Inizio come renovatio (chiddush). Note sulla concezione ebraica della creazione e del tempo

In Totalità e Infinito, Levinas pone in modo esplicito al centro della sua filosofia un’idea di creazione che, senza dubbio, è presente nella tradizione ebraica come in quella cristiana:

La creazione ex nihilo rompe il sistema, pone un essere al di fuori di qualsiasi sistema, cioè là dove la sua libertà è possibile.1

Il discorso di Levinas è complesso e sembra rinviare a matrici diverse.2 Ad ogni modo, è evidente che egli vedeva nell’idea teologica della creazione dal nulla un grimaldello importante per quella «rottura della totalità» a cui tendeva tutto il suo progetto filosofico. Essa disegna all’origine l’instaurazione di una molteplicità senza unificazione, di una separazione senza sintesi: ovvero, l’instaurazione di una «trascendenza». Creazione dal nulla significa, inoltre, per eccellenza l’evento che spezza la continuità, l’irrompere del contingente nell’universale e nel necessario. Si trattava per Levinas (filosofo ed ebreo) di ritradurre in linguaggio greco un’idea religiosa (seppure depurata dell’onto-teologia).

E tuttavia, come si presenta quest’idea nell’ambito religioso originario? È mia intenzione verificare, in una cursoria indagine della tradizione ebraica rabbinica o post-biblica, due assunzioni di fondo: la teologia della creatio ex nihilo entra in realtà solo piuttosto tardi nell’orizzonte culturale dell’ebraismo e non assume, a mio parere, un ruolo centrale; un’idea forte di rottura del continuum e della necessità, in nome di una dinamica aperta di eventi, appare spesso legata all’idea della creazione come renovatio mundi (chiddush ha-’olam). Come vedremo, in quell’accumulo di detti, esegesi e narrazioni che è la tradizione rabbinica, emerge una concezione del tempo complessa, che risponde nel proprio linguaggio ai notevoli paradossi dell’idea di novum e initium.3

1. Brevi cenni sulla tradizione talmudica e midrashica

In un saggio magistrale, Gershom Scholem ha mostrato come l’idea di creatio ex nihilo penetri dall’esterno e molto tardi nella teologia dell’ebraismo — evocando quasi immediatamente una rielaborazione mistica del concetto che ne trasforma completamente i lineamenti. In realtà, «questo concetto non è rintracciabile nelle fonti classiche delle religioni monoteistiche rivelate»:4 non può essere certo attribuito alla narrazione di Genesi, ma forse nemmeno ad altri luoghi della Bibbia, ebraica, greca o cristiana.

Per quanto riguarda il pensiero rabbinico, vale in generale ciò che Scholem afferma inizialmente:

Il mito non conosce alcuna creazione dal nulla […]. Il mito presuppone sempre un caos dai cui elementi prende forma l’opera della creazione.5

In effetti, la letteratura midrashica e talmudica sull’Opera della Creazione (Ma’ase Bereshit) — uno dei temi ritenuti pericolosi e dunque fortemente limitati alla trasmissione orale ed esoterica — sembra riprendere spesso l’idea (biblica) di una materia caotica primordiale che Dio avrebbe «trasformato» e «organizzato» in un cosmo ordinato, orientato e totalmente rinnovato. Bisogna considerare che l’obiettivo polemico dell’esegesi rabbinica non era tanto la credenza filosofica in una materia preesistente (un «platonismo» che non sembra così estraneo a certe istanze ebraiche di epoca ellenistica), quanto l’idea gnostica che forze negative fossero da sempre legate al mondo e in opposizione all’opera di Dio. Queste forze potevano essere individuate nei primi versetti della Scrittura: il Tohu wa-Bohu, le acque, le tenebre, l’abisso.6 In un caso, l’Aggadah rabbinica fa della luce (legata al mantello di Dio) la materia originaria da cui sarebbero stati creati gli altri elementi del cosmo: si è vista qui la traccia di una prima idea di emanazione.7

È evidente, ad ogni modo, che dalla narrazione re-mitizzante propria del linguaggio midrashico emerge in primo luogo un’idea di creazione come ri-orientamento decisivo di un caos iniziale, che fornisce un ordine e un’armonia alle forze potenzialmente contrapposte, negative. Non a caso, si ipotizza anche una serie di creazioni precedenti a questo mondo (di cui Dio non fu soddisfatto),8 e si parla della necessità di ri-creare continuamente allo scopo di mantenere un «ordine divino». Vorrei sottolineare quest’ultimo aspetto, facendo un breve riferimento a due testi.

