Il Nord, il torrido Sud, l’orientale Assiria, gli Ebrei, l’antico mondo degli antichi, Vaste città desolate, il fugace presente, tutto e questo e più ancora si trova nel superbo corteo.
—W. Whitman, Un corteo per Broadway
È impresa sempre ardua quella di tratteggiare e limare i modi di un universo per molti aspetti distante, ma per tanti altri vicino, quale è quello contemplabile sotto la dicitura «ebraismo nordamericano».
È arduo, in primo luogo perché, a differenza di quanto comunemente ed erroneamente si ritiene, esso non si presenta come, non è, un blocco monolitico dai confini ben definiti e determinati. È, piuttosto, un ambito riccamente variegato e, per certi versi, persino eclettico, una cui banda di oscillazione ideale potrebbe essere individuata assumendo quali estremi — come frequentemente è auspicabile fare per meglio comprendere la realtà che ci circonda — due romanzieri contemporanei. Mi riferisco, in particolare, a Chaim Potok e Philip Roth, narratori entrambi dell’«ebraismo nordamericano», delle sue accezioni e modalità, ma narratori anche di due realtà le quali sembrano lontane — per prendere a prestito una intuizione cuochiana in merito alla rivoluzione napoletana del 1799 — «per due secoli di tempo e per due gradi di clima […] e finanche per due lingue diverse».1
Laddove, infatti, Potok ha concentrato la propria attenzione sulle comunità «ortodosse» statunitensi, quelle neo-chassidiche in special guisa, Roth, nei suoi romanzi, ha scritto, diffusamente, di un ebraismo sì diasporico, ma anche di un ebraismo tutto proteso verso le rimodulazioni del secolarismo, presentando una gamma di atteggiamenti rispetto alla tradizione fluttuanti dal rancore alla assoluta indifferenza.
Sarei tentato di dire che nell’intervallo tra questi due estremi ideali che ho proposto, è possibile individuare, problematicamente, il campo di esistenza dell’«ebraismo nordamericano».
Problematicamente, perché già alcune delle categorie utilizzate — e qui sicuramente il secondo dei livelli di difficoltà accennati in apertura rispetto alla materia in oggetto —, necessitano di chiarificazioni ulteriori. Mi riferisco, ad esempio, all’aggettivo precedentemente utilizzato, ovvero «ortodosso», chiaro, all’apparenza, nella sua resa letterale: «retta opinione». Nell’ebraismo, tuttavia, non esiste una «retta opinione» in quanto non vi è autorità alcuna preposta a stabilire ciò che è corretto e ciò che non lo è in fatto di religione. In linea di massima, «ortodosso» si riferisce a quegli ebrei che risultano essere, stavolta letteralmente, «timorati di Dio». Emmanuel Rackman, a questo proposito, ha avuto modo di suggerire che
l’ebraismo ortodosso è l’ebraismo di quegli ebrei che si affidano alla dottrina in ragione della quale il Pentateuco, la Legge scritta, è la parola di Dio, che fu data a Mosé insieme alle interpretazioni orali ed un metodo esegetico chiamato Legge orale. Insieme, Legge scritta e Legge orale costituiscono le fonti principali della halakhah, ai cui precetti gli ebrei ortodossi si sentono fortemente legati. […] L’ebraismo ortodosso non ha un significato monolitico; le diversità in fatto di fede e pratica sono una moltitudine. Non c’è autorità ultima o gerarchia di autorità, non è mai stato possibile mobilitare una organizzazione nazionale o internazionale in cui tutti gli orientamenti potessero parlare con una sola voce.2
Mi è sembrato opportuno porre in rilievo le constatazioni del Rackman, per due ordini di motivi. In primo luogo perché nel variegato universo dell’ebraismo nordamericano, contrassegnato, come accennavo in apertura, dalla pluralità di paradigmi interpretativi della tradizione — sovente anche in concorrenza e persino in conflitto tra di loro —, uno degli orientamenti di maggior peso specifico è proprio quello che va sotto il nome di «ortodosso» (Orthodox Judaism). In secondo luogo perché vorrei che fosse fugato da subito il dubbio in ordine al quale, l’assenza di una autorità, l’insistenza sul dato di non-monoliticità dell’ebraismo nordamericano — ma, in realtà, dell’ebraismo in generale —, inducessero a considerare l’ebraismo stesso manchevole di una unità di fondo. Vorrei che fosse chiaro che vi è un’unità ed unitarietà nell’ebraismo e si radica, essenzialmente, in tre momenti ben precisi: l’Unicità di Dio; la Torah; Israele. L’esser posti in dialogo ed in «competizione» a partire da questo, fondando in questo, è prerogativa stessa di un ebraismo colto autenticamente nella sua originaria novità e propulsività, della sua capacità di resistenza e persistenza nella diaspora, resistenza e vitalità di cui, emblematicamente, il Talmud, l’«Oceano del Talmud», è cifra.
