Recensione a Walter Fratticci, Il Bivio di Parmenide. Ovvero la gratuità della verità

Walter Fratticci, Il Bivio di Parmenide. Ovvero la gratuità della verità, Cantagalli, Siena 2008.

Già per Platone la questione parmenidea dell’essere che è e che non può che essere, mentre ciò che non-è non potrà mai essere altro che non-essere, risultava alquanto problematica, e dopo più o meno 2500 anni il «paradosso così violento»1 continua a chiamare a sé l’attenzione della filosofia e dei filosofi. Uno di questi ultimi è Walter Fratticci (PhD in filosofia presso la Pontifià Università Lateranense, insegna filosofia nei licei e presso l’Istituto Teologico «Leonianum» di Anagni) che tenta una nuova lettura e riflessione teoretica, come precisa lo stesso autore (cfr. p. 8), dei brani rimastoci del Poema sulla natura di Parmenide, lettura che prende di mira in primis la condizione nella quale si trova la filosofia odierna.

Per quanto il ritorno a Parmenide propostoci da Fratticci sia figlio dell’epoca e «ogni epoca interroga il proprio passato a partire dalle questioni poste dal presente» (p. 17), esso è iscritto nella tradizione heideggeriana (ma ormai anche questo è figlio dell’epoca) della Schritt zurück, del (tradotto letteralmente) «passo indietro», che incita a non perdere il contatto con il passato filosofico e proprio per le problematiche fondamentali affrontate dai primi filosofi (non sono le problematiche affrontate dai primi pensatori che chiamiamo filosofi la causa effettiva per la quale li chiamiamo proprio filosofi?). Per Fratticci, la problematica fondamentale alla quale dobbiamo «ritornare» non è semplicemente la questione ontologica (del primato? ) dell’essere, ovvero «la strada dell’ontologia che conferisce alle cose il sigillo stabile dell’essere» (p. 18), ma è la gratuità del darsi dell’essere che con «l’evento» della tecnica non è stato soltanto svelato, ma forse addiritura dimenticato (cfr. p. 20-22).

Fratticci comincia la parte argomentativa della sua opera con una interpretazione della parola greca «filosofia» che egli considera aver subito «una lenta, leggera ma inesorabile deriva, che allontana la filosofia dalle sue origini» (p. 23-24) e che trascina la stessa filosofia nella direzione della scienza dove può soltanto costatare la sua «propria evanescenza» (p. 24). Con una interessante ricerca di associazioni linguistiche, che vengono comunque affrontate con la necessaria cautela, l’autore evidenzia che tradurre philo-sophía come «amore del sapere» non è la stessa e medesima cosa di tradurla come «amore per il conoscere / la conoscenza». La «sofia» non è la stessa cosa dell’eidénai né della gnósis, come neanche dell’epistéme (rispettivamente conoscere, conoscenza e scienza). La sapienza ha, secondo l’autore, più aspetti «in comune» con il sapore2 che con la conoscenza e ciò non solo per le affinità semantiche, ma più che altro per il senso dell’apprendere che comporta: «Sapere il sapore è adozione di un approccio alla realtà che interroga questa in relazione al suo darsi che non può essere oggetto di pretesa alcuna da parte dell’uomo che la riceve» (p. 27-28). Al contrario della scienza, che mira alla chiusura del cerchio (interpretativo) teorico, la filosofia non ha, non deve avere secondo l’autore, questa volontà né possibilità di chiusura del medesimo cerchio. La filosofia è e deve rimanere una «ricerca aperta» perché è «suscitata da un appello che la convoca e che non può mai accomodarsi entro gli orizzonti dell’umana capacità» (p. 30).

