Nella Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, al termine di un lungo paragrafo, nel corso del quale viene discussa e positivamente risolta la questione dell’utilità di una metafisica cui sia negata ogni validità teoretica nell’esercizio delle sue ricerche, e come commentando tra sé il risultato del ragionamento appena concluso, Kant afferma: «Ho dunque dovuto sospendere il sapere per far posto alla fede».1 La dichiarazione suona inaspettata ed in qualche modo persino singolare; e non già, perché oscuro ne sia il senso o controversa l’intenzione. Lo sviluppo del pensiero kantiano, in effetti, nella prima come nella seconda Critica, conferma senza difficoltà interpretative il principio sopra enunciato; una penetrazione entro l’orizzonte noumenico è consentita solamente alla ragion pratica, fondamento di una fede morale, e non alla ragione teoretica, che ricerca il sapere definitorio degli oggetti. Che la struttura trascendentale della conoscenza umana non consenta alla metafisica di «oltrepassare i confini dell’esperienza possibile»,2 e che pertanto la ragione teoretica debba segnare il passo e cedere il posto all’esperienza pratica della libertà del volere risulta pertanto consequenziale e non del tutto inatteso. Non sta qui dunque il problema. Ciò che colpisce il lettore è, piuttosto, la perentorietà dell’asserto kantiano, che non sembra lasciare spazio a mediazioni ermeneutiche; una perentorietà tanto più sorprendente, quanto meno richiesta dal ragionamento precedente, che non pareva condurre ad alcun sacrificium intellectus e che anzi aveva concluso ad un’orgogliosa rivendicazione della positività e del vantaggio teoretico dell’autolimitazione dell’intelletto all’ambito dell’esperienza possibile. Ich musste, scrive Kant — ho dovuto, nel senso di una necessità indipendente dalla volontà del pensatore, necessità tutta racchiusa nella cosa stessa. Ma perché Kant si è trovato costretto a sopprimere3 il sapere, quel Wissen che, riunito in totalità sistematica, dà luogo alla scienza (Wissen-schaft), perseguita con instancabile costanza dalla ragione filosofica?
Perché la constatazione del limite conoscitivo della ragione umana deve provocare il necessario congedo dal sapere? E perché lo spazio della fede, comunque qualificato, può essere conquistato solo al prezzo della rinuncia al primo? Si tratta forse di un inconsapevole cedimento fideistico, imprevisto rigurgito del sentimentalismo latente nell’educazione pietistica ricevuta da Kant da parte della madre?4 La biografia intellettuale del filosofo di Königsberg impedisce senz’altro di proseguire lungo questa strada. Si potrebbe allora supporre che nell’asserto kantiano giunga a finale maturazione l’opposizione frontale tra l’approccio razionalistico e quello centrato sulla fede,5 opposizione che la filosofia moderna era andata costruendo lungo la strada della sua emancipazione dalla teologia ed in relazione alla quale più avanti lo stesso Kant sarà chiamato a pronunciarsi con lo scritto su Il conflitto delle facoltà.6 Ciò è senz’altro plausibile, ma non spiega la paradossale articolazione dell’affermazione. O forse in Kant si annuncia, in maniera più radicale, la tensione estrema della ragione, messa in discussione nella propria fondatezza? Ma di nuovo: non aveva Kant in definitiva accertato e posto la ragione filosofica sulla «via sicura della scienza»?7 Cosa intende dunque veramente dire il filosofo del criticismo?
La serie di domande non ha scontata risposta; esse al contrario invitano ad un approfondimento della problematica relazione tra ragione e fede, onde riscattarla da troppo facili e scontate conclusioni e recuperarne tutto lo spessore teoretico, da Kant chiaramente intravisto. A reclamare una rinnovata meditazione della questione è perciò un’esigenza autenticamente filosofica, che non si confonde con apologetiche intenzioni; non è questo infatti il compito della filosofia, pur non essendo escluso a priori che la fede religiosa riesca ad avvalersi delle conclusioni eventualmente conquistate da una ragione sapienziale, aperta su quella medesima trascendenza che forma il cespite originario della fede. Sono dunque motivi del tutto interni alla scena filosofica quelli che, come cercheremo di motivare, chiedono di riaprire ancora nuovamente la discussione, al di fuori di schemi già preordinati che la frammentano, in una sorta di mezzadria della verità, tra il terreno della religione e quello della filosofia. Proprio per questo la questione attende ancora di essere pensata fino in fondo, per farne chiaro l’indirizzo di verità in essa racchiuso.
1. Una relazione divenuta problematica
Poche questioni sembrano essere in grado di rappresentare con altrettanta intensità, e di riassumere con pari drammaticità, l’intera complessa avventura del pensiero occidentale come quella del rapporto tra fede e ragione. In quell’e, che separa unificando ed unisce separando fede e ragione, nella loro inevitabile ed inestricabile e pur paradossale connessione, si sono infatti giocate, e si giocano tuttora, le dinamiche più decisive della filosofia, quelle in cui ne va della natura stessa della ricerca di senso che contraddistingue questa pratica umana.
L’amore per la conoscenza — come tradizionalmente, talora sbrigativamente e forse non del tutto appropriatamente viene spiegata la filosofia — chiama infatti a raccolta la totalità degli strumenti attraverso i quali l’uomo esercita la potenza esplorativa del reale; e tra questi, anzitutto, la capacità di definire coerentemente le articolazioni e di delineare sistematicamente le implicanze delle intuizioni originanti la ricerca stessa. La sapienza filosofica ha saputo pertanto far convergere, senza confondere o peggio ridurre, in una unitaria prospettiva euristica tanto l’apporto fondamentale — nel senso dell’inevitabile ed insieme inesauribile ricerca del fondamento — del nous,8 cui la fede si approssima, quanto la funzione analitica e la forza dell’argomentazione dimostrativa della ragione. Questa feconda ed antica relazione si esprime forse per l’ultima volta nell’opera di Giovambattista Vico, un pensatore la cui collocazione geografica, unita alla difesa di un sentire originario, dava luogo però ad una profonda distonia, pagata con secolare marginalità, rispetto alle tendenze dominanti della cultura, filosofica e non solo, della modernità. In tempi più recenti, ricorrendo ad una bella immagine, Giovanni Paolo II nell’enciclica Fides et ratio ha affermato che «la fede e la ragione sono come le due ali con le quali lo spirito umano s’innalza verso la contemplazione della verità».9
Le cose però non stanno da tempo più così. L’avventura del pensiero della compiuta modernità ha infatti profondamente cambiato di segno al senso ed al valore stesso della verità, per la quale non si richiedono più innalzamenti né contemplazioni, ma solo trasformazioni manipolative al passo con l’avanzamento intramondano della tecnica. Nell’orizzonte di un mondo che solo il metro della potenza utile sembra fornire di legittimità,10 la logica fagocitante della razionalità calcolante non rende disponibile più spazio alcuno per la possibilità di un diverso approccio alle questioni fondamentali che provocano il filosofico stupore. La ragione si è perciò progressivamente appropriata delle domande essenziali che la fede considerava pertinenti alla propria ricerca, od anche le ha destituite di senso; sicché la traiettoria della ragione è entrata in rotta di collisione con il percorso della fede, rendendo così problematica la loro stessa relazione.11
Eppure la modernità era iniziata con ben altre prospettive, affermando la collaborazione delle due, nella loro essenziale ed asimmetrica autonomia. Chiamato a confrontarsi con le rinnovate istanze conoscitive che la consapevolezza de dignitate et excellentia hominis12 stimolava, l’uomo della nascente modernità, portando peraltro a maturazione un processo iniziato già nel Medioevo, ha cercato anzitutto di affinare le armi concettuali offerte dalla propria capacità intellettuale, senza abbandonare tuttavia le acquisizioni, anche teoretiche, garantite dall’esperienza credente; scartando perciò la scorciatoia di un attacco riduzionistico della questione nei termini esclusivi della razionalità autosufficiente. Una importante testimonianza di un tale atteggiamento la possiamo trovare senz’altro nelle cosiddette lettere copernicane di Galileo Galilei, che lo scienziato e filosofo pisano inviò ad alcuni suoi interlocutori tra il 1512 ed il 1515 sul tema dei rapporti tra scienza e fede».13
Sorprendente in questi scritti è la misura e la ponderazione con cui sono trattate le relazioni che intercorrono tra scienza e fede. Galileo vi rivela una matura padronanza della questione, che gli consente di sfuggire al ricatto degli estremismi. Così, pur nella decisa rivendicazione della dignità e proprietà della ricerca scientifica, ispirata a canoni che la ragione è in grado di indicare a se stessa — in tal modo riscattando la scienza dalla funzione derivata e strumentale assegnatale dalla sistematica metafisica di origine aristotelica14 —, egli nondimeno riconosce la validità, ed anche l’utilità ermeneutica della fede, le cui fonti sfuggono tuttavia ad ogni controllo razionale. Un passo della lettera all’abate benedettino e scienziato don Benedetto Castelli del 21 dicembre 1613 ce ne fornisce significativo esempio.
Rivendicando con decisione la correttezza ed opportunità metodologica del ricorso alla conoscenza scientifica nelle questioni naturali, un ricorso che il richiamo al dettato letterale delle Scritture non risulta in grado di contestare o scalzare, Galileo adduce come giustificazione della sua posizione la comune derivazione dalla rivelazione di Dio tanto della natura, oggetto di investigazione scientifica, quanto del testo sacro. Sicché, «essendo di più manifesto che due verità non posson mai contrariarsi», ne viene che, «procedendo di pari dal Verbo divino la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo, e questa come osservantissima esecutrice de gli ordini di Dio; […] pare che quello de gli effetti naturali che o la sensata esperienza ci pone innanzi a gli occhi o le necessarie dimostrazioni ci concludono, non debba in conto alcuno esser revocato in dubbio per luoghi della Scrittura ch’avesser nelle parole diverso sembiante, poi che non ogni detto della Scrittura è legato a obblighi così severi com’ogni effetto di natura».15 Il brano è giustamente famoso, soprattutto per la netta e consapevole affermazione dell’autonomia della scienza.
Accanto a questo motivo, e collocato in una posizione apparentemente incidentale, il ragionamento galileiano offre però all’attenzione del lettore anche uno spunto di riflessione particolarmente eloquente nel quadro della ricerca che qui ci interessa, dal momento che consente di illuminare opportunamente il contributo della fede alla ricerca scientifica — anzi, di più, il fondamento teologico o, meglio ancora, cristologico di quest’ultima. È infatti la centralità di Cristo nella creazione ad essere individuata da Galileo quale struttura di legittimità della pretesa conoscitiva avanzata dalla scienza. L’orizzonte creazionistico, e più precisamente, il fatto che la natura «proceda» dal Verbo — cioè, sia costituita, per il fatto di procedere dal Figlio di Dio, in maniera necessariamente conforme all’immutabilità del volere divino ed insieme, per il fatto di procedere dal Verbo, abbia parte e le sia coessenziale una disposizione rivelatrice16 — vale come garanzia di stabilità e condizione di conoscibilità del mondo naturale. Il quale, nella sua nascosta strutturazione elementare, deve allora rispondere ad una logica ed articolarsi secondo un linguaggio dei quali lo scienziato può intendere la grammatica e la sintassi. La natura pertanto reca tracce della volontà divina proprio nella necessaria conformità a leggi, cui la potenza di Dio, che il neoplatonismo rinascimentale amava presentare come sapiente architetto, ha voluto assoggettarla. Il ruolo mediatore del Verbo, così potente nella visione teologica di S. Paolo,17 offre dunque lo strumento teorico di nobilitazione dell’indagine naturale; la quale è sottratta in tal modo all’incertezza delle proprie argomentazioni ed alla dispersione dei propri risultati, come invece sarebbe inevitabile laddove i princìpi assunti a sostegno della costruzione teorica fossero essi stessi non sostenuti da adeguata legittimazione.
In questi passaggi si esprime dunque già tutta la sostanza della questione, il legame necessario che avvicina l’approccio razionale a quello di fede, secondo una essenziale convergenza sulla quale sarà opportuno tornare a riflettere nuovamente. Né sarebbe corretta una storicizzazione della posizione di Galileo, che intendesse ridurne la forza richiamando le emergenze storiche con le quali egli ha dovuto confrontarsi. Non c’è dubbio che la soluzione avanzata risulti palesemente determinata da fattori che hanno una spiegazione nella cultura e nelle esperienze del tempo, quali, ad esempio, la necessità di trovare la strada dell’autonomia della scienza della natura nel confronto con una tradizione ermeneutica del testo sacro improntata a canoni di un letteralismo estremo, ma comunque ben consolidata nel tempo e condivisa nel comune sentire; ciò non toglie che Galileo abbia sentito come assoluta la compossibilità delle due istanze, quella conoscitiva della scienza e quella salvifica della fede, che si svolgono su piani che non giungono mai ad intersecarsi, stante la loro tipica e differente orientazione.18 Interessi, strumenti e fini, ma anche linguaggio e metodi si declinano diversamente, e le due vie di ricerca possono così tranquillamente ed anche vantaggiosamente albergare sotto il medesimo riparo. Lungi dal ritenersi obbligato a scegliere tra le due dimensioni, parimenti importanti per la vita dell’uomo, lo scienziato pisano, che continuò a rivendicare a sé il titolo di filosofo,19 deduce al contrario dalla reciproca incommensurabilità la norma del loro equilibrio.
E tuttavia, al di là delle intenzioni di Galileo, quella differente orientazione delle due vie annuncia già una latente e ben più radicale opposizione, che finirà per rendere difficile la coesistenza ed obbligata la scelta. La singolare asimmetria, che rende incomparabili tra di loro gli esiti dell’una e dell’altra via di ricerca, non riesce in effetti a nascondere l’evidenza che la lotta per il significato non può lasciare dietro di sé feriti sul campo. Proprio la vicenda biografica di Galileo, condannato dal Sant’Uffizio all’abiura delle proprie posizioni teoriche, acquista, in questo contesto, un significato paradigmatico decisivo, come simbolo dell’opposizione essenziale che viene ad istaurarsi tra ragione (scientifica) e fede (dogmatica), ovvero tra una conoscenza di tipo ontico, relativa ad oggetti dati nel mondo ed illuminati perciò nelle loro relazioni reciproche da una costruzione logica condivisa e pienamente dominata dal soggetto conoscente, ed una conoscenza parimenti ontica, che pretende di accedere al patrimonio conoscitivo in virtù di una comunicazione diretta di verità, garantita da una sanzione trascendente.