Per tornare a quanto accennavo in merito all’ebraismo nordamericano, è da dire che oltre quello ortodosso, si registra la presenza di altri due importanti orientamenti: quello conservatore (Conservative Judaism) e quello riformatore (Reform Judaism). Non è propriamente agevole in questa sede entrare, in maniera diffusa, nello specifico di ognuno, ragion per cui mi limiterò ad un rapido scandaglio analitico di detti orientamenti e, nel mentre, proverò a concentrarmi sulle loro sostanziali differenze, sulla scorta anche di queste, tenterò di collocare la figura e l’opera di Abraham Joshua Heschel.
Come accennavo precedentemente, ortodossia può essere assunto quale sinonimo di «fedeltà alla Torah» e, per quel che attiene ancor oggi l’ortodossia ebraica, ad essa è possibile ascrivere tutti quegli ebrei che si sentono vincolati alla Torah scritta — parola ispirata di Dio — e quella orale — interpretazione della prima — fonti principali entrambe della halakhah, della legge ebraica, in base ai precetti della quale, 613, gli ortodossi devono orientarsi nella vita quotidiana. Tuttavia, al di là di certi atteggiamenti ai limiti del fondamentalismo — ma anche in questo caso sarebbe necessario fare delle ulteriori distinzioni interne — ciò che vorrei proporre all’attenzione è il motivo ispiratore, cardine, di un orientamento come quello ortodosso, ovvero la preservazione dell’identità ebraica dalle sempre incombenti minacce esterne, scaturigine di assimilazioni massicce. In un solco tracciato sulla scorta di questa forte esigenza di fondo, gli ortodossi — almeno i gruppi meno progressisti — si considerano tuttora come gli unici titolari della tradizione ebraica stessa, tradizione che si è espressa — almeno secondo loro — quasi esclusivamente nelle forme religiose. A differenza, ad esempio, dell’orientamento riformista o del conservatore, quello ortodosso si distingue per la sua inamovibilità e irrevocabilità dottrinaria e, oserei dire, specie in ambito chassidico — penso qui ai Lubavitch e ai Ladover —, persino insindacabilità interpretativa. Elemento davvero poco ebraico questo, cui è da aggiungerne un altro: l’«incoraggiamento» all’osservanza della Legge, il proselitismo in altri termini.
Tuttavia, queste sommarie determinazioni non devono indurre a credere che l’ortodossia costituisca un fronte omogeneo e granitico: già a cavallo tra XVIII e XIX secolo alcune differenze si potevano notare tra l’ortodossia dell’Europa Orientale — penso al «conflitto» tra mitnaggedim e chassidim — e quella dell’Europa Occidentale, dove si venne costituendo un tipo di ortodossia, oserei dire, di stampo «centrista», cioè progressista nella forma, ma estremamente conservatore nella sostanza, così come voleva Samson Raphael Hirsch (1808-1888), rabbino capo dal 1851, non a caso, della comunità separatista ortodossa di Francoforte sul Meno.
È da sottolineare come in seno all’orientamento ortodosso, almeno negli Stati Uniti dove, a differenza dell’Europa e di Israele, esso è fortemente minoritario, non si sia prodotta, sostanzialmente, alcuna sistematica esposizione delle proprie posizioni e convinzioni. Ad eccezione delle raccolte dei discorsi del Rebbe Schneersohn di Lubavitch,3 degli studi di Emmanuel Rackman4 e di Joseph D. Soloveitchick5 — questi ultimi due, esponenti sicuramente di una ortodossia illuminata — l’autoreferenzialità delle posizioni filosofiche e teologiche degli ortodossi ha fatto sì che esse, negli ultimi trent’anni, non progredissero in maniera significativa. Basti solo accennare che, in special guisa proprio negli Stati Uniti più che in Israele, il movimento ortodosso, in questo ultimo arco di secolo, ha di fatto fondato la propria legittimità e autorevolezza sul carisma di personalità in grado di creare consenso e catalizzare interesse anche al di là dei circoli ortodossi stessi. Questo è certamente il caso del Rebbe di Lubavitch, ritenuto ancor oggi, dopo la sua morte (1994), nell’ambito delle più numerose comunità chassidiche, il Messia, ma considerato, in un passato recente, in altri circuiti ebraici, interlocutore privilegiato anche in merito a delicate questioni politiche.
Di segno diametralmente opposto è, invece, l’ebraismo riformato che, appunto, a differenza di quello ortodosso, si è sviluppato attorno al modello del rifiuto di una concezione religiosa legalistico-ritualistica, per promuoverne una etico-profetica. Laddove l’obiettivo della ortodossia — anche della neo-ortodossia, essenzialmente — è stato e, tuttora, è quello di preservare le fondamenta e la struttura ebraica, sostanzialmente, pre-medievale, lo scopo del riformato è stato ed è quello di favorire una riforma sia religiosa sia culturale per il tramite di un rinnovamento, costante, del modo di vita ebraico sotto tutti i punti di vista. Una rimodulazione, in altri termini, tale da realizzare, concretizzare, una coappartenenza tra modernità e tradizione.