Gli interpreti e protagonisti della storia della filosofia sono, secondo l’autore, «colpevoli» di una «vera e propria metamorfosi della filosofia» (p. 33) che la porta sempre nella direzione dell’amore per la (cono-) scienza. Il primo «colpevole» che viene affrontato da Fratticci è (ovviamente? ) Hegel che nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito scrive che il suo compito è stato di fare sì che «la filosofia si avvicini alla forma della scienza, affinché giunga alla meta in cui possa deporre il proprio nome di amore del sapere per essere sapere reale».3 Tuttavia, Hegel non è il primo a vedere (voler vedere) la filosofia come scienza. Già in Aristotele — nel «primo Platone» Fratticci vede ancora i «resti» della filosofia in forma di «sapere dialogico-dialettico» degli innizi (p. 39) — e la sua definizione della filosofia come «scienza prima», Fratticci nota il medesimo tentativo (cfr. p. 35). Altri filosofi o correnti filosofiche che, secondo l’autore, rientrano nella lista di coloro che hanno partecipato alla metamorfosi della filosofia sono Bacone, Cartesio, gli idealisti, i positivisti e neopositivisti, Horkheimer e Adorno e perfino Heidegger quando tratta il destino della filosofia dell’Occidente (cfr. p. 40-41).

La caratteristica fondamentale di questo sapere filosofico è, secondo Fratticci, la dimostrazione che mira «al dominio concettuale del reale» (p. 43) e, per ottenere questo, fa ricorso alla definizione che divenne «lo strumento cruciale di questo processo» (p. 44). Da questo punto di vista diventa inoltre quasi evidente per quale motivo la vista gode del privilegio e della centralità della quale gode nella filosofia Occidentale (cfr. p. 48-49). Il senso della vista permette infatti più degli altri di individuare, confinare e separare; ovvero è quasi naturalmente inclino a definire. In questo senso però, questa indagine filosofica è da considerare, secondo Fratticci, come «monologica». Solo ciò che viene «illuminato» dalla vista può essere considerato e peraltro può essere considerato in un modo solo. Il dominio dell’epistème risulta quindi in una riduzione del molteplice all’identico e nella quasi completa non-necessità e non-essenzialità dell’interlocutore (cfr. p. 54).

A questo punto Fratticci ri-propone, accanto (contro? ) al binomio vedere-conoscere che è stato considerato violento, autoreferenziale ed egocentrico (cfr. p. 55-56), la coppia dire-ascoltare che è almeno altrettanto originaria del binomio dell’epistème. Questa «nuova» coppia è, secondo l’autore, meno violenta e per niente «monologica» né egocentrica proprio perché prende spunto da una «Parola originaria che appella un interlocutore» che può rispondere («una parola seconda») rendendo «ragione a se medesima di sé e dell’Altro» (p. 56-57). In questo senso anche l’interlocutore «ri-guadagna» la sua essenzialità. L’ascolto diventa così, secondo l’autore, «l’atteggiamento unicamente adeguato nei confronti del meraviglioso, del mistero, che origina la ricerca filosofica» (p. 57).

La questione fondamentale parmenidea, con cui Fratticci comincia il secondo capitolo, è l’essere, ovvero la necessità che l’essere sia e non possa non essere. Sull’orrizonte di questa «sicurezza» «la filosofia ha poi sviluppato la rassicurante garanzia della convenienza del proprio programma di ricerca» (p. 61). Ma, si chiede Fratticci, i filosofi dopo l’eleate le sono rimasti fedeli? Più che altro, le sono rimasti fedeli anche per quanto riguarda la sua radicalità e per la sua libertà? La risposta di Fratticci non si fa aspettare ed è negativa; Parmenide è stato tradito:

[…], sì invece che ne abbia (la filosofia) tradito sostanzialmente l’intenzione teorica, col ripensare la scoperta parmenidea a partire da una radicale ristrutturazione della problematica ontologica, incentrata ora sulla definizione dei caratteri essenziali posseduti dalle cose in cui l’essere si manifesta; col risultato inevitabile di allontanare così l’attenzione dal processo iniziale e fondante di affermazione del principio stesso, e di pretendere, per quella che era stata una ricerca di sapienza, lo statuto dell’epistème. (p. 63)

La radicalità della problematica dell’’essere o nulla’diventa una (semplice) questione del come dell’essere; quindi si ritorna alla metamorfosi della filosofia del capitolo precedente, ovvero da amore per la sapienza a epistème.

