: «lo spirito sotto forma di tempo […]. Dobbiamo sentirci sopraffatti dalla meraviglia del tempo se vogliamo essere pronti a ricevere la presenza dell’eternità in un singolo momento. Dobbiamo vivere e agire come se il destino di tutto il tempo dipendesse da un singolo momento».117 Nasce da qui, a mio avviso quella riconciliazione tra lavoro feriale e riposo del settimo giorno, tra tempo e festa. In quest’ottica si realizza la correlazione fra il mondo ancora irredento e mondo av-venire, che attende il riscatto finale dal male. Heschel parte dalla concezione rabbinica che in qualunque momento si studia la Torah, ebbene quel momento deve essere sentito «come se fosse stata data oggi».118 Quell’istante viene tramutato «in qualche cosa di sempre nuovamente iniziale e quindi di non transeunte, in un nunc-stans, in eternità».119 Passato, presente e futuro sono fusi nell’istante che diventa ‘eterno’, perché si compie quella dilatazione/contrazione del tempo, ecco perché: «il tempo […] è appena più in basso dell’eternità […] è un cerchio il cui centro è ovunque e la cui circonferenza in nessun luogo».120 Il Sabato121 è come se non finisse mai allora, perché getta il ponte fra l’eternità e il quotidiano; il tutto ricapitolato in uno sguardo che può vedere ormai il profano della ferialità con gli occhi del sacro. Anzi il tempo diventa, nella concezione hescheliana, la forma essenziale di eternità mascherata che il sabato ha la funzione di rendere presente, assumendo una sacralità e una trascendenza mai totalmente afferrabile dall’uomo.122 In questa ottica l’uomo non può più pensare e interpretare la realtà con le categorie kantiane spazio-temporali. Egli non è più il padrone delle cose nello spazio, ma in questa dimensione ‘sabbatica’ diventa capace di cogliere la sua esistenza come consegnata a una realtà che non appartiene all’ordine della spazialità.123 Quello che può e deve vivere è solo «adesso», ha solo «questo momento», perché il «momento presente è la presenza di Dio»,124 ecco perché deve vivere «come se il destino del tempo nella sua totalità dipendesse interamente da un singolo momento».125 Heschel interpreta l’heideggeriano «esserci nel mondo» come «esserci nel tempo»: «L’esistenza non è mai spiegabile in se stessa, ma solamente attraverso il tempo».126 Il tempo, anzi ogni istante è un atto di ‘creazione continua’, che rivela la presenza di Dio nello spazio dell’umano;127 luogo dove Dio sta aspettando l’uomo per incontrarlo.128 Heschel ci da inoltre delle istruzioni di come vivere il tempo: «Qual è il segreto […] che ci spinge a fare il bene per sé stesso […]? È il sentire nel momento presente la realtà ultima, la sua unicità sacra, il suo essere una-volta-e-per-sempre, che ci permette di impegnare tutta la nostra forza nel santificare un istante compiendo ciò che è sacro senza pensare a quanto potrebbe o non potrebbe succederci nel momento successivo».129 Prendere coscienza che «ogni momento è presenza di Dio»130 fa si che l’uomo viva con meraviglia ogni istante che vive, non sprecando ciò che non si potrà ripetere più ma riempiendolo di significato. Da qui nasce la responsabilità di fronte al tempo: l’uomo ha il compito di anticipare il futuro nel presente (che è un distillato del passato in quanto è reversibile) amando concretamente, infatti «un atto non muore mai»,131 solo così può conquistare lo spazio e «santificare il tempo».132 Solo in questa prospettiva vi è la possibilità di ridare dignità ad ogni fase dello sviluppo umano, valorizzando ogni età: dai più giovani ai più anziani. Anzi, secondo Heschel, la vecchiaia è un’età ricca di possibilità di crescita interiore: «invecchiare non significa perdere tempo, ma, anzi, guadagnarlo».133
8. L’uomo: una necessità di Dio
Cercare il significato della sua esistenza nella dimensione della temporalità — intesa heschelianamente — porta l’uomo a farsi una domanda fondamentale: «La vita è preziosa per l’uomo: ma lo è per lui soltanto?».134 Questo domandare dischiude all’autentico significato dell’uomo, che risiede nella presa di coscienza della sua radicale dipendenza e apertura al trascendente: «[…] Il segreto dell’essere uomini sta nell’interesse per il significato. L’uomo non costituisce il significato di se stesso, e se l’essenza dell’essere uomini è la ricerca di un significato trascendente, allora il segreto dell’uomo sta nella sua apertura al trascendente […] è un elemento costitutivo dell’essere uomini».135 A questo punto Heschel trova una soluzione per uscire dalla preoccupazione onto-centrica del pensiero ‘ontologico’, andando alla modalità del pensare ‘biblico’ che prevede la possibilità di pervenire al di là dell’essere. Infatti mentre il primo cerca di «riferire l’essere umano a una trascendenza chiamata essere in quanto tale, [il secondo] […] riconoscendo che l’essere umano è qualcosa più dell’essere (e cioè l’essere vivente), cerca di riferire l’uomo al vivere divino, a una trascendenza chiamata Dio vivente».136 Per l’uomo biblico l’essere non è tutto per lui, ma, riconoscendo la contingenza dell’essere, si rivolge alla creazione come l’origine dell’essere: «[…] se l’ontologia indaga l’essere come tale, la teologia indaga sull’essere come creazione, sull’essere come atto divino».137 L’errore di fondo dell’uomo, secondo Heschel, è di considerare l’essere come realtà ultima, invece nella visione biblica il primato spetta, non ad uno sconosciuto quanto enigmatico essere ma al Dio vivente; quindi il significato di sé non è altro che Dio. Ma se l’aspetto fondamentale, per l’esperienza biblica, è il vivere e questi non è che il frutto di un ‘atto creativo’, l’uomo non può accettare in modo passivo l’essere, ma è proteso all’«umanizzazione dell’essere, la trasformazione di ciò che è dato e muto […]. L’umanizzazione è articolazione del significato inerente all’essere».138 Heschel giunge poi a una grande intuizione, già presente nella tradizione rabbinica e precisamente in Mishnah, Avot 4, 22,139 arrivando ad affermare che «essere è obbedire»:140 noi esistendo obbediamo. Vivere allora, da parte dell’uomo, è accettazione di un significato che può solo ricevere; ecco perché: «L’uomo è un significato ma non il proprio significato […]. L’io è un bisogno, ma non il proprio bisogno».141 Il significato ‘del’ e nell’uomo si delinea nella visione hescheliana allora, come realizzazione di un compito, plasmazione di un’opera d’arte, riposta al Dio che va in cerca dell’uomo.142 Questa concezione che Heschel presenta della natura e del significato dell’uomo, trova la sua spiegazione ultima nel racconto della creazione: «Facciamo l’uomo a nostra immagine (tselem), a nostra somiglianza (demuth) […] Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò» (Gen 1, 26-27). Heschel distingue in The Concept of Man,143 tra ‘simbolo reale’, che rappresenta il divino e ‘simbolo convenzionale’, che allude a Dio, come una metafora.144 E subito dopo arriva a quella che per Kaplan è la più provocatoria e audace delle espressioni del nostro autore:145 «L’unico simbolo di Dio è l’uomo, ogni uomo […] Il divino nell’uomo non è in virtù di ciò che egli compie, ma in virtù di ciò che egli è».146 Questo requisito divino nell’uomo è solo una realtà potenziale, che l’uomo può attualizzare attraverso gli ‘atti’, compiendo la mitzvah, per superare il male.147 Ma essere icona di Dio, secondo Heschel, ha delle implicazioni: ogni azione o parola contro l’uomo sono atti blasfemici, vanno contro Dio perché significano profanare la Sua immagine nella sua creatura.148 Qui risiede il concetto di dignità ontologica dell’uomo: «Il problema razziale è un problema che ci coinvolge personalmente […]. O Dio è padre di tutti o non lo è di alcun uomo. L’immagine di Dio o è in ogni uomo o in nessun uomo […] non dobbiamo dimenticare l’eguaglianza della dignità divina di tutti gli uomini […] La condizione dei Negri deve diventare il nostro interesse più importante«.149 Se questo è vero allora l’uomo può prendere consapevolezza dell’umano come categoria di valore, in un’ottica in cui il paziente è ‘persona’,150 diventando connaturale cogliere il valore divino della vita umana151 e la centralità dell’uomo, tant’è che: «neppure la sinagoga è il centro della vita ebraica, e coloro che dicono lo è ripetono idee che sono estranee alla nostra tradizione. Il Giudaismo ha il suo centro in colui che insegna».152 Da qui nasce ciò che Heschel definisce come il ‘senso dell’essere indebitati’153 (sense of indebtedness) che non è altro che il senso della presenza di Dio. Questa esperienza si traduce nella percezione della Sua richiesta a rispondere, da parte dell’uomo, ad un compito grande, la cui realizzazione è possibile solo nella dedizione totale della propria vita quale forma più alta di culto reso a Dio. In questo senso l’uomo è coscienza del proprio limite creaturale, di non essere il creatore di sé stesso, ma anzi è interpellato a riconoscere un debito alla fonte del suo essere, e che può diventare persona quando ‘risponde’.154 Il ‘senso del debito’ è quell’aspetto costitutivo dell’essere umano che è la dimensione della gratitudine, come presa di coscienza della ‘gratuità dell’esistenza’: «Questo senso di debito ci è dato insieme con il nostro essere umano, poiché il nostro essere […] è «essere creati», cioè uno stato in cui il «deve» precede l’«è» […] È sperimentare la vita come un ricevere, non solo come un prendere. Il suo contenuto è gratitudine per un dono ricevuto […]».155 Essere uomini insomma, secondo il nostro autore, significa ‘rispondere’: l’essere è risposta. L’uomo arriva, alla fine di questo percorso, alla scoperta che la sua vita è ‘necessaria’, la sua stessa esistenza è risposta ad una ‘necessità’ (una necessità che è essenzialmente differente dalla natura unilaterale dei bisogni, esigenze), ecco perché: «L’uomo è necessario, è una necessità di Dio».156 Solo quando egli comincia a pensarsi come un ‘bisogno di Dio’, diventa capace di ascolto, di udibilità dell’essenza profonda delle cose, di intercettare la voce profonda del mistero dell’esistenza e di corrispondervi; l’auscultazione del reale diventa la condizione di possibilità di un’autentica opzione: «Le cose evocano qualcosa. Quando tacciono i concetti e tutte le parole sono mute, il mondo parla. Dobbiamo bruciare tutti gli stereotipi concettuali e le nozioni preconcette per purificare l’aria e consentire l’ascolto […] A noi è lasciata la scelta tra rispondere o rifiutarci di rispondere. Tuttavia, quanto più profondamente stiamo in ascolto, tanto più ci spogliamo dell’arroganza e della insensibilità, che sole potrebbero spingerci al rifiuto».157
9. La libertà e il problema del male
