1. Il carattere dinamico della dottrina eriugeniana delle cause primordiali
Espressione, e forse frutto più maturo, della rinascita culturale iniziata da Carlo Magno, riflesso di un ampio programma di unificazione politica che ben si conciliava con le aspirazioni e gli interessi della Chiesa all’unità,1 Giovanni Scoto Eriugena,[^2] intellettuale alla corte di Carlo il Calvo e probabilmente maestro di arti liberali, si caratterizza sia per la sagace conoscenza della dialettica e sia per la sua ampia attività di traduttore dal greco. Il Corpus dionysianum, per esempio, ha avuto la sua diffusione nella scolastica grazie alla traduzione fatta da Giovanni Scoto, un’operazione ermeneutica che ha arricchito il vocabolario filosofico in lingua latina introducendo l’innovativo e difficile linguaggio dionisiano. Il confronto dell’Eriugena con i greci non è limitato, però, solamente allo Pseudo-Dionigi. Esso si muove da Gregorio di Nissa, ad Origene, a Massimo il Confessore, una linea quindi marcatamente platonica sostenuta anche dalla sua preferenza tra gli autori latini per Agostino, il più citato in assoluto dall’Eriugena.2 Il platonismo di Giovanni Scoto non può essere considerato, però, solo come il momento di una continuità, cosa per altro che può essere ritenuta ovvia perlomeno fino alla riscoperta di Aristotele nel XIII secolo. Il platonismo dell’Eriugena è piuttosto quello di un «latino grecizzante», volendo indicare con quest’espressione il fatto che l’Eriugena è un latino inserito nella tradizione agostiniana, ma che si riporta alle fonti e agli autori del platonismo greco, ne assume risvolti diversi da quelli che ormai erano consolidati e ne segue forse anche gli esiti.
L’originalità del pensiero di Scoto Eriugena non è passata inosservata neanche ai suoi contemporanei, come dimostrano le reazioni suscitate dall’intervento di Giovanni Scoto nella controversia, esplosa con le tesi di Gotescalco d’Orbais, sulla predestinazione.[^4] La prospettiva eriugeniana è una visione totalizzante della realtà di cui l’ordine logico tesse la struttura, ordine che è anche la manifestazione ontologica della razionalità divina; una concezione in cui la coincidenza dei due piani, logico e ontologico, e delle loro rispettive verità, conduce alla sintesi della totalità e dell’universitas. Figlio di una terra in cui la dialettica era una disciplina insegnata con ogni probabilità ai giovani fin dalla tenera età,[^5] — nato probabilmente in Irlanda, oppure in Scozia, una zona geografica che può essere considerata una fucina di quegli intellettuali che saranno tra i promotori della rinascita carolingia —, Giovanni Scoto non si sottrae così alla tentazione di vedere nell’intero universo il dispiegarsi della logica e della ratio divina il cui riflesso è nell’attività raziocinante dell’uomo. In questo modo l’uomo ha la possibilità di decifrare l’intero universo, basta appropriarsi del giusto modo di ragionare.
In questo dispiegarsi totalizzante, in cui la volontà divina si identifica con la perfetta conoscenza, non è sufficiente padroneggiare le regole della logica per impadronirsi, conoscendo, delle manifestazioni dell’assoluto consegnate al reale, anzi come per Agostino anche per Scoto Eriugena la dinamica del pensiero che riflette si articola in una prospettiva adeguatamente sintetizzata dal versetto di Isaia, citato nella versione della vetus latina: «Nisi crediteritis non intelligetis». Con Giovanni Scoto, però, la fede sembra ridursi al solo momento iniziatico in un universo teofanico, di cui fonti di conoscenza sono la Scriptura e la natura.3 Si ha l’impressione di essere di fronte ad un quadro molto simile a quello di una gnosi, in cui basta condividere l’iniziale presupposto e tutto trova la sua logica e la sua spiegazione perfino le tematiche dell’incarnazione e della salvezza. Tutto è spiegato e compreso, basta credere e si potrà capire le più insignificanti manifestazioni dell’assoluto; si potrà anche ricondurre alla fine la stessa «valle della storia» all’imponente «montagna della teologia».4 Una concezione speculativa che riposa sull’adagio agostiniano del De vera religione per il quale la vera religione è la vera filosofia e viceversa.5