Per quanto il problema sia stato spostato dal «principio» al «derivato», la questione del fondamento non sparisce insieme a questo spostamento. Potrebbe essere dimenticato (Vergessen), anche a lungo, ma riappare «sicché la ragione non può evitare di tendere al principio non ipotetico, all’incondizionato che sostiene la serie delle condizioni» (p. 70). Non basta neanche l’accoglienza «superficiale» dell’essere (in favore al nulla), ma bisogna che venga colta nella sua necessità, cioè «nel suo emergere ed imporsi» (p. 73).

A questo punto Fratticci prende in considerazione il «ritorno a Parmenide» di Emanuele Severino in quanto «casus» per cercare di capire «la capacità della filosofia di mantenere la promessa di attingere la verità nella sua assolutezza» (p. 75). Ma anche nel pensiero di Severino Fratticci nota subito l’orizzonte dell’epistème. Secondo Fratticci anche Severino ricostruisce «semplicemente» il circolo logico tipico del pensiero dell’epistème. Ciò che Severino fa è seguire la logica della necessità che non è, sempre secondo Fratticci, nient’altro che un tendere a «proiettarsi fuori di sé verso l’essere, ad ordinare in legami invincibili l’essere, per ritrovarsi in esso e così ricevere la ricercata legittimazione del proprio “telos” conoscitivo» (p. 79). Quindi nuovamente l’egocentrica violenza della conoscenza scientifica del primo capitolo. Anche la teoria severiniana quindi, per quanto dimostra che non si può predicare che l’essere non sia, non fornisce nessuna motivazione per la quale si dovrebbe accettare l’essere come principio incontrastabile. Quindi scacco alla posizione di Severino (cfr. p. 88) che risulta per Fratticci immediatamente come lo scacco dell’epistème (cfr. p. 89). L’epistème, e per ciò anche la filosofia dell’Occidente, si è impadronito di un solo aspetto della «teoria» parmenidea dalla quale è poi ripartito. Il problema è però che la filosofia Occidentale ha preso la «conclusione» parmenidea come inizio indiscusso (cfr. p. 90).

La problematica è quindi sempre la medesima: consiste «nell’inadeguatezza nell’interpellare e mettere a tema l’esperienza originiaria del filosofo di Elea» (p. 93). Occorre stare con Parmenide dall’’inizio di Parmenide’e non attenderlo dopo aver scelto; «occore rifare la scelta» (p. 94 nota 1) con Parmenide ovvero stare con Parmenide al «suo» bivio (con queste affermazioni comincia il terzo capitolo che si intitola appunto Il bivio di Parmenide).

Sembra però che questo bivio nasca da una semplice tautologia: l’essere è (mentre il non-essere non è). È però una tautologia che non solo ha «avuto la forza di segnare il cammino dell’Occidente» (p. 98), è anche la tautologia che sembra ormai vacillare sotto i colpi del nichilismo e della tecnica. Se si guarda infatti più da vicino questa tautologia si può costatare che affermare che l’essere è (se l’essere è) non comporta l’affermazione che quest’essere (che è) è anche capace di «proteggere le cose dalla aggressione permanente dell’abisso vorticoso del nulla» (p. 100). Che le cose siano è un dato di fatto. Ciò però non basta. «Occorre anche che esse siano stabili nel loro darsi» (p. 101) perché fondamentale per l’uomo e per il suo relazionarsi al mondo. La ricerca di tale stabilità «appartiene al nucleo originario e fondamentale della costituzione umana più autentica» (p. 103). Le cose però non possono garantire né rassicurare all’uomo questa stabilità, come neanche l’uomo stesso può garantire visto che anche lui è soltanto una momentanea presenza.

Ancora prima di Parmenide è stato Anassimandro ad affrontare la questione dell’archè e non è quindi insensato che il Fratticci, come afferma lui stesso (cfr. p. 104), si confronti prima con questo altro grande pensatore pre-socratico. Anche per Anassimandro la questione fondamentale e preoccupante è il voler sottrarre le cose (e quindi anche se stessi) all’arbitrio e trovare una stabilità che può essere un «garante» per l’uomo e il suo relazionarsi con ciò che poteva anche non esserci. Che poi per Anassimandro l’essere conviva con il nulla (cfr. p. 110) che, come indica Fratticci, è il luogo originario dal quale escono le cose, non ha così tanta importanza. Importante è che la questione dell’essere sia già stata connessa in Anassimandro con la questione della ricerca di una (necessaria) stabilità dell’archè delle cose.