L’affermazione, di capitale importanza, a cui siamo giunti nel paragrafo sopra, c’introduce ad un ulteriore sviluppo della riflessione hescheliana. Infatti l’importante asserzione «l’uomo come necessità di Dio» è, se così si può dire, il culmine e la sintesi della antropologia di Heschel, in cui egli non vuole ribadire una dinamica ‘necessitante’, ma far prendere coscienza di una verità fondamentale: «Dio, l’Amante, attende l’uomo, l’amato, esponendosi agli esiti imprevedibili della sua libera risposta, e questo diventa coimplicazione dialogica e agapica, tipica dell’autentica relazione interpersonale. La vera alternativa che Heschel pone è tra ‘logica della necessità’ e ‘pensiero della libertà’.158 La prospettiva che Heschel vuole suggerire ai suoi lettori è la dicibilità dell’umano, la plausibilità ontologica di questi in categorie che solitamente paiono confinate nella sfera religiosa e comunque nel più profondo vissuto personale. Le categorie della libertà, dell’amore, del prendersi cura dell’altro assumono i contorni di una realtà più originaria della dialettica della necessità perenne ed impersonale, che appare troppo facilmente, ancora in ambito contemporaneo, come l’unica spiegazione dell’essere e quindi dell’uomo. Heschel apre infatti nuovi orizzonti di senso affermando che il fondamento della libertà è il «concetto di creazione».159 È un argomento di fondamentale importanza per Heschel che se «non si prende sul serio la libertà è impossibile prendere sul serio l’umanità»,160 perché essa significa la «suprema manifestazione del rispetto di Dio per l’uomo».161 Secondo il Rothschild essa si configura, in Heschel, come il segno distintivo dell’unicità di relazione che l’uomo ha con il trascendente e con l’altro da sé. Infatti negativamente è definito, secondo questo autore, da varie caratteristiche: «1. [La libertà] non consiste nell’essere dominati dalla propria volontà, perché la volontà non è un’entità ultima e isolata, ma determinata da motivi incontrollabili. Neppure essere ciò che si vuole essere è la vera libertà, dal momento che i desideri dell’ego sono largamente determinati da fattori esterni. 2. La libertà non è un principio di incertezza, la capacità di agire senza motivo. Tale potrebbe sarebbe caotica e sub-razionale piuttosto che libera. 3. Sebbene la libertà includa un atto di scelta, non si identifica affatto con la scelta fra motivi in alternativa».162 Positivamente, sempre secondo questo studioso che riprende letteralmente la definizione di Heschel in The Insecurity of Freedom,163 la libertà, presupponendo la capacità di sacrificio,164 non è esaurientemente spiegata dall’insieme «di deliberazione, decisione e responsabilità, sebbene debba includere tutti questi principi; essa presuppone un’apertura alla trascendenza, e l’uomo deve essere responsivo prima di essere responsabile. Heschel trova che ogni sfida che proviene dal al di là della persona è unica, e che ciascuna persona deve essere nuova e creativa».165 In questo articolo infatti Heschel definisce la libertà come un «dono» e non un «possesso assoluto».166 Per il Nostro la libertà dell’uomo è minacciata dai continui bombardamenti massmediatici della società, e da un atteggiamento cosificante non solo delle relazioni, ma anche del modo in cui si guarda il mistero dell’esistenza.167 Heschel propone, come unica soluzione, di riattivare la certezza di «essere in grado di educare l’uomo interiore […] non solo competenze ma anche riverenza».168 La persona non può giungere, secondo lui, all’autonomia, alla vera libertà, senza educazione all’interiorità intesa come capacità di coltivare la «sensibilità globale», equilibrio interiore, senso della meraviglia e del mistero, silenzio, capacità di pentirsi, autocontrollo.169 Ma il tema della libertà è strettamente connesso con il problema del male che, lungi dall’essere un concetto psicologico o funzione dell’anima,170 esso è «divergenza, confusione, è ciò che aliena l’uomo dall’uomo e l’uomo da Dio».171 Il male è quella disarmonia nel cosmo e nelle relazioni, frutto dell’azione umana, a cui l’uomo moderno rischia di assuefarsi: «Una tragica cecità dell’uomo moderno è l’assenza della coscienza del mistero del male. Senza la coscienza della colpa, senza il timore del male, non c’è pentimento».172 Heschel mutua dalla sapienza della tradizione quell’elemento che corrode l’istanza della coscienza e che subdolamente inquina la distinzione fra bene e male o più esattamente «la confusione fra bene e male […] Nella mistica ebraica si trova spesso l’idea che in questo mondo bene e male non esistono nella loro purezza».173 Dato che il male agisce sotto forma di bene, quello che l’uomo deve compiere per superare il negativo è: separare il bene da male e viceversa, e purificare, mediante «l’eliminazione del male dal bene»,174 imitando l’atto creativo di Dio e l’azione dei Profeti d’Israele. La meta dell’uomo non è la perfezione, quello che ci è richiesto è di «sollevarci sempre di nuovo […] Tutto ciò che noi possiamo fare è cercare di ripulire il nostro cuore nella contrizione».175 Ma il male, che si staglia come tentazione di volgere le spalle a Dio, non è affatto, per Heschel, il problema supremo dell’uomo, ma è il realizzare «il suo rapporto con Dio»,176 nella dimensione della ‘santità’, che non è solo la risposta biblica al problema del male ma è «il tentativo di elevare l’uomo verso un livello più alto di esistenza, dove egli non è solo quando si trova ad affrontare il male».177 Tale relazione è, secondo il nostro autore, l’unica arma per affrontare la sfida del male, relazione che ci spinge a svuotare il male compiendo il bene, le mitzvoth, cioè amando.
10. Dimensione orante dell’uomo
C’è una modalità specifica che, secondo Heschel, può realizzare compiutamente la relazione dell’uomo con Dio. Abbiamo visto come l’uomo in cerca del suo significato più profondo approda all’intuizione di essere l’unico ‘simbolo’ divino. Infatti anche tutta la concezione tipicamente ebraica sul significato dell’uomo si può riassumere, secondo il nostro autore, nell’essere «un ricordo di Dio […]. Basta guardare l’uomo e si ricorda si Dio».178 Questo spiega non solo il perché l’uomo sia ‘un bisogno di Dio’, ma questa intuizione ci rende maggiormente attenti alla sua realtà orante: «Nel culto interiore reso a Dio ci è dato di scoprire che la risposta ultima non è nel possedere simboli ma nel farsi simbolo, nel significare il divino»;179 ed è proprio dimenticandosi del proprio io e immergendosi «nei tempi della preghiera che l’uomo agisce come Suo simbolo».180 Nel 1942 il Nostro aveva dedicato all’argomento un importante studio,181 in cui sono chiare l’influenza di filosofi del calibro di Dilthey, Simmel, ma in modo preminente di Max Scheler,182 di cui abbiamo già avuto modo di metterne in luce le connessioni e le somiglianze di pensiero. In questa seria analisi, in cui emerge la volontà di sgombrare il terreno dalle molte imprecisioni che affliggono purtroppo la filosofia, che da sempre relega l’esperienza interiore ed affettiva nella pura soggettività depauperandola della sua apertura al reale e al vero, Heschel intende far prendere coscienza all’uomo del carattere oggettivo e universale della pietà,183 come via per riscoprirne la sua logica essenzialmente di «dono».184 Per comprendere pienamente l’uomo dunque dobbiamo compiere, secondo Heschel, un passo decisivo: riconoscerne fondamentalmente la sua profonda attitudine di animal orans perché «adorare è un modo di vivere».185 Nella preghiera l’uomo esplicita la sua dimensione veritativa, la sua unicità ed essenza più profonda, anzi dal punto di vista di Heschel: l’uomo è ciò che prega, ecco perché la preghiera è «una necessità ontologica».186 La preghiera è la fine dei discorsi su Dio che diventa comunicazione diretta con un Tu personale, dove è escluso il discorso di «convenienza»; infatti è vero anche per Heschel quel che afferma Dresner quando riferisce che: «il significato centrale della preghiera ebraica non è ottenere qualcosa, ma essere con Qualcuno».187 Heschel, non dimentichiamo che egli era Rabbino, analizza criticamente la preghiera sinagogale e non può fare a meno di rilevare che invece di essere un’occasione per gustare Dio e fare esperienza del suo amore, regna un’atmosfera di: ‘freddezza’, monotonia, formalismo rituale e un atteggiamento di fondo che Heschel non esita a definire come «la preghiera per delega».188 È come se avessimo di fronte solo delle belle liturgie, magari ordinate, eleganti, solenni ma, a mo di un corpo senz’anima,189 non riescono a produrre se non una relazione asfittica, perché sono vissute senza l’adesione del cuore. Tutto questo, secondo Heschel, porta alla paralisi della vita spirituale in quanto l’esperienza dell’orazione non riesce a penetrare in profondità, ma rimane una realtà superficiale. Essa non riesce più a coinvolgere l’esistenza delle persone, ormai avvolte in un processo di sclerotizzazione di quella realtà relazionale e fondante presente in ognuna di loro. Questo dinamismo finisce per corrodere inevitabilmente anche il senso comunitario, così connaturale alla preghiera; invece ogni vero orante dovrebbe far suo la verità che: «L’ebreo non si presenta solo davanti a Dio; è in qualità di membro della comunità che egli sta al Suo cospetto. Non ci rapportiamo a Lui come un io con un Tu, bensì come un noi con un Tu».190 Ci sono, secondo il nostro autore, delle concezioni della preghiera che la snaturano, relegandola a rango di rigida disciplina quotidiana che ostacola l’autentica azione libera perché fanno sorgere un atteggiamento che blocca la fatica diuturna dell’invocazione costante, in nome di un sentire soggettivo ed emotivo che non accetta autolimitazione. Esse si possono ridurre, fondamentalmente, a quattro:191 la prima si può ricollegare ad un senso di superstizione, come l’esito di un atteggiamento di infantilismo umano e psicologico. Questi è l’espressione del processo di un secolarismo che auspica la trasformazione dei luoghi di preghiera ebraici: le sinagoghe in centri sociali e riduce il discorso religioso a mero programma di impegno culturale. C’è poi il comportamentismo religioso che approcciando la preghiera solo dal punto di vista sociologico, la vede solo nel suo aspetto di adesione esterna di «rispetto della tradizione», riducendo la religione ad una sorta di «fisica sacra, senza alcuna sensibilità per l’imponderabile, l’introspettivo, il metafisico».192 Il terzo atteggiamento riduzionistico focalizza la dimensione cultuale ad un atto ‘politico’, cioè all’«identificazione dell’orante con il popolo d’Israele» che fa da collante sociale. Quest’elemento dimentica una dimensione essenziale che eleva il popolo di Dio dal mero nazionalismo, che:» ciò che conferisce importanza spirituale e santità a tale identificazione è l’associazione di carattere unico tra Israele e la volontà di Dio».193 C’è infine chi, specularmente alla definizione precedente, interpreta la dimensione orante come solipsismo religioso, che finisce per rinchiudere l’individuo dentro un processo di ‘auto-realizzazione’ cosicché: «l’io del singolo orante costituisce l’intera sfera della vita di preghiera. L’assunto di base è che Dio è un’idea […] Ma allora a chi indirizziamo le nostre intercessioni?».194 Heschel definisce positivamente la preghiera, secondo un’espressione talmudica, con questa espressione: «Rendetevi conto dinanzi a Chi state».195 Si perché, secondo