Tra i tanti motivi di interesse che suscita Giovanni Scoto, c’è senz’altro il fascino di una concezione filosofico-teologica che rassomiglia molto ad un viaggio iniziatico, in cui bisogna condividere i presupposti o, meglio, il presupposto iniziale, per poi addentrarsi verso il sapere.Ciò che rende, però, ancora più affascinante la prospettiva di Giovanni Scoto è il carattere propriamente apofatico del suo pensiero: nonostante il fatto che l’ordine universale è fondato dalla perfetta ratio, il fondamento ultimo resta al di là dell’essere e della dicibilità; nonostante attinga a piene mani e continuamente alle fonti agostiniane pregnanti di metafisica dell’essere, Giovanni Scoto è molto più discepolo di Dionigi l’Areopagita e tramite questi della tradizione neoplatonica6 di teologia negativa, con cui può sostenere che Dio non può essere espresso che sotto forma di ossimoro in cui la coincidenza degli opposti cerca di esprimere l’inesprimibile: «de causa omnium non absurde possunt proferri, non ut proprie significent, quid ipsa sit, sed ut translative quid de ea nobis quodammodo eam inquirentibus probabiliter cogitandum est, suadeant».[^10] Lì dove la dialettica non può arrivare, poiché risolverebbe ciò che è al di là dell’essere nell’essere, può arrivare il linguaggio apofatico, il linguaggio mistico e poetico. È significativa questa forma di contraddizione nel sistema di Giovanni Scoto in cui la logica e la ratio dispiegano l’universo nella sua struttura più intima, mentre il fondamento assoluto è al di là di ogni possibile riferimento alla stessa ratio.[^11]
È, dunque, a partire dal fascino di questa concezione, mirabilmente sostenuta dai preziosismi del latino di Giovanni Scoto, che in questo studio, ben sapendo della vastità del tema e pertanto con la consapevolezza del limite del contributo, si tenterà di offrire alcune osservazioni proprio sul tema dell’apophasis e del discorso su Dio. Tra la produzione eriugeniana, una particolare attenzione è stata data ai due testi sul IV Vangelo, precisamente al Commentario, interrotto forse dalla morte dell’autore, e all’Omelia sul Prologo e ciò non solo perché i testi più specificamente di esegesi biblica non rappresentano una produzione di minore spessore filosofico in confronto con le opere dal carattere più sistematico, anzi, al contrario, la spiccata attitudine all’interpretazione dei testi sia biblici che filosofici, fonti del sapere universale, tipica dell’erudito e del pensatore altomedievale e medievale in generale, sostiene continuamente la riflessione più strettamente speculativa; ma anche perché la nozione di Verbum del prologo con tutte le suggestioni che evoca e le tematiche legate al vangelo giovanneo conducono, da sempre, il pensiero verso la riflessione sull’assoluto, alla speculazione trinitaria, all’esame del rapporto tra il principio e gli enti.[^12]
La nozione principale dell’intero sistema eriugeniano è quella di natura, il genere sommo, la categoria ultima del linguaggio in cui l’intera realtà si esaurisce: nel Periphyseon, noto anche come De divisione naturae, il maestro, intento a determinare l’ordo ratiocinationis, decide di iniziare dalla prima e fondamentale delle divisioni della natura, quella che si stabilisce tra «le cose che sono e le cose che non sono».7 La nozione di natura è dunque ciò che comprende il tutto: l’essere e il non essere, rievocando in tal modo le aporie del Parmenide di Platone e la posizione plotiniana sull’Uno. La natura diviene così l’unica definizione adeguata nell’ambito linguistico in grado di dire ciò che in sé non si lascia definire:
Se nella prospettiva del platonismo altomedievale la logica tende a coincidere con l’ontologia, nel momento in cui il fondamento stesso della realtà, la divinità inaccessibile al linguaggio, al di sopra di ogni determinazione, entra nel campo linguistico e diviene oggetto di discorso, si definisce come natura, principio di generazione-manifestazione nell’ordine del determinato, del definito e del definibile.8
Il limite è pertanto quello del linguaggio umano condizionato dalle sue leggi: linguaggio che, tuttavia, appare, tra la molteplicità delle teofanie che si dà nella realtà del sensibile, la teofania in grado di esprimere il limite stesso e la superiorità dell’intelletto della divinità rispetto al conosciuto.