Vivere nel paradigma della modernità, conservando l’«essenza» dell’ebraismo, ovvero la fede nel Dio Unico e l’ethos profetico: con questa formula si potrebbe sintetizzare il cuore dell’orientamento riformato. Tuttavia, per comprendere sino in fondo questa «riduzione forzata» interna operata in seno all’ebraismo riformato, tale da individuare nel Dio Unico e nel profetismo i capisaldi della tradizione, a mio modo di vedere, è necessario riferirsi a quelli che sono stati i prodromi, storicamente e teoricamente parlando, rinvenibili nell’atteggiamento «rivoluzionario» di Abraham Geiger, tedesco, vissuto nel XIX secolo (1810-1874), tra i fondatori della «Wissenschaft des Judentums» (Scienza dell’ebraismo). Nell’accezione di Geiger, infatti, solo attraverso la scienza e la critica storica si sarebbe potuti pervenire ad un rinnovamento sia in ambito teologico, sia dell’ebraismo in generale. L’autentica essenza dell’ebraismo, almeno secondo Geiger, si è venuta formando in età profetica, con la religione dei profeti, profeti i quali richiedevano solo la fede nel Dio Unico e non la mera osservanza di riti.
Pietra angolare, quindi, dell’ebraismo riformato non è più l’«appartenenza al popolo», bensì il vincolo religioso, la professione e la pratica di una fede «illuminata». L’orientamento riformato non considera più l’ebraismo, in prima istanza, come «nazione», piuttosto come comunità religiosa, il cui particolarismo consiste nel monoteismo, etico — in quanto il Dio Unico e Santo ha solo detto «Allontanati dal male e fai il bene» (Salmi, XXXVII, 27) e «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Levitico, XIX, 18) —, della tradizione profetica.
Tuttavia, essendo ormai definitivamente tramontato l’orizzonte in cui l’ebraismo riformato aveva mosso i suoi primi passi — ovvero l’Europa della seconda metà del XIX secolo e inizi del XX —, la «Guida dei principi dell’ebraismo» (Guiding Principles of Reform Judaism) del 1937 — integrativa ed in parte sostitutiva della piattaforma programmatica del 1885 —, guida alla quale tale orientamento ancora si ispira, se da un lato ha mantenuto inalterato il dispositivo teorico di fondo, dall’altro ha introdotto dei paragrafi, significativi di alcuni cambiamenti di prospettiva importanti: ad esempio, per quel che concerne Israele, pur permanendo la convinzione che esso, nella diaspora, rimane unito per mezzo della eredità di una fede comune, è sancito il dovere di contribuire alla ricostruzione della Palestina come patria degli ebrei. Ed inoltre, è fissata l’importanza della promozione degli studi ebraici: sotto questo profilo, il diffondersi ed espandersi di una istituzione come lo Hebrew Union College6 per la formazione di rabbini e studiosi è emblematica.
In una posizione mediana, quale vera e propria via intermedia, tra l’orientamento ortodosso — che, sostanzialmente, rifiuta la modernità — e l’orientamento riformato — che, invece, si adegua fin troppo —, si colloca l’ebraismo conservatore. Come per quello riformato, anche nel caso dell’orientamento conservatore bisogna rintracciare le radici ideali nel XIX secolo, ovvero è necessario riferirsi alle teorizzazioni del rabbino Zacharias Frankel, tedesco come Geiger, vissuto tra il 1801 ed il 1875 e fondatore, tra le altre cose, della più importante rivista di giudaistica del tempo, la «Monatsschrift für Geschichte und Wissenschaft des Judentums». In definitiva, contro le eccessive cristallizzazioni dell’ortodossia, ma anche contro le pericolose ricadute disgregatrici del riformismo, Frankel — ma poi anche tutto il filone conservatore sviluppatosi negli Stati Uniti — ha cercato di far leva sia sulla tradizione sia sulla scienza storica. Porre l’accento sulla conservazione, in questo senso, sulla storia, sulla tradizione, in direzione di una «coabitazione» con gli impulsi provenienti dalla modernità, per l’ebraismo conservatore è perfettamente contemplato nelle dottrine stesse dell’ebraismo, le quali contengono sufficienti possibilità di progresso. L’apertura alla modernità — è questa la convinzione di fondo — è possibile senza venire meno alla tradizione.