Heschel, il vero problema della preghiera non è la preghiera stessa ma è l’aver esperimentato, senza falsi dogmatismi o panteismi, realmente Dio, il Dio vero, di «Abramo, Isacco e Giacobbe», per divenire suoi testimoni.196 La preghiera è essenzialmente, nella visione hescheliana, percezione, da parte del credente divenuto orante, della presenza di Dio, consapevolezza di «qualcosa che accade fra Dio e l’uomo».197 Non quindi, semplicisticamente, un dialogo fra l’uomo e il Creatore,198 non una spinta emozionale, neanche un atto moralistico per meritarsi la salvezza, ma si configura come l’espressione del desiderio che Dio ha di noi, e quindi si configura come un «espandere la presenza di Dio nel mondo. Dio è trascendente, ma la nostra preghiera Lo rende immanente. Questo deriva dal bisogno che Dio ha dell’uomo».199 Ecco perché essa, esprimendo l’essenza più profonda dell’uomo, è un atto che da fondamento al suo ‘essere’, quindi una «necessità ontologica».200 Ma la peculiarità dell’interpretazione hescheliana di questa dimensione così importante, è legata alla Kavanah cioè l’» intenzione del cuore», l’orientamento spirituale, l’interiorità, in una parola: il «cuore» della preghiera. Solo attraverso la porta della kavanah, per Heschel, si accede nel regno della preghiera perché essa è il «contenuto vero della preghiera»,201 una forte attitudine ad alzare gli occhi a Dio, riconoscendo la sua presenza. Per spiegare che la preghiera senza la kavanah «è come un corpo senz’anima», una parola che pronunciata, senza timore e amore, non può salire in cielo, Heschel narra che: «Un giorno Rabbi Levi Isacco di Berdythev, durante una visita in città, si recò alla sinagoga. Giunto sulla soglia, si rifiutò di entrare. Allora i suoi discepoli gli chiesero cosa c’era che non andava in quella sinagoga. Egli rispose loro: «È piena di parole della Torà e di preghiere». Questo sembrò il massimo degli elogi alle orecchie dei suoi discepoli, e dunque una ragione in più per entrare in quella sinagoga. Lo interrogarono ulteriormente, e allora Rabbi Levi Isacco spiegò: «Parole dette senza timore, pronunciate senza amore, non salgono in cielo. Io sento che questo edificio è pieno di Torà e di preghiere».202 Pregare non è un atto di ragione, non equivale a pensare, ma se, come abbiamo detto, è una «necessità ontologica», significa che solo nel conformarsi del credente alla possibilità di rivolgersi a Dio, trova giustificazione e fondamento il suo essere, perché l’orazione è manifestazione della dimensione trascendentiva dell’esistenza, che lega l’esserci all’Essere e lo pone al di fuori di sé.203 Non si può ridurre il tutto, per Heschel, neanche a sentimento, perché la preghiera vive solo in parte della dimensione della ‘spontaneità’, ma è anche ‘disciplina’.204 Ed entrambe queste due modalità caratterizzano, sinergicamente, la vita dell’orante che è chiamato ad incontrare le parole come realtà vive e a viverle come dei ‘scalini del sacro’ che occorre percorrere, anche quando il cuore, chiuso in una accidia esistenziale, non sembra pronto all’avventura umana e spirituale di questa più alta forma di comunicazione.205 A tal proposito è molto pertinente quanto afferma Ricci Sindoni: «Il linguaggio orante infatti perde il carattere nominalistico o strumentale proprio del comunicare linguistico comune, per diventare riflesso della realtà che designa, simbolo veritativo della parola che, quando è pronunciata in nome della relazione con il divino, trascende l’usuale compito esplicativo, per diventare slancio che dalle profondità dell’anima arriva sino a Dio».206 La preghiera è la cifra del radicamento ontologico di ogni vita umana nella dimensione sacra: ogni persona, che lo sappia o meno, è radicata in questo essere «davanti a Dio». Ogni uomo quindi può accedere nella dimensione del sacro, solo perché Dio si è per primo a lui avvicinato, si è chinato sulla sua creatura facendola partecipe di quell’abbraccio d’amore che solo la realizza pienamente. L’alternativa che rimane a questi è quella di assistere alla banalizzazione della propria esistenza, anzi al vuoto del nulla e della morte.207 Si perché la preghiera è un ponte gettato fra il ‘tempo dell’uomo’, appartenenza al proprio sé, e quello ‘dell’eternità’, dell’ulteriorità di Dio, sopra l’oceano del nulla. Heschel afferma che se non guardiamo a Dio «siamo come pioli sparsi di una scala rotta. Pregare significa trasformarsi in una scala sulla quale i pensieri salgono verso Dio in consonanza con il movimento verso di Lui che sale senza che lo si noti attraverso l’intero universo».208 Questo non significa che la preghiera sia fuga mundi. La kavanah non ci trasferisce in un altro mondo, ma ci permette di vedere la realtà con occhi nuovi, perché ci trasforma secondo l’immagine e la somiglianza di Dio che portiamo dentro. Contemplare la Shekinah non significa perdere di vista la realtà del quotidiano, ma reimparare a saper guardare il mondo, percependo il Tutto nel frammento, l’Infinito nel finito: «ad aver cura del significato che riposa in ogni evento, a percepire la santità che è rintracciabile in ogni istante, a essere affezionati alla quotidianità come alla straordinarietà, a posare l’attenzione sugli eventi che si ripetono ciclicamente e su quelli che costituiscono un unicum».209 Le molteplici esperienze che l’uomo pio vive non vengono spogliate del loro valore particolare, ma diventano rivelatrici del loro spessore trascendente: «Con questa presenza di spirito egli mangia e beve, lavora e gioca, parla e pensa, perché la pietà è una vita compatibile con la presenza di Dio».210 Questa nuova percezione della realtà che nasce dal contatto con Dio, pur nella «giusta intenzione», non è conquista dell’uomo, ma è un regalo che viene dall’alto, che da la forza all’uomo di rimanere fedele a questo evento di gratitudine. Liberata da una visione piatta dell’esistenza la persona può finalmente godere del bene della vita, non più come possesso esclusivo, ma un dono da gestire con sapienza, nel servizio.211 L’uomo, in questo legame ontologico che può solo allentarsi ma mai infrangersi, può incominciare a guardare la storia di ogni giorno come costellata dalle continue ‘visite’ di Dio, come spinta a viver-con-Lui per «dire-bene», divenendo ‘Benedizione di Dio’. La vita dell’uomo allora diventa preghiera, si trasforma in niggun: «Poiché l’essenza della preghiera è un canto, e l’uomo non può vivere senza un canto».212 Sull’esempio di Heschel, l’uomo viene assunto nella dimensione di homo liturgicus213 e viene reso capace di fare anche della morte il suo ultimo atto di consegna, di restituzione grata al Dio datore e Amante della Vita.214
11. «Il cielo ha bisogno di noi»: la mistica delle azioni
Per capire le radici ebraiche dell’antropologia hescheliana bisogna preliminarmente registrare alcuni dati. Ben Zion Bokser riassumendo le verità fondamentali dell’antropologia del Giudaismo, afferma che per l’uomo, coronamento e trionfo della creazione, l’esperienza fondamentale è costituita dal suo atteggiamento verso Dio che si concretizza nella dimensione etica215 di «amore al prossimo», al fine di imitare Dio; ecco perché: «la vita etica rappresenta la più alta espressione di culto resa a Dio».216 Andrè Neher fornisce ulteriori elementi di approfondimento dell’humus che sottostà alla visione dell’uomo del nostro autore, quando afferma in modo lapidario, riferendosi all’interrogazione di Adamo nel libro genesiaco, che: «la definizione ebraica dell’uomo è in questa interrogazione, che non riguarda, come si vede, l’essenza dell’uomo, ma la sua esistenza; che non tende a definire la natura dell’uomo, ma ad informare la sua vocazione. Tutto il progetto biblico considera l’uomo interpellato; tutta l’economia biblica situa il Tu dell’uomo di fronte all’Io di Dio […] ed impedisce che l’attitudine umana sia altra cosa che un dialogo».217 Sempre per questo autore, attento a delineare la peculiarità del pensiero ebraico e quindi l’atteggiamento globale dell’uomo di fronte a Dio, fa una distinzione chiave per le nostre successive riflessioni: «[…] nel pensiero greco, l’Amore e la conoscenza sono messi in relazione di soggetto-oggetto, di termine e di complemento, nel pensiero ebraico, Amore e conoscenza sono simultanei. La filosofia esige che la conoscenza sia definita intanto come oggetto, prima che l’amore non si unisca ad essa. Per il pensiero biblico, la conoscenza si rivela nell’atto di amore, e l’atto di amore offre istantaneamente il dono della conoscenza […] il conoscere-amare Dio si completa con il conoscere-amare il prossimo […] ‘Filosofare’, nella Bibbia, significa essenzialmente essere capaci di rispondere, essere responsabili».218 Lissa, facendo da eco a questa impostazione, afferma che: «Nel complesso di tutta la tradizione del pensiero ebraico fu mantenuto fermo il primato della religione e dell’etica sull’ontologia».219 Potremmo quindi riassumere la concezione ebraica dell’uomo, fin qui solamente accennata, dicendo che il significato dell’umano è ‘chiamata alla responsabilità’: l’uomo è responsabile dinanzi a Dio, al mondo e al prossimo. È vero che l’etica nell’Ebraismo ha un senso più ampio da comprendere, è: l’’insieme dell’esistenza’, ma non si può, come sembra fare Giannini, interpretare il motivo ispiratore del percorso hescheliano come tentativo di rispondere allo smarrimento dell’uomo con una «etica religiosa»,220 caso mai per Heschel è vero il contrario, cioè: è l’evento religioso che fonda un’etica. Solo in questo senso, per Heschel, l’agire rivela l’essere perché, se il problema principale non è il «bene» astrattamente inteso ma «come essere santi»,221 allora è l’atto ad essere la sorgente della ‘santità’.222 Per Heschel è vero che è dalla «assoluta dignità metafisica»223 dell’uomo, che nasce l’imperativo a trattare ‘se stessi e gli altri come un’immagine di Dio’,224 ma non basta perché in questo suo agire concreto, l’uomo risponde al Dio che si rivela: «Ciò che ci si attendeva nel Sinai avviene nel momento in cui viene compiuta una buona azione. Il comandamento è una previsione, l’atto è un adempimento. L’atto completa l’evento. La rivelazione è soltanto un inizio, ma i nostri atti devono continuarla, le nostre vite devono completarla».225 Emmanuel Levinas a riguardo è chiaro: «[…] il fatto che il giudaismo è intessuto di comandamenti, attesta il rinnovarsi, in ogni istante, dell’amore di Dio per l’uomo, senza di che l’amore comandato nei comandamenti non avrebbe potuto essere comandato. Si evidenzia così che il ruolo eminente della mitzwah nel giudaismo significa non un formalismo morale, ma la presenza vivente dell’amore divino, eternamente rinnovato. E di conseguenza, attraverso il comandamento, significa l’esperienza d’un presente eterno […] [che non v’è] […] se non perché v’è rivelazione. […] La rivelazione di Dio all’uomo che è l’amore di Dio per l’uomo, suscita la risposta dell’uomo: la cui risposta all’amore di Dio è l’amore per il prossimo».226 Dopo il rivelarsi di Dio nella sua parola, in cui accetta di limitarsi, segue