Un’interpretazione talmudica delinea un ordine cosmico in cui il firmamento — chiamato wilon (velo) —

non ha alcuna funzione se non quella di entrare al mattino e uscire la sera, e rinnovare (mechadesh) ogni giorno l’Opera della creazione, come è detto: «Tiene stesi i cieli come un velo e li spiega come una tenda per abitare» (Is. 40, 22).9

Nel Midrash Rabbah su Genesi troviamo alcune interpretazioni molto suggestive del passo biblico in cui la misteriosa figura divina chiamata «uomo» — dopo aver combattuto con Giacobbe per tutta la notte — esclama infine: «Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora» (Gen. 32, 27). Innanzitutto, seguendo una tipica operazione dell’ermeneutica midrashica, si illumina il versetto mediante un altro passo scritturale: «Le misericordie di Dio non sono finite, non è esaurita la sua compassione; esse son rinnovate (chadashim) ogni mattino, grande è la sua fedeltà» (Lam. 3, 22-23).

Su questa base, una prima catena interpretativa rabbinica interpreta il risveglio del cosmo e dell’uomo al mattino come un dono e un segno di Dio:

dal momento che tu ci rinnovi (mechadeshenu) ogni mattino, noi sappiamo che grande è la tua fedeltà alla [promessa della] nostra redenzione;

dal momento che tu ci rinnovi ogni mattino, noi sappiamo che grande è la tua fedeltà [alla promessa] di far risorgere i morti.

(Un nesso importante, come vedremo, lega il «dono del mattino» — inizio sempre rinnovato del tempo — e l’apertura messianica presente in ogni istante).

Una seconda catena interpretativa, assumendo l’ipotesi che la figura che lotta con Giacobbe sia un angelo, specula sul rinnovamento perenne perfino delle schiere angeliche:

Il Santo, benedetto Egli sia, crea ogni giorno una compagnia di nuovi angeli, ed essi cantano una nuova canzone davanti a Lui e svaniscono.10

Non è questa la sede per indagare l’impatto di questa immagine sulla concezione del tempo descritta da Scholem ed elaborata, attraverso la sua mediazione, da Walter Benjamin.11 Vorrei limitarmi qui a mettere in rilievo alcuni elementi di fondo: l’idea di creazione del rabbinismo appare nella maggior parte dei casi come un rinnovamento del mondo (chiddush ha-’olam); questo rinnovamento della creazione tutta si ripete ogni giorno in modo quasi circolare; d’altra parte, ciò significa che in ogni istante può realizzarsi la promessa divina di irrompere nel tempo con la redenzione o la resurrezione. La renovatio — che sia o meno di una materia pre-esistente — implica un tempo di istanti e di possibilità messianiche.

2. Elementi dell’esegesi medievale sull’inizio

Nella teologia ebraica inaugurata da Saadya Gaon nel decimo secolo entra l’idea di una creatio ex nihilo, e viene supportata dall’esegesi del verbo bara’ di Gen. 1, 1 come, appunto, un creare i cieli e la terra dal nulla assoluto. Quanto questo concetto fosse difficilmente conciliabile con il dato scritturale lo mostrano assieme filosofi, esegeti e mistici medievali. La stella filosofica Maimonide presenta in modo dettagliato nella Guida dei perplessi le tre diverse posizioni (creatio ex nihilo, creazione da una materia primordiale, eternità del mondo), dichiarando una indecidibilità dal punto di vista esegetico, scientifico e filosofico (ma forse — a detta di diversi studiosi — inclinando verso la seconda tesi, di tipo platonico).12

Ad ogni modo, nell’esegesi rabbinica più tradizionale, questo problema non sembra essere così essenziale. Molto più pressanti paiono altri due aspetti: da un lato, la negazione di ogni pretesa alla delucidazione razionale e definitiva dell’Inizio delle cose; dall’altro, la negazione di un’idea di creazione che implichi un necessitarismo e un determinismo continuistico, come quello che si deduce dalla posizione aristotelica dell’eternità del mondo, ma non solo.

Tutto questo emerge dall’esegesi concreta dell’esordio delle Scritture, un intero universo interpretativo a cui non posso fare qui che un accenno sintetico. Due prospettive molto diverse sono aperte dall’interpretazione della sintassi dei primi due versetti. Per certi esegeti — in primis Rashi — quel «in principio» (be-reshit) iniziale va preso come uno stato costrutto (altrimenti sarebbe stato corretto dire: ba-rishonah); dunque si deve leggere: «all’inizio del creare Iddio il cielo e la terra, quando la terra era […], allora Dio disse: sia la luce». Per altri autori — come ad esempio, Nachmanide — be-reshit va preso come una parola autonoma, e dunque il primo versetto va preso come una proposizione (e una introduzione descrittiva) a sé stante.