Malgrado ciò, anche per quel che attiene l’ebraismo conservatore bisogna rilevare che, attorno all’attività svolta dal Jewish Theological Seminary — dal ’40 egemonizzato dai gruppi ebraici provenienti dall’Europa Orientale —, specie negli anni compresi tra il ’50 ed il ’70, si sono registrate delle «sclerotizzazioni» tali da porre in evidenza una debolezza di fondo dello stesso, troppo concentrato sul passato e, quindi, inappropriato rispetto ai pressanti interrogativi provenienti da un ebraismo che vive in condizioni socio-culturali estremamente dinamiche. Questa debolezza intrinseca, però, non sminuisce quelli che sono i grandi meriti dell’ebraismo conservatore: in primo luogo, l’aver offerto all’universo ebraico tutto, nuove ed importantissime conoscenze sulla propria storia. In secondo luogo, sulla scorta di questo lavoro, che ha spaziato dalla filologia alla teologia, sino alla filosofia ebraica, nell’orientamento conservatore si è registrata la presenza di figure di intellettuali, nella seconda metà del secolo appena conclusosi, il cui spessore non trova eguali, ad esempio, negli altri orientamenti. Mi riferisco, in special guisa, a Mordecai Kaplan (1881-1983) e Abraham Joshua Heschel (1907-1972). Se per Kaplan, il quale meriterebbe, a mio modo di vedere, studi ed approfondimenti, finalmente, di grande livello, mi limiterò a dire che, dall’interno dell’ebraismo conservatore, ha promosso l’«orientamento ricostruzionista» e che, a differenza di tutti quelli citati sino ad ora, è l’unico intellettuale ebreo la cui formazione è avvenuta integralmente negli Stati Uniti, e se di autori di primo livello come Emil Fackenheim e Richard L. Rubenstein non dirò niente, anche perché collocarli negli schemi così rigidi che ho proposto per ridurre problemi troppo spinosi e complessi da affrontare in questa sede, sarebbe problematico, per quel che concerne Heschel, così come stabilito e annunciato, tenterò di offrire le coordinate almeno per accostare il suo percorso di pensiero.
Heschel nacque in Polonia, a Varsavia, nel gennaio del 1907, in una famiglia chassidica: i suoi genitori, Moshe Mordecai e Reizel Perlow erano discendenti, rispettivamente, di Rabbi Heschel di Apt e Rav Dov Baer di Mezhirech (’Il grande Magghid’), e di Rav Levi Yitzchak di Berdichev e Rav Pinhas di Korzec, ovvero i maggiori esponenti che guidarono il rinnovamento religioso di quel movimento — il chassidismo, appunto — il cui iniziatore era stato, nel XVIII secolo, Israel ben Eliezer, il Baal Shem Tov (1700-1760).
Nel 1927, dopo gli anni trascorsi a Vilna, in cui fu formato alla «vita da chassid», Heschel si recò a studiare filosofia, arte e filologia semitica a Berlino, presso la «Hochschule für die Wissenschaft des Judentums» e la Friedrich Wilhelm Universität. Tra i suoi maestri del tempo, figurano alcuni dei grandi nomi del mondo accademico ebraico-tedesco; solo per farne qualcuno: Chanoch Albeck, Julius Guttmann, Leo Baeck. I suoi interessi in campo filosofico spaziavano da Cartesio a Leibniz, da Kant a Husserl. La dissertazione per conseguire il dottorato, invece, era dedicata al mondo dei profeti e recava il titolo: Das prophetische Bewusstsein (La coscienza profetica), saggio che andrà a costituire il nucleo del suo primo libro, Die Prophetie, che vide la luce solo nel 1936, per gli enormi problemi ed ostacoli che l’intelligenza ebraica già incontrava dopo l’ascesa al potere di Hitler nel ’33.
Nel ’37 Heschel si trasferì a Francoforte, dietro espresso invito di Martin Buber con il quale, nel frattempo, aveva stretto amicizia, per dirigere la «Mittelstelle für Jüdische Erwachsenen Bildung». Tuttavia, la parentesi tedesca ebbe un drastico epilogo: nel ’38, tutti gli ebrei che vivevano in Germania ed avevano passaporto polacco, furono rimpatriati. La situazione precaria convinse Heschel a trasferirsi nel ’39 a Londra e poi, dal marzo ’40, negli Stati Uniti. Dopo una breve parentesi come istruttore allo Hebrew Union College di Cincinnati, Heschel ottenne una cattedra al Jewish Theological Seminary di New York, sede, come accennato in precedenza, dell’orientamento conservatore.
Con il trascorrere degli anni, gli incarichi divennero due: Etica e Mistica Ebraica, e ciò anche sulla scorta della sua notevole produzione. Sono gli anni, tra il ’50 ed il ’55, in cui vedono la luce, L’uomo non è solo, Il Sabato, Dio alla ricerca dell’uomo e L’uomo alla ricerca di Dio, testi tra i più significativi nell’ambito della filosofia ebraica contemporanea.