L’esito della lotta, a dispetto dell’apparente stallo, è però tutt’altro che incerto. Ancora una volta seguendo Galileo ne avremo testimonianza. Intervenendo a proposito di alcuni casi controversi, nei quali conclusioni certificate dalla teoria scientifica venivano contrastate da «proposizioni de Fide», proposizioni che attingono cioè al dogma di fede la loro forza di verità, egli sostiene senza incertezze il primato metodologico e gnoseologico delle risultanze scientifiche. «Mi par che nelle dispute naturali ella [la Sacra Scrittura] doverebbe esser riserbata nell’ultimo luogo», così scrive al citato abate Castelli. La cautela del pensiero galileiano non vale a frenarne lo slancio; le conseguenze così non si lasciano attendere. «Stante questo, ed essendo di più manifesto che due verità non posson mai contrariarsi, è offizio de’ saggi espositori affaticarsi per trovare i veri sensi de’ luoghi sacri, concordanti con quelle conclusioni naturali delle quali prima il senso manifesto o le dimostrazioni necessarie ci avesser resi certi e sicuri».20 Galileo non indietreggia di fronte all’intricato passaggio e, con tutta coerenza, chiede per l’intera questione un approccio rinnovato; cui consegue, però, niente di meno che il radicale capovolgimento dell’equilibrio che fino ad allora aveva ordinato, ad analogia del sistema gerarchico delle scienze aristoteliche, la relazione tra la fede nella rivelazione e la dialettica della ragione. È perciò pienamente conseguente l’invito, da Galileo rivolto a esegeti e teologi, a coordinare le loro letture del testo sacro con le acquisizioni della scienza; a maggior ragione quando di queste interpretazioni ed esegesi «una volta il senso e le ragioni dimostrative e necessarie ci potessero manifestare il contrario». Il che, come ognun vede, se da un lato legittima e consolida l’autonomia della ragione nel determinare i contenuti di conoscenza, e paradossalmente sulla base del dato teologico della immutabilità della volontà divina consegnata alla natura, non può, per altro verso, che condurre ad intaccare prima o poi il nucleo stesso della fede biblica, ovvero la credibilità della testimonianza apostolica sul Gesù risorto. La posteriore critica razionalistica della Bibbia è, in questo luogo, perfettamente coerente nello sviluppare l’assunto. Dal momento che gli effetti dell’agire soprannaturale di Dio, che la fede proclama, ricadono su quello stesso mondo che la scienza si incarica di spiegare iuxta propria principia, sarà inevitabile ricondurre nel quadro di una prudente ragione empirica quanto, con un’enfasi tutta spiegabile con motivi di debole consapevolezza critica, dagli autori ispirati viene affermato come proveniente da un’iniziativa soprannaturale.
Fede e ragione sembrano perciò condannate a veder restringersi inesorabilmente lo spazio di coesistenza, entro cui pure avevano intessuto le prime relazioni. La filosofia sarà poi quanto mai pronta ad adattarsi alla nuova situazione ed a ricostruire su un nuovo terreno l’edificio della conoscenza, di cui la logica dimostrativa della razionalità affermerà di detenere sola la chiave d’accesso. Uno sguardo retrospettivo alla vicenda filosofica degli ultimi secoli rende palese il tentativo, parzialmente riuscito, della ragione di sottrarre spazio al dominio della fede. Dietro Galilei così non è difficile intravedere l’ombra dell’idealismo della Ragione assoluta; il passo dalla equivalenza, che lo scienziato pisano istituisce intensive, tra la conoscenza divina e quella umana riguardo le regole matematiche,21 alla «esposizione di Dio, com’egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito»,22 che costituisce l’intendimento formale della hegeliana Scienza della Logica, non è poi, a ben vedere, molto difficile da fare. Lungo questo percorso, con differenti grandezze di raggio che a partire dal caso hegeliano avranno via via la presunzione di proclamarsi sempre più assolute, ovvero capaci di valere incondizionatamente e compiutamente tanto negli aspetti teorici dell’essere quanto in quelli pratici del fare, la titolarità della fede nel trattare il divino è confiscata e negata dalla forza di una ragione che trova nelle necessarie conclusioni dei propri ragionamenti dimostrativi la opportuna validazione e l’inoppugnabile conferma della pretesa ad una conoscenza ultimativa. E così l’intera modernità può a ragione essere chiamata l’età della secolarizzazione, controversa categoria che interpreta il processo storico-culturale dell’età moderna come una trascrizione, nel registro della ragione autonoma e mondana, di temi e principi aventi originariamente il loro terreno semantico entro la riflessione religiosa e teologica».23 Nessuna meraviglia perciò se un secolo dopo si potrà rispondere alla domanda se si sia credenti con un deciso: «of course not! I’m a scientist».24
E la fede? Come reagirà la fede alle pretese secolarizzanti della ragione? Essa rimane colpita dall’inaudita rivendicazione della ragione di valere come assoluta e non riesce perciò a ripensarsi nel nuovo quadro culturale che si viene affermando. Sente avvicinarsi inesorabile il fiato della ragione ormai percepita come nemica e perciò, al pari di una cittadella assediata, cerca di sottrarsi alla conquista innalzando baluardi che dovrebbero proteggerla dalle incursioni dell’insidioso avversario. Ma questo le riesce di realizzare solo utilizzando gli stessi materiali e combattendo la battaglia con le stesse armi dell’antagonista, quelle della razionalità epistemica; dal cui spirito ne viene perciò contagiata ed inoculata in profondità. Il processo è descritto bene da Hegel, che cita Le neveu de Rameau di Diderot. «Ma adesso, spirito invisibile e impercettibile, la malattia pervade le parti nobili e s’impadronisce fino in fondo di ogni viscere e di ogni membro dell’idolo inconsapevole, e ‘un bel mattino dà un colpetto al gomito del camerata e — patatrac! — l’idolo è a terra’».25 Un malinconico destino di tramonto sembra perciò consegnato alla fede; la quale, ospite respinto dalla odierna civiltà tecnologica, può mendicare udienza solo rintanandosi in una contraddittoria soggettività credente o vestendo i panni sempre attuali della gnosi, ultimo rifugio dello spirito per intellettuali usciti dalla minorità.
2. Fede e ragione in lotta per l’epistème
La dialettica nascosta nell’e che mette in relazione la fede con la ragione sta dunque mostrando tutta la sua sconvolgente ambiguità. Quella congiunzione, in cui speravamo di trovare la forza di un legame indistruttibile, si mostra invece sempre di più come grimaldello capace di far saltare ogni equilibrio, elemento di disgiunzione che costringe alla scelta. Ma se è così, risalta ancora più forte la pertinenza della questione rintracciata in Kant e da cui ha preso avvio il nostro ragionamento: si dà ancora uno spazio per la fede? e dove e come custodirlo, nell’età della razionalità compiuta?
La questione giunge a matura consapevolezza, come abbiamo potuto osservare nel caso Galileo, solo allorché la tradizionale organizzazione gerarchica del sapere subisce una irreversibile implosione, causata dalla finale incapacità del paradigma aristotelico di accogliere senza improbabili contorsioni teoriche le nuove evenienze della ricerca scientifica. La necessità di costruire un nuovo modello scientifico coerente mette la ragione sulla strada di una progressiva dilatazione degli spazi di autonomia, e finisce per farle sentire come limitante la tutela imposta dal sistema filosofico e non più giustificato il primato finora indiscusso attribuito alla fede in sede gnoseologica. Non senza un orgoglioso autocompiacimento — peraltro pienamente giustificato dal crescente successo delle manipolazioni tecniche della realtà, confermanti in maniera convincente le proiezioni predittive della scienza — la ragione rivendica dunque a sé il merito della produzione e del controllo dei titoli abilitanti alla validazione di quanto costituisce oggetto di verità scientifica. Ma cosa legittima siffatta rivendicazione? Su quali basi si fonda? E di nuovo: per quali motivi teorici il pur onorevole compromesso galileiano non ha retto?
L’avanzamento della discussione della questione dipende ora dunque dallo scioglimento di questi nodi. Giacché è evidente che, ove lo spazio della fede venisse negato od anche solo occupato dalla razionalità nella configurazione apodittica dell’epistème, resterebbe poi problematico e sostanzialmente contraddittorio proporre soluzioni che tentino ancora di farne valere la legittimità e riconoscerle una significatività. Il fatto è che qui si confrontano e si scontrano due logiche alternative in radicale contrasto, ma concorrenziali nella comune appartenenza alla struttura universalizzante della razionalità epistemica. La forma che allora assume il problema è quella di sapere se il processo, qui sommariamente delineato, possa essere considerato alla stregua di un prodotto di risulta, effetto di un approccio quanto meno inadeguato rispetto alla complessità della questione, o se invece l’epoca dell’autoaffermazione della ragione, con il suo corredo di violenta ostilità verso la fede, non sia invece il compimento inevitabile dell’essenza del pensiero filosofico, almeno nella configurazione che esso ha assunto a partire dalla grecità classica. Nel qual caso, come è evidente, la salvaguardia della fede, qualora si riveli essenziale, non può non richiedere un coraggioso ripensamento dello stile del pensare filosofico.
Con questa formulazione della problematica ci siamo introdotti però entro un orizzonte che reclama un’attenzione di tipo nuovo, teoretico e non più solo storiografico. Il punto in questione è ora quello di cogliere le dinamiche teoriche che innervano la struttura della fede e della ragione, per osservarne statu nascenti le modalità tendenziali di sviluppo e di reciproca relazione e metterci in grado di problematizzare correttamente la questione della loro relazione.
In proposito va anzitutto delimitato l’asse teorico del discorso, lungo il quale storicamente si è posta la questione. Esso si incentra senza dubbio sull’epistème, vale a dire su di un modello di conoscenza assicurata nella necessità dei suoi risultati dalla stringente coerenza e cogenza della serie consequenziale dell’argomentazione. È questo uno snodo cruciale del ragionamento, che merita particolare attenzione. L’affermazione dell’epistème costituisce infatti uno degli eventi più importanti, se non anche l’evento, che ha plasmato l’ethos filosofico e, più in generale, culturale dell’Occidente. Già ampiamente teorizzata da Platone, e tuttavia da questi mantenuta aperta alla feconda relazione con il mýthos, da cui attingeva stabilità e garanzia al tempo stesso,26 è solo con Aristotele che essa conquista completamente la scena del pensiero, ricacciando lo stesso mýthos in un orizzonte al più pre-filosofico. Il mýthos condivide infatti con la filosofia la medesima condizione originante il processo conoscitivo, ovvero la meraviglia; è la sola filosofia però a dar forma compiuta ed irrefutabile al desiderio di conoscenza, dal momento che riesce ad raggiungere il possesso delle cause, unico sostegno capace di risolvere l’iniziale e perturbante meraviglia in una visione ordinata, e dunque stabile, del reale».27 Da questo momento, ormai svincolata dall’ambigua incertezza del mýthos, filosofia diventerà sinonimo di scienza, epistème.28
Senz’altro notevole è il guadagno di questa identificazione, e consiste tutto nella attribuzione alla sapienza filosofica del più elevato grado di forza conoscitiva. Ciò che porta impresso il sigillo dell’epistème potrà perciò proporsi con ogni plausibilità e rigore come affermazione veritativa riconosciuta e garantita nel suo costrutto. Tutto questo in virtù della definizione di un contenuto immutabile di conoscenza, che il logos filosofico sa fondare a sua volta su di una corrispondente stabilità ontologica dell’oggetto conosciuto; il quale, proprio in quanto tale, può essere così pensato come sottratto all’imprevedibile fluire del reale, che l’esperienza sensibile invece incessantemente ci propone.29 E se l’apparato sistematico si rivelerà in seguito lo strumento più idoneo a favorire la progressiva ed attesa estensione del timbro logico della verità alle diverse regioni dell’umana esperienza, a determinare la qualità della conoscenza sarà invece proprio il tratto epistemico, cui ogni processo euristico non potrà più oramai sottrarsi. Ciò che è in gioco nel concetto di epistème è, perciò, come l’etimo lascia intuire, più dell’ampiezza della conoscenza, la forza e stabilità di questa.30 La filosofia, avendo assicurata dalla struttura epistemica della sua costruzione teorica la validità permanente delle proprie risultanze, può uscire dalle incertezze della meraviglia ed ottenere il possesso teoretico del mondo; un possesso che verrà tradotto, in un secondo momento, nella dimensione pratica del dominio tecnico, capace di consentire tanto l’adattamento del comportamento umano quanto, soprattutto, la manipolazione del reale sulla base delle previsioni di comportamento attese da esso. Il circolo tra teoria e prassi, colto nel suo movimento iniziale dal primo libro della Metafisica aristotelica,31 così si chiude. L’indipendenza della speculazione filosofica dalle contingenze della vita quotidiana si rovescia nel tributo della teoria alla prassi baconiana dell’applicazione operativa dei risultati scientifici secondo fini di utilità,32 unica divinità riconosciuta dall’odierna dominante ideologia tecnocratica.
Al rifiuto aristotelico del mýthos ed alla nuova caratterizzazione della filosofia come epistème deve ora corrispondere una modalità di investigazione e di costruzione razionale appropriata e peculiare. Anzi, forse è proprio la scoperta di una potenzialità del genere a spingere decisamente Aristotele sulla strada dell’epistème. Siffatta è la struttura della dimostrazione, la quale promette di rivestire della necessità, che rende del tutto inoppugnabili le conclusioni, l’argomentazione discorsiva del filosofo. Preparato dalla preliminare espulsione del discorso narrativo dal circuito teoretico e dalla conseguente restrizione di quest’ultimo al solo giudizio dichiarativo,33 il lògos apodeiktikòs si propone pertanto come lo strumento di una volontà conoscitiva potente ed esclusiva al tempo stesso, in grado di sedurre con la forza della dimostrazione il pensiero umano ed avviarlo lungo le vie di una conoscenza assoluta, preambolo di una volontà di potenza parimenti assoluta, che, come abbiamo già visto, rappresenta il perenne tentativo/tentazione dell’uomo.34 «Chiamiamo sapere35 il conoscere mediante dimostrazione. Per dimostrazione, d’altra parte, intendo il sillogismo scientifico, e scientifico chiamo poi il sillogismo in virtù del quale, per il fatto di possederlo, noi sappiamo».36 L’andamento circolare del ragionamento aristotelico, che parte dal e conclude al sapere dell’epistème, prelude già alla circolarità compiuta dell’Assoluto hegeliano,37 totalmente sostenuta dalla forza della necessità dialettica; la stessa necessità che la logica dimostrativa si rivela in grado di offrire all’intelletto. La struttura della dimostrazione pertanto costituisce il sigillo della necessità del reale, che nessun atto di arbitrio può infrangere e cui va sottomesso ogni impianto teorico che ambisca alla pienezza della conoscenza vera.38
Ora la veritas, quella verità che l’epistème filosofica tradizionale ha ricercato e imposto con ogni sforzo, non sopporta parcellizzazioni o conduzioni multiple. Protetta dalla forma apodittica della verità, l’epistème possiede, come ha ben visto Kant, una intrinseca ed universale validità.39 Sarebbe infatti per essa intollerabile dover condividere con altri soggetti la gestione della verità del reale, come pure dover limitare o regionalizzare il contesto di applicazione di un sigillo conoscitivo accertato come assolutamente valido. Riconoscere la possibilità di sottrarsi alle conclusioni di ragionamenti apodittici, consentendo l’istituirsi di enclaves di senso autonome, equivarrebbe nei fatti a dichiarare totalmente non-necessarie, ovvero incerte e quindi incapaci di sostenere la richiesta di valore veritativo, le risultanze della costruzione logica alla quale la filosofia si è affidata. La razionalità epistemica deve, perciò, cercare nell’apriorità della struttura di ragionamento la garanzia della correttezza — tanto formale quanto materiale, nel senso dell’adaequatio — delle conclusioni cui è in grado di giungere; conclusioni che pertanto devono valere assolutamente. Il logos, in cui la filosofia ha riposto le sue speranze e che risponde alle attese di questa offrendo la copertura di un pieno dominio sul reale, grazie alla scoperta della necessità oggettiva dell’essere, non può dunque non essere esclusivo; pena la rottura di quell’asse della necessità con cui si identifica e su cui ha innalzato l’edificio delle scienze.