Che il divino in sé non possa essere definito ma espresso solo in termini contrastanti, attinti ad un’ampia tradizione di platonismo, in cui il senso metaforico delle espressioni[^15] mostra l’unica possibilità del linguaggio di dire l’indicibile, mentre ad un livello dialettico che risulta così già immediatamente inferiore si possa affermare la logica nella sua coincidenza con l’ontologia, tale da configurarsi struttura riflessa nella realtà,9 è affermato fin dalle prime pagine del Periphyseon proprio nello stabilire l’ordo ratiocinationis. Fin dall’inizio della sua principale opera, l’Eriugena utilizza frequentemente alcuni termini come arcanum, mysterium, secretum, espressioni che si richiamano non solo ad una tradizione cristiana, ma anche ad una pagana e più specificamente nel caso dell’Eriugena a Marciano Capella e alla sua opera De nuptiis Mercurii et philologiae, di cui Giovanni Scoto fece un commento.[^17] Se quindi il divino non può essere detto che come il nascosto, il misterioso, la tenebra,10 nella comprensione logica che si ha di lui risulta come la natura che crea e non è creata, il primo stadio della creazione teofanica secondo lo schema della processio, la prohodos neoplatonica. Ma anche questo primo stadio della natura che crea e non è creata è ridimensionato con il metodo apofatico per il quale ogni categoria, compresa quella di relazione è inadeguata per cogliere l’autentica nozione di Dio.
Il secondo stadio della processio corrisponde alla natura che crea ed è creata: è qui che ha inizio la vera e propria creazione teofanica con la creazione nel Verbum divino delle causae primordiales, paradigmi ontologici, realtà che sono generate con la generazione del Verbum e che costituiscono il momento dell’apparire dell’essere. Ne deriva una concezione dell’essere immersa nel non essere della divinità, o meglio della divinità che è al di là dell’essere, ma che tuttavia dà e contiene l’essere stesso.
Si potrebbe chiedere, già a questo punto, se le causae primordiales non siano, in fondo, delle realtà ontologiche pensabili come delle essenze in grado però di agire, di costituirsi come la potentia divina che crea: sembra, infatti, che la stessa dinamica tra l’essere e il fare richieda il ricorso alle cause primordiali, se davvero si tratta, in definitiva, di spiegare il momento creativo conciliando l’unità di Dio con la molteplicità delle creature senza però introdurre un Nous che per il suo stesso fare è necessariamente inferiore all’Uno. È così che Giovanni Scoto ricorre non più a delle idee, modelli perfetti nella mente divina in relazione alle quali Dio ha creato il mondo, ma a delle cause, che sono, quindi, realtà agenti per il cui tramite è prodotta la molteplicità.
Ci avviciniamo così al carattere dinamico della dottrina eriugeniana delle cause primordiali: esse infatti non costituiscono solo l’ineffabile unità del pensiero divino, non sono solo create, ma creant, in quanto, erompendo molteplici dalla semplicità del Verbo, «manifestano» la natura di Dio e costituiscono la struttura del reale sensibile. La creatio è infatti per l’Eriugena una manifestatio o theophania: le cause primordiali si fanno molteplici riflessi dell’unica luce divina, e Dio, loro tramite, diviene tutto in tutti: «erumpens in omnia visibiliter».11
Tali cause primordiali sono il frutto dell’intellezione divina e in sé non sono che un’unica essenza semplice la quale nella produzione degli effetti si manifesta molteplice dando così origine al movimento della processio e al consequenziale rapporto di partecipazione tra realtà sensibile e cause:
Primordiales causae, dum in principio omnium, in Verbo videlicet Dei unigenito, substitutae intelliguntur, unum simplex atque individuum sunt, dum vero in effectus suos in infinitum multiplicatos procedunt, numerosam ordinatamque sui pluralitatem recipiunt.12