la risposta del popolo: «Tutto quanto il Signore ha detto, lo faremo e lo ascolteremo227» (Es 24, 7). L’essenziale per la tradizione ebraica è quindi il fare, l’azione, l’obbedire concretamente alla voce di Dio e non il capire la proposta di Dio. Israele da la priorità alla risposta obbedienziale, immediata, prima di una comprensione razionale della parola, come via ad una comprensione più alta. Per il popolo che la riceve non si tratta di un legame esteriore, ma di una sintonia profonda con la Parola di Dio, preliminarmente al fatto di cogliere tutte le implicazioni della chiamata. Ciò che caratterizza, per Israele, l’adesione autentica a Dio e alla sua volontà è il fare e poi l’ascoltare, indicando così l’attitudine primaria dell’uomo che ha realmente incontrato il divino, in questo senso la vita diventa la risposta al Dio che si rivela. Anche per Heschel la sostanza dell’uomo si rivela nelle sue azioni, in cui incontra il mistero di Dio, quel Dio che gli chiede di farsi carico dell’altro. La motivazione ultima di questa valenza così significativa delle azioni va ricercata ancora una volta nella tradizione ebraica. Heschel esige piuttosto che il «salto della fede», di chiaro stampo esistenzialistico, «il salto nell’azione» rivelando una grande capacità d’introspezione dell’uomo per guarirlo dalla sua fondamentale malattia: di vivere schizofrenicamente la separazione fra pensiero (linguaggio) e azione: «Attraverso l’estasi degli atti, egli [l’ebreo] acquista la certezza della presenza di Dio. Vivere nel modo giusto porta a pensare nel modo giusto».228 Tutta la terza parte della sua grande opera Dio alla ricerca dell’uomo è dedicata da Heschel a realizzare, una fondazione trascendentale dell’azione morale. L’atto morale viene colto infatti non solo nella sua essenza, ma soprattutto sotto il suo aspetto di intenzionalità, nella sua intrinseca finalità, affinché questa ‘prammatica religiosa-morale’ non cada né in una ‘monotonia formale’, né in una mera spiritualità delle ‘intenzioni’, perché si sa che «l’inferno è lastricato di buone intenzioni»! Proprio dalla constatazione che le conseguenze delle nostre azioni sono infinite nasce l’esigenza, in Heschel, di impostare in modo corretto una «scienza dell’azione», di dare un fondamento meta-etico all’agire, che vada alla radice e quindi che lo investa «nella sua essenza».229 Tale fondamento non è individuato in un codice etico autonomo di stampo kantiano, dove l’uomo è in grado di gestire razionalmente la sua condotta, ma riposa nella normatività della base rivelativa della Torah, perché solo essa costituisce la risposta plausibile alla necessità trascendentale di una fondazione dell’etica. Ecco perché Heschel parla di una mistica o un ‘estasi’ degli atti perché nel compiere un’azione, l’uomo realizza la ‘volontà di Dio’, la comunione con Lui, e quindi raggiunge «ciò che è al di sopra del suo potere».230 La prospettiva di Heschel è fondata sulla convinzione, mutuata dalla tradizione ebraica, che l’atto redime.231 Abbiamo già notato come Heschel è fedele alla tradizione cabbalistica e chassidica, che vede l’impegno umano confluire nell’azione etica (la-àsot), per la prima unificazione (yichùd) di questo mondo solo apparentemente diviso in due: il mondo delle cose nascoste e quella delle cose rivelate. Dio, nella Chabbalah Luriana, aveva fatto emergere dalla luce divina l’Adàm Kadmòn (l’archetipo dell’uomo), che aveva il compito di rendere efficace proprio il mondo dell’azione, conformemente alla pratica delle mitzvoth. Come abbiamo già avuto modo di dire, il fine di queste sarà quello di ri-unificare la creazione, di ricondurla a quell’unità esistente prima della separazione dal Creatore, prima cioè della rottura di vasi (shevirat ha-kelim). Spetta all’uomo, mediante l’azione quindi, riscattare le scintille divine rimaste prigioniere della materia, riportandole alla loro integrità originale, compiendo così il tiqqùn ‘olam cioè il «riaggiustamento del mondo». Scopo della creazione e di ogni mitzvà è dunque quello di affrettare il processo di redenzione e di restaurazione finale.232 Anche per Heschel «il compito dell’uomo è di compiere il ripristino dello stato originale dell’universo e la riunione della Shekinah e dell’En-Sof».233 La redenzione, in altre parole, è un processo continuo, che ha luogo nell’adempimento dell’azione morale, unico potente mezzo (insieme allo studio della Torah) nelle mani dell’uomo per redimere l’universo e determinare gli eventi che hanno luogo nella sfera superiore, ecco perché: «non solo Dio è necessario all’uomo, ma anche l’uomo è necessario a Dio».234 Già nella tradizione rabbinica si sottolineava questa forza teurgica dell’azione umana per cui Israele ha facoltà di aggiungere o di togliere forza (indebolire235) alla Potenza divina, compiendo la Sua Volontà: «Quando i giusti compiono la volontà del Luogo-del-mondo aggiungono forza alla Potenza di Colui che sta in alto […]. Se non la compiono, per così dire: La Roccia che ti ha generato tu hai indebolito [teshi] (Dt 32, 18)»;236 oppure come affermava Rabbi El’azar ha-Qappar: «La mia Torah è nelle vostre mani, ma il tempo della redenzione è nelle mie mani, così ciascuno di noi ha bisogno dell’altro. Se voi avete bisogno di me perché venga il tempo della redenzione, anch’io ho bisogno di voi, che osserviate la mia Torah, affinché si avvicini la ricostruzione della mia casa e di Gerusalemme».237 Heschel avverte che l’azione dell’uomo come atto di realizzazione del processo redentivo non è sinonimo di autoreferenzialità, presunzione di poter fare da soli, perché anche questo potente strumento nelle sue mani non si può tradurre in autonomia assoluta, ma è sia dono gratuito di Dio fatto, per amore, all’uomo e sia sua com-partecipazione attiva all’opera divina: «[…] siamo continuamente ammoniti di non rimetterci al solo potere dell’uomo e di non credere che l’uomo con le sue sole forze possa riuscire a redimere il mondo […] l’obbedienza a Dio ci renderà meritevoli di essere redenti da Dio […] il messianismo comporta la premessa che qualsiasi svolgimento della vita, persino gli sforzi umani più strenui, sono destinati a non riuscire a redimere il mondo […] Il mondo ha bisogno di redenzione […] All’uomo spetta il compito di far si che il mondo meriti di essere redento. Con la sua fede e con le sue opere, egli prepara la redenzione suprema».238 Tutto quanto abbiamo detto finora fonda, in Heschel, quel legame indissociabile fra teoria e prassi nella centralità dell’azione, come «risposta» al «rivelarsi» di Dio. Infatti quell’intercettazione della Presenza di Dio che si realizza tramite l’esperienza della preghiera, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, trova la sua effettiva fattualizzazione nell’agire etico, inteso come tendersi verso l’altro, atto di auto-trascendimento verso il tu. Ma questo agire etico, lungi dal darsi in un contesto di azioni moralistiche o collocato in un orizzonte caratterizzato soltanto da un appiattimento orizzontalistico e filantropico, e a questo punto svuotato di senso perché sganciato dal riferimento a Dio, viene delineato di contro come ‘visibilizzazione’ dell’amore divino, perché la fede ebraica è più di un’etica e il suo ideale è vivere nella qedushà dell’intimità con Dio. Questa visione è sottolineata anche da Rosenzweig, quando afferma che: «[…] L’amore verso Dio deve esprimersi nell’amore del prossimo. Per questo l’amore del prossimo può e deve essere comandato. È solo attraverso la forma del comandamento che dietro alla sua origine nel mistero della volontà indirizzata diviene visibile il presupposto dell’essere-amato da Dio, per il quale esso si distingue da tutti gli atti morali».239 Qui troviamo la concezione del santo, come paradigma dell’uomo perfetto, che porta nel mondo la testimonianza dell’amora di Dio nell’ottica del pensiero di Rosenzweig, infatti: «Nella dinamica della parola, da ascoltante l’uomo è diventato ora parlante nel rispondere, ma bisogna andare oltre. «Crescere dalla risposta alla parola» significa per Rosenzweig diventare veramente inizio, capace di uscire da se, per diventare da semplice recipiente dell’amore di Dio, l’attore stesso dell’amore, ora però nel mondo».240 C’è bisogno però di una valorizzazione della profondità del significato etico e religioso dell’azione che ci conduca fuori, come è intenzione anche del nostro autore, dal particolarismo giudaico. Nello spazio interstiziale eccedente l’essere dell’uomo non più visto nella logica dell’identità necessitante, ma nella logica della differenza,241 si rende possibile uno spazio per l’accoglienza dell’altro e si gettano le basi per un’etica dell’alterità. L’aver perso di vista questo significato profondo delle azioni ha condotto all’oblio dell’uomo. Infatti l’aver assistito alla volontà di distruzione e di arrecare morte al nostro prossimo è cifra rivelatrice, non soltanto della rottura della relazione uomo-Dio, ma anche della predominanza di un «io» incapace di avvicinarsi alla prossimità.242 Solo uscendo dal cerchio della proprio egoità autoreferenziale, si ha la possibilità di accedere all’ap-prossimarsi di chi ci sta di-fronte. La visione hescheliana di un’agire etico come risposta (cap. IV) al Rivelarsi di Dio (cap. III), diventa annuncio profetico per ogni uomo di oggi — non più solo il pio ebreo —, perché diviene motivo di riappropriazione del proprio compito originario. Già la tradizione rabbinica interrogandosi sul perché la Rivelazione divina fosse stata data nel «deserto», quindi in una ‘terra di nessuno’, arrivava alla conclusione che la Parola di Dio era indirizzata a tutta l’umanità. La particolarità di Israele di essere interlocutore di Dio, diventa pietra angolare di una apertura senza preclusioni nei confronti degli altri, perché l’importanza di questo popolo «non consiste nella sua capacità di assicurare la sopravvivenza di questo popolo particolare, il popolo ebraico, ma nel suo essere una fonte di significanza rilevante per tutti i popoli».243 L’esperienza della fede e della cultura ebraica nel nostro autore, si configura allora come un «prisma» che riflette, nella sua peculiarità storica e cultuale, i tratti nodali e costitutivi della condizione umana, diventando chiave ermeneutica imprescindibile per una interpretazione più ricca e profonda di quest’ultima. Heschel c’invita insomma a compiere questo salto qualitativo, in cui il particolarismo dell’elezione ebraica, colto nella sua differenza, diventa non più un primato da custodire gelosamente, ma una ricchezza da trasmettere ad ogni uomo, che sente essere chiamato, in coscienza, ad assumere la sfida, in rapporto alla sua unicità, a decentrarsi e ad amare il prossimo come se stesso. Solo nel caricarsi di questo fardello e nell’assunzione totale della responsabilità, che portiamo scritta dentro ed esplicitata in Lev. 19, 2: «Siate santi, perché io, il Signore, Dio vostro, sono santo», non solo trova compimento il nostro stare al mondo, ma esso diventa proposta universale, annuncio di vita per ogni uomo sulla terra.