Questa lunga digressione sulla prima parte della biografia di Heschel, mi consente di mostrarne tutta la peculiarità in seno all’ebraismo nordamericano. Al solo esplicitare le tappe più rilevanti della vita del pensatore ebreo-americano sono emersi, infatti, dei dati interessanti: è cresciuto in ambiente chassidico, quindi si è formato in seno all’ortodossia «pura». Ha studiato filosofia all’Università di Berlino, ovvero ha avuto accesso ad uno dei centri di maggiore propulsione in seno alla cultura occidentale dell’epoca; in più, parallelamente, ha frequentato la Scuola superiore per la scienza del giudaismo. È stato sia allo Hebrew Union College sia al Jewish Theological Seminary, gli epicentri, rispettivamente, dell’orientamento riformato e di quello conservatore.
In definitiva, dalla stima di questi dati, è facilmente intuibile che Heschel ha avuto la fortuna di muoversi e interagire con tutti i circuiti più autorevoli in seno all’ebraismo contemporaneo, ovvero tutti quegli ambiti che hanno, sostanzialmente, segnato i momenti di massima espressione dell’ebraismo stesso nel XX secolo. E, a ben vedere — ma di questo dirò anche nel prosieguo —, Heschel si è posto in maniera originalissima, in special modo, a cavallo tra i tre orientamenti di cui ho detto nella prima parte, l’ortodosso, il riformato e il conservatore. Difatti, egli non è mai stato un ortodosso in senso stretto, sebbene il suo bagaglio formativo provenisse tutto da lì. Non è mai stato un riformato in pieno, nonostante il suo lavoro ininterrotto sui profeti — di cui l’edizione del ’65, Il messaggio dei profeti è cifra —, insieme con quelli di Neher e Buber stesso, i più alti della letteratura del ’900, ed il suo impegno attivo nella questione razziale e nei rapporti ebraico-cristiani — per inciso, Heschel partecipò al Concilio Vaticano II quale membro del gruppo di lavoro sui rapporti tra ebraismo e cristianesimo — facciano pensare il contrario. E il pensatore ebreo-americano non è stato nemmeno conservatore, sebbene il suo definitivo stabilirsi in seno al Jewish Theological Seminary possa indurre a pensare diversamente.
Heschel è stato, e rappresenta ancora, nonostante la prematura scomparsa nel 1972, una eclettica figura di filosofo dell’ebraismo, che ha saputo riassumere in sé e in maniera del tutto peculiare, quella che è l’ampiezza e quelli che sono gli accenti di assoluta novità introdotti nell’ambito dell’ebraismo, dal mondo tedesco prima e americano poi, da un lato, sullo scenario filosofico del ’900 — di cui l’ebraismo di per sé è novità assoluta —, dall’altro.
E, tuttavia, a questo livello della mia analisi, reputo opportuno chiarire un elemento decisivo pacificamente introdotto in precedenza, elemento il quale potrebbe suscitare legittime obiezioni: mi riferisco ai passaggi in cui ho parlato di «filosofia ebraica» e di «filosofia dell’ebraismo». Un giusto rilievo potrebbe riguardare la legittimità stessa di una filosofia accompagnata dall’aggettivo — ebraico nella fattispecie —, da ogni aggettivo, che arresterebbe il suo libero procedere, in quanto la filosofia non può avere alcun a-priori, alcuna verità già data su cui fare leva. Il problema è vedere se ciò è valido anche per una tradizione, come quella ebraica appunto che, nell’arco della sua storia, ha elaborato categorie di pensiero altre, spesso parallele, talvolta alternative, ancor più frequentemente oppositive, rispetto a quelle della filosofia occidentale, almeno così come l’abbiamo intesa da Atene a Jena.
Non è questa certamente la sede — me ne rendo conto — per scandagliare, approfondire, il dibattito sviluppatosi intorno al tensionale rapporto tra due diversi orizzonti di pensiero, quello «greco» e quello «ebraico», rapporto che, non di rado, si è risolto in una reciproca «autoriduzione» e rinuncia alla loro stessa intima peculiarità. Basti qui dire che di «filosofia ebraica» è consentito parlare, purché con questa dicitura non si indichi una elaborazione di mera matrice, di genitura, giudaica, bensì una produzione calata appieno in un determinato contesto culturale, attraversata e sovente dedotta da una specifica, unica nel suo complesso e, quindi, inassorbibile in altra, tradizione che ebbe inizio allorquando Abramo lasciò la città di Ur e si pose in cammino nel deserto, dando vita ad una religione monoteistica, totalmente defisicizzata, contraltare della idolatria pagana e tale da non proporsi come un patrimonio di fede rivelato una volta per tutte sul Sinai, tramandato senza mutamenti, bensì come una religione «sempre in crescita».