Quella che può sembrare una disputa filologico-grammaticale possiede implicazioni di enorme importanza.

La lettura di Rashi (1040-1105) va a negare in primo luogo che la sequenza della creazione segua un ordine cronologico. Ma soprattutto, essa intende supportare l’idea tradizionale che la Scritture impediscano e proibiscano ogni sguardo speculativo sull’Inizio.13 Rashi, la cui esegesi è solitamente piuttosto aperta alla tradizione aggadica, rimuove qui in modo radicale tutte le speculazioni cosmologiche e cosmogoniche, hybris dell’uomo e potenziale attentato all’eccellenza (Kavod) di Dio.

L’ermeneutica di Nachmanide (1194-1270), come sempre accade in questo autore complesso e poliedrico, combina una molteplicità di livelli interpretativi che non è facile sistematizzare. Vorrei percorrere molto sinteticamente questi livelli — in relazione a Gen. 1, 1 — nella loro (almeno apparente) contraddizione. a) L’esegesi nachmanidea intende dimostrare innanzitutto la creatio ex nihilo: «all’inizio di tutte le cose» vi fu la «creazione» dal «nulla assoluto» di una «sostanza primordiale» (la materia — hyle è il termine greco recepito — del cielo e quella della terra); da quella sostanza furono poi (nel tempo dei giorni successivi) «modellati» tutti gli elementi del creato.14 b) Tuttavia, riprendendo una lettura molto più antica, Nachmanide rileva come be-reshit possa essere interpretato in senso strumentale, a significare «per mezzo del principio»: questo «principio» può essere identificato in vari modi, in particolare come la Torah o come la Sapienza divina (in tal caso: «per mezzo della sapienza, Dio creò i cieli e la terra»).15 c) Questa esegesi, tuttavia, acquista un senso nuovo nell’ambito del sapere esoterico della Qabbalah teosofica: qui il racconto della Creazione allude al dispiegamento delle emanazioni divine (sefirot). Il «principio» creatore, come aveva detto il Midrash, è la Sapienza (Chokhmah), ma questa rappresenta ora la seconda sefirah: essa sarebbe emersa dal nucleo più profondo del divino, emanando poi le altre sefirot (simbolizzate nel primo versetto biblico dai nomi Elohim, cielo, terra, ecc.) e infine tutto il creato.

Seguendo le tracce di Scholem, si potrebbe vedere in questa esegesi (mistica) finale un rovesciamento totale dell’esegesi (teologica) iniziale, fondata sull’idea della creatio ex nihilo. I cabbalisti riprendono la formula teologica, ma per affermare che quel nihil è in realtà l’essenza divina più profonda: creazione dal nulla come creazione da Dio stesso, o meglio dalla super-essentia di Dio.16

Qui, naturalmente, il rapporto tra Dio e la creazione diviene molto articolato, e certo più indiretto. Se nella mitologia cosmogonica talmudica (vicina e contraria alla gnosi) le forze antagoniste preesistenti erano assunte e trasformate nell’ordinamento divino della creazione, nel mito della teosofia cabbalistica quelle forze divengono livelli del divino. L’inizio è ora nel divino stesso; l’inizio del mondo è solo un ultimo anello, posto alla fine del completamento della Costruzione divina. Sorge il dubbio, a questo punto, che la Qabbalah abbia in realtà rovesciato i due cardini del rabbinismo cui abbiamo accennato.

In primo luogo, l’ulteriorità dell’Inizio e l’impossibilità di speculare su di esso sembrano contraddette dallo sguardo contemplativo sulla realtà interna al divino stesso. E tuttavia, osserviamo che anche per i cabbalisti le Scritture chiudono lo sguardo sull’Inizio. Seguendo Maimonide, essi sottolineano che il Testo comincia con le «azioni» di Dio, mentre non ci dice niente della sua «essenza». Questo è confermato dall’esegesi cabbalistica dei primi versetti. La Sapienza con cui si apre il Testo è la seconda sefirah (Chokhmah) che emana dalla prima (Keter), ovvero è il «punto» che si sviluppa dal Nulla della volontà divina, ovvero è l’Inizio che è destinato a dispiegarsi nell’essere (hatchalat ha-yeshut). Il Nulla è oltre — e forse anch’esso derivato, emanato da quell’Infinito, che è il nucleo originario del divino.17