- Heschel dal marzo del 1940 fino alla fine della sua vita vivrà negli Stati Uniti. È il cosiddetto «periodo americano»: in cui vedono la luce opere come: La terra è del Signore (1950), L’uomo non è solo (1951), Il Sabato (1951), L’uomo alla ricerca di Dio (1954), Dio alla ricerca dell’uomo (1956), Torah min ha-shamayim be-ispaqlariah shel ha-dorot (dal ’62 al ’65), I Profeti (1962), Chi è l’uomo (1965), The Insecurity of Freedom (1966), Israele eco di eternità (1967), Passione di Verità (1973). Sulla situazione del Giudaismo nordamericano in relazione al nostro autore cfr. G. Giannini, Abraham Joshua Heschel e l’Ebraismo dal Nordamerica, «Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia», 4 (2002) [consultato il 26/7/2002] (con buona bibliografia a cui si può aggiungere: N. Glazer, American Judaism, Chicago, 1989, S. C. Heilman, Portrait of American Jews, Seattle & London, 1995); anche P. Ricci Sindoni, Heschel. Dio è pathos, Messaggero, Padova, 2002, pp. 55-58. In generale le informazioni sono prese da: voce «Giudaismo» e «haskalà» di P. Stefani in L’Enciclopedia della Filosofia e delle scienze umane, De Agostini, Novara, 1996, pp. 374-375; voce «Ebraismo» di M. Pesce, Dizionario di Teologia, (G. Barbaglio, G. Bof, S. Dianich a cura di), S. Paolo, Cinisello Balsamo, 2002, pp. 486-488; voce «Giudaismo» di J. Maier, Nuovo Dizionario delle Religioni (H. Waldenfels a cura di), S. Paolo, Cinisello balsamo, 1993, pp. 412- 413; G. Filorano — M. Massenzio — M. Raveri — P. Scarpi, Manuale di storia delle religioni, Laterza, Bari, 2000, pp. 184-185; M. Giuliani, Il pluralismo religioso nel Giudaismo, in «Humanitas» 52 (2/97), anche pp. 274-283.cite>
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P. Ricci Sindoni, Heschel. Dio è pathos, op. cit., p. 60. ↩︎
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A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., p. 216. ↩︎
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A. J. Heschel, Grandezza morale e audacia di spirito, op. cit., pp. 232-233. Il concetto di religione in Heschel è complesso. Dato il suo tentativo di rinvenirne la dimensione «oggettiva», Heschel non la vede né come ‘mezzo’ e né tanto meno come fine, in quanto è Dio a costituire il fine supremo dell’evento religioso. L’intento di Heschel è di radicarla ontologicamente, superando la dicotomia fra oggetto e soggetto e ponendola all’interno della prospettiva dell’Essere, cfr. A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., p. 205: «Il lato oggettivo della religione è […] un rapporto ontologico». Heschel rompe così con la schizofrenia (tipica di una mentalità secolarizzata), fra sacro e profano, per la Ricci Sindoni si articola con le categorie di ‘responsabilità dell’azione’, ‘lode’ e ‘invocazione’, cfr. P. Ricci Sindoni, Heschel. Dio è pathos, op. cit., pp. 139-140. ↩︎
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A. J. Heschel, The Insecurity of…, op. cit., p. 4, opp. A. J. Heschel, Grandezza morale e audacia di spirito, op. cit., pp. 248-249; ecc. ↩︎
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Sembra di risentire gli argomenti filosofici ad esempio: dell’agostiniano «irrequietum cor» che non trova la sua quiete che in Dio, il pascaliano «l’homme passe infiniment l’homme», o il (neo)tomistico «desiderium naturale videndi Deum»; oppure si pensi ad autori di ispirazione personalistica che hanno concentrato l’attenzione su tale lineamento costitutivo della persona ovvero sulla sua tensione intrinseca verso la Verità. ↩︎
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E. Jabès, Uno straniero, con, sotto il braccio, un libro di piccolo formato, Se, Milano, 1991, pp. 19, 13. ↩︎
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E. Fackenheim, Man is not alone [recensione], op. cit., in «Judaism», I (1952), pp. 85-86, cit. in A. Babolin, Abraham Joshua Heschel. Filosofo…, op. cit., p. 229. ↩︎
-
Ibid., p. 88. ↩︎
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Ibid., p. 89. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 19, cfr. anche Id., Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., pp. 51-60. ↩︎
-
A. J. Heschel, Idols in the Temples, in The Insecurity of…, op. cit., p. 60. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, The Holy Dimension, in Id., Grandezza morale e…, op. cit., pp. 475-487. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 20. ↩︎
-
F. A. Rothschild, Introduction a Between God…, op. cit., p. 11. ↩︎
-
P. Ricci Sindoni, Heschel. Dio è pathos, op. cit., p. 128. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 20. ↩︎
-
Ibid., p. 24. ↩︎
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Cfr. G. Reale (a cura di), Platone. Tutti gli scritti, Bompiani, Milano, 2000, p. 206, anche Aristotele, Metaphysica, I, 2, 982b 12ss ↩︎
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A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 26, anche ibid., pp. 60-63; cfr. anche Id., Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., pp. 61-71. ↩︎
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A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 26. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Dalla registrazione, non rivista dalla relatrice, della Prof. ssa E. Mortara di Veroli, Heschel e la mistica chassidica: ricordi e riflessioni, il 18/12/2002 alla Sala del Cons. del Dip. di Ricerche Filosofiche dell’Univ. Tor Vergata di Roma. ↩︎
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«[…] noi non vi pensiamo in absentia. Lo sentiamo invece come qualcosa che ci viene direttamente attraverso un’intuizione che non conosce fine né origine, logicamente e psicologicamente anteriore ad ogni giudizio, a ogni processo di assimilazione della materia soggettiva alle categorie mentali», Ibid., p. 31. ↩︎
-
«[…] una facoltà di cui tutti gli uomini sono dotati; è una qualità potenzialmente comune a tutti», ibid. ↩︎
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Ibid., p. 31. ↩︎
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Ibid., p. 32. ↩︎
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Ibid., p. 33; cfr. anche Id., Dio alla ricerca…, op. cit., p. 123: «Per ineffabile intendiamo quell’aspetto della realtà che per sua natura trascende la nostra comprensione […] è senso della trascendenza, consapevolezza dell’alludere della realtà a un significato soprarazionale […] è sinonimo di significato nascosto «. ↩︎
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A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 36, vedi anche ibid., p. 246. ↩︎
-
Ibid., p. 37. ↩︎
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Ibid., p. 65, cfr. anche Id., Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., pp. 72-78, in particolare: «Il mistero è una categoria ontologica […] ci avvediamo del mistero soltanto […] nel renderci conto del fatto sorprendente che esistono i fatti «, ibid., p. 76. ↩︎
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Cfr. A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., pp. 44-47. ↩︎
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«Lo stupore radicale non si cancella mai […] possiede un raggio d’azione più vasto di ogni altro atto umano. Mentre ogni atto di percezione o cognizione ha per oggetto un segmento determinato della realtà, lo stupore radicale si riferisce alla realtà nel suo insieme: non solo a ciò che vediamo, ma anche allo stesso atto di vedere e a noi stessi», ibid., p. 27. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, Grandezza morale e…, op. cit., pp. 173-178. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 46. ↩︎
-
Cfr. ibid., p. 48. ↩︎
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Cfr. A. J. Heschel, L’uomo alla ricerca di Dio (Man’s Quest for God. Studies in Prayer and Symbolism, New York, 1954, trad. it. a cura di R. Larini), Qiqajon, Magnano, 1995, p. 106. ↩︎
-
A. J. Heschel, Idols in the Temples, op. cit., p. 59, corsivo mio. ↩︎
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In generale è bene aver presente la distinzione fra la fede ebraica e quella cristiana: cioè fra la emunà che consiste nell’«avere fiducia (Vertrauen)» in qualcuno e la dimensione noetica della pìstis,; ovvero il «riconoscere per vero (als wahr anerkennen) qualcosa», M. Buber, Zwei Glaubensweisen, Zürich, 1950; 2 edizione (con postfazione di D. Flusser), Lambert Schneider, Gerlingen 1994. Trad. ital.: Due tipi di fede, San Paolo, Cinisello Balsamo, 1995, p. 57. Ma è importante tener presente le motivate obiezioni di N. Bombaci, ’Due tipi di fede’. Ebraismo e Cristianesimo a confronto nel pensiero di Martin Buber, in Sapienza, 4 (2001), pp. 396-399. ↩︎
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Cfr. A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 61. ↩︎
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Ibid., p. 72. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
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La fede, dirà più avanti Heschel, è evento, cfr. ibid., pp. 143-144. ↩︎
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Ibid., pp. 73-74, corsivo mio. ↩︎
-
Ibid., pp. 74-75, corsivo mio. ↩︎
-
Ibid., pp. 76-77. ↩︎
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Cfr. A. Babolin, Abraham Joshua Heschel. Filosofo…, op. cit., pp. 151-155 (in particolare p. 154). ↩︎
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Cfr. A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., pp. 140-141. ↩︎
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F. A. Rothschild, Introduction a Between God…, op. cit., p. 15. ↩︎
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A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., pp. 80-81, «L’esistenza di Dio non è reale perché concepibile: è concepibile perché è reale», ibid., p. 86. ↩︎
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Cfr. ibid., p. 115: «per gli uomini in preghiera egli (Dio) è il soggetto». ↩︎