L’esigenza universalistica dell’epistème non è dunque scritta in tono minore. Ora, però, anche la fede, cui la teologia razionale e naturale dà forma sistematica assumendo l’incarico di articolarla in plessi teorici apoditticamente sufficienti, esprime una esigenza di universalità non meno radicale ed immediata. La forte consapevolezza dell’assolutezza della sorgente, da cui essa prende origine e riceve conferma, imprime ai contenuti della fede una caratura logica, che deve valere in senso assoluto e senza limitazione alcuna. In effetti, una volta conclamata l’unicità e signoria di Dio sul creato, per la fede non è possibile accettare restrizioni o condizionamenti all’agire divino, cui nulla può sottrarsi. Tale sigillo divino, che deve essere mostrato nelle sue forme palesi o fatto emergere e dimostrato in quelle latenti, rimane perciò comunque prevalente e non può essere assoggettato alla legalità della natura, che la scienza riconosce invece come normativa e vincolante. Ogni cosa e tutto reca traccia sensibile della volontà di un Dio creatore e provvidente, cui cielo e terra si piegano. Per l’ontoteologia, l’unicità di Dio è la sua stessa universalità; e l’unico Dio non può non essere anche il Dio di tutto.
Ma per questa via il conflitto è inevitabile. Ragione e fede avanzano la medesima rivendicazione di assolutezza, candidandosi entrambe al ruolo egemone. Non che non sia possibile trovare una via d’uscita, magari secondo una differente declinazione del concetto di universalità; il problema è che non si dà invece via di scampo alcuna quando si lotti per la medesima posizione di regìa. Come si può facilmente vedere, su questo livello l’opposizione è assolutamente non riconciliabile, e precisamente in virtù del suo prodursi sul piano condiviso dell’universalizzazione delle pretese. Quello che impedisce una onorevole conciliazione del conflitto è il fatto che tanto quel terreno conoscitivo, quanto l’orizzonte comunicativo da esso richiesto, non possono non rivendicare il carattere formale dell’universalità. Due universi, in effetti, non possono coesistere. Il timbro universale, reclamato per le asserzioni tipiche di ciascuna delle due parti in lotta, deve perciò espandersi in tutta la sua forza e ed estensione, senza rilasciare accrediti di favore per residuali ed allotrie integrazioni. Né la struttura logica, che le costituisce, consente di sottoscrivere a nessuna delle due atti di sottomissione od anche solo di rinuncia a far valere pienamente le acquisizioni conquistate, accettando una oggettiva limitazione della validità delle proprie formule.
E tuttavia la potenza d’urto degli schieramenti non è equivalente. Come richiamato sopra nella ricostruzione storiografica, la fede, proprio nella sua rivendicazione di assoluta corrispondenza e verità degli assetti conoscitivi ad essa essenziali, è costretta a riconoscere la logica che li governa, una logica per essa esiziale e destrutturante. Essa viene, per così dire, sfidata sul suo stesso terreno di conoscenza e nella legittimità della comunicazione delle sue esperienze fondanti, per essa imprescindibili. Chiamata a dar ragione delle proprie convinzioni, condizione obbligata per la rivendicata validità del proprio sistema di sapere, la fede fa ricorso all’apparato strumentale della razionalità dimostrativa, cui si affida per rendere inoppugnabili, e dunque assolutamente stabili, le proprie affermazioni. Ma con ciò la fede ha già accolto entro di sé quegli stessi strumenti della ragione, che finiranno poi per soffocarla. Costretta a rendere palese il referente empirico del suo discorso, essa sente vacillare improvvisamente il terreno della sua costruzione. Né vale il richiamo a convinte intuizioni o vissute esperienze intime. L’epistème accetta solo ciò che può essere mostrato oggettivamente e quindi condiviso ed anche riprodotto.
Ancora una volta, la vicenda kantiana ci è di aiuto. È la coerenza stessa del pensiero ad imporre al filosofo la rinuncia ad ogni pretesa di conoscenza apodittica, laddove le formulazioni della ragione oltrepassino quel terreno mondano entro cui solo esse hanno senso.40 La fede, che cercava un riparo sicuro nella dimostrazione delle proprie asserzioni, si scopre così indifesa e totalmente vulnerabile. Vorrebbe ancora proclamare la dignità della sua condizione, ma viene subito zittita dalla voce imperiosa della ragione, ormai amministratrice unica dell’epistème. Ovviamente, la fede non può rinunciare alla comunicazione del proprio credo; nel suo nucleo identitario si conserva pur sempre un peculiare ed ineliminabile patrimonio teoretico, mancando il quale viene meno la condizione stessa della sua plausibilità. Per credere in Dio, essa deve poterlo pensare esistente; diversamente, sarebbe pia illusione. Sicché non sembra prospettarsi altra via d’uscita che quella di creare per la fede uno spazio proprio, una specie di riserva inaccessibile alla logica della ragione scientifica. Spostando la pretesa universalistica dal piano gnoseologico della conoscenza trascendentale a quello morale della salvezza personale, alla fede rimane così conservata la possibilità di una sua ospitalità nel paese della ragione.
Certo, ciò non accade senza pagare prezzo alcuno. L’autolimitazione morale della fede comporta per quest’ultima l’obbligata rinuncia a far valere le proprie proposizioni sul piano conoscitivo, in cambio della garanzia del mantenimento di uno spazio per la sua presenza. Sembra dunque veramente necessario superare il sapere perché ci sia ancora posto per la fede. Può però la fede privarsi di ogni sostegno di tipo teoretico? Non le capiterà in questo modo di vedersi sospinta negli angoli bui dell’irrazionalismo, e poi sentirsi tentata di affidare il proprio riscatto ad un sentimentalismo emozionale e soggettivistico, che la snatura in profondità e ne limita nei fatti il respiro universale preteso dalle sue espressioni, peraltro già riduttivamente interpretate? Una fede così fatta è ancora credibile ed affidabile? È poi qualcosa di diverso da una sorta di morale razionale per semplici, che prima o poi dovrà affondare sotto i colpi di onde sempre più impetuose prodotte dal moto di attrazione che la ragione esercita sulla stessa dimensione etico-religiosa?41
La soluzione kantiana, già richiamata, del mondo morale come luogo noumenico della possibilità della fede, se depotenzia il conflitto tra fede e ragione, rendendolo se non altro tollerabile, non sembra nei fatti riuscire a sciogliere tutti i nodi che intricano la questione. E non solo perché la fede morale è poi in definitiva una fede razionale, accolta e benedetta dalla ragione, e riesce a mantenersi in uno spazio proprio solo mediante la rinuncia a quell’eterogeneità, che la istituisce come tensione verso una ulteriorità trascendente l’orizzonte mondano;42 quanto, piuttosto, perché neanche essa può esimersi dal confronto con le esigenze avanzate dalla ragione nella sua tensione verso il sapere. A nulla pertanto valgono le ciambelle di salvataggio lanciate a sua salvezza. Il paese della ragione, proclamerà di lì a poco con giovanile sicurezza Marx nella sua dissertazione, è la contrada in cui Dio ha cessato di esistere».43 Quella della fede, nell’affresco policromo delle scienze, dipinto da una ragione che attinge a piene mani alla tavolozza di colori sgargianti dell’epistème, in definitiva è niente di più che una macchia di grigio scolorato.
Così la ragione costruisce il suo trionfo finale; che però conduce ad esiti inaspettati e decisamente drammatici per quella stessa scienza filosofica che pretendeva di porre se stessa come regina del regno dell’epistème. Il dinamismo della razionalità onnicomprensiva dell’epistème, dalla filosofia troppo ingenuamente evocato, si ritorcerà in effetti contro quest’ultima quando, vestiti i panni del giudice, e dopo essersi esercitata nelle diverse regioni dell’essere, la ragione tornerà su di sé e vorrà passare al setaccio critico l’ambiente filosofico stesso che l’ha generata».44 Il risultato finale di questo giudizio, paradossale ed al tempo stesso, però, inevitabile, è così una decisa ed inappellabile — a cosa del resto ancora appellarsi, se la razionalità apodittica dell’epistème si costituisce come unica istanza? — revoca di autenticità e fiducia nei confronti di ogni attività di pensiero che intenda avventurarsi, al di fuori o a prescindere dalla definibile ed oggettivabile precisazione delle regole e del linguaggio della scienza, lungo i sentieri ancora inesplorati della alètheia. Lasciando semplicemente crescere il lògos che la definisce — secondo una linea di sviluppo che appare progressivamente ascendente, ma che è tale solo perché non ha ancora raggiunto la vetta, oltre la quale inizia la discesa verso esiti tutt’altro che razionali — la razionalità apodittica scava così il terreno sotto la filosofia, negata dapprima come metafisica poi anche come disciplina autonoma, e costretta infine ad accettare, quale nobildonna oramai decaduta, il poco onorevole compito di propedeutica, vuoi come analisi del linguaggio, vuoi come logica della ricerca scientifica, alla vera conoscenza della ragione.
Il fatto è che la necessità del conoscere scientifico, una volta istituita, domina incontrastata. Da quando perciò la filosofia si è messa sulla via della scienza, quella via che Kant cercherà di rendere definitivamente sicura ed inattaccabile, il destino di interno svuotamento che la attende è in qualche misura segnato. I criteri e le procedure della ragione epistemica non possono indietreggiare di fronte a nulla. L’Analitica trascendentale definisce con estrema precisione il perimetro della conoscenza razionale accessibile all’uomo: è il campo vasto, e non ancora del tutto esplorato, del mondo fenomenico. Entro di esso, le costruzioni della ragione dimostrativa sono garantite nella loro necessità né possono essere contese da altri in nome di presunte verità dettate da evanescenti realtà. Rievocare poi la paternità delle scienze particolari, ora — di fatto e di diritto — pienamente autonome, per rivendicare a sé una qualche funzione fondativa non fa altro che radicalizzare e rendere più profondo il fossato che separa la vecchia e fatiscente filosofia dalle nuove agguerrite forme del conoscere. Se dunque ha da esserci epistème, ebbene questa sia rappresentata autorevolmente dagli uomini in camice bianco, gli scienziati. I filosofi si facciano da parte, tornino pure ad occuparsi dei loro sogni inutilmente rivestiti del misterico alone della pseudoscienza — cosa altro sono i metafisici se non «musicisti senza talento musicale«? dichiara un ironico Carnap45 — e lascino il campo libero ai veri titolari della conoscenza scientifica e delle pratiche della manipolazione tecnica.
La ragione, nella sua connotazione epistemica, ha eliminato dunque ogni avversario. Essa sola rimane a presidiare la cittadella della conoscenza, sul cui portale principale c’è scritto ovviamente scienza. Assolutamente determinata nel far valere la sua potenza ed i suoi diritti, la ragione ha vinto una dopo l’altra tutte le battaglie e si è imposta finalmente con una superba prova di forza. Da questa prova di forza non c’è per la fede, come s’è detto, via d’uscita onorevole, né proponendo improbabili riserve di ambiti esclusivi di dominio né tanto meno contrattando reciproche limitazioni di pretese (almeno finché identico sarà il terreno del contendere, negletta la differenza ontologica e misconosciuta la condizione di ontologica finitudine dell’uomo).
3. Il problema di Kant
Dov’è dunque ancora il problema? Non è la questione finalmente chiusa? E perché allora quella prudenza kantiana, se non c’è motivo alcuno di sospendere e nemmeno sopprimere il sapere, dal momento che la ragione, essa sì, ha tolto di mezzo tutti gli oppositori? Non si tratterebbe piuttosto di scovare il nemico che ancora resiste in qualche ultimo angolo ancora buio della coscienza e farlo evaporare con il raggio luminescente della ragione?
Che l’armonico e mai definitivo equilibrio di cielo stellato e legge morale — e, possiamo pure aggiungere, di ragione e fede — a fatica conquistato da Kant, appaia povera cosa agli occhi di una razionalità abituata a pensarsi come autoreferenziale non deve far troppa meraviglia. A tenerlo fermo infatti occorre tutto il pathos di un pensare autentico, come quello che segna l’intera esistenza umana di Kant, facendo di lui un verace amico della sapienza, più che un filosofo professionale; ed è proprio la costante attenzione alla vocazione dell’impegno filosofico ciò che gli consente di tener ben fisso lo sguardo sulla sostanza che salvaguarda la dignità del pensare, senza inseguire i facili sogni di un calcolo razionale che promette di dominare il mondo, anche al prezzo di perdere se stesso. Basta però intonare e ripetere senza pause né interiori sussulti il peana della scienza che determina e dispone, ed ecco che la professione di umiltà della ragione diventa improvvisamente incomprensibile. L’equilibrio kantiano così si perde e le istanze fondamentali che lo sostengono si mostrano decettive. Ma del resto, Kant non è mai stato assiduo frequentatore dei caffè della Vienna mitteleuropea.
In effetti, non si può negare che le argomentazioni di vecchi e nuovi positivismi possiedano il fascino cattivante delle soluzioni finali, che forniscono strategie di soluzione semplificate a problematiche complesse. «Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di una trionfale sventura», ammoniscono Horkheimer e Adorno.46 La semplificazione — tentazione sempre in agguato laddove la ragione fatica a contenere la ricchezza di una problematica che supera il limite del punto di vista — per quanto si affidi alla forza delle catene consequenziali dell’epistème, non è mai buona consigliera. Con le prove di forza infatti le questioni vengono solo messe a tacere, e non già risolte; e la questione, con buona pace dei corifei del pensiero unico della tecnocrazia, non è affatto chiusa.
Il problema è che, a dispetto di ogni definitivo de profundis, la fede mostra una vitalità inattaccabile. E tuttavia, alla richiesta posta dalla ragione alla fede, di mostrare la sua specifica necessità, non si dà risposta che sia al riparo da ogni critica con la semplice rivendicazione di una insostituibile funzione sostenuta da qualche bisogno nascosto ed insopprimibile od anche richiamando antiche e gloriose tradizioni. A tacere di quanto sopra osservato a proposito dell’universalità della necessità dimostrativa, non sembra del tutto convincente nemmeno il tentativo di porre comunque una trascendenza inaccessibile alla ragione, se prima non si trova che l’itinerario al suo proprio trascendimento è esigenza inderogabile della ragione stessa; imporre la fede accanto alla ragione per giustapposizione mutuamente esclusiva non è affatto operazione esente da rischi. Riprendendo un’osservazione di Hegel — svolta in un altro contesto, non privo però di ogni sintonia con quanto andiamo dicendo — ad una siffatta unione si potrebbe infatti pur sempre opporre la disunione dei due membri della relazione; il che lascerebbe le cose precisamente nella stessa incerta situazione ed affiderebbe la leva decisionale alla casualità o al sentimento individuale, incomunicabile ed in fondo non del tutto coerente con se stesso.47
Non rimane perciò che ritornare a pensare con Kant, disposti a seguire con pazienza lo svolgimento della sua riflessione e lasciandoci interrogare fino in fondo dalla decisa affermazione che ha indirizzato la nostra riflessione. Perché dunque sospendere il sapere? Al termine dell’Analitica trascendentale, la conoscenza scientifica è infatti, senza più nessuna incertezza, pienamente istituita — alla condizione di rispettare la natura e la struttura dei giudizi sintetici a priori, i quali sono propriamente ciò che consente alla scienza di avanzare le sue pretese di universalità e necessità conoscitiva. Ma quella condizione, senz’altro necessaria, è poi anche veramente sufficiente? Sono soddisfatte tutte le richieste dell’epistème, o il terreno su cui la ragione sostiene la sua pretesa conoscitiva non è ancora abbastanza saldo?