Risultato della processio è la natura che non crea ed è creata, il momento della dispersione nello spazio e nel tempo,[^21] in definitiva il mondo della molteplicità. Questo continuo abbassamento della natura costituisce il momento dell’exitus, al quale, secondo lo schema neoplatonico, fa seguito il momento dell’epistrophé, della conversio alla causa primordiale. Tale ritorno è inserito nella prospettiva cristiana della redenzione per mezzo del Cristo.[^22] È quest’ultimo che consente il ritorno non solo dell’uomo, ma, in quanto l’uomo è ricapitolazione di tutto l’universo, di tutto il creato.13 L’Eriugena recupera in questo modo la concezione dell’uomo cosmico e sulla scia del De hominis opificio di Gregorio di Nissa e gli Ambigua di Massimo il Confessore concepisce una stretta solidarietà tra il peccato di Adamo e la creazione del mondo fisico, conseguenza proprio del peccato, ma anche il luogo della liberazione, attribuendo appunto all’uomo una posizione privilegiata in conseguenza del suo essere fatto ad immagine di Dio:
L’uomo possiede la sua posizione «centrale» mediatrice già nell’universo ideale, meta-fisico eriugeniano: ne è la medietas, la conclusio in quanto «omnium officina» secondo l’espressione di Massimo, e in questo senso Scoto interpreta il racconto genesiaco: sicché se la creazione dell’uomo è narrata in fine,ciò è per significare che in lui tutto si riassume, e non vuole affatto indicare che l’uomo sia ultimo nell’ordine del creato; anzi «nulla creatura vel visibilis vel invisibilis conditionem hominis praecedit, non loco, non tempore, non dignitate, non origine, non aeternitate et simpliciter nullo processionis modo». Siamo evidentemente nell’ambito della creazione concepita come eterna posizione del mondo ideale, metafisico, delle «cause primordiali».14
Termine ultimo della reversio è la natura che non crea e non è creata, Dio, di nuovo, ma come fine di tutta la creazione teofanica. L’insieme completo delle realtà viene così ricomposto nell’unità divina in cui non c’è posto per alcuna forma di male, ossia di quel carattere frammentario e individuale, refrattario all’armonia che fonda la totalità:
Nella finale apokatástasis ispirata alla dottrina di Origene, una identica sorte sarà riservata ai buoni e ai malvagi, che conserveranno tuttavia una propria coscienza e un’infelicità del male commesso. La stessa malvagità, in apparenza assoluta, dei demoni, sarà reintegrata nella totalità perfetta, in cui la creazione torna a coincidere con il modello eterno, prodotto dalla conoscenza creatrice di Dio, dove del resto da tutta l’eternità tutte le cose realmente sussistono.15
2. Il processo teofanico e la duplice forma di rivelazione
Se quindi il processo teofanico della creazione si sviluppa attraverso quattro livelli, in cui la nozione di natura è la più onnicomprensiva,ciò che definisce propriamente l’attività creativa di Dio è il fare. Anzi, di più, quando Giovanni Scoto si riferisce in modo esplicito al fare divino, non esita ad identificarlo con l’essere. L’essere e il fare in Dio coincidono: «Non ergo aliud est Deo esse, et aliud facere, sed ei esse id ipsum est et facere».16 L’identificazione dell’essere con il fare in Dio è qualcosa che caratterizza anche il pensiero agostiniano e tanto più quello tomista: se, infatti, l’essere è tale per essenza tutto ciò che si può predicare di un tale essere coincide con l’essere stesso. In Giovanni Scoto l’apparenza potrebbe ingannare: il momento proprio dell’essere, infatti, appare solo al secondo livello, il momento della creazione, in cui il pensare di Dio è un fare e un far essere, per cui la creazione stessa risulta necessaria a Dio in quanto Dio non può non pensare. È per questo che nonostante le cause primordiali siano inferiori ontologicamente al Verbo gli sono pur sempre coeterne.17 L’essere in questo senso assume il carattere dell’essenza del fare, essenza da intendere come ciò che di più intimo costituisce una realtà. È una concezione, questa di Giovanni Scoto, fortemente dinamica, in cui l’essere è l’essere creato in quanto fatto e l’essere è tale perché è il fare divino, che nella sua essenza non si identifica con l’essere stesso e quindi con il suo fare, ma che si mostra tale solo nella produzione delle realtà create.