In secondo luogo, la dinamica creativa e rinnovativa sembra qui minacciata da una concezione emanazionistica e continuista, propria di quelle dottrine neoplatoniche che entrano con forza nell’orizzonte concettuale dei cabbalisti. È fuor di dubbio che tra la «creazione continua» prima descritta e questa «effusione continua» possa essersi prodotta una tensione intrinseca (parallela a quella tra un’idea più volontaristica-personalistica di Dio ed una tendenza al necessitarismo-intellettualismo).18 E tuttavia, come vedremo subito, tutta l’elaborazione cabbalistica ruota intorno ad un’idea (e ad un’esperienza) della possibilità divina di intervenire direttamente e in ogni istante nella storia e nella vita dell’uomo (così come l’uomo in ogni momento ha la possibilità di incidere sulla realtà storica, cosmica e divina, mediante le sue azioni rituali e quotidiane).

3. L’inizio e gli inizi nella concezione di Nachmanide

Riassumendo: creazione in ambito ebraico medievale poteva significare creatio ex nihilo in senso proprio, oppure creazione da una materia increata (il nulla del medioplatonismo) o piuttosto creazione da un punto interno al divino (il Nulla dei mistici). Ciò che resta fermo (e anzi viene potenziato) è il presupposto di un Inizio che si ripete incessante, dall’alto come dal basso, nella storia come all’interno del divino: contro ogni logica della causalità necessaria, una logica della radicale discontinuità.

Vorrei indicare due formulazioni paradossali decisive che mi sembrano mettere ben in luce il significato più generale che la creazione assume nel pensiero di Nachmanide e della sua scuola. In primo luogo, nel suo commento al Pentateuco, R. Bachya ben Asher offre più di una volta il paradosso di un’equivalenza tra creatio ex nihilo (yesh me-’ayn) e renovatio mundi (chiddush ha-’olam):19 la valenza di questo paradosso dell’Inizio è ormai chiara.

In secondo luogo, per questi autori della seconda metà del XIII secolo, la creazione «fonda» gli altri principi essenziali della religione d’Israele: l’idea di Provvidenza, la tesi di una ricompensa del bene e del male, la possibilità della profezia e della rivelazione, la speranza della redenzione, nella misura in cui queste esperienze la «fondano» a posteriori. In altre parole, queste esperienze di inizio mi dimostrano (e sono dimostrate da) dal primo Inizio. Infatti, solo se si ammette una rottura iniziale del continuum si possono giustificare elementi di rottura successivi nella natura del mondo; al contrario, se si accetta una logica di necessità (circolare come nel caso della eternità del mondo, ma anche lineare) si nega radicalmente la possibilità divina (e umana) di intervenire in modo dinamico e innovativo nella storia.

Nachmanide lo afferma chiaramente nel suo Discorso sulla perfezione della Torah (come in numerosi punti del suo Commentario): «la creazione del mondo (chiddush ha-’olam!) viene chiaramente confermata da Mosè mediante la divisione del mar Rosso, la manna […], la rivelazione profetica sul monte Sinai. Tutte queste cose infatti insegnano la creazione (morim ‘al ha-chiddush). In che modo? Stando a quello che affermano i sostenitori dell’esistenza del mondo ab aeterno, se Dio volesse accorciare l’ala della mosca o allungare le gambe della formica, egli non ne sarebbe capace».20 Nachmanide preferisce accordare qualche concessione ai maghi e agli stregoni che «credono di poter cambiare una cosa in contrasto alla sua costituzione originaria»,21 pur di salvare l’idea che il mondo non sia un sistema totale di regole naturali necessarie e involontarie. Sulla base di questa posizione, si aprono ovviamente questioni molto complesse, relative ai «limiti» dell’intervento divino nel mondo (i limiti della provvidenza e del miracolo) e alle proprietà dell’intervento umano (fino a che punto vale l’azione del mago? come si distingue dal profeta? a che livello influisce l’opera dell’uomo?). Non possiamo nemmeno accennare a tali questioni. È evidente, ad ogni modo, che la scelta di fondo di Nachmanide è in favore della rottura del continuum, che dimostra (ed è dimostrata da) la creazione come primo chiddush.