Occorre a tal fine riprendere dall’inizio il ragionamento di Kant. Significativo è in questa prospettiva l’incipit della Prefazione alla prima edizione della Critica della ragion pura. «In una specie delle sue conoscenze la ragione umana ha il particolare destino di essere tormentata da problemi che non può scansare, perché le sono imposti dalla sua stessa natura, ma ai quali tuttavia non è in grado di dar soluzioni, perché oltrepassano ogni suo potere. La ragione cade in queste difficoltà senza sua colpa».48 Ecco, l’imbarazzo della ragione è qui l’elemento determinante; perché, a dispetto di ogni nichilistica aspettativa di melanconico ed autocompiaciuto declino, esso verrà a rivelarsi condizione affatto positiva per lo stabilimento della razionalità teoretica nella sua corretta ed essenziale attività conoscitiva. Proprio una siffatta riserva epistemologica sarà ciò che consentirà più avanti di salvaguardare la ragione stessa da una scettica conclusione.
Per il momento, ciò che va notato è che tale imbarazzo non è provocato da fattori estrinseci alla ragione — almeno di principio, dunque, facilmente rimovibili. Ben al contrario, esso scaturisce da una sorta di dinamica interna alla ragione stessa, che inevitabilmente incontra lungo la sua strada questioni, per le quali non trova in sé la soluzione. Benché dunque questo si configuri come un «campo su cui si combattono queste lotte senza conclusione» — è il terreno scivoloso della metafisica49 — la ragione non può fare a meno di avventurarsi su di esso; rimanendo bensì, senza alternative di sorta, sconfitta e come arenata,50 ma al tempo stesso sentendo continuamente risorgere in sé la spinta a percorrerlo.
Non è infatti un vezzo metafisico né semplicemente un lascito della tradizione filosofica ad incitare la ragione ad osare il cammino per questo «ampio e tempestoso oceano, in cui ha la sua sede più propria la parvenza» — dal nome allettante di verità, sottolinea Kant —, che circonda l’isola della ragione.51 Il fatto è che non si può dire di conoscere veramente il mondo, se si conosce solo la terraferma su cui si abita; e per quanto il mare d’intorno non sia elemento affidabile, verso di esso indugia a lungo lo sguardo indagatore dell’isolano. Per tentare di esplorare e dominare anche questo estremo elemento, se non si può altrimenti con le sole proprie forze, occorre almeno costruire una zattera alla ragione. Quanto questa possa garantire la riuscita del progetto è cosa che per il momento non possiamo determinare; resta che la ragione la pretende. Una radicale insoddisfazione segna quindi la legittima aspirazione al conoscere scientifico, che, per quanto garantito e sicuro al suo interno, non può fare a meno di evitare di imbattersi nella cruciale e decisiva questione della sua collocazione; questione che poi, in definitiva, coincide con quella della sua fondazione e fondatezza.
Conviene perciò restituire la parola a Kant. Il quale ha appena finito di enunciare il principio metodologico della sua ricerca, capace di condurre alla attesa conoscenza razionale a priori — ovvero la limitazione di questa al mondo fenomenico con la conseguente rinuncia alla cosa in sé, «per se stessa reale, ma sconosciuta a noi» —, che subito così continua: «Infatti ciò che ci spinge (treibt) ad oltrepassare necessariamente (notwendig) i confini dell’esperienza e dell’insieme dei fenomeni è l’incondizionato, che la ragione esige — nelle cose in sé (in den Dingen an sich selbst) e rispetto ad ogni condizionato — necessariamente (notwendig) e con ogni buon diritto, per chiudere in tal modo la serie delle condizioni nella loro completezza».52
Di primo acchito la costruzione del ragionamento kantiano sembra ridondante. Se la scienza nel campo dei fenomeni si trova perfettamente a suo agio e può raggiungere dei risultati incontrovertibili, non si vede infatti cosa possa spingerla a ricercare ulteriormente ciò che per definizione è inattingibile ed inconoscibile. Se la natura della cosa in sé è tale, tanto vale dichiararla una Unding, una non-cosa e abbandonarla a se stessa, come farà, credendo di rimanere nell’orizzonte speculativo kantiano, il suo discepolo Maimon.
Senza prestare attenzione profonda al ragionamento kantiano, in effetti, il bisogno di questa aggiunta è destinato a rimanere privo di forza. La sua giustificazione va perciò ricercata altrove, scavando nella natura stessa della ragione teoretica. Il fatto è che, lasciando le cose al punto in cui sono, l’ambizione, al tempo stesso peraltro legittima e difficilmente eludibile, della ragione di raggiungere l’unità compiuta della scienza, non che non essere soddisfatta, non è nemmeno autenticamente riconosciuta. Una identica necessità governa il processo delle relazioni conoscitive; il motivo per cui la ragione è spinta ad oltrepassare i limiti dell’esperienza è lo stesso che la obbliga a pretendere il compimento della serie regressiva delle condizioni nell’unità noumenica dell’incondizionato. Dove è l’esigenza di quest’ultimo a imporre l’oltrepassamento del limite dell’esperienza, e non viceversa. È a tale esigenza perciò che bisogna rivolgersi; e qui il problema è capire in cosa consista quella necessità che rimette in gioco il noumeno, sia pure solo nel suo valere come principio soggettivo per la ragione e non nella sua provvista di realtà oggettiva, dopo che la critica della ragione teoretica nella sua prima parte lo aveva espulso dal campo speculativo. Ancora una volta, non saremo disposti ad accettare altro motivo che non sia quello rappresentato da una ineludibile esigenza posta dalla ragione a se stessa.
La ragione dunque è spinta a superare i limiti che essa aveva posto a se stessa;53 e ciò, evidentemente, non per ampliare il campo del conoscibile, cosa che sarebbe in logica contraddizione con quanto finora stabilito. Non è perciò una questione di contenuti del conoscere, ma semmai della natura e delle procedure dello stesso, di quanto costituisce un siffatto sapere come scienza, epistème. Abbiamo già potuto notare come a quest’ultima sia intrinseca una pretesa forte di stabilità, che adesso mostra anche una seconda complementare angolatura; la razionalità scientifica, se è disposta ad ammettere e persino a ricercare54 la possibilità di una continua autocorrezione delle sue risultanze — e, da Copernico in avanti, anche degli assiomi e dei postulati da cui prende inizio la sua avventura —, non può però tollerare che il corpus delle sue acquisizioni possa presentarsi come mero aggregato debole di nozioni rapsodiche, essenzialmente incerte nella loro natura. Come insegna Aristotele, ad iscriverlo di diritto nel registro della scienza, la validità di un ragionamento apodittico non è da sola sufficiente; ad essa deve far seguito la sua verità.55 E questa è assicurata direttamente dalla verità delle premesse immediate; indirettamente però, essa si affida alla organicità e coerenza interna delle differenti nozioni che ne costituiscono la remota ed implicita, ma anche fondamentale, premessa; solo così, inserita entro una più ampia cornice, la verità di una proposizione può rivestire quella divisa sistematica capace di garantirne i requisiti di scientificità. La stabilità dell’epistème non è dunque solo quella delle singole affermazioni, ma, più ancora, quella della scienza come un tutto. La compiutezza di una scienza — e la scienza non può non pretendere, almeno in linea di principio, la compiutezza della sua ricerca, pena l’insufficienza e la problematicità di quanto sostiene56 — «è quindi possibile soltanto mediante un’idea della totalità della conoscenza intellettuale a priori e attraverso la suddivisione dei concetti che la costituiscono, stabilita in base a questa idea; cioè solo mediante la connessione unitaria e sistematica di questi concetti», osserva Kant presentando l’Analitica trascendentale.57 C’è dunque, preliminare ad ogni costruzione del sapere scientifico, un problema di coerenza e coesione dello stesso.58
Ma qui precisamente si nasconde la questione che pone la ragione speculativa di fronte alla sua essenziale aporia, in virtù della quale il sentiero della sua ricerca le diviene letteralmente inaccessibile; obbligata a ricercare nuove strade, essa è così sospinta a forzare anche il limite che si era imposto e ad avventurarsi su terreni che finiranno per scoprirla imbarazzata e priva della richiesta legittimità — ed infine bisognosa di oltrepassare se stessa. Un sistema infatti non è un puro e semplice aggregato di dati; ciò che differenzia essenzialmente i due è il fatto che il primo costruisce il proprio edificio a partire da un principio ordinatore che assegna ad ogni concetto il suo posto nell’insieme, laddove il secondo è una semplice e casuale raccolta di elementi. Nella conoscenza entra perciò in gioco con ogni evidenza un principio architettonico di unità che conferisce al sistema della conoscenza intellettuale la necessaria coerenza interna. Conoscere infatti, non si stanca di ripetere Kant, equivale fondamentalmente ad unificare. Si tratta, in prima istanza, del processo in virtù del quale la molteplicità variopinta dell’esperienza viene codificata e ricondotta, sotto regole, all’unità di un giudizio;59 ma poi, più in generale, sono gli stessi giudizi di conoscenza che devono comporsi in una totalità sistematica. E proprio tale imprescindibile carattere sistematico della conoscenza (das Systematische der Erkenntnis) è il contributo tipico che la ragione apporta alla conoscenza; una idea questa che, sebbene non possa mai pretendere di valere come rappresentazione di oggetti, e dunque non consenta alcun uso costitutivo, nondimeno deve essere necessariamente presupposta, «e ciò esclusivamente per fondare su di esso l’unità sistematica indispensabile alla ragione, che è vantaggiosa, e mai dannosa, alla conoscenza empirica dell’intelletto».60 Come si potrebbe diversamente, si chiede Kant, pensare di rappresentarsi la natura come un tutto — esperienza, questa, preclusa all’uomo, e tuttavia idea obbligata, se si vuol dare ordine alla varietà fenomenica del mondo — facendo a meno del ricorso ad una tale idea? «Concetti come questo non sono desunti dalla natura; al contrario ci sforziamo di comprendere la natura in base a queste idee e consideriamo difettosa la nostra conoscenza fin tanto che non appare ad esse adeguata».61 La scienza della natura non ne ha bisogno per poter dedurre i caratteri del mondo, ma solo per poter raggiungere il massimo richiesto e consentito di organicità e coerenza sistematica delle leggi naturali. Senza di che non si avrebbe semplicemente alcuna scienza. «Così — può concludere Kant — ogni conoscenza umana comincia con intuizioni, passa a concetti e si conclude con idee».62
Ora, però, il principio che fornisce la connessione sistematica non è accessibile in virtù dell’esperienza, ma deve essere a questa in qualche modo presupposto.63 Il livello logico di appartenenza del principio ordinatore non può coincidere con quello degli oggetti ordinati, che invece ricevono tale ordinamento solo lasciandosi disporre preventivamente da quello. L’ordine di catalogazione dei libri di una biblioteca non è evidentemente un libro.
Non solo, ma anche nella struttura della dimostrazione, che, come detto, costituisce l’altro pilastro della conoscenza scientifica, si cela un qualcosa di presupposto. La natura sintetico-apodittica della scienza tradisce un impianto cumulativo del sapere che non è ottenuto immediatamente per intuizione, ma si costruisce progressivamente per deduzione logica.64 La dimostrazione insomma — questa è la sua forza — ottiene di ancorare alla catena della necessità le sue conquiste cognitive solo alla condizione di agganciare l’uno all’altro gli anelli di quella catena; ogni risultato è così sostenuto da tutti gli altri e a sua volta sostiene i successivi. «È dunque facile rendersi conto — annota Kant — che la ragione giunge alla conoscenza per mezzo di atti dell’intelletto, che determinano una serie di condizioni».65
Ma la forza nel particolare corre il rischio di diventare debolezza nella prospettiva del tutto. Sebbene ciò oltrepassi la sua visuale, la ragione non può infatti non percorrere a ritroso la serie delle condizioni alla ricerca di quell’unicum, che della serie delle condizioni derivate è il principio, non essendo però esso stesso altrimenti derivato. Questo cammino, che l’intelletto nella sua attività costitutiva di concetti di conoscenza può permettersi di ignorare, si pone come istanza perentoria per la ragione (e fonda lo spazio per la filosofia). Entra così in gioco l’idea di incondizionato, che sola rende possibile poggiare su un solido fondamento l’intero sistema della conoscenza. Ogni singolo elemento di questa, pertanto, nella misura in cui ottiene il sigillo della verità scientifica, rimanda ed implica la totalità delle premesse che compongono la catena della dimostrazione; la quale deve essere, senza interruzioni, assolutamente vera, se l’ultimo risultato di essa ha da essere vero. La ragione, e la ragione nel suo uso logico generale, precisa Kant, si trova perciò costretta a «trovare, per la conoscenza condizionata dell’intelletto, quell’incondizionato (das Unbedingte) in virtù del quale trova compimento (vollendet) l’unità di tale conoscenza».66 Questo è il suo proprio e peculiare principio ed al tempo stesso la sua esigenza, cui non può permettersi di derogare.
È l’incondizionato, vero principio dunque di ogni conoscenza, il fulcro di tutta la questione, come Kant aveva molto chiaramente segnalato sin dalla prefazione della sua opera. Ogni conoscenza indirettamente lo suppone; e tanto più, quanto meglio essa risulta organicamente costituita nel sistema della scienza. L’incondizionato stesso, che pure fonda — o forse meglio, proprio perché fonda — tale sistema, non può però averne parte; compie infatti la sua funzione solo se eterogeneo rispetto alla serie dei condizionati (pena il suo essere anch’esso condizionato). Riletto nella nuova chiave della soggettività moderna, è questo ancora di nuovo il problema di Aristotele: non si può andare all’infinito nella serie causale, pena la incomprensibilità e la infondatezza della dimostrazione razionale medesima.67 Ma il nuovo scenario gnoseologico della modernità, se da un lato priva il principio di ogni riempimento ontologico, per altro verso ne rafforza l’urgenza in una maniera che non può non destare sorpresa ed anche un certo sconcerto.
In effetti, il corridore per vincere la gara e conquistare la medaglia deve oltrepassare la linea d’arrivo, che delimita il percorso di gara ed oltre la quale non si dà più luogo ad alcuna rilevazione di tempi; per raggiungere la meta ambita, egli deve essere disposto a non soggiornare presso di essa ma a superarla, entrando in uno spazio non definito ed estraneo al percorso di gara; uno spazio, dunque, dove le regole che avevano finora per lui consentito ed anche, in certa misura, protetto la vittoria, ora non valgono e non garantiscono più. Siffatti dinamismi sono inevitabili e chi li abbraccia poi non vi si può più sottrarre. Quella che Kant pone, in altri termini, è la questione del fondamento;68 una questione essenziale per l’epistème — e forse anche esiziale per le pretese di assolutezza da quest’ultima rivendicate69 — e che la scienza ha omesso di porre a se stessa; con la quale invece Kant ha voluto e saputo fare i conti.