Nel commento al vangelo di Giovanni, Scoto Eriugena mette in risalto la dinamica creativa ricorrendo all’immagine della visione per mezzo della quale appunto la Sapienza divina, che ha visto tutte le cose prima che fossero fatte, crea, anzi la stessa visione della sapienza è la sostanza delle cose create: «Ipse [il Cristo] est enim sapientia quae nec fallit nec fallitur. Ipse est visio quae omnia, priusquam fierent, vidit; et ipsa visio substantia est eorum quae visa sunt».18
L’essere quindi è un darsi di Dio, un oggettivarsi nella sua creazione senza che questa possa esaurirne l’essenza che resta al di là dell’essere. Si comprende così perché le creature sono delle teofanie: esse sono delle realtà, ma in quanto oggettivazioni di Dio esse sono anche simboli che rimandano al loro principio. Un universo di teofanie che in ultima analisi lascia emergere l’«ambiguità» di un certo platonismo che vede nel mondo sensibile una realtà da fuggire e al tempo stesso la manifestazione dell’intelligibile:
È la stessa ambiguità che regge il concetto di creatura come theophania: realtà in quanto opera di Dio e insieme simbolo che ha valore solo in quanto «manifestazione» dell’eterno. Le creature trovano il loro statuto ontologico proprio nel significare una realtà più profonda che, «emergendo» dalla sua ineffabilità, si realizza in esse; la lettura «simbolica» dell’universo diviene l’unico modo per cogliere il suo esser vero. È, nella sua radice, l’ambiguità di ogni platonismo che vede il mondo sensibile come allontanamento dall’intelligibile, caduta e male, e insieme momento per risalire all’idea in esso partecipata; mondo di ombre fallaci dal quale si deve fuggire e insieme — secondo un motivo che risale al Timeo — manifestazione e quasi «incarnazione» dell’intelligibile che si potrà raggiungere solo attraverso una contemplazione «religiosa» dell’universo.19
Per la prospettiva eriugeniana, rilevante è la distinzione tra ciò che è in quanto esiste e ciò che è in quanto essenza. La realtà superiore per l’Eriugena non è l’esistenza, ma in linea con il platonismo è piuttosto l’essenza, di cui nulla si può dire quando si tratta di realtà intelligibili come l’anima e maggiormente di Dio. Di tali realtà si può sapere, dalla considerazione dei loro effetti, che esistono, ma non che cosa esse siano:
Ille enarravit. Unigenitus itaque filius deum narravit, hoc est, in seipso manifestavit, non in quantum divinitas eius, quae omnino invisibilis est, sed in quantum humanitas quam, ut seipsum et patrem suum necnon et spiritum sanctum suum hominibus manifestaret et angelis, accepit. Nam humana anima, dum per seipsam invisibilis sit, per motus suos corporeos, non quid sit, sed quia sit, manifestat.[^30]
È interessante notare in questo passo il legame che Giovanni Scoto stabilisce tra il Verbo e l’anima, entrambi realtà spirituali — di cui appunto si può cogliere il quia sit, non il quid sit — conosciute attraverso manifestazioni: il Verbo ha rivelato Dio alla totalità delle creature, sensibili ed intelligibili, mostrandosi in forma umana e nella sua manifestazione è dovuto ricorrere ad un’ulteriore manifestazione, propria dell’uomo, ossia alla narrazione.
La distinzione tra il quia sit e il quid sit, che consente all’Eriugena di sostenere che di realtà spirituali si può conoscere solo la loro esistenza, mentre l’essenza resta sempre e di fatto ignota,20 si combina con un fondamentale presupposto della gnoseologia eriugeniana, per il quale la nozione di infinito si forma a partire dall’infinito anche nelle menti più pure[^32] grazie ad un processo di ascesi le cui ultime tappe sono: filosofia pratica; contemplazione (theoria) naturale e infine scienza teologica.[^33] Sennonché, a differenza, per esempio, di una prospettiva come quella di Agostino o di Tommaso d’Aquino, in cui l’essere infinito risulta inesauribile e quindi non dominabile e circoscrivibile concettualmente, ma di cui si può pur sempre dire qualcosa, l’infinito dell’Eriugena non può essere affatto conosciuto, anzi rimane avvolto dall’oscurità.21
Il risultato primo del fare divino nel Verbo non si configura secondo la dispersione del molteplice, cosa che avviene nel processo discendente ad un livello inferiore. Il modo di sussistenza delle cause nel Verbo è, infatti, l’unità:
Conspicare quomodo omnium rerum, quas mundi huius sensibilis globositas comprehendit, causae simul et uniformiter in isto sole, qui maximum mundi luminare voxitatur, subsistunt. Inde namque formae omnium corporum procedunt, inde distantium colorum pulchritudo et caetera quae de sensibili natura praedicari possunt.22
Come, quindi, nel sole è presente la vita di ogni cosa sensibile e dall’unità che esse hanno nel sole procedono le molteplici forme corporee, così è delle cause primordiali raccolte in unità nel Verbo e da cui scaturiscono le realtà sensibili. È come un unico punto in cui sussistono infinite rette: «Intuere interioribus oculis quomodo multiplices regulae in arte artificis unum sunt, et in animo disponentis eas vivunt, quomodo infinitus linearum numerus in uno puncto unum subsistit».23
In questo modo, però, si deve riconoscere un’identificazione tra l’essere delle cause primordiali e l’essere del Verbo. La possibilità di tale interpretazione sembra confermata dalla