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Ibid., pp. 82-83. ↩︎
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Ibid., p. 85. ↩︎
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Recepita dagli autori del Nuovo Testamento, vedi Rm 1, 9; 1Ts 5, 23, e così via. ↩︎
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A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 88. ↩︎
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Cfr. ibid., pp. 140-143. ↩︎
-
Ibid., p. 148. ↩︎
-
Ibid., p. 150. ↩︎
-
Ibid., p. 158. ↩︎
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Heschel, The Holy Dimension, in Id., Grandezza morale e…, op. cit., p. 484. ↩︎
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A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., p. 22. ↩︎
-
Heschel, The Holy Dimension, art. cit., p. 486. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., nota 2 p. 257. ↩︎
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P. Ricci Sindoni, Heschel. Dio è…, op. cit., p. 9. ↩︎
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A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 162. ↩︎
-
Ibid., p. 166. ↩︎
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Ibid., p. 166, corsivo mio. ↩︎
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A. J. Heschel, Who is Man? , Stanford, 1965, trad. it. a cura di L. Mortara ed E. Mortara Di Veroli, Chi è l’uomo? , Rusconi, Milano, 1989 (4a ed.). In quest’opera l’autore si pone fondamentalmente la questione della definizione dell’uomo. Heschel afferma che una credibile spiegazione della natura umana deve implicare lo stesso io noetico e respinge, come limitanti e riduttive, le definizioni puramente biologiche, psicologiche e antropologiche. Proprio perché l’uomo è l’unico soggetto a cui è possibile la caratteristica della «santità», quindi è persona in quanto tale e costituisce un valore ineliminabile. Maggiore pregnanza e densità ha la visione dell’antropologia biblica, secondo Heschel, rispetto alla concezione dell’ontologia filosofica greca; in quanto il primato è attribuito al «Dio vivente» (origine fontale della vita) e non all’» essere». In questo senso l’uomo è qualcosa di eccedente l’essere in quanto «essere vivente». Dio può divenire allora, in questa prospettiva, il senso ultimativo dell’essere umano, quel significato che l’uomo è strutturalmente orientato a ri-cercare, soltanto se Egli è in grado di creare quelle condizioni di possibilità perché il soggetto umano possa entrare e rimanere in relazione con Lui. Il totale coinvolgimento di Dio nella storia dell’uomo capovolge la prospettiva in quanto: non è importante la conoscenza che l’uomo ha di Dio ma la preminenza è data alla conoscenza che Dio ha dell’uomo che si scopre come destinatario e «oggetto» della conoscenza amorosa, della sollecitudine divina. ↩︎
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È vera solo in parte l’affermazione della prof.ssa Kajon che pone Heschel fra i pensatori ebrei ispirati prevalentemente dalle fonti ebraiche, cfr. I. Kajon, Il pensiero ebraico del Novecento, Roma, Donzelli, 2002, nota p. 13; il suo libro intende sviluppare l’antropologia presentata da Primo Levi in Se questo è un uomo, in cui quest’autore fa una descrizione dell’idea di umanità presente ad Auschwitz, e riaffermata e portata avanti da Cohen, Rosenzweig, Buber, Strauss, Levinas, che hanno portato al rinnovamento dell’umanesimo occidentale ormai in crisi, cfr. ibid., pp. 12-13. ↩︎
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M. Scheler (trad. ital. a cura di R. Padellaro), La posizione dell’uomo nel cosmo, Milano, p. 93 cit. in G. Giannini, Etica e…, op. cit., p. 134. ↩︎
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Cfr. ibid., p. 16. ↩︎
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M. Fox, La teologia dell’uomo nel pensiero di Abraham J. Heschel, in «La Rassegna mensile di Israel», 4 (1969), p. 213. ↩︎
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Ibid., p. 21. ↩︎
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Ibid., p. 24. ↩︎
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Cfr. ibid., pp. 28-29. ↩︎
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L’uomo è un problema perché: «[…] è capace di commisurare l’attuale con l’ideale, ciò che è con ciò che dovrebbe essere» M. Fox, La teologia dell’uomo…, art. cit., p. 214. ↩︎
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Ibid., pp. 43-44. ↩︎
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A. J. Heschel, Grandezza morale e…, op. cit., p. 62. ↩︎
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A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 166. ↩︎
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A. J. Heschel, Chi è l’uomo?, op. cit., p. 53. ↩︎
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La concezione antropologica di Max Scheler è molto vicina quando afferma che: «Non v’è nell’uomo né un moto, né un fenomeno, né una «legge» che non appaia anche in quella parte della natura che si trova al di sotto di lui, ovvero al di sopra di lui, nel Regno di Dio, nel «cielo»: l’esistenza che egli possiede è esclusivamente un «trapasso» dall’uno all’altro regno, un «ponte» e un movimento tra essi; e l’uomo non può — come intuì Pascal — sottrarsi all’alternativa di far parte dell’uno o dell’altro. Perché perfino la non-decisione si configura come decisione di essere un animale e, come tale un animale degenerato. Il fuoco, la passione di trascendersi — si chiami la meta, «super-uomo» o «Dio» — costituisce l’unica sua vera umanità«, [Dio è per lui il] «terminus ad quem [… verso cui si volge il trascendersi dell’uomo], punto di apertura per una forma attiva, ricca di significato e di valore, posta al di sopra della restante esistenza naturale, e cioè come ‘persona’», M. F. Canonico, L’antropologia di Max Scheler, in AA. VV., Antropologie contemporanee a confronto, op. it., p. 30. ↩︎
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Cfr. ibid., p. 62. ↩︎
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Cfr. ibid., pp. 62-63. ↩︎
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Ibid., p. 68. ↩︎
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Ibid., p. 70. ↩︎
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«[…] essere uomini, lo ripeto, è più che il semplice essere», ibid., p. 77. ↩︎
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Ibid., p. 76. ↩︎
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Ibid., p. 77. ↩︎
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Ibid., p. 83. ↩︎
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A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 168, cfr. A. J. Heschel, Chi è l’uomo?, op. cit., p. 91-93. ↩︎
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A. J. Heschel, Chi è l’uomo?, op. cit., p. 96. ↩︎
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Ibid., p. 100. ↩︎
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A. J. Heschel, Children and Youth, in The Insecurity of…, op. cit., p. 44. ↩︎
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Ibid., p. 39. ↩︎
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A. J. Heschel, Idols in the Temples, op. cit., p. 55 («significant happening»). Più avanti Heschel spiega: «For an idea to happen, the teacher must relive its significance, he must become one with what he says. Only deep calls deep […] The secret of effective teaching lies in making a pupil a contemporary of the living moment of teaching […]», ibid. ↩︎
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A. J. Heschel, Chi è l’uomo? , op. cit., p. 65. ↩︎
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Cfr. ibid., p. 106, vedi anche A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., pp. 174-176. ↩︎
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A. J. Heschel, Idols in the Temples, op. cit., p. 62. ↩︎
-
The Sabbath. Its Meaning for Modem Man, New York, 1951 (2a ed., 1963), trad. it. a cura di L. Mortara ed E. Mortara Di Veroli, Il Sabato. Il suo significato per l’uomo moderno, Garzanti, Milano, 1999 (2a ed.); cfr. anche G. Trotta (a cura di), Il sabato nella tradizione ebraica, Morcelliana, Brescia, 1991. ↩︎
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Ibid., p. 7. ↩︎
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Cfr. tutta l’antica filosofia panteistica e le posizioni a riguardo ad esempio di B. Spinoza e B. Russell. ↩︎
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A. J. Heschel, Il Sabato…, op. cit., p. 11. ↩︎
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Ibid., p. 12. ↩︎
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De Robert sottolinea come anche nel Cristianesimo sia rilevante una teologia del tempo e della santificazione, cfr. F. De Robert, La santification du temps selon Abraham Heschel, in «Foi et Vie», LXXI (1972), pp. 9-10, cit. in A. Babolin, Abraham Joshua Heschel. Filosofo…, op. cit., pp. 324-325. ↩︎
-
A. J. Heschel, Il Sabato…, op. cit., p. 12. ↩︎
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Cfr. ibid., p. 125 dove Heschel afferma che la storia, il tempo nascono dall’evento della creazione. Nonostante la sua discutibile posizione è interessante, a mio avviso, l’osservazione di Galimberti, quando afferma: «La storia nasce solo quando sul tempo si irradia la figura del «senso», quando gli eventi vengono sottratti alla casualità del loro accadere e iscritti in un disegno che li rende significativi al di là della loro pura eventualità. Per questo è possibile dire che si da storia solo in contesto religioso e non mitico, solo dove un’attesa promette l’adempimento di quanto è stato annunciato […]», U. Galimberti, La tecnica e il crepuscolo della religione, in «Parola, Spirito e Vita» [Tit.: La Profezia], 1 (2000), p. 256; in ambito ebraico cfr. G. Scholem, I segreti della creazione, Adelphi, Milano, 2003; M. Mottolese, Inizio come renovatio (chiddush). Note sulla concezione ebraica della creazione e del tempo, Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia (in linea), anno 5 (2003) [consultato il 16 febbraio 2003]. ↩︎