Ciò conduce a sottolineare l’azione costante di Dio, il quale rinnova (mechadesh) il mondo con «segni e prodigi mirabili»: Nachmanide elabora una vera teoria dei miracoli manifesti (nissim mefursamim) e dei miracoli nascosti (nissim nistarim)22 — in esplicita opposizione alla filosofia greca, e alla stessa Guida dei perplessi di Maimonide, che escludeva l’intervento divino mediante miracoli, tranne per casi eccezionali.23

In una prospettiva diversa e complementare, l’idea della possibile rottura del minhag (il corso naturale e abituale del mondo) implica anche una grande attribuzione di forza all’uomo: l’uomo

non ha parte nella Torah di Mosè […] fino a quando egli non crede che tutte le nostre parole e le nostre azioni costituiscono dei prodigi, non essendoci in esse alcunché di naturale o di conforme al corso abituale del mondo.24

In altre parole, anche qui in netto contrasto con i filosofi e con Maimonide, l’azione religiosa dell’uomo deve essere presa (o meglio, deve diventare) una corrispondenza alla renovatio originaria e continua del Creatore: rottura continua dell’ordine naturale. Questa convinzione non solo fonda teologicamente l’idea che ogni atto riceve una ricompensa o una punizione divina; ma significa anche che, come avverrà in tutta la riflessione cabbalistica, l’azione del giusto possiede un impatto decisivo sulla realtà cosmica (in quanto mantiene il mondo), sulla realtà divina di Israele (in quanto lo riporta alle condizioni dell’Eden) e sulla stessa realtà superiore del divino (in quanto potenzia, congiunge e armonizza le sefirot).

4. La linea e il circolo

Franz Rosenzweig sembra aver avuto ben presente questo discorso della tradizione rabbinica e cabbalistica che abbiamo qui sintetizzato. Per lui, «l’inizio è Dio creò». Una creazione come rottura della totalità: instaurazione del legame tra Dio e mondo, orientazione del mondo, irrompere della parola, prima rivelazione. E una creazione continuamente rinnovata: infatti,

[la rivelazione] rinnova la creazione primigenia nel presente che viene sempre nuovamente creato, poiché già quella creazione primigenia altro non è che la profezia suggellata che Dio «giorno dopo giorno rinnova l’opera dell’inizio’.25

Non a caso, Rosenzweig ha delineato una concezione ebraica del tempo che, pur «moderando» l’elemento messianico e l’elemento teurgico, sembra sfuggire alla contrapposizione semplicistica tra tempo lineare e tempo circolare. L’intersecazione della linea e del circolo emerge su diversi piani: nell’affermazione appena citata di una creazione continua in ogni istante, nell’idea che il Regno può essere anticipato in ogni momento, nella descrizione della ritualità ebraica come quel circolo che porta l’eternità nel tempo.

Il rito, in particolare, assume molto spesso nella religione rabbinica il senso di una inserzione «sempre nuova» di circoli nel tempo profano: la dinamica verticale tra umano e divino è un circolo che entra nel tempo dell’uomo e ne cambia la direzione.26 Si dovrebbero esplorare a questo proposito tanto le immagini circolari del rito (il movimento circolare di ingresso-uscita del «festivo» nel tempo, ecc.), quanto alcuni elementi del rabbinismo e della mistica medievale che confermerebbero questa complessità della temporalità nella concezione religiosa della storia.27 Si tratta dell’inserzione, in una teologia della storia di tipo lineare (ma non deterministica), di elementi temporali di tipo circolare: dove però il circolo non segna l’eterno ritorno dell’identico — come nella cosmologia mitica o in quella greca — ma la possibilità di correggere, rinnovare, riaprire.28

5. La renovatio nell’interpretazione

Per concludere, vorrei portare l’attenzione su un ultimo aspetto dell’idea di inizio. Abbiamo già osservato come un’esegesi tradizionale interpretasse in questo modo Gen. 1, 1: «per mezzo della Sapienza, ovvero della Torah, Dio creò i cieli e la terra». Che il mondo sia stato creato mediante la Torah o grazie alla Torah era un motivo midrashico diffuso. Su questa base, molte tendenze mistiche e magiche interne all’ebraismo, già molto tempo prima della Qabbalah, giunsero ad ipotizzare che l’origine del cosmo fosse linguistica, ovvero che il mondo fosse costituito dalle lettere dell’alfabeto ebraico (è la nota tesi del Sefer Yetzirah). I due motivi, pur nella loro differenza, portano all’idea che il Libro della creazione sia strettamente legato al Libro rivelato, e in qualche modo incluso e determinato in una scrittura originaria.