Per Parmenide il principio necessario che è assoluto nella sua «non contingente stabilità» (p. 111) è l’essere; questo è il principio delle cose. Già con Platone però questa «vera e propria lotta per la conquista del senso» (p. 112) dell’Eleate viene «dimenticato» e viene sviluppata una nuova tematica a scapito della questione parmenidea. Non è più l’arché che «preocuppa», ma l’éidos delle cose. In questo modo pero «la fatica del viaggio di Parmenide verso la verità viene nei fatti annullata» (p. 115). Ci si deve però riproporre la questione e il viaggio fatidico di Parmenide, partendo proprio come «lui», varcando la porta del giorno e della notte, perché «solo così l’affermazione dell’essere diventa una conquista che fa iniziare — e non concludere» (p. 118).

Bisogna quindi lasciarsi guidare dalla Dea. Ciò però è solo possibile per chi sente veramente il bisogno della verità e nello stesso tempo sente il vuoto dell’attuale assenza di essa. Soltanto attraverso questo «tironcino» (p. 119) si può cogliere veramente «la buona notizia che la Dea comunica» (p. 122), ovvero che l’essere è.

Questo apprendistato del ricercatore per la conquista della verità non è però facile. Non è «un qualsivoglia contenuto cognitivo né è risultato di una logica argomentazione, ma è lotta, conquista» (p. 124). Non è di «umana invenzione» ma è lo svelamento del principio stabile nascosto e per ciò tratta della totalità. Il filosofo, l’apprendista, è però libero, anche se si tratta di una libertà radicale. Egli può scegliere tra la via che è e la via che non è, e che necessariamente non sia. L’apprendista si trova quindi da subito davanti ad un bivio, un bivio radicalissimo e pertanto ancora senza possibile speranza d’intravedere l’esito dell’eventuale scelta (cfr. p. 130). Almeno così sembra. Ci si deve chiedere però se sia possibile percorre quella via che non è e necessariamente non è. Il bivio quindi in realtà non si dà (cfr. p. 134)? Ma se la Dea dà la scelta al ricercatore tra le due vie, come fa a conoscere ciò che non è? Come fa la Dea semplicemente a dirlo? Qui si instaura secondo Fratticci la chiara separazione tra il divino e l’umano. La Dea infatti «sa che la via […] è in realtà una impasse, una via senza sbocco» (p. 139) l’uomo però non lo percepisce. Inoltre, la Dea sa anche che soltanto «relativamente alla condizione dei mortali» (p. 141) la scelta tra le due vie può essere una scelta necessaria. Ella sa che la via che non è non «porta da nessuna parte», ma l’uomo non lo sa e non lo vuole sapere a causa della «costruzione logica del pensiero dei mortali, la cui fallacia risuona con grande clamore» (p. 143).

Nel momento della scelta fatidica, la Dea non «aiuta» il filosofo; niente «motivazioni razionali fondamentali» (p. 144). Non può essere d’aiuto al ricercatore neanche il «pensiero idealistico», perché ciò che è in gioco «non è il fatto che il pensiero pensi cose, […] ma che questo pensiero possa espandersi assumendo quella saldezza […] che il mondo delle cose da nessuna parte è in grado di legittimare» (p. 148-149). Viene infatti chiesto al ricercatore di incamminarsi sulla via che è. Gli viene quindi chiesto un «atto […] squisitamente prelogico, ma non per questo illogico» (p. 155). La verità è quindi una rivelazione ed è rivelata «da un dire originario in cui essa propriamente consiste» (p. 158). La verità non viene raggiunta in merito all’»affinamento progressivo della ricerca autonoma del filosofo» e perciò «il dire del filosofo […] resta tuttavia solo un dire derivato» (p. 158).