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Cfr. 1Re 11, 41; 14, 19. 29; 15, 7. 23. 31; ecc. ↩︎
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La Bibbia di Gerusalemme traduce: «lo consacrò», Gen 2, 3. ↩︎
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A. J. Heschel, Il Sabato…, op. cit., p. 15. ↩︎
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Cfr. ibid., p. 27. ↩︎
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Ibid., p. 28. ↩︎
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Ibid., p. 30, è chiamato dai rabbini «il signore di tutti gli altri giorni», ibid., p. 33. ↩︎
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Cfr. ibid., pp. 37-42. ↩︎
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P. Ricci Sindoni, Heschel. Dio è…, p. 93. ↩︎
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A. J. Heschel, Il Sabato…, op. cit., p. 75, anche ibid., pp. 77. 85-89. Heschel fa riferimento anche a tutta l’esperienza liturgica sinagogale. È il tema del rapporto fra tempo e liturgia, che richiederebbe tutta una trattazione a parte. Infatti la priorità assoluta data da Heschel al tempo, trova la sua più chiara eplicitazione nell’esperienza della liturgia ebraica nella fattispecie, e in generale nel congiungimento della frammentarietà del vivere con l’esigenza di trovare un centro, infatti la preghiera è jichud hashem (unificazione di Dio) che realizza l’unificazione del cuore dell’uomo. Rosenzweig aveva già definito la liturgia, un vero e proprio organon del conoscere (F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, op. cit., pp. 316ss). Cfr. anche C. Di Sante, La preghiera di Israele, Marietti, Casale Monferrato, 1985, p. 81; sul significato di avodah vedere P. Ricci Sindoni, Heschel. Dio è…, op. cit., pp. 93-94. La preghiera cultuale non è ma demandata all’invocazione del singolo, ma è acclamazione comunitaria spinta dal desiderio di affrettare il compimento messianico; cfr. anche A. J. Heschel, Symbolism and jewish Faith, trad. it. Simbolismo e fede ebraica, in Id., Grandezza morale e…, op. cit., pp. 151-178. ↩︎
-
Cfr. ibid., p. 93. ↩︎
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Ibid., p. 96. ↩︎
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Ibid., p. 118. ↩︎
-
F. Rosenzweig, La Stella della redenzione, op. cit., p. 312; cfr. anche E. Baccarini, Il tempo come evento della Redenzione in Franz Rosenzweig, in «Filosofia e Teologia», XIV, 1 (2000), pp. 65-76. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’istante del Sinai, art. cit., pp. 68. 70. ↩︎
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È interessante notare la concezione del neshamà jeterà, secondo la quale alla vigilia del Sabato, viene conferita da Dio all’uomo un «supplemento d’anima» per vivere questo giorno «per indicare una spiritualità, un riposo, una serenità accresciuti», A. J. Heschel, Il Sabato…, op. cit., p. 107. ↩︎
-
Cfr. Ibid., pp. 121-122. ↩︎
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Del resto la tradizionale concezione del tempo spazializzato è stata messa in crisi dalle recenti scoperte della fisica quantistica e dalla teoria einsteiniana della relatività, cfr. ibid., pp. 137-143. ↩︎
-
Ibid., p. 123. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 179. ↩︎
-
A. J. Heschel, Il Sabato…, op. cit., p. 117. ↩︎
-
Cfr. ibid., pp. 123-125, «Vivere in modo spirituale, creativo è convertire le cose dello spazio in momenti di tempo», ibid., p. 125. ↩︎
-
«Se viviamo soltanto nella temporalità, la nostra vita è breve e frammentaria; se realizziamo la volontà di Dio, rimaniamo duraturi nella Sua memoria», ibid., p. 126 ↩︎
-
Ibid., p. 128. ↩︎
-
Ibid., p. 130. ↩︎
-
Ibid., p. 132. ↩︎
-
Ibid., p. 134. Anche in E. Levinas (1906-1995), la temporalizzazione autentica del vivere avviene tramite l’incontro con l’Altro, cfr. Totalità e Infinito. Saggio sull’esteriorità, (trad. it. di A. Dell’Asta), Milano, Jaca Book, 1980, pp. 301-2; Dall’esistenza all’esistente, Marietti, Casale Monferrato, 1986, p. 85; anche I. Kajon, Il pensiero ebraico…, op. cit., p. 178. ↩︎
-
A. J. Heschel, Crescere in saggezza, op. cit., p. 203. ↩︎
-
A. J. Heschel, Chi è l’uomo?, op. cit., p. 108. ↩︎
-
Ibid., p. 112. ↩︎
-
Ibid., p. 116. ↩︎
-
Ibid., p. 119; cfr. anche A. J. Heschel, Dio alla ricerca…, op. cit., p. 34. ↩︎
-
Ibid., p. 163. ↩︎
-
Cfr. L. Perlman, Abraham Heschel’s idea of…, op. cit., p. 157. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, Chi è l’uomo?, op. cit., pp. 164-165. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 186. ↩︎
-
L’uomo nella tradizione ebraica, come a più riprese sottolinea Heschel, è compagno, partner di Dio, suo collaboratore, come se Dio avesse bisogno di lui per realizzare e completare l’opera creativa. Il Giudaismo addirittura per Heschel è coscienza di questa reciprocità cfr. ibid., pp. 208-217. Sviluppo questa tematica più avanti. ↩︎
-
A. J. Heschel, The Concept of Man in Jewish Thought, in «The Concept of Man. A study in Comparative Philosophy», S. Radhakrishnan, P. T. Raju edd., London, 1960, pp. 122-171; trad. it.: Il concetto di uomo nel pensiero ebraico, in A. J. Heschel, Crescere in saggezza, op. cit., pp. 100-156. ↩︎
-
Cfr. Ibid., pp. 128-129. ↩︎
-
Cfr. E. K. Kaplan, Language and Reality in Abraham J. Heschel’s Philosophy of Religion, in «Journal of the American Academy of Religion», XLI (1973), p. 111 cit. in A. Babolin, A. J. Heschel. Filosofo…, op. cit., p. 272. ↩︎
-
A. J. Heschel, Il concetto di uomo nel…, op. cit., p. 134. ↩︎
-
Cfr. Ibid., pp. 142-156. ↩︎
-
«Ogni uomo è imago Dei ovvero simbolo di Dio, non sol nel senso che l’uomo porta inscritta in sé la cifra della santità e della libertà del suo creatore, ma anche nel senso che l’uomo condiziona, se così si può dire, l’immagine che gli uomini si fanno di Dio», M. Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo, op. cit., p. 409. ↩︎
-
A. J. Heschel, Religion and Race, in Insecurity of…, op. cit., pp. 95. 97. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, The Patient as a Person, in Insecurity of…, op. cit., pp. 24-38. ↩︎
-
«Life is mystery, the reflection of God’s presence in His self-imposed absence», ibid., p. 33. ↩︎
-
A. J. Heschel, The Spirit of Jewish Education, in «Jewish Education», XXIV (1953), n. 2, p. 9, cit. in A. Babolin, A. J. Heschel. Filosofo della…, op. cit., p. 388; opp. «Centrale […] che insegna lo spirito vivente dell’ebraismo, è l’insegnante. Nell’ebraismo non esiste un onore più elevato che essere un insegnante […] Il maestro è il pilastro centrale della vita ebraica», A. J. Heschel, Teaching Religion to American Jews, trad. it. Insegnare religione agli ebrei americani, in Id., Grandezza morale e…, op. cit., p. 253. ↩︎
-
Cfr. anche A. J. Heschel, Passione di Verità, op. cit., p. 245. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, Chi è l’uomo?, op. cit., p. 180. ↩︎
-
Ibid., p. 181. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 188. ↩︎
-
A. J. Heschel, Chi è l’uomo? , op. cit., pp. 182. 184-185, corsivo mio. Su questo tema cfr. le belle pagine di I. Mancini, L’ascolto in radice, Ediz. Scientifiche Italiane, Napoli, 1995, in particolare le pp. 105-112 dal titolo: Logica della compassione: Abraham J. Heschel. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., pp. 440-445. ↩︎
-
Cfr. ibid., p. 443. ↩︎
-
Ibid., p. 441. ↩︎
-
A. J. Heschel, The Ecumenical Movement, in The Insecurity of…, op. cit., p. 182. ↩︎
-
F. A. Rothschild, Introduction a Between God…, op. cit., p. 27. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, Religion in a Free Society, op. cit., p. 15. ↩︎
-
«[Sacrificio] […] significa restituire a Dio ciò che abbiamo ricevuto da lui, mettendolo al suo servizio […] una forma di ringraziamento», A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 250. ↩︎
-
F. A. Rothschild, Introduction a Between God…, op. cit., pp. 28-29. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, Religion in a Free Society, op. cit., p. 18. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
A. J. Heschel, Idols in the Temples, op. cit., p. 56. ↩︎
-
Ibid., pp. 56. 59-60. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, L’uomo non…, op. cit., p. 194. ↩︎
-
Ibid., p. 109. ↩︎
-
A. J. Heschel, Confusion of Good and Evil, in The Insecurity…, op. cit., p. 131; cfr. Id., Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., pp. 397-398. ↩︎
-
Ibid., p. 134; «La confusione ha le sue origini dal processo stesso della creazione», Id., Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., p. 400. ↩︎
-
Ibid., p. 137. ↩︎
-
Ibid., p. 140. ↩︎
-
A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., p. 405. ↩︎
-
Ibid. ↩︎
-
Intervista di Carl Stern ad A. J. Heschel, in A. J. Heschel, Grandezza morale e…, op. cit., p. 585. ↩︎
-
A. J. Heschel, Man’s Quest for God. Studies in Prayer and Symbolism, New York, 1954, trad. it. a cura di R. Larini, L’uomo alla ricerca di Dio, Qiqajon, Magnano, 1995, p. 7, corsivo mio. ↩︎
-
Ibid., p. 8, corsivo mio. ↩︎
-
A. J. Heschel, An Analysis of Piety, in «The Review of Religion»;, n. 3 (1942), pp. 293-307, in Id., Grandezza morale e…, op. cit., pp. 457-473. ↩︎
-
Scheler a proposito afferma: «è l’intenzione e il gesto della “trascendenza” stessa, l’essere che prega e che cerca Dio! Anzi l’uomo “non prega”, egli è la preghiera che la vita eleva al di sopra di se stessa; “non cerca Dio”, egli è quell’X vivente che cerca Dio! […]. L’errore delle teorie dell’uomo, fino ai nostri giorni, consiste nel fatto che tra la “vita” e “Dio” si voleva inserire ancora una tappa che potesse definirsi un essere: l’uomo. Ma questa tappa non esiste, giacché un uomo definibile non avrebbe senso alcuno», cit. in M. F. Canonico, L’antropologia di Max Scheler, op. cit., pp. 29-30. ↩︎
-