Tuttavia, e questo è il punto che ora ci interessa, ciò non significa affatto che tutto sia già scritto, prestabilito. Da un lato, convengono i mistici, la Torah come è data nella sua forma manifesta non è che un aspetto (e certo non l’aspetto originario o messianico) della Parola divina. D’altro lato, essi mettono in rilievo — nelle forme più svariate — la forza sempre creativa del linguaggio, anche di quello affidato all’uomo, in particolare laddove si tramanda la sapienza della combinazione delle lettere dei nomi divini.29

Questi elementi vanno connessi senza dubbio a una concezione mistica o magica del linguaggio. Si tratta ad ogni modo di una concezione dell’orizzonte linguistico (e della sua apertura) che ha implicazioni importanti anche in campo ermeneutico. Non stupisce infatti che proprio qui, in questo ambito linguistico, ricompaia — seppure in un senso più specifico — l’idea dell’inizio come renovatio. Infatti, lechadesh e chiddush sono rispettivamente il verbo e il sostantivo che definiscono, in ambito giuridico, la promulgazione di una nuova legge, e in ambito ermeneutico, la proposta di una nuova interpretazione. La tradizione della Legge e delle interpretazioni si fonda sulla possibilità di chiddushim (novellae).


  1. Totalità e infinito, trad. it. di A. Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1990, p. 106 (cfr. anche pp. 301-302). Si veda in proposito, S. Petrosino, Creazione ed etica. Sull’ebraismo di E. Levinas, «Discipline Filosofiche» IX, I, 1999, pp. 234-238. ↩︎

  2. Da un lato, l’idea di creazione viene avvicinata alla concezione platonica del Bene (al di là dell’essere), dall’altro essa sembra essere il nucleo stesso della «religione». Qui, d’altra parte, riprendendo un’idea prettamente mistica, divulgata da Gershom Scholem e ripresa anche da Hans Jonas, Levinas pare declinare il concetto della creatio ex nihilo secondo il mito cabbalistico dello tzimtzum: «L’infinito si produce rinunciando all’invasione di una totalità in una contrazione che lascia un posto all’essere separato» (cfr. pp. 104-106). Sull’idea di tzimtzum (contrazione), si veda G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, trad. it. di G. Russo, Einaudi, Torino 1993, pp. 270-274; H. Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz, trad. it. di C. Angelino, Il Melangolo, Genova 1990; un’indagine recente di M. Idel, più attenta allo sviluppo del concetto nella tradizione cabbalistica, è stata parzialmente tradotta in M. Idel — M. Perani, Nachmanide, esegeta e cabbalista, La Giuntina, Firenze 1998, pp. 215-224. ↩︎

  3. Non sarà inutile ribadire che, ancor più di altri pensieri religiosi, quello ebraico resiste ad un’opera di sistemazione concettuale, a causa di due caratteri essenziali della tradizione rabbinica: la narratività fondamentale del linguaggio e l’assoluto pluralismo delle interpretazioni e delle credenze. Il pluralismo è assoluto non solo tra le diverse fasi della tradizione ebraica (Bibbia, corpus talmudico-midrashico, mistica antica, filosofia medievale, mistica cabbalistica, ecc.), ma anche all’interno di ciascuna di queste fasi. ↩︎

  4. Creazione dal nulla e auto-limitazione di Dio, in G. Scholem, Concetti fondamentali dell’ebraismo, trad. it. di M. Bertaggia, Marietti, Genova 1986, pp. 45, 49 sgg. ↩︎

  5. Ivi, pp. 43-44. ↩︎

  6. Per un’indagine più accurata di questi motivi, si veda M. Mottolese, Scrittura de-mitizzante e interpretazione mitopoietica. Per una fenomenologia del discorso mitico negli sviluppi dell’esegesi ebraica, «Discipline Filosofiche» IX, I, 1999, in part. pp. 64-73. ↩︎

  7. Cfr. Bereshit Rabbah 3, 4. Si veda in proposito A. Altmann, A Note on the Rabbinic Doctrine of Creation, in Studies in Religious Philosophy and Mysticism, New York 1969. Secondo questo studioso, «in Rabbinic Judaism opinion oscillated for some time between accepting and rejecting the notion of primordial matter or elements» (p. 129). Più volte, da un’altra prospettiva, si avanza l’idea che prima della creazione del mondo fossero già esistenti elementi fondamentali della religione ebraica, come la Torah o il Tempio: cfr. Bereshit Rabbah 1, 4; Talmud Bavli (d’ora in poi abbrev. TB) Pesachim 54a; Pirqe de Rabbi Eliezer 3, ecc. ↩︎