Ma i conti fatti conducono appunto ad esiti non così scontati. La razionalità epistemica qui fa naufragio, esperienza che costringe a rivolgersi ad altri per chiedere aiuto, onde non affondare del tutto. Organicamente strutturata secondo regole di necessaria apoditticità, l’epistème scopre di non poter sostenere la necessità del principio da cui prende avvio nei suoi logici ragionamenti. Del resto un principio, che non sia mero inizio, è tale solo se non derivato da altro; ad esso non è perciò applicabile lo schema formale della dimostrazione, che garantisce il risultato proprio nell’essere quest’ultimo dedotto, secondo logici meccanismi, da premesse universalmente valide. Posta di fronte a tale questione, l’epistème diventa incerta, non ha risposte apodittiche — le uniche che essa riconosca — da dare: il principio incondizionato resta per essa indimostrabile,70 razionalmente indecidibile. Si appalesa così con chiarezza la fondamentale aporia della ragione, che è quella di non poter giustificare i principi di cui fa necessariamente uso.
La catena della necessità dimostrativa, vera domina della razionalità epistemica, non riesce infatti a chiudere nelle sue maglie il principio da cui dipende essenzialmente; la debolezza della statuizione del principio minaccia però di ripercuotersi a caduta sull’intera serie delle successioni logicamente derivate, che così si scoprono insicure ed esposte ad ogni contestazione. Chi ha ben visto il demone pronto a scatenarsi sull’intero sistema della scienza, tentando di trasformare la debolezza in forza, è Hegel, che non a caso vi ha contrapposto il suo titanico sforzo di dimostrare l’inizio con la fine e chiudere così nel cerchio della necessità del sapere assoluto la totalità del conoscere.71 Ma anche il tentativo hegeliano alla fine si rivelerà tutt’altro che assoluto, ed il circolo della scienza niente affatto autoportante.
A ben vedere, però, nel precoce declino della filosofia hegeliana si consuma qualcosa di più di un deficit teorico particolare, che peraltro ogni costruzione umana porta invariabilmente con sé. Qui, in verità, giunge a maturazione la vicenda stessa della modernità, colta nella sua dinamica essenziale di perfezionamento-compimento del logos, come definito nella grande stagione della filosofia greca; una vicenda che fa del dominio teoretico e pratico del mondo, da esercitarsi in virtù della forza di una razionalità costituita nell’assolutezza delle proprie ragioni, l’obiettivo primario del suo stesso modo di essere. Si disegna così una sorta di parabola del logos, assurto dapprima alle altezze vertiginose dell’Assoluto, e poi sprofondato verso gli abissi di un Sé senza fondo dalla posteriore insofferenza ai proclami razionalistici, e che nemmeno la dialettica di negazione ed affermazione, giocata vanamente da un nichilismo sempre più gaio, sembra in grado di sottrarre al suo destino di abbandono.
Il paradosso della ragione dunque rimane, clamoroso ed insuperabile. Non si dà conoscenza senza principio né sistematicità, da questo assicurata; ma non si dà nemmeno ricerca del principio al di fuori di ogni orizzonte cognitivo. Questo, che ha tutta l’apparenza di un circolo vizioso, sorta di buco nero in cui ogni cosa implode, è l’ultimo, imprevisto risultato cui ci ha condotto la nostra analisi al seguito del filosofo del criticismo; alla quale ora deve seguire una fase ricostruttiva, che articoli in maniera nuova la relazione di principio metascientifico e conoscenza scientifica.
4. Dalla fede morale al mythos
Per il momento72 possiamo intanto notare come lo spazio di ricerca, che la scienza pensava di aver interamente occupato per sé, si sia nuovamente dilatato, facendo nuovamente intravedere sullo sfondo l’ombra non ancora definita e forse nemmeno del tutto definibile, ma proprio per questo maggiormente inquietante, dell’incondizionato; la cui impredicabilità logica, in ogni caso, impone alla ragione di arretrare nella sua marcia, finora trionfale, verso il sapere assoluto. Con ciò si aprono scenari interessanti, che l’intuizione kantiana, dalla quale si è avviata la nostra riflessione, già lasciava presagire. Per la fede — e di una fede in dialogo e fors’anche intrecciata con la ragione, non certamente a questa alternativa o antagonista, dovrà trattarsi — si danno così nuove possibilità, tutte ancora da esplorare fino in fondo. In questa operazione è peraltro opportuno mantenere ancora per un po’ un approccio di tipo problematizzante, come sembra consigliare il risultato inatteso ed insieme promettente, cui ci ha condotto l’ultimo segmento del discorso.
Segmento che possiamo riassumere nel seguente modo: mentre la conoscenza scientifica richiede un qualche stabile ancoraggio che dia sostegno all’intera catena dimostrativa della necessità, il principio chiamato ad offrire tale necessario supporto oppone alla logica della dimostrazione una sporgenza da questa inattingibile. Il sapere, insomma, non si lascia rinchiudere in tutta la sua pienezza entro il circolo autoconcluso dell’epistème. Un risultato questo, a ben vedere, acquisito già da tempo dalla riflessione filosofica;73 le cui conseguenze tuttavia quest’ultima ha per lo più evitato di accogliere in tutta la loro portata. Cosa infatti contiene veramente l’indimostrabilità del principio, che la ragione ha dovuto finalmente riconoscere? forse la falsità dello stesso? L’equazione: dimostrabile uguale necessariamente-vero, significa in negativo: indimostrabile uguale necessariamente-falso? Sbarrata la via dell’apodittica generalizzata, resta perciò aperta solo la via del nichilismo, come traduzione metafisica dell’impossibilità logica di assicurare razionalmente ed epistemicamente il principio? Il nichilismo dunque come ultimo approdo di un Occidente che ha smarrito se stesso? O non si dà forse la possibilità di una differente validazione del principio, cui la ragione non può rinunciare? E quale può essere? E può la ragione farla sua mantenendo l’assetto epistemico a lei congeniale oppure deve accettare di riconfigurare la propria fisionomia teoretica? E come?
Tali domande invitano a grande cautela e coraggio nel seguire lo sviluppo del ragionamento; soluzioni che concludano alla radicale amputazione di uno dei corni del dilemma, per quanto attraenti, non risolvono veramente. Ciò che la razionalità epistemica afferma, non senza diritto, è il beneficio di non acconsentire a soluzioni teoriche, cui la ragione non abbia imposto il suo proprio sigillo di conformità; e tuttavia siffatta potestà si è scoperta, per altro verso, priva di quella originarietà che, sola, avrebbe potuto sancirne con ogni evidenza l’assolutezza. Quel diritto che la ragione reclama non sembra dunque capace di imporsi al di là del campo di applicazione dell’epistème; la quale però non governa la totalità del pensabile.74 Ricondotta entro tali pur ampi confini, la norma che autorizzava la ragione a porsi come istanza ultimativa di giudizio si manifesta così insicura e di dubbia utilità.
L’orgoglio della ragione riceve qui senz’altro un grave colpo. Ma è forse solo l’orgoglio a rimanere colpito, non la ragione stessa. Una più onesta professione di relatività,75 insieme al congedo dalla inevitabile ma smisurata — e proprio per questo, non appropriata al limite di finitudine che segna lo statuto ontologico della persona umana — presunzione di assolutezza della ragione, può essere per questa una preziosa occasione di ripresa. Certo, ciò richiederà che la ragione guardi in sé con nuovi occhi.
La forma che prende il problema è pertanto ora quella di sondare la validità e verità del principio, ricercandone il luogo proprio e la modalità della manifestazione; che senz’altro non può essere trovata nel mondo variegato dell’esperienza sensibile. Kant stesso ironizza contro coloro — gli empirische Köpfe — che «si sforzano di dividere senza posa la natura, spingendo la molteplicità fin quasi ad abbandonare la speranza di raccogliere i fenomeni sotto principi universali».76 Ricercare nel singolo evento la legge universale che sola può consentirne la comprensione, pretendendo di trovare nel particolare l’universale del concetto, senza averne già una nozione — senza rammemorarlo, avrebbe detto Platone — è un grave errore di prospettiva che inficia la stessa ricerca della legge. «È pertanto indispensabile che la ragione si presenti alla natura tenendo in una mano i principi in virtù dei quali soltanto è possibile che i fenomeni concordanti possan valere come leggi e, nell’altra mano, l’esperimento che essa ha escogitato in base a questi principi», aveva ammonito Kant già dalla prefazione della prima Critica.77 L’esperienza sensibile si rivela dunque essa stessa bisognosa di punti fermi da cui farsi sostenere.78 Se a dare la cognizione del principio non è pertanto l’esperienza, nella quale peraltro la ragione è costretta ad affidarsi alla testimonianza talora fallace dei sensi, sarà allora forse l’evidenza, fattore pertinente senza intermediari alla ragione, a garantire tale necessaria acquisizione?
La risposta si complica decisamente; rispetto ai tempi di Kant, la via maestra dell’evidenza si è per noi oggi fortemente ridimensionata, declassata e ristretta ad un piccolo ed impervio varco. Proprio quell’evidenza, in cui da sempre la filosofia aveva cercato riparo alle sue ultime difficoltà, — l’evidenza come rilucenza ontologica del reale o come portato, superiore ad ogni sorta di dubbio, della semplice attivazione del processo razionale — si presta oggi con grande fatica a ruoli fondativi. Ad imporla, in realtà, è la ragione, che ottiene in tal modo di dare stabilità alle proprie conclusioni — esattamente quella ragione, che nell’evidenza cercava la conferma ed il fondamento delle proprie teorizzazioni.
L’evidenza — non più evidente: Nietzsche e le geometrie non euclidee hanno da tempo consacrato l’impraticabilità di questa altrimenti adusata via d’uscita. Lungi dall’essere un fatto, l’evidenza si rivela propriamente per quello che è, un costrutto. L’apparenza di oggettività, di cui l’evidenza circonda come dato inconcusso la realtà portata all’attenzione cognitiva, non riesce più a nascondere quel vincolo strutturale di soggettività che invece la sostanzia, relativizzandola irrimediabilmente; e per quanto il relativo qui non sia da commisurare alla singolarità del soggetto individuale, ma rimandi alla generale condizione mondana dell’uomo abitante della terra, la testimonianza dell’evidenza è diventata comunque intrinsecamente precaria.79 L’evidenza è in effetti sempre evidenza-per, suppone cooriginariamente qualcuno cui manifestarsi, un soggetto che, in maniera inderogabile, nell’atto stesso che la riceve, la imprigiona entro le forme costitutive della comprensione propria.80
Eppure proprio con l’evidenza, o meglio, con ciò che l’evidenza promette di dare, dovremo ancora avere a che fare; un’evidenza tuttavia da ripensare entro nuovi contorni, purificata e liberata da tutto l’armamentario di giustificazioni, che la rendevano funzionale e strumentale alla logica totalitaria dell’epistème.
In questa direzione la riflessione kantiana sembra ancora una volta precederci. La constatazione dell’impossibilità di adeguare la filosofia alla forma della scienza, che costituisce pur sempre l’unico modello cognitivo accettabile,81 spinge infatti Kant a cercare altrove l’approdo di tutto il suo ragionamento. Si apre così il vasto campo della considerazione dell’agire razionale umano, dove, a partire dal «fatto della ragione»82 della coscienza morale fondata sulla libertà del volere, si recuperano come postulati morali quelle stesse idee della ragione, che la critica della costruzione metafisica aveva in precedenza svuotate di ogni contenuto teoretico. Il postulato della ragion pura pratica, ovviamente, non saprà fornire nessuna indicazione di natura cognitiva capace di dar sostegno ad una fondazione metafisica della conoscenza; tuttavia, la provvista di senso che esso riesce ad offrire alla ragione, sia pure limitatamente alle motivazioni della deliberazione pratica, non può non produrre un effetto di rimbalzo anche sulla ragione teoretica e dar così implicita ed efficace legittimazione alle attese di quest’ultima circa la realtà del noumeno. Leggiamo nella Critica della ragion pratica: «Questi postulati [della ragion pratica — l’immortalità, la libertà e l’esistenza di Dio] non sono dogmi teoretici, ma presupposizioni necessarie da un punto di vista pratico; perciò non ampliano la conoscenza speculativa, ma conferiscono realtà oggettiva alle idee della ragione speculativa in generale (attraverso il loro rapporto con ciò che è pratico), giustificandole come concetti di cui essa altrimenti non potrebbe neppure pretendere di affermare possibilità».83 Dove però il punto problematico è precisamente quell’«attraverso il loro rapporto con ciò che è pratico», da Kant messo incidentalmente tra parentesi.
Per quanto di alto profilo e densa di interessanti sviluppi, la specifica modalità che Kant propone per superare l’impasse in cui viene a trovarsi la ragione teoretica, allorché è intenta a confezionare la necessaria veste sistematica delle sue conoscenze, non sembra in effetti riuscire del tutto soddisfacente. La questione che qui ci occupa, invero, non è quella di valutare l’attendibilità ai fini dell’agire morale del valore noumenico, quanto piuttosto quella di vedere se la definizione, praticamente giustificata, di tale valore possa retroagire sulla ragione speculativa ed apportare quella consistenza cognitiva al principio, che la scienza deve necessariamente presupporre. Il fatto è che si dà un palese sfasamento tra i principi della ragione teoretica e quelli della ragion pratica. Mentre infatti la prima richiede, come istanza ultimativa, la presupposizione dell’Essere supremo, quale condizione non condizionata della totalità della conoscenza, la ragion pratica è in grado di assicurare come «legge apodittica della ragion pratica» soltanto l’idea della libertà, mentre dell’idea di Dio «possiamo affermare che né conosciamo né percepiamo, non solo semplicemente la realtà, ma neppure la possibilità».[^84] Così quell’aiuto, che la conoscenza poteva pensare di ricevere dai fatti evidenti dell’agire morale, resta ancora inadeguato.
Lo spazio vuoto del noumeno,84 in cui si annuncia l’incondizionato, mentre sembra in grado di fornire a quest’ultimo la necessaria autenticazione esistenziale (il suo dass), non può valere come soluzione per i problemi che la ragione incontra nella costruzione del suo modello conoscitivo. L’incondizionato, che la ragione nel suo desiderio di conoscenza non cessa di invocare, sebbene sia tale da sfuggire allo scandaglio delle categorie intellettive, nondimeno, se la ragione deve intrattenere con esso una qualche relazione, non può non rinviare alcuna eco. Tali segnali, ora, la ragione, provvista di più ampia apertura rispetto al modello rappresentato dalla pura razionalità calcolante, deve imparare a riconoscere ed apprezzare come costitutivi la sua struttura logica; ogni inserzione in questa di corpi estranei potrebbe infatti provocare rigetto. È questo il motivo per cui il puntello kantiano, che ricostruisce nella forma del postulato morale la figura del fondamento, lascia spazio a perplessità da parte della ragione teoretica, che rimane ancora lì insoddisfatta con le sue domande.