La «ferrea struttura della necessità del logos da sola pertanto non garantisce circa la verità del discorso» (p. 168) secondo Fratticci. La dimostrazione di ciò si trova proprio, sempre secondo Fratticci, nel Poema sulla natura di Parmenide. Tale dimostrazione ci aiuta a capire adesso, in questo epoca di crisi fondamentale, che «è tempo di tornare a più misurate posizioni che, […], sappiano riconoscere pienamente ed accogliere nella sua vera portata il limite e la condizionatezza che ci qualificano» (p. 173). Ci vuole un atto di coraggio per accettare che la verità non è «una verità incasellata nei quadri stabiliti dalla potenza del logos», ma è «una verità che si offre nella gratuità» (p. 174). Ci vuole un atto di coraggio per riconoscere che è necessario un nuovo paradigma filosofico che è un «paradigma di una sapienza filosofica nuova, o meglio, antica che si ripropone» (p. 178) che non è una sapienza che viene «immediatamente ad identificarsi con la razionalità apodittica» (p. 178), ma una sapienza che si qualifica per la sua «dimensione della confidenza e della fiducia» e che è «pronta a lasciarsi istruire e guidare verso il luogo sorgivo della verità» (p. 179).

Non si può minimizzare il coraggio del Fratticci nell’affrontare nuovamente il tema così «scottante» di un ritorno a Parmenide. Non possiamo infatti negare che il Poema sulla natura di Parmenide cominci come cominci, cioè con la Dea che prende per mano il «ricercatore», e la maniera in cui Fratticci cerca di arrivare a fondo su questo fatto può soltanto essere vista con rispetto. Era ora che qualcuno tentasse di approfondire questa caratteristica del testo di Parmenide in modo teoretico.

D’altro canto però, la lettura di questo volume non è facile, né molto invitante. La grande esibizione d’erudizione forse non era del tutto necessaria come neanche frasi del tipo: «la pazzia di Nietzsche è in effetti metafora dello smarrimento collettivo di una società» (p. 151). È, inoltre, quasi paradigmatico che in un libro su Parmenide, sebbene sia di tipo teoretico, la prima vera e propria citazione di Parmenide, in un libro di 179 pagine, avvenga a pagina 123. Troppi sono i passaggi che «interrompono» il discorso e quasi tutti sono semplicemente un’ulteriore dimostrazione della crisi della filosofia che il Fratticci aveva già dimostrato a sufficienza nell’introduzione.

Rimane però un’ultima osservazione che ci sembra particolarmente problematica. Se guardiamo alla posizione di Severino, il grande antagonista di questo libro e probabilmente anche la ragione «inconscia» per questo libro, e alla posizione di Fratticci, risulta evidente che esse sono in completa «competizione» e «opposizione» e ciò proprio per la radicalità delle loro letture. Questo sarà anche causato dal fatto che ci rimane purtroppo poco dal testo di Parmenide e ciò facilità la lettura radicale degli stessi frammenti. Ci sembra però che ciò sia causato anche da qualcos’altro ancora, ovvero dal fatto che forse entrambe le posizioni, radicali come proprio sono state riproposte da Severino e Fratticci, siano integralmente presenti nello stesso Parmenide. Da ciò risulterebbe che sia la lettura di Severino, sia la lettura di Fratticci sono delle letture parziali che troverebbero solo in Parmenide il loro compimento. Ci vorrebbe quindi, e ciò dopo Severino e Fratticci e a causa loro, un nuovo ritorno a Parmenide, questa volta però a tutto Parmenide!


  1. Ovvero il paradosso del divenire che dovrebbe risultare dalla questione dell’essere di Parmenide. Bertrand Russell, History of Western Philosophy, 2ª ed., Routledge, London, 1996, p. 70. ↩︎

  2. Possiamo far riferimento per questa tematizzazione del sapere e il sapore all’articolo del nostro autore: Walter Fratticci, «Sapere il sapore. La filosofia tra fede e ragione», Dialegesthai, Rivista telematica di filosofia, VII, 2005. ↩︎

  3. Georg W. F. Hegel, Fenomenologia dello Spirito, R.C.S. Libri (Bompiani Testi a fronte), Milano, 2000, p. 53. La traduzione proposta da Fratticci (p. 33) è leggermente diversa da quella proposta qui. ↩︎