  8. Cfr. Bereshit Rabbah 3, 7. ↩︎

  9. Cfr. TB Chagigah 12b, trad. it. in Mistica ebraica, a cura di G. Busi — E. Loewenthal, Einaudi, Torino 1995, p. 12. È importante notare che la formula talmudica è ripresa nel rituale di preghiera giornaliero, tra le benedizioni del mattino: «Benedetto sei tu, o Signore, […] che nella tua bontà rinnovi sempre, ogni giorno, l’Opera della creazione». ↩︎

  10. Bereshit Rabbah 78, 1; Eikhah Rabbah 3, 23. ↩︎

  11. La «leggenda talmudica [sic]» di «angeli nuovi ogni istante» — che, dopo aver levato davanti a Dio la loro voce, svaniscano nel nulla — ritorna in alcuni luoghi topici dell’opera di Benjamin, in chiara relazione con l’Angelus Novus di Klee: immagine per Benjamin di un tempo di discontinuità e istanti messianici, ma anche simbolo del carattere effimero e distruttivo di chi, per inaugurare nuove cose, guarda alle macerie della storia. Cfr. l’Annuncio della rivista Angelus Novus, trad. it. in Il concetto di critica nel romanticismo tedesco. Scritti 1919-1922, a cura di G. Agamben, Torino 1982, p. 178; la fine del saggio su Karl Kraus, in Avanguardia e rivoluzione, trad. it. di A. Marietti, Torino 1973, pp. 132-133; il commento di G. Scholem, Walter Benjamin e il suo angelo, trad. it. di M.T. Mandalari, Milano 1978, pp. 30, 56 e passim↩︎

  12. Cfr. The Guide of the Perplexed, ed. L. Strauss — S. Pines, II §§ 13 sgg. Il suo seguace Samuel ibn Tibbon accoglie esplicitamente la tesi di una materia eterna, da cui Dio avrebbe «creato» il mondo sublunare per mezzo degli intelletti separati (gli angeli): non stupisce che anche qui si presenti l’idea di una «creazione continua», che interviene (anche se in modo mediato) sugli elementi del cosmo. Cfr. il suo trattato Ma’amar yiqqawu ha-mayim, complessa esegesi filosofico-scientifica sul detto biblico «Si radunino le acque» (Gen. 1, 9). Sulla sua «laboriosissima soluzione» del problema della creazione, si veda C. Sirat, La filosofia ebraica medievale, trad. it. Brescia 1998, pp. 281-282. Non a caso, l’opera fu ripresa e criticata nel noto trattato cabbalistico Meshiv devarim nekhochim di R. Ya’aqov ben Sheshet, che ne «risolve» le contraddizioni mediante l’assunzione della teosofia emanazionistica di tipo cabbalistico. ↩︎

  13. Alcuni ben noti midrashim sottolineano infatti come la Torah cominci con la lettera Bet (seconda lettera dell’alfabeto ebraico) e come la grafia stessa di questa lettera (chiusa su tre lati) «impedisca di investigare cosa sia sotto e cosa sia sopra, cosa sia prima e cosa sia dietro»: cfr. ad esempio Bereshit Rabbah 1, 10. ↩︎

  14. Perush ha-Torah, a cura di C. Chavel, Gerusalemme 1959, su Gen. 1, 1 (p. 12), trad. it. in M. Idel — M. Perani, Nahmanide, cit., pp. 314-315. ↩︎

  15. Ivi, pp. 14-15 (trad. it. p. 317). Questo motivo era fondato, in particolare, sull’affermazione della Sapienza stessa in Prov. 8, 22: «Dio mi ha creato all’inizio (reshit) della sua via». ↩︎

  16. Creazione dal nulla, cit., pp. 55-56. Scholem segue l’emergere di questa idea in testi arabi, cristiani e cabbalistici, sottolineando in particolare l’affinità tra certe formulazioni di Giovanni Scoto Eriugena e Rabbi Azriel di Gerona. ↩︎

  17. Il rapporto tra l’Infinito e il Nulla, ovvero tra il nucleo originario del divino (’En Sof) e la prima emanazione (Keter) è naturalmente uno dei punti più oscuri e controversi della mistica cabbalistica (R. Yosef Giqatilla sembra aver identificato i due aspetti, ma in altri autori essi sono nettamente distinti). Non cambia, ad ogni modo, lo statuto epistemico dei concetti, di cui ci stiamo occupando. ↩︎