Il punto di difficoltà del discorso kantiano sembra in ultima analisi risiedere nella contrapposizione dei due universi, quello conoscitivo e quello morale, che invece, come lo stesso Kant ben sa,85 sono totalmente complementari. E di contrapposizione viene inevitabilmente a trattarsi, allorché il medesimo soggetto che li percorre, la ragione umana, deve modificare in maniera radicale i propri assetti nel passaggio dall’uno all’altro. Perché insomma non possa essere la ragione teoretica stessa a trovare in sé un rimando non vuoto, per quanto non configurato secondo le forme del pensiero categoriale proprie della determinazione logica,86 all’incondizionato, può trovare spiegazione soltanto in quella precomprensione scientifica del reale, cui Kant in definitiva non ha mai rinunciato,87 e per la quale il sapere si dà solo nella forma dell’epistème. Riesce in questo modo anche più agevole comprendere il motivo per cui la ragione non ottenga di raggiungere un concetto attendibile, e non solo in senso soggettivo, di quella libertà, di cui pure essa possiede la piena evidenza pratica.
Si dà insomma come uno iato, che viene a frapporsi tra le due modalità di condotta della ragione umana, scindendola in due tronconi — l’uno di natura teoretica e capace di produrre sapere definitorio degli oggetti, l’altro che vale praticamente come guida dell’agire libero della persona umana —, la cui radicale asimmetria renderà poi difficile ogni progetto di riunificazione; come ha ben sperimentato lo stesso Kant, costretto a dedicare le residue energie intellettuali alla soluzione di un siffatto problema teorico. Stando così le cose, e spinto da un lato dalla necessità di dar compimento al sistema della conoscenza e frenato dall’altro dalla inadeguatezza della strumentazione teoretica a disposizione della ragione, Kant riesce a salvaguardare bensì lo spazio noumenico della libertà, in cui, solamente, all’uomo è dato vivere la pienezza della sua condizione antropologica; detta salvaguardia è ottenuta però al prezzo dell’abbandono di ogni tentativo di articolazione di quello stesso spazio — se non nei termini di una filosofia come scienza, almeno nella forma di una sapienza più generale, sempre comunque tâtonnant. Inadeguato rispetto al modello dell’epistème, il sapere della ragione filosofica si vede pertanto negare qualunque credito nella sua ricerca di senso relativa al mistero dell’esistenza. Per questi motivi il passaggio dal sapere alla fede non può che porsi in termini di diniego e di rinuncia. Ma quanta ambiguità nasconda il passaggio dalla ragione teoretica a quella pratica lo rende palese la ripresa e distorsione hegeliana della questione nella Fenomenologia dello spirito, dove quel passaggio «in un’altra terra» diventa rampa di accesso all’ultimo tornante della storia della coscienza che si eleva a scienza, prima dell’avvento finale del sapere assoluto.88
Giunti a questo punto del discorso, dobbiamo perciò prender congedo dalla riflessione kantiana, al cui seguito pure abbiamo finora mosso tutti i nostri passi; e si compie così il destino di ogni ricercatore, avanzare verso territori non ancora del tutto esplorati, dove il rischio di perdersi minaccia costantemente il guadagno della scoperta.
Le riserve verso la posizione kantiana non devono ora farci perder di vista l’essenziale della sua meditazione. Per quanto mal posto, quel passaggio va infatti difeso ed anche accolto. Non si tratterà, però, di superare il sapere scientifico della ragione, che conosce, in direzione della fede morale della libertà, che agisce secondo principi razionali; quanto, piuttosto, di sperimentare la possibilità di una differente configurazione della ragione medesima, dove all’approccio scientifico al reale si affianchi un orientamento sapienziale non meno ricco di suggestioni, anche se non egualmente carico di determinazioni concettuali. È di una diversa forma di sapere che dovremo metterci in ricerca, un sapere che accolga e mantenga intatto quel sapore89 che definisce lo stare dell’uomo sulla terra e che orienta la stessa ricerca di conoscenza.
In questo tentativo forse non avremo da andare molto lontano dal campo di lavoro che ci siamo assegnati. A farci da guida in queste considerazioni sarà la stessa filosofia, nel cui etimo le linee essenziali di questa ricerca sono ancora felicemente conservate e messe a disposizione di uno sguardo aperto sullo stupore dell’essere. Si tratterà, ovviamente, di un sapere che non pretende di misurarsi con il metro dell’apodittica, ma che non per questo è destinato a risultare privo di ogni interesse ed efficacia teoretica.90
Senza avventurarsi in improbabili operazioni di monolitiche e sostanzialmente totalitarie reductio ad unum e lasciando del tutto impregiudicata la loro differenza, occorre perciò non contrapporre quei due universi, che vanno semmai integrati, vale a dire, resi disponibili per una ragione pronta a pensarsi nella sua originaria unità di forma sapienziale, anteriore ad ogni specializzazione. Per la ragione filosofica, insomma, si presenta il compito di ripensare se stessa al di fuori dell’orizzonte della logica strumentale e meramente calcolante propria dell’epistème; un compito nel quale essa è chiamata a tenersi lontano tanto da cadute irrazionalistiche ed antiscientifiche,91 quanto dalle illusioni di una pretesa scientificità metafisica.92 Lo sviluppo del ragionamento fin qui svolto lascia almeno ipotizzare la possibilità di una siffatta forma di sapere, che ora dovremo cercare almeno di tratteggiare, rinviando ad altra occasione la più organica discussione della questione.
Prima di poter accedere a questo livello, e come giustificazione della sua possibilità, ci attende però ancora un ultimo passo. L’avanzamento lungo la linea di una forma di razionalità differente da quella affermata sull’asse teoretico dell’epistème richiede infatti di oltrepassare la pregiudiziale negativa che la filosofia ha storicamente posto verso il discorso che non si compone secondo la logica della dichiarazione. Capace di conoscenza, tout court identificata con la sapienza filosofica, la vulgata filosofica ha ritenuto solo l’affermazione finalizzata all’asseverazione dichiarativa di uno stato di cose. Quanto ecceda siffatta forma logica, ciò che non sia comprimibile entro lo spazio ampio, ma pur sempre limitato ed in definitiva comunque ristretto, della parola definitoria, è in tal modo consegnato all’ambito, rivestito di dubbia rilevanza cognitiva, dell’ineffabile del sentimento, arazionale se non anche del tutto irrazionale;93 considerato sì adatto a sperimentare in privato l’armonia del tutto e ad intendere il rumore di fondo dell’esistere, ma in ogni caso valutato come incapace di articolare tale vissuto in una forma comunicativa condivisa e suscettibile di portare motivi che aiutino l’uomo a prender coscienza della propria situazione di esistenza. Non sembra dunque darsi per la filosofia possibilità di sapere altra da quella convalidata dal rimando ad un referente oggettivo di cui accertare la consistenza logica. E quando questo non è immediatamente dato, va comunque supposto.
Ora, invece, è proprio questa logica che il percorso fin qui seguito impone di superare — superare, vale a dire relativizzare, non negare. Il vincolo di quel rimando va aperto, se si vuole procedere con ogni accortezza nella direzione del non-luogo, cui pure inevitabilmente fa appello la ragione nella sua ricerca della verità. In questa fatica può tornare allora utile considerare più da vicino l’annotazione citata sopra di Gadamer, che promuoveva, con riferimento all’estetica, la rivalutazione del giudizio non apofantico.94 Al suo seguito, la preoccupazione per la conformità dell’asserzione al reale percepito, la verità come orthòtes, cede il posto alla cura per la pienezza ontologica dell’essere, che costituisce come la cornice, l’orizzonte globale, in quanto tale inattingibile, entro cui la realtà medesima si offre all’attenzione dell’uomo. Che solo nel giudizio dichiarativo sia contenuta la possibilità del sapere95 non è, in effetti, per nulla un dato inoppugnabile. Come abbiamo già avuto modo di notare, lo stesso costrutto della proposizione scientifica rimanda e suppone una intuizione originaria della totalità, che si indirizza verso una ulteriorità inaccessibile allo sguardo della ragione indagatrice di conoscenze. Ritenere pertanto l’impegno teoretico, che scandaglia la possibilità di questo originario, come un’operazione in essenza estranea alla autentica tipologia del sapere sembra rivelarsi pregiudizio assolutamente pernicioso per la ricerca della verità.
Accanto alle modalità di conoscenza, che si assommano e si affidano alla potenza del logos, è allora giocoforza recuperare forme differenti di sapienza, che si muovono con un ritmo ed una frequenza non riconducibili a quelle del conoscere scientifico; ma che proprio per questo si rivelano idonee ad intercettare e sottrarre al loro ancora inarticolato darsi le questioni primordiali che interpellano l’uomo. Il pensiero va a quelle forme dello spirito da sempre riconosciute come essenziali per la comprensione del senso dell’esistere umano, con le quali si impegna in un fecondo dialogo la stessa scienza; è la sapienza che muove l’esperienza artistica, cui si avvicina la meditazione religiosa, che origina — non riconosciuta e per questo ripudiata — la stessa filosofia.
Il fatto è che si dà una inarrivabile eccedenza ontologica della verità rispetto ad ogni sua possibile pensabilità. La verità, come ha insegnato Heidegger, è alètheia, si mostra e si nasconde, si nasconde nell’atto stesso di mostrarsi;96 ciò che l’uomo è capace di accogliere nella sua inesausta tensione verso la verità non è perciò mai la totalità di essa.97 La visione umana non può mai evadere da quella dimensione prospettica, entro cui solamente la realtà può darsi nella sua piena conformità, ma da cui allo stesso tempo la verità non si lascia contenere in tutta la sua potenza. Lo schema idealistico, in definitiva, ha fallito senza appello.98 La verità dell’uomo resterà pertanto, senza eccezioni, una verità per l’uomo, verità a misura d’uomo, verità umana; essa perciò non potrà più dilatarsi oltre i limiti dello spazio e del tempo dati, o forse meglio non potrà più rivendicare per sé quel sottrarsi alla limitazione ad uno spazio ed un tempo qualunque, che l’epistème aveva inseguito nella sua vocazione alla totalità del sapere.99 Che ciò comporti la proclamazione della virtualità, e quindi la negazione della possibilità di ogni verità, non è conclusione richiesta;100 certamente, però, nuove strade occorre tentare, dove sia garantita e salvaguardata la possibilità che la verità irrompa nella sua potente e sconvolgente donazione di senso.
La direzione del tracciato è così sufficientemente delineata; il suo limite superiore sta nel bisogno teoretico dell’incondizionato, mentre il limite inferiore consiste nella indisponibilità di quest’ultimo al sapere comprendente della ragione. Per la ragione, come si è detto, si tratta di operare una difficile torsione in direzione della fonte della propria pratica riflessiva, laddove si apre lo scenario, per essa inconsueto, della donazione di senso e della gratuità della verità nel suo rivelarsi. Ogni conoscenza ha infatti inizio con un atto pre-logico, ma non pre-razionale, in virtù del quale la ragione si trova posta di fronte alla totalità del reale, come tale mai oggettivabile, nella cui cornice solamente si dona la verità come pienezza di senso. È una donazione che sfugge alla predeterminazione della ragione, di fronte alla quale, al contrario, la ragione si scopre esposta e debitrice ed alla quale è chiamata ad affidarsi senza nulla poter determinare. La ragione sperimenta qui una condizione di dipendenza logica — condizione ordinaria e del tutto coerente per un soggetto che dipende esso stesso totalmente fin nel suo stesso primo affacciarsi all’essere — alla quale è tentata di sfuggire, contando sulla forza del proprio autonomo ed efficiente prodursi; cosa che però, in definitiva, la conduce a poggiare le sue ragioni di legittimità sulla riuscita pragmatica del suo porre, ed a subire così l’abbraccio, per essa letale, del successo operativo e tecnico, fattore extralogico che finisce per strapparle via infine pure quell’ultimo velo di dignità teoretica, che la nobile prassi della pura ricerca scientifica ancora le consentiva di rivendicare per sé.
La relazione ad altro da sé connota invece profondamente la ragione. A dar corrispondenza al bisogno, teoreticamente stabilito, dell’incondizionato può essere solamente un che di altro da essa; ad una siffatta fonte di senso la ragione deve pertanto far essenziale riferimento, da essa può ricavare la verità che la guida, se trova la forza di rimanere presso la soglia che rivela la misura del senso, senza presumere di essere essa a produrla. Per la ragione prende così pian piano forma, insomma, una struttura tipicamente fiduciale, che vediamo come emergere dal suo stesso fondo. Nella sua inesausta ricerca della verità, la ragione si affida a qualcosa che le si rivela come assolutamente dotato di senso e che essa non riesce a giustificare in tale sua inaudita pretesa veritativa, ma da cui, al contrario, riceve l’illuminazione e l’istradamento che le consente di affrontare e determinare conoscitivamente il reale nella sua molteplicità. Non si tratta, come già precisato, di introdurre pacchetti metafisici prêt-à-porter, per una nuova stagione di fasti filosofici, ma di riconoscere la originaria dislocazione della ragione, il suo costitutivo decentramento che la apre verso il principio immemorabile e sempre latente, in cui trova la chiave della comprensione del mondo.
Nella definizione di questa modalità di ricerca, peraltro, la filosofia non è affatto presa alla sprovvista. La sua origine conserva tracce di un simile approccio confidente verso quanto oltrepassa l’orizzonte della determinazione concettuale. Nella riflessione di Anassimandro, Parmenide, Eraclito è dato ancora cogliere quella movenza di pensiero capace di prestare ascolto alla parola autorevole della verità. È alla scuola della più antica filosofia che ci dobbiamo perciò mettere, rimanendo in ascolto delle sue primordiali istanze non ancora contaminate dalla affermazione dell’epistème. In questo contesto gioca una funzione centrale la comprensione della parola rivelatrice prima ancora che come attività di raccolta di quanto cade sotto il campo della umana percezione (lògos), come una parola altra che narra l’origine preclusa allo sguardo umano, il mythos. L’attenta analisi del Poema di Parmenide consente di osservare senza difficoltà tale processo: è il mythos a dar fondamento e stabilire nella sua via il lògos del giudizio raziocinante.101 Un mythos che — è il caso di precisarlo? — non ha niente a che vedere con la mito-logia, nemmeno nella sua più recente ed inattesa rinascita,102 ma che si presenta come parola autorevole datrice di senso, come penetrazione, sottratta al paradigma apodittico ma non per questo inefficace nel dar orientamento al cammino in direzione della verità, verso quello sfondo entro cui le cose acquistano il loro valore, come coglimento immediato della verità nel suo darsi. A questa esperienza, che Eraclito chiama noûs, che sostanzia il noein parmenideo, la ragione filosofica è chiamata a far ritorno.103 In essa potremo forse ritrovare lo stile di un pensare che si volga, accanto ed oltre il conoscere scientifico che il lògos produce, al sapere della misura nascosta eppur manifesta che riassume il senso dell’esistere umano.
5. Conclusione: dall’amore della sapienza alla sapienza dell’amore
È una di ragione sapienziale che dobbiamo così andare alla ricerca, una ragione in ascolto dei segni, tutti da interpretare e tutt’altro che evidenti, nei quali il senso si nasconde. Una ragione che sappia vivere la propria condizione di ricercatrice dell’assoluto con la modestia e la passione di chi aspira ad accogliere la verità che gratuitamente si dona, ma non pretenda di possedere il mondo. È questa la ragione filosofica, segnata dall’amore che, prima e più che passione erotica di possesso concettuale, per quanto mai definitivamente stabilito nella sua purezza e pienezza, come ben ricorda il mito platonico,104 è attenzione per ciò che è caro (tò phìlon). È l’amore infatti che genera la sapienza.