E già qui è presente il nucleo del mio invito a considerare reale la possibilità di esistenza di una filosofia ebraica, a patto che le proposte speculative elaborate siano messe in relazione con la tradizione, ovvero con quello che è il suo sostrato vivificante, la religione, in cui trova un suo riempimento di senso l’identità ebraica stessa. Con Franz Rosenzweig prima, con Emmanuel Levinas, Martin Buber — in realtà proprio su Buber ho delle riserve rispetto al fatto di inserirlo a pieno titolo nell’ambito del Nuovo Pensiero; questo anche in considerazione delle persuasive constatazioni di Emmanuel Levinas7 — ed Abraham Heschel poi, nel XX secolo si sono gettate le basi per una novità assoluta, ovvero di una filosofia la quale, dall’interno dell’ebraismo, ha concepito dei modi del tutto nuovi, dando vita ad una possibilità altra, totalmente altra, di pensare.
Il «pensare ebraicamente», nel solco di quello che proprio con Rosenzweig è stato battezzato Nuovo Pensiero,8 in niente altro consiste che in una modalità altra di rapportarsi sia alle medesime tematiche di ispirazione ebraica, sia a quelle di stretta derivazione filosofica in senso greco. Detto altrimenti, il rispondere, in maniera concreta, alla necessità derivante dalla singolarità ebraica stessa, quella di una propria filosofia. E se non trovo del tutto persuasive quelle indicazioni in ordine alle quali la filosofia ebraica sarebbe «l’antitesi della filosofia, la sua contraddizione permanente»,9 perché, da un lato, prestano il fianco alla deriva apologetica, non colgono sino in fondo il portato del Nuovo Pensiero, dall’altro, preferisco affidarmi alle parole del filosofo ebreo-canadese Emil Fackenheim, in quanto ritengo abbia colto in pieno l’alternatività e l’alterità proprie della filosofia ebraica contemporanea. Difatti, ha avuto modo di considerare, nel suo Jewish Philosophers and Jewish Philosophy, che
il filosofo ateniese e il profeta gerosolimitano non si incontrano mai. Ma dopo di loro, Atene e Gerusalemme si sono spesso incontrate. E se il mondo postmoderno richiedesse un nuovo incontro? E se la filosofia sentisse l’esigenza di abbandonare il suo «universalismo»-ateniese per il «particolarismo»-gerosolimitano? Si ammetta che i filosofi si scontrino con il fatto che da Isaia e dalla sua Gerusalemme, e non da Socrate e da Atene, questo comandamento e questa promessa hanno fatto il loro ingresso nel mondo: «Dalle loro spade forgeranno aratri e dalle loro lance falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra e non praticheranno più la guerra» (Isaia, II, 4).10
Nella scia di questa novità assoluta nell’ambito dell’orizzonte filosofico, si inscrive la proposta hescheliana. Il suo obiettivo — già ad un primo approccio e perfettamente in linea con quelle modalità della filosofia ebraica che ho tentato di esplicitare — è stato quello di mostrare e spiegare come la stessa, [la filosofia ebraica], non sia un contraltare di quella greca, una sua antitesi, ma esclusivamente una possibilità altra. Con Heschel, oltre a non essere sancita alcuna frattura tra filosofia ed ebraismo, tra universale e particolare (Jude-Sein), attraverso Kierkegaard — sfondo sul quale si è mosso, a mio modo di vedere, tutto l’esistenzialismo ebraico, spina dorsale del Nuovo Pensiero — ed il suo richiamo alla singolarità, alla inassorbibile concretezza esistentiva del singolo, vengono posti i capisaldi per un filosofare autenticamente ebraico, libero da pericolose ricadute derivabili da un universalismo o particolarismo in eccesso. E sotto questo profilo mi sembrano estremamente significative alcune pagine poste in apertura del testo del ’55, Dio alla ricerca dell’uomo, ove Heschel si cimenta con il problema del rapporto filosofia-religione — perché, come accennato, di ciò si tratta — in maniera diretta, introducendo da subito questa ulteriore dimensione nell’ambito di detta relazione, costituita dalla «filosofia dell’ebraismo». Nel capitolo intitolato Autocomprensione dell’ebraismo, Heschel scrive che:
nell’espressione «filosofia dell’ebraismo» il termine «ebraismo» può essere usato come oggetto o come soggetto. Nella prima accezione la «filosofia dell’ebraismo» è una critica dell’ebraismo; l’ebraismo è inteso come tema od oggetto del nostro esame. Nella seconda accezione, invece, «la filosofia dell’ebraismo» ha un significato paragonabile al significato di una frase del tipo «la filosofia di Kant» o «la filosofia di Platone», l’ebraismo è inteso cioè come una sorgente di idee che cerchiamo di comprendere. Ora l’ebraismo è una realtà, un dramma che si svolge nella storia, un fatto e non soltanto un sentimento o un’esperienza. Esso asserisce che sono accaduti certi avvenimenti straordinari nel corso dei quali ha avuto origine. Sostiene alcuni insegnamenti fondamentali. Afferma di rappresentare l’impegno di un popolo verso Dio. Comprendere il significato di questi eventi, insegnamenti ed impegni è compito di una filosofia dell’ebraismo […] e il termine ebraismo […] è usato principalmente con il significato di soggetto.11