  18. Cfr. sull’argomento G. Scholem, La lotta tra il Dio biblico e il Dio di Plotino nella Cabbala antica, in Concetti fondamentali, cit., pp. 1-40. Questa tensione, d’altra parte, è del tutto visibile anche nella filosofia ebraica neoplatonica, in cui spesso si trova il tentativo di «salvare» l’atto creativo e volontario prima del processo di emanazione. ↩︎

  19. Cfr. ad esempio il suo Bi’ur ‘al ha-Torah, a cura di C. Chavel, Gerusalemme 1968, I, Introduzione, pp. 12-13; su Num. 10, 35, III, p. 55. ↩︎

  20. Discorso sulla perfezione della Torah, in Kitve Rabbenu Moshe ben Nachman, a cura di C. Chavel, Gerusalemme 1963, p. 146, trad. it. in M. Idel — M. Perani, Nahmanide, cit., p. 237. Di seguito, Nachmanide attacca duramente «l’empietà del principe dei filosofi», cioè Aristotele, la cui posizione sull’eternità del mondo porterebbe a negare tutta l’esperienza (prima ancora che la fede) di Israele rispetto agli interventi divini nella sua storia. Infatti, «se si accetta la pre-esistenza del mondo, ne seguirebbe che niente può essere cambiato della sua natura» (Perush ha-Torah su Es. 20, 2: I, p. 388). ↩︎

  21. Ivi, p. 147 (trad. it. p. 237). ↩︎

  22. Ivi, pp. 150-155 (trad. it. pp. 244-254). ↩︎

  23. Impossibile entrare qui nelle complesse discussioni talmudiche e midrashiche sul triangolo Provvidenza divina, ordine naturale, libertà dell’uomo. È evidente, ad ogni modo, che nella prospettiva teocentrica dei Maestri il rapporto tra i primi due elementi — l’ordine cosmico e l’ordine divino — non costituisse una vero problema, in quanto la creazione intera era intesa come un unico grande miracolo. È presumibile che l’approfondimento della questione nell’esegesi cabbalistica sia stato determinato dalla necessità di rispondere alla prospettiva filosofica e alle sue soluzioni (e in particolare, alla soluzione maimonidea di vedere l’opera divina come potentia ordinata che si esprime nello stesso svolgimento «normale» della natura). ↩︎

  24. Ivi, p. 153 (trad. it. p. 250). ↩︎

  25. La stella della redenzione, trad. it. di G. Bonola, Casale Monferrato 1985, pp. 118-119. Rosenzweig fa sua l’idea che la creazione si rinnova «in ogni minimo istante particolare», anche se — sulla scia di Maimonide — si tratta per lui di una provvidenza «universale», che riguarda le cose particolari solo indirettamente: cfr. pp. 129-130. ↩︎

  26. Si veda, ad esempio, C. Mopsik, Le grand textes de la cabale. Les rites qui font Dieu, Paris 1993. ↩︎

  27. Ad esempio: la tipologia per cui le azioni dei Patriarchi «prefigurano» quelle di Israele, l’idea mistica della «ruota delle anime» (che dà alle generazioni successive l’onere e il potere di rimediare ai peccati dei padri), la dottrina cabbalistica delle shemittot (i cicli cosmici che rappresentano diverse creazioni e sono governate da diversi aspetti della Torah), ecc. ↩︎

  28. Sull’inserzione del tempo ciclico di origine mitica nel tempo lineare della tradizione cristiana, si veda il bel saggio di G. Stabile, La ruota della fortuna: tempo ciclico e ricorso storico, in Scienze, credenze occulte, livelli di cultura, Olschki, Firenze 1982, pp. 477-503. Per l’individuazione di un modello di tempo che, nella tradizione ebraica, andrebbe oltre l’opposizione binaria di continuità e discontinuità, cfr. S. Mosès, La storia e il suo angelo, trad. it. di M. Bertaggia, Anabasi, Milano 1993, pp. 217-225. ↩︎

  29. Alcuni rabbini del Talmud sono convinti che «se i giusti volessero potrebbero creare un mondo» (TB Sanhedrin 65b). Così, Bezalel ha potuto costruire il Tabernacolo perché «conosceva le combinazioni di lettere con cui sono creati i cieli e la terra» (TB Berakhot 55a). Notevole la reinterpretazione mistica di quest’idea nel Sefer ha-Zohar: «quando una nuova parola viene elevata, Egli la copre, la ripara e protegge l’uomo che l’ha proferita […], finché questa parola non si trasformi in un nuovo cielo e in una nuova terra» (Zohar I. 5a). ↩︎