La fede religiosa trova qui, nella struttura fiduciale della ragione, il suo spazio di coesistenza. La parabola del nostro ragionamento ci ha perciò condotto, dall’iniziale avversione di fede e ragione, alla loro mutua integrazione. Se, come abbiamo visto, la fede ha bisogno della ragione per argomentare la sua comunicazione di verità, allo stesso modo la ragione ha bisogno della fede, nella sua più ampia e non specifica accezione, per avviare il suo stesso ragionamento. Diversamente da come pensava Kant è possibile allora tenerle entrambe come essenziali per il costante cammino umano verso quel sapere di ciò che vale propriamente per l’esistenza umana, la filosofia.
Questo testo è stato elaborato in occasione del IX Forum Interdisciplinare promosso dall’Istituto Teologico Leonianum di Anagni, del marzo 2003, dal titolo: Come è nato il mondo. Il problema delle origini nel confronto fra fede filosofia e scienza, i cui atti sono in via di pubblicazione.
- Ivi, pp. 136. Tale idea, e quella dell’anima, continua subito dopo Kant, conquistano tuttavia la loro possibilità in quanto «condizioni dell’applicazione della volontà moralmente determinata all’oggetto dato ad essa a priori (il sommo bene). Di conseguenza si può e si deve ammettere la loro possibilità da questo punto di vista pratico, senza però poterla conoscere né percepire teoreticamente».
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I. Kant, Critica della ragion pura, tr. it. a cura di P. Chiodi, Utet, Torino, 1967, p. 52 (D’ora in avanti citata come Crp). ↩︎
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Ivi, p. 46. ↩︎
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Come Gentile traduce il kantiano aufheben - parola cara ad Hegel! (Cfr. I. Kant, Critica della ragion pura, Bari, Laterza, 1966, I, p. 28). ↩︎
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Cfr. E. Cassirer, Vita e dottrina di Kant, tr. it., La Nuova Italia, Firenze, 1977, pp. 16 ss. ↩︎
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Si veda la ricostruzione hegeliana di detta opposizione nel capitolo VI della Fenomenologia dello spirito. (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. a cura di V. Cicero, Rusconi, Milano, 1995, pp. 43-135). ↩︎
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Tr. it. Morcelliana, Brescia, 1994. ↩︎
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Cfr. Crp, Prefazione, passim. ↩︎
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Uso il termine nel senso precisato da Gadamer, il quale osserva che «il noûs è, per così dire, l’immediatezza del cogliere il vero interiormente» (H. G. Gadamer, Il cammino della filosofia. Parmenide, Enciclopedia Multimediale delle Scienze Filosofiche, Rai Educational, 2000). ↩︎
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Giovanni Paolo II, Lettera Enciclica Fides et ratio, Libreria Editrice Vaticana, Roma, 1998, n. 1. ↩︎
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Cfr. U. Galimberti, Psiche e techne. L’uomo nell’età della tecnica, Feltrinelli, Milano, 1999. In proposito vanno tenute presenti anche le interessanti considerazioni che il filosofo tedesco Hans Jonas svolge in Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica (tr. it. Einaudi, Torino, 1993). ↩︎
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Per dovere di chiarezza, ed in attesa di una più precisa definizione formale, il temine fede viene assunto nel senso ampiamente dominante la vicenda culturale dell’Occidente, senso per cui il termine identifica un preciso sistema conoscitivo, avente ad oggetto anzitutto Dio e poi anche l’uomo ed il mondo nella loro relazione al divino, istituito in virtù di una rivelazione consegnata a testi sacri. Tale sistema si esprime più propriamente sotto la forma disciplinare della teologia. Nel percorso storico dell’Occidente la fede assume poi senz’altro la figura della fede cristiana, così come la Sacra Scrittura e la Chiesa la rappresentano. Proprio richiamandosi a Kant, si potrebbe obiettare che la definizione assunta di fede è riduttiva. Condivido senz’altro l’obiezione. Ciò non toglie che è all’aspetto oggettivo, per quanto parziale, del sistema teologico che dobbiamo far riferimento per spiegare la genealogia della relazione-opposizione della fede con la ragione; la quale ultima, peraltro, non è meno riduttivamente connotata allorché viene identificata tout court con la razionalità calcolante, come è abituata a fare la scolastica filosofica. Tutto questo richiederà un riesame di tali definizioni. Più avanti si cercherà di cogliere un ulteriore senso del termine, per il quale la fede viene a rappresentare una modalità particolare di approccio verso la realtà meno estrinseco al lavoro di ricerca razionale proprio della filosofia. ↩︎
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Così recita il titolo dell’opera dell’umanista Giannozzo Manetti (in Prosatori latini del Quattrocento, a cura di E. Garin, Riccardi, Milano-Napoli, 1952, pp. 422-487), in polemica col De contemptu mundi sive de miseria conditionis humanae di Lotario da Segni, poi Innocenzo III (tr. it a cura di R. d’Antiga, Lotario di Segni, Il disprezzo del mondo, Pratiche Editrice, 1994). ↩︎
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Pubblicate come quinto volume nell’edizione nazionale delle opere di Galileo (G. Galilei, Le Opere, Barbèra Editore, Firenze, 1964-66). ↩︎
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Rimessa a sua volta dalla visione medievale sotto lo sguardo della teologia, cui la filosofia si sottoponeva come ancilla. Non va però dimenticato che, nel mondo medievale, l’ancilla non era la serva quanto piuttosto l’ancella, ovvero la dama di compagnia della regina, omogenea a quest’ultima nell’ordine sociale, benché a lei subordinata. ↩︎
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G. Galilei, Lettera a don Benedetto Castelli in Pisa (Firenze, 21 dicembre 1613), in G. Galilei, Le Opere, cit., V, pp. 281-288. Le verità che non possono contraddirsi sono quella della religione rivelata e della «filosofia [che] è scritta in questo grandissimo libro che continuamente ci sta aperto innanzi a gli occhi (io dico l’universo), ma non si può intendere se prima non s’impara a intender la lingua, e conoscer i caratteri, ne’ quali è scritto. Egli è scritto in lingua matematica, e i caratteri son triangoli, cerchi, ed altre figure geometriche» (G. Galilei, Il Saggiatore, Einaudi, Torino, 1977, p. 33). Dove è senz’altro da notare come Galileo chiami la scienza della natura col nome di filosofia. Si noti, per contro, quello che scrive Kant nel saggio Sull’insuccesso di ogni tentativo filosofico in teodicea: «Il mondo, come opera di Dio, può esser da noi considerato anche come una manifestazione divina delle intenzioni del suo volere. Solo che, come tale, spesso per noi è un libro chiuso [corsivo mio]; e lo è sempre quando si mira addirittura a desumere da esso, sebbene sia un oggetto dell’esperienza, l’intenzione finale di Dio (che è sempre morale)» (tr. it. in I. Kant, Questioni di confine. Saggi polemici (1786-1800), Marietti, Genova, 1990, p. 31). ↩︎
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Può essere interessante notare che il Symbolum fidei cristiano, che il Concilio di Trento aveva riconfermato nella formula niceno-costantinopolitana, recita nel seguente modo: «Credo […] in Spiritum Sanctum […], qui ex Patre Filioque procedit» (Denziger-Schönmetzer (edd.), Enchiridion Symbolorum, Herder, Freiburg i. B., 1965, n. 1500 — corsivo mio). Singolare è l’affinità linguistica e concettuale tra questo ed il testo galileiano sopra riportato. Anche Galileo infatti usa il verbo procedere, in un contesto che peraltro fa esplicito riferimento allo Spirito Santo. Non va però comunque dimenticata la tradizione carsica del neoplatonismo cristiano, che tendeva a ripensare il processo trinitario entro la dinamica processuale propria della metafisica dell’Uno. ↩︎
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«Tutte le cose sono state create per mezzo di lui ed in vista di lui» (Lettera ai Colossesi, 1, 16). ↩︎
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«Io qui direi che quello che intesi da persona ecclesiastica costituita in eminentissimo grado, ciò è l’intenzione delle Spirito Santo essere d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo» (G. Galilei, Lettera a Madama Cristina di Lorena (datata Firenze, 1615), in G. Galilei, Le Opere, cit., V, pp. 309-348). ↩︎
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«Filosofo e Matematico primario del serenissimo Granduca di Toscana«: così Galilei si firma in quella che è la sua opera più importante, il Dialogo sopra i due massimi sistemi (G. Galilei, Dialogo dei massimi sistemi, A. Mondadori, Milano, 1996). ↩︎
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G. Galilei, Lettera a Benedetto Castelli, cit. ↩︎
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Come sostiene Salviati nel Dialogo, «extensive, cioè quanto alla moltitudine degli intelligibili, che sono infiniti, l’intender umano è come nullo, quando bene egli intendesse mille proposizioni, perché mille rispetto all’infinità è come un zero; ma pigliando l’intendere intensive, in quanto cotal termine importa intensivamente, cioè perfettamente, alcuna proposizione, dico che l’intelletto umano ne intende alcune così perfettamente, e ne ha così assoluta certezza, quanto se n’abbia l’istessa natura; e tali sono le scienze matematiche pure, cioè la geometria e l’aritmetica, delle quali l’intelletto divino ne sa bene infinite proposizioni di più, perché le sa tutte, ma di quelle poche intese dall’intelletto umano credo che la cognizione agguagli la divina nella certezza obiettiva, poiché arriva a comprenderne la necessità, sopra la quale non par che possa esser sicurezza maggiore» (G. Galilei, Dialogo dei massimi sistemi, cit. , pp. 109-110). ↩︎
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G. W. F. Hegel, Scienza della logica, tr. it. Laterza, Bari, 1974, vol. I, p. 41. ↩︎
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Si possono vedere in proposito le osservazioni che il filosofo tedesco Hans Blumenberg muove alla categoria di secolarizzazione (H. Blumenberg, La legittimità dell’età moderna, tr. it. Marietti, Genova, 1992). Ho cercato di discutere la posizione di Blumenberg nel saggio «[0]La modernità come secondo (e definitivo) superamento della gnosi. Hans Blumenberg e la legittimità dell’età moderna», Dialegesthai, Rivista telematica di filosofia (ISSN 1128-5478), 2001. ↩︎
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Così il filosofo inglese Bertrand Russell. ↩︎
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G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. cit., p. 733. ↩︎
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Cfr. Repubblica, 533e; Menone, 80d-82b. ↩︎
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«Ora, chi prova un senso di dubbio e di meraviglia riconosce di non sapere; ed è per questo che anche colui che ama il mito è, in certo qual modo, filosofo: il mito, infatti, è costituito da un insieme di cose che destano meraviglia». Ma, «d’altra parte, il possesso di questa scienza deve porci in uno stato contrario a quello in cui eravamo all’inizio delle ricerche» (Aristotele, Metafisica, A 2, 982b, 17-19; 983a, 11-12 tr. Reale. Corsivi miei). ↩︎
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Cfr. ivi, E 1, dove Aristotele usa i termini philosophìa, epistème e diànoia (conoscenza) in modo pressoché equivalente. La preferenza accordata al termine di derivazione greca epistème non corrisponde ad alcun vezzo letterario, ma intende salvaguardare la possibilità di un uso non ambiguo del concetto rappresentato dalla parola, vale a dire della scienza, la quale, pur in una tonalità logica rimasta sostanzialmente identica, si è rivestita nel corso dei secoli di contenuti differenti ed in molti casi radicalmente incompatibili. Epistème perciò, e non solo scienza, per distinguere il tratto formale, che giustifica l’attribuzione ai sistemi scientifici di una valenza conoscitiva che li rende epistemologicamente corretti, dai contenuti particolari propri delle singole costruzioni scientifiche; parliamo così legittimamente di scienze (al plurale) ed inoltre di scienza antica, moderna, contemporanea, ancorché tra loro non sempre cumulabili e sostanzialmente giustapposte. ↩︎
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Il carattere di stabilità che deve possedere la filosofia, che per questo si costituisce a conoscenza più elevata di tutte, diventa pertanto requisito insostituibile. Scrive ancora Aristotele: «Colui che, in qualsiasi genere di cose, possiede la conoscenza più elevata, deve essere in grado di dire quali sono i principi più sicuri dell’oggetto di cui fa indagine; di conseguenza, anche colui che possiede la conoscenza degli esseri in quanto esseri, deve poter dire quali sono i principi più sicuri di tutti gli esseri. Costui è il filosofo» (Aristotele, Metafisica, G 3, 1005b 8-11). ↩︎
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In epistème ((tm)pist3/4mh) è infatti facilmente riconoscibile il tema dello stare (… stasqai)) — (tm)p…, a capo, in posizione dominante. ↩︎
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Cfr. ivi, A 2, 982b 22-25. ↩︎
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«La scienza e la potenza umana coincidono». Ed ancora: «I frutti, infatti, e le opere realizzate sono i garanti e i fideiussori della verità delle filosofie» (F. Bacone, Nuovo organo, tr. it. a cura di M. Marchetto, Bompiani, Milano, 2002, pp. 79. 137). ↩︎
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«Dichiarativi sono, però, non già tutti i discorsi, ma quelli in cui sussiste un’enunciazione vera oppure falsa. […] Prescindiamo dunque dagli altri discorsi, dal momento che l’indagine al riguardo è più pertinente alla retorica o alla poetica. Il discorso dichiarativo spetta invece alla presente considerazione» (Aristotele, Dell’espressione, 4, 17a, 1-6). Ha scritto Gadamer: «La riduzione dello status ontologico dell’esteticità sul piano dell’apparenza estetica trova quindi la sua radice teorica nel fatto che il dominio del modello conoscitivo delle scienze naturali conduce a screditare ogni possibilità di conoscenza che si collochi fuori di questo nuovo ambito metodologico» (H. -G. Gadamer, Verità e metodo, tr. it. Bompiani, Milano, 1983, p. 113). ↩︎
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Cfr. Genesi, 3. Non è del tutto fuori luogo richiamare che l’albero, il cui frutto ha costituito per l’uomo-Adamo l’occasione di disobbedienza al comando di Dio, ha nome albero della «conoscenza del bene e del male» (Gen. 2, 17). ↩︎
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tÕ (tm)p… stasqai, il sapere nel senso del conoscere proprio della scienza ((tm)pist3/4mh), che per Aristotele vengono perciò a coincidere. ↩︎
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Aristotele, Analitici secondi, I (A), 2, 71 b, 18-19 (tr. Colli). È interessante notare come Aristotele leghi strettamente il sapere scientifico al possesso teorico dei meccanismi ontologici svelati dal e nel sillogismo. ↩︎
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E Hegel, con la citazione del libro XII della Metafisica aristotelica posto a suggello dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche (tr. it., Laterza, Bari, 1973, vol. II, p. 529), mostra di riconoscere di tale eredità. ↩︎
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È questo il cuore della posizione di Emanuele Severino. (Cfr. La struttura necessaria e L’essenza del nichilismo). ↩︎
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Cfr. Crp, p. 75. ↩︎
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Cfr. Crp, p. 270-71. ↩︎
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In effetti, questo sembra essere il destino della scialuppa di salvataggio calata da Kant nella Critica della Ragion pratica. Se ne può vedere l’esito seguendo il dibattito postkantiano sulla religione vivente di fantasia e sulla positività della religione negli scritti giovanili di Hegel (tr. it. in G. W. F. Hegel, Scritti teologici giovanili, Guida, Napoli, 1972). ↩︎
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Non è un caso allora che l’etica kantiana si definisca proprio attraverso il rifiuto di ogni eteronomia e l’affermazione decisa dell’«autonomia della volontà come principio supremo» (Cfr. I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, tr. it. Rusconi, Milano, 1994, pp. 171 ss.). ↩︎