Si tratta, allora, di comprendere questo «soggetto», per afferrare il senso della proposta del pensatore ebreo-americano. Possiamo dire che Heschel assume «ebraismo» sia nell’accezione di religione, un fatto, una realtà che si svolge nella storia, sia come «chiamata alla responsabilità» dinanzi a Dio, al mondo e al prossimo, in ragione della quale il discorso religioso stesso tende a farsi discorso morale, tutto imperniato proprio sulla nozione di responsabilità dell’uomo, tale da «obbligarlo» a rispondere a Dio e all’altro uomo. E l’ebraismo potrà essere colto, in un processo di autocomprensione, dalla filosofia, ma rispetto a quest’ultima, risulterà pur sempre un eccesso, in quanto
il loro modo di essere non è lo stesso. La filosofia è un tipo di pensiero che ha inizio ma non ha una fine. In essa la consapevolezza del problema sopravvive a tutte le soluzioni. […] Nella religione, d’altro canto, il mistero della risposta aleggia su tutte le domande.12
In Heschel, quindi, la concretezza del presentarsi ed esercitarsi di filosofia e religione profondamente differisce, tanto da fargli affermare un qualcosa di non molto diverso da quanto aveva rilevato Fackenheim, e cioè che se
la filosofia affronta i problemi come questioni universali […] per la religione le questioni universali sono problemi individuali. La filosofia, dunque, sottolinea il primato del problema, la religione il primato dell’individuo.13
In questo abbozzo di schema, necessariamente, entra in gioco un’altra fondamentale distinzione, quella tra pensiero concettuale, che è un atto del ragionamento, e pensiero situazionale che, invece, comporta un’esperienza interiore, avendo ad oggetto la situazione dell’uomo. «Il pensiero situazionale — difatti — è necessario quando siamo impegnati nello sforzo di comprendere problemi nella risoluzione dei quali mettiamo in gioco la nostra stessa esistenza»,14 ed è in quest’ottica che è possibile rintracciare un lembo di compresenza tra filosofia e religione, in quanto la filosofia, fungendo da strumento, messo in contatto con la religione, le consente di autoesaminarsi, di autochiarirsi.
In realtà, il punto di partenza di un simile sviluppo teorico da parte di Heschel, è la constatazione fattuale della situazione dell’uomo, segnata dalla secolarizzazione, da una più generale crisi dei valori, frutto per lo più di una religione che parla solo in nome dell’autorità, dalla perdita della bussola in grado di fornire all’uomo un senso alla propria esistenza e tale da fondare un corretto agire, e che ha condotto al precipitare anche degli interrogativi ultimi, e con essi, di ciò che era preposto a rispondervi: la religione stessa. Per recuperare proprio questi interrogativi ultimi, e per renderne possibili delle risposte, secondo Heschel occorre predisporsi all’ascolto di ciò che può suggerire solo una filosofia della religione che, in quanto filosofia sa come porre le domande giuste, ed in quanto religione conosce quanto tortuoso e doloroso sia il cammino che conduce alla risposta.
In effetti, questa «filosofia religiosa», adottando la categoria del pensiero situazionale, «può essere definita come la riflessione della religione nelle sue intenzioni e i suoi orientamenti fondamentali, ossia come completa autocomprensione della religione nei propri termini spirituali»,15 ma è, al contempo, anche «revisione critica della religione dal punto di vista della filosofia [purché la filosofia] non agisca da antagonista, da imitatrice o da rivale».16 Ed è proprio qui, in seno alla filosofia religiosa che, in quanto tale, è una filosofia dell’ebraismo, si ricompone quella frattura che solitamente sembra stabilirsi tra filosofia greca ed ebraismo. Tale incontro, tuttavia, dovrà conservare una irriducibile tensione tra i due estremi, in quanto un abbassamento di livello, condurrebbe la suddetta riconciliazione o ad un rapido diradamento della religione, oppure ad una sovrapposizione tra filosofia e razionalismo, qualora si intendesse la disciplina filosofico-religiosa alla stregua di un supporto razionale per la religione. Infatti, la filosofia dell’ebraismo è
coinvolta in una polarità; come un’ellisse, essa si muove intorno a due fuochi: la filosofia e la religione. […] L’incapacità di percepire la profonda tensione esistente tra le categorie filosofiche e quelle religiose è stata causa di molta confusione. Questa situazione eccezionale di essere esposta a due poteri diversi, a due contrastanti fonti di conoscenza è una condizione alla quale non si deve rinunciare. È precisamente questa tensione, questa qualità ellittica del pensiero che è fonte di arricchimento di entrambe, filosofia e religione.17
Qui, sostanzialmente, è da Heschel anche ribadita una valenza paritaria tra la modalità biblica di pensare e quella che ebbe origine in Grecia;
le più importanti premesse — infatti — della filosofia occidentale derivano dal modo di pensare greco. Vi sono più modi di pensare. Israele e la Grecia non hanno soltanto sviluppato dottrine divergenti; esse hanno anche operato entro categorie diverse. La Torah, al pari della filosofia di Aristotele, ad esempio, contiene più che una somma di dottrine; essa rappresenta un modo di pensare.18
Il pensiero biblico e, quindi, il pensare ebraicamente, si attesta quale nuova prospettiva che, movendo dalla creazione quale evento e non processo, disegna itinerari altri rispetto alla filosofia.