Già precedentemente Heschel era guidato dalla preoccupazione di mettere in evidenza l’oggettività della «parola» nell’esperienza di colui che prega, infatti: «Nella penetrazione intuitiva (Einfühlung) nella parola della preghiera, nell’impatto con l’oggetto parola, la parola è il maestro, mentre l’uomo è ricettivo […] mai l’uomo percepisce l’oggettività della parola come nella preghiera […] è un accadimento, in cui l’uomo stesso diventa espressione […] L’elemento soggettivo è ineliminabile ma non decisivo […] la preghiera è il superamento dell’elemento soggettivo […] Poiché pregare significa […] comprendere Dio, comprendere le parole che annunciano di Lui», A. J. Heschel, Das Gebet als Ausserung und Einfühlung, in «Monatsschrift für die Geschichte und Wissenschaft des Judentums», LXXXIII (1939), pp. 562-567 (in particolare cit. pp. 564. 566-567). ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, An Analysis of Piety, op. cit., p. 470. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo alla ricerca di Dio, op. cit., p. 7. ↩︎
-
Ibid., p. 8; cfr. le pagine di S. H. Dresner, Prayer and the Modern Age. In Honor of the Fiftieth Birthday of Professor Abraham J. Heschel, in «Judaism», VI (1957), pp. 31-40. ↩︎
-
S. H. Dresner, Prayer and the Modern Age…, art. cit., p. 37. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, L’uomo alla ricerca di Dio, op. cit., pp. 83-89. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, The Spirit of Jewish Prayer, trad. Lo spirito della preghiera ebraica, in Id., Grandezza morale e…, op. cit., pp. 179-183. ↩︎
-
Questo non significa negare l’aspetto soggettivo della preghiera, ma affermare che la relazione personale, intima che un uomo ha con Dio, non solo viene trasmessa, ma anche supportata dalla dimensione comunitaria della Traditio. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, The Spirit of Jewish Prayer, cit., pp. 183-184. ↩︎
-
Ibid., p. 184. ↩︎
-
Ibid., p. 185. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo alla ricerca di Dio, op. cit., p. 95. ↩︎
-
Berakhot 28b; cfr. ibid., pp. 100-109. ↩︎
-
Cfr. ibid., pp. 149-152; fonte della preghiera, per il Nostro è l’intuizione, il senso dell’ineffabile, cfr. ibid., p. 106. ↩︎
-
Ibid., p. 104. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, Prayer, trad. Preghiera, in Id., Grandezza morale e…, op. cit., p. 511: «[…] noi non comunichiamo con Dio. Tutto ciò che facciamo è renderci comunicabili a Lui. La preghiera è un’emanazione di ciò che è più prezioso in noi verso di Lui […] Non è un rapporto tra due persone, tra soggetto e oggetto, ma il desiderio di divenire oggetto del Suo pensiero». ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo alla ricerca di Dio, op. cit., p. 106. ↩︎
-
Cfr. ibid., pp. 131-134. ↩︎
-
Ibid., p. 143. ↩︎
-
Ibid., pp. 143-144. ↩︎
-
«L’io cresce quando è assorbito nella contemplazione dell’altro-da-sé, nella contemplazione di Dio, per esempio. Allora il fine ultimo a cui tendere è l’adesione del sé a qualcosa che è più grande del nostro io, piuttosto che l’espressione di se stessi», ibid., p. 57. ↩︎
-
A. J. Heschel, Prayer as Discipline, in The Insecurity of Freedom, pp. 254-261, trad. in Id., Il canto della libertà, op. cit., pp. 95-107. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, Prayer, op. cit., p. 521. ↩︎
-
P. Ricci Sindoni, Heschel. Dio è…, op. cit., p. 150. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, Death as Homecoming, trad. La morte come ritorno a casa, in Id., Grandezza morale e…, op. cit., pp. 541-557. ↩︎
-
A. J. Heschel, Prayer, op. cit., p. 508. ↩︎
-
A. J. Heschel, L’uomo alla ricerca di Dio, op. cit., p. 156. ↩︎
-
A. J. Heschel, An Analysis of Piety, op. cit., p. 465; Sindoni legge filosoficamente la pietas come un «esistenziale», cioè come «un timbro essenziale del suo «essere-al-mondo»», P. Ricci Sindoni, Dio è pathos, op. cit., p. 153. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, An Analysis of Piety, op. cit., pp. 471-473. ↩︎
-
Intervista di Carl Stern ad A. J. Heschel, art. cit., p. 580; cfr. The Vocation of the Cantor, in Insecurity of…, op. cit., pp. 242-253, trad. ital. in A. J. Heschel, Il canto della libertà, op. cit., pp. 109-127. ↩︎
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Introduzione di C. Campo, in A. J. Heschel, L’uomo non è solo, op. cit., p. 16. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, An Analysis of Piety, op. cit., p. 473. ↩︎
-
Cfr. Ben Zion Bokser, Judaism. Profile of a Faith, New York, 1963, in A. Babolin, A. J. Heschel. Filosofo…, op. cit., p. 411 ↩︎
-
Ben Zion Bokser, Judaism. Profile of…, op. cit., p. 412. ↩︎
-
A. Neher, La contestation de la philosophie par la Bible, in «Littera Judaica». In memoriam Edwin Guggenheim, hrsg. von P. Jacob — L. Ehrlich, Frankfurt 1965, p. 32. Neher afferma la dialetticità di rapporto fra Bibbia e filosofia, per lui il pensiero ebraico è «l’antitesi della filosofia, la sua contestazione permanente», ibid., p. 29. ↩︎
-
Ibid., pp. 34-35. ↩︎
-
G. Lissa, Filosofia ebraica oggi, in «Rivista di Storia della Filosofia», 4 (1994), p. 721; in generale sulla filosofia ebraica, pensiero neo-ebraico e l’elaborazione del Nuovo Pensiero vedere: G. Giannini, Etica e religione…, op. cit., pp. 25-39; I. Kajon (a cura di), Storia della filosofia ebraica, Cedam, Padova, 1993; E. Fackenheim, Jewish Philosophers and Jewish Philosophy, Bloomington & Indianapolis, 1996; F. P. Ciglia, Tra l’uno e gli altri. Il pensiero neoebraico, in «Hermeneutica» (titolo: «Filosofie della religione»), Morcelliana, Brescia, 2000, pp. 309-344; M. Giuliani, Il pensiero ebraico contemporaneo, Morcelliana, Brescia, 2003. ↩︎
-
«[…] il compito che all’ebreo si prospetta — ma, probabilmente, all’uomo in generale […] — è un compito tutto quanto morale, di cui la religione è elemento costitutivo inalienabile, ma che, tuttavia, dovrà articolarsi […] come vera e propria prassi sociale […] il motivo ispiratore di tutto il percorso di pensiero di Abraham Joshua Heschel […] è consistito nella viva ed accorata preoccupazione che la situazione di smarrimento e di crisi in cui l’uomo contemporaneo versa ha ingenerato […] quella preoccupazione in niente altro consiste che in un problema di ordine morale […] «, G. Giannini, Etica e religione in…, op. cit., pp. 123. 127; l’autore parla esplicitamente di «etica religiosa» a p. 148. ↩︎
-
A. J. Heschel, Verso un’interpretazione dell’Halakah, in Id., Grandezza morale e…, op. cit., p. 220. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., pp. 313. 405-406; «L’imitatio Dei si ha nei fatti. Il fatto (l’atto) è la fonte della santità», Id., L’uomo alla ricerca di Dio, op. cit., p. 184; «[…] un atto sacro è religione», Id., Grandezza morale e…, op. cit., p. 253 ↩︎
-
G. Giannini, Etica e religione…, op. cit., p. 153. ↩︎
-
Cfr. A. J. Heschel, The Concept of Man in…, op. cit., p. 146. ↩︎
-
A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., p. 239. ↩︎
-
E. Levinas, Difficile libertà. Saggi sul giudaismo, La Scuola, Brescia, 1986, pp. 106-107, corsivo mio. ↩︎
-
Traduzione dal testo massoretico. ↩︎
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Cfr. A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., p. 305; Cfr. Id., L’uomo alla ricerca di Dio, op. cit., p. 184; J. J. Petuchowski, Faith as the Leap of Action: The Theology of Abraham Joshua Heschel, in «Commentary», XXV, 5 (1958), pp. 390-397. ↩︎
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A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., p. 308. ↩︎
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Ibid., p. 386. ↩︎
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Cfr. ibid., pp. 337. 409; soprattutto le pp. 435-439. ↩︎
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«Poiché non è l’azione del Messia […] ciò che determina la redenzione, ma l’azione mia e tua. La storia dell’umanità nel suo esilio è dunque concepita come un progresso costante, malgrado tutte le sue ricadute, verso la fine messianica. Qui la redenzione non interviene più come catastrofe in cui la storia stessa scompare e trova la sua fine, ma come logica conseguenza di un processo di cui tutti siamo partecipi. Per Luria l’avvento del Messia non significa altro che la firma sotto un documento che scriviamo noi stessi», G. Scholem, La Kabbalah e il suo simbolismo, Torino, 1980, p. 149, cit. in G. Giannini, Etica e religione in…, op. cit., p. 147. ↩︎
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A. J. Heschel, The Mystical Element in Judaism, ital. L’elemento mistico nell’ebraismo, in Id., Grandezza morale e…, op. cit., p. 281. ↩︎
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A. J. Heschel, La terra è del Signore, op. cit., p. 68, cfr. anche ibid., p. 89. ↩︎
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Cfr. Sifre Dt 319: «La Roccia che ti ha generato tu hai indebolito», Dt 32, 18. ↩︎
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Pesiqta de-Rav Kahana 26, 166a-b in A. J. Heschel, La discesa della Shekinah, op. cit., p. 49. ↩︎
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Pesiqta Rabbati 31, 144b, cit. in ibid., p. 48. ↩︎
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A. J. Heschel, Dio alla ricerca dell’uomo, op. cit., pp. 408-409. ↩︎
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F. Rosenzweig, La Stella della Redenzione, op. cit., p. 230. ↩︎
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E. Baccarini, Il dinamismo della rivelazione: Rosenzweig, Buber, Heschel, in «Idee», 52/53 (2003), p. 160. ↩︎
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Cfr. E. Baccarini — L. Thorson (a cura di), Il Bene e il Male dopo Auschwitz, op. cit., pp. 159-163. ↩︎
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Interessante, a riguardo è il libro di U. Curi, Pòlemos. Filosofia come guerra, Boringhieri, Torino, 2000. ↩︎
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A. J. Heschel, The Spirit of Jewish Education, in «Jewish Education», XXIV, 2 (1953), p. 11, cit. in A. Babolin, A. J. Heschel. Filosofo…, op. cit., p. 389. ↩︎