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Cfr. K. Marx, Differenza tra la filosofia di Democrito e quella di Epicuro, tr. it., Editori Riuniti, Roma, 1990, pp. 77. ↩︎
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È quanto accade nella stagione dell’ottimismo scientista di fine Ottocento. ↩︎
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Cfr. R. Carnap, Il superamento della metafisica attraverso l’analisi logica del linguaggio, tr. it. in AA. VV., Il neoempirismo, a cura di A. Pasquinelli, Utet, Torino, 1969, p. 531. ↩︎
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M. Horkheimer, T. W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, tr. it. Einaudi, Torino, 1976, p. 11. ↩︎
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Dato che anch’esso deve pur sempre in qualche modo fare i conti con la ragione. Quanto al detto hegeliano, in verità Hegel parla della vita come «unione di unione e di non-unione» (Frammento di sistema, tr. it. in G. W. F. Hegel, Scritti teologici giovanili, cit., vol. II, p. 475). ↩︎
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I. Kant, Crp., p. 63. ↩︎
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Ibidem. Per i diversi significati del termine nel lessico kantiano si veda H-J De Vleeschauwer, In quale prospettiva di svolgimento storico leggo oggi la Critica della Ragion pura, in Id., L’evoluzione del pensiero di Kant, tr. it., Laterza, Bari, 1976, pp. 215-236. ↩︎
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In Stecken gerät, come Kant preferisce dire, a partire dalla seconda edizione (Cfr. Crp., p. 39). ↩︎
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Ivi, p. 264. ↩︎
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Prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura (p. 46). ↩︎
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A bilanciare la lettura frequente di Kant quale razionalista è forse utile notare come la ragione sia spinta ad oltrepassare il campo dell’esperienza possibile da qualcosa di metarazionale, un «impulso» (Trieb). ↩︎
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Come sostiene Popper, la scienza avanza per congetture e continue confutazioni (Cfr. K. R. Popper, Congetture e confutazioni, Il Mulino, Bologna, 1976). ↩︎
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Cfr. Aristotele, Analitici secondi, I (A), 2, 71 b, 20-25. ↩︎
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«Sotto il governo della ragione, le nostre conoscenze in generale non possono costituire una rapsodia, ma un sistema; solo in questo, infatti, possono sostenere e promuovere i fini essenziali della ragione» (Kant, Crp., p. 623). ↩︎
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Ivi, p. 135. ↩︎
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«In effetti la molteplicità delle regole e l’unità dei principi rappresenta un’esigenza della ragione per condurre l’intelletto a una perfetta coerenza con se stesso» (Ivi, p. 309. — Corsivo mio). La preoccupazione della coerenza ritma un po’ tutta la parte finale della Critica. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 144-45. È uno dei tratti dell’aristotelismo kantiano, quello per cui non nel singolo concetto, ma solo nel giudizio è contenuta la verità o falsità della conoscenza. ↩︎
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Ivi, p. 531. ↩︎
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Ivi, p. 510. ↩︎
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Così inizia il capoverso che conclude la Dialettica trascendentale (Ivi, p. 543. Corsivo mio). ↩︎
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«In realtà è difficilmente comprensibile come possa esserci un principio logico della unità razionale delle regole, se non si presuppone un principio trascendentale mediante il quale tale unità sistematica sia assunta come necessaria a priori in quanto inerente agli oggetti» (Ivi, p. 513). ↩︎
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Kant la precisa meglio come «inferenza razionale» o «sillogismo» (Vernunftschluss) (cfr. ivi, p. 307). ↩︎
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Ivi, p. 324. ↩︎
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Ivi, p. 310. ↩︎
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Cfr. Aristotele, Fisica, VIII, 5, 256a 13-21. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, tr. it., Laterza, Bari, 1981. ↩︎
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Forse la scienza contemporanea vi ha rinunciato (cfr. il principio di indeterminatezza di Heisemberg), con ciò rinunciando però alla pretesa di assolutezza avanzata dall’epistème — è lo stesso Heisenberg a sostenere che «perciò non sarà mai possibile con la pura ragione pervenire a una qualche verità assoluta» (W. Heisenberg, Fisica e filosofia, tr. it., Il Saggiatore, Milano, 1966, p. 111) — e avvicinandosi molto di più di quanto si possa pensare, almeno nelle sue più generali teorizzazione, alle forme del pensiero poietico quali l’arte e la religione. Su una cosiffatta armonia svolge utili riflessioni il fisico americano Fritjof Capra nel suo Il Tao della fisica (tr. it., Adelphi, Milano, 1982). ↩︎
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Come mostrerà un secolo e mezzo dopo Kant il matematico austriaco Kurt Gödel. ↩︎
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«Il vero è il divenire di se stesso, il circolo che presuppone e ha all’inizio la propria fine come proprio fine, e che è reale solo mediante l’attuazione e la propria fine» (G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito, tr. it. cit., p. 69). ↩︎
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Questa sezione, che qui viene solamente enunciata nelle sue linee generali, troverà una più piena elaborazione ed una più esatta contestualizzazione in un lavoro su Parmenide. ↩︎
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Già Aristotele, negli Analitici posteriori, era giunto alla consapevolezza di quanto sopra ricordato: «dato che i principi risultano più evidenti delle dimostrazioni, […] i principi non saranno oggetto di scienza; e poiché non può sussistere nulla di più verace della scienza, se non l’intuizione, sarà invece l’intuizione ad avere a oggetto i principi. Tutto ciò risulta provato […] dal fatto che il principio della dimostrazione non è una dimostrazione: di conseguenza, neppure il principio della scienza risulterà una scienza. E allora, se oltre alla scienza non possediamo alcun altro genere di conoscenza verace, l’intuizione dovrà essere il principio della scienza» (Aristotele, Analitici posteriori, II (B), 19, 100b 9-13. Corsivo mio). ↩︎
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Potremmo osservare con Pascal che «il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce» (B. Pascal, Pensieri, tr. it., Mondatori, Milano, 1980, p. 153). La ragione non conosce la sola dimensione del pensiero logico-dimostrativo dell’epistème. ↩︎
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Cosa che non coincide necessariamente con relativismo. ↩︎
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Crp, p. 515. ↩︎
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Ivi, pp. 42-43. Che i principi cui Kant fa qui riferimento siano i principi a priori dell’intelletto, che questo trova entro sé, non costituisce obiezione essenziale, dal momento che, come sopra mostrato, proprio in detti principi si insinua il rimando all’incondizionato. ↩︎
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Sembra la più ricca, laddove in realtà è «la verità più astratta e più povera», argomenta non senza ragione Hegel nella Fenomenologia dello spirito (cit., p. 169). ↩︎
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E precario diventa anche il sostegno aristotelico dell’intuizione, che sull’evidenza del reale si fonda. ↩︎
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Non è senza significato il campo semantico del ridurre in possesso presente nei vocaboli che rendono il processo di conoscenza. Se ne può cogliere una traccia nella parentela linguistica tra il verbo latino capio (prendere), che forma la base verbale del termine italiano concetto (cum-ceptus: com-preso) ed il sostantivo latino captivus (prigioniero). Comprendere è perciò un prendere-tutto-assieme, un abbracciante catturare qualcosa nella sua totalità, che così viene messa a disposizione del soggetto conoscente. Il reale, che sovrasta con la sua imprevedibilità l’uomo, viene allora a sua volta dominato dal sapere comprensivo dell’uomo che, abbracciando l’oggetto, lo costringe nella rete concettuale da questi costruita. Simili affinità anche in tedesco: Begriff (concetto) è ciò che afferra, cattura (Griff, Zugriff). ↩︎
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È «la via sicura della scienza». ↩︎
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«La coscienza di questa legge fondamentale [della ragion pura pratica] può esser detta un fatto della ragione» (I. Kant, Critica della ragion pratica, tr. it. a cura di P. Chiodi in I. Kant, Critica della ragion pratica e altri scritti morali, Utet, Torino, 1970, p. 168). ↩︎
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Ivi, p. 280. ↩︎
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«Procedendo in tal modo la ragione speculativa ci ha almeno preparato un posto libero per questo ampliamento, anche se ha dovuto lasciarlo vuoto; noi siamo così autorizzati, anzi, siamo da essa invitati ad occuparlo, qualora ci sia possibile, per mezzo di dati pratici» (Crp, p. 47). ↩︎
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«Il cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me» è l’epitaffio che Kant ha voluto sulla sua tomba. Ancora una volta, una congiunzione a far problema! ↩︎
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Cosa che trasformerebbe la ragione in un intelletto dall’uso iperfisico, con l’inevitabile corredo di illusioni metafisiche. ↩︎
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Kant voleva essere il Newton della filosofia (Cfr. A. Guerra, Introduzione a Kant, Laterza, Bari, 1980, p. 8). ↩︎
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Cfr. G. W. F. Hegel, Fenomenologia, cit., p. 799. ↩︎
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La lingua italiana consente di recuperare ancora la tipicità dell’esperienza vitale racchiusa nella parola sapere e di distinguerla dal campo semantico del conoscere e della scienza. Nella sua forma verbale, sapere è tanto acquisizione di quadri concettuali ben stabiliti nella logica della definizione (come nella frase: «lo so»), quanto riconoscimento metalogico di quel tratto proprio che rivela l’oggetto («questo cibo sa di…»); meglio ancora, è atteggiamento cognitivo in quanto coglimento istantaneo del reale nella sua collocazione di senso. Sapere è sapore. ↩︎
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La radice della parola sophìa, si ritrova pressoché intatta nel latino sapientia e nell’italiano sapienza, sapere (v. nota precedente). Si osservi che la radice di conoscenza è invece la gno di gnòsis — gignòsko -cognosco. Ho cercato di sviluppare questa lettura in Il silenzio dell’intelligenza che ascolta in E. Baccarini (cur.), Il pensiero nomade. Per una antropologia planetaria, Cittadella Editrice, Assisi, 1994, pp. 49-75. ↩︎
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Come spesso sembrano fare quelle difese d’ufficio del lavoro filosofico che intendono negare ogni valenza alla conoscenza scientifica. ↩︎
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La Critica della ragion pura resta in ogni caso un punto di non ritorno. Il ragionamento qui svolto non deve perciò venire inteso come un rinnovato tentativo, adattato ai nuovi tempi, di fondare la scienza sulla metafisica. Non si tratta di fare di Dio l’oggetto della prima proposizione scientifica. Quello che ho cercato di mostrare è che la ragione nell’assetto epistemico custodisce essa stessa, sia pure in una maniera latente, il rimando alla sfera della non-oggettività, il cui accesso le è consentito solo adottando una differente strategia di relazione e comunicazione. Per questo aspetto, la ragione rivela una struttura fiduciale. La scienza contemporanea, per conto suo, ha saputo trovare i motivi della sua credibilità, pur rinunciando alla pretesa di valere come esperienza che si distende nei registri dell’assolutezza. ↩︎
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Dove il metro per misurare la differenza o la distanza è inevitabilmente la ragione modulata secondo le richieste dell’epistème. Il circolo così si chiude facilmente; ma poi, forse, la comprensione piena del reale sfugge. ↩︎
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Cfr. supra, nota 33. ↩︎
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Parlo qui del sapere, nella sua differenza dal conoscere, come sopra precisato. ↩︎
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Cfr. M. Heidegger, La dottrina platonica della verità, tr. it. in Segnavia, Adelphi, Milano, 1987, pp. 159-192. ↩︎
-
La Bibbia narra che, a fronte della richiesta di Mosè di vedere la Gloria di Dio, Jahvè risponda: «Tu starai sopra la rupe: quando passerà la mia Gloria, io ti porrò nella cavità della rupe e ti coprirò con la mano finché sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non lo si può vedere» (Esodo, 33, 22-23). ↩︎
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«Qual è il concetto di rivelazione, che domina l’epoca moderna? La risposta a questo interrogativo rinvia al predominio esercitato nella teologia della modernità dalla categoria espressa dalla parola tedesca Offenbarung; questo termine impostosi con la lingua di Lutero, sta a dire l’atto del portare all’aperto il precedentemente nascosto. Esso privilegia uno solo dei due sensi, dialetticamente contenuti nella parola latina re-velatio (e presenti entrambi — in perfetta analogia — anche nel termine greco apò-kalupsis): fra il coglimento del velo (re-velare inteso come l’atto di abolire la coperta) e il suo infittirsi (re-velare inteso come un più fitto velare), è il primo significato che domina nella concezione della Offenbarung e nell’esegesi che di essa fa il pensiero moderno. Colui che ha spinto questa esegesi fino alle sue conseguenze estreme è Hegel, il testimone della Offenbarung nella sua forma più pura; colui che ne ha mostrato la radicale incompiutezza, fino a determinare una vera e propria rottura epistemologica all’interno dell’idea, è il tardo Schelling. Fra i due si consuma la parabola del trionfo e della crisi della Offenbarung, che tanta parte avrà nella vicenda della nascita, dello sviluppo e delle aporie dell’ideologia moderna.» (B. Forte, In ascolto dell’Altro. Filosofia e rivelazione, Morcelliana, Brescia, 1995, p. 18). ↩︎
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Come è noto, le formule dell’epistème, scientifica o filosofica che sia, adottano nelle loro espressioni una sorta di presente intemporale. ↩︎
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Sebbene possibile. Ma allora, come nel caso di Nietzsche, andrà interrogata la metafisica sottesa circa la sua capacità di resistere al richiamo della sirena dell’assolutezza, sia pure di un assoluto in forma negativa. ↩︎
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La parola di verità rivelata dalla Dea nel Poema di Parmenide è màqoj; questo la Dea invita Parmenide ad ascoltare attentamente (fr. 2, 1). Solo più avanti, una volta stabilita la validità della via «che è», la Dea inviterà Parmenide ad giudicare con la sua ragione la necessità della stessa (fr. 7, 5). ↩︎
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Vedi la recente Mythos-Debatte (Cfr. Il ritorno del mito nella società e nella cultura del Novecento. Numero monografico della rivista di critica filosofica Paradigmi, XIII, n. 39, sett-dic. 1995). ↩︎
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Generalmente noàj-noein sono tradotti in maniera semplificata come pensare. Più che di un pensare, come elaborazione intellettuale di dati, si tratta in verità di un accogliere in una posizione di attesa ed ascolto la gratuità della verità che si rivela. Come Gadamer opportunamente richiama, di tale esperienza è rimasta traccia nel verbo annusare, che indica precisamente l’immediato aprirsi per la ragione di una situazione problematica. (cfr. supra, n. 8) ↩︎
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Cfr. Platone, Simposio, 201d — 204c. ↩︎