La Torah — e qui si esplicita in maniera netta l’alterità assoluta della filosofia ebraica — indica un modo di comprendere il mondo dal punto di vista di Dio. Essa non si occupa dell’essere in quanto essere, ma dell’essere in quanto creazione. Il suo interesse non è nell’ontologia o nella metafisica ma nella storia e nella metastoria; il suo interesse è nel tempo piuttosto che nello spazio.19
Ecco perché il ruolo della religione è quello di costituire una sfida alla filosofia, e non semplicemente un suo oggetto di verifica. Ed ecco perché, mi permetto solo di aggiungere in conclusione, che, dopo un qualcosa come i campi di sterminio, per la filosofia, che ha fatto corto circuito in questa esperienza storica proprio nelle sue espressioni più alte, è una necessità improrogabile, l’unica possibilità di continuare ad esercitarsi, quella di assumere il fatto che è dal particolarismo ebraico, dalle sue elaborazioni filosofiche, che si è pensato in termini alternativi rispetto a quelli di un’ontologia in cui l’essere non può che disvelarsi come guerra.
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V. Cuoco, Saggio storico sulla Rivoluzione di Napoli del 1799, Napoli 1995, p. 123. ↩︎
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E. Rackman, Orthodox Judaism, in Aa. Vv., Contemporary Jewish Religious Thought, New York & London 1987, pp. 679-684, in particolare, p. 679. ↩︎
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Mi permetto di segnalare, M.M. Schneerson, A Thought For the Week, 12 Voll., Detroit 1969-1982; Id., Anticipating the Redemption, New York 1994. ↩︎
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Cfr. E. Rackman, Jewish Values for Modern Man, New York 1962; Id., Israel and God: Reflections on their Encounter, in «Judaism», 1962, pp. 233-241. ↩︎
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Cfr. J.D. Soloveitchick, The Lonely Man of Faith, New York 1965 (2a ed., 1997); Id., Reflections of the Rav, New York 1979, ed. it., Riflessioni sull’ebraismo, Firenze 1998; Id., Halakhic Man, Philadelphia 1983. ↩︎
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Il primo Seminario Rabbinico riformato fu fondato nel 1875 a Cincinnati. ↩︎
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Mi permetto di rinviare a E. Levinas, Hors Sujet, Montpellier 1987, ed. it., Fuori dal soggetto, Genova 1992, pp. 9-49, il cui senso potrebbe essere così reso: «questa nuova etica è anche un nuovo modo di comprendere la possibilità di un Io e perciò corrisponde alla vocazione della filosofia» (ibid., p. 39). ↩︎
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Mi sia consentito segnalare, su questa questione, il ricco e stimolante volume di E. D’Antuono, Ebraismo e filosofia. Saggio su Franz Rosenzweig, Napoli 1999, in particolar modo i capp.: Dalla morte. L’esodo dalla filosofia (pp. 17-49); Dall’ebraismo. L’esodo dalla filosofia della storia (pp. 121-166). ↩︎
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A. Neher, La contestation de la philosophie par la Bible, in Aa. Vv., Littera judaica. In memoriam Edwin Guggenheim, Frankfurt 1965, pp. 29-41, in particolare, p. 29. ↩︎
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E. Fackenheim, Jewish Philosophers and Jewish Philosophy, Bloominghton & Indianapolis 1996, p. 184. ↩︎
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A.J. Heschel, God in Search of Man. A Philosophy of Judaism, New York 1955, ed. it., Dio alla ricerca dell’uomo. Una filosofia dell’ebraismo, Torino 1969, pp. 40-41. ↩︎
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Ibid., p. 20. ↩︎
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Ibid. ↩︎
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Ibid., p. 21. ↩︎
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Ibid., p. 25. ↩︎
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Ibid., p. 26. ↩︎
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Ibid., p. 30. ↩︎
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Ibid., p. 31. ↩︎
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Ibid., p. 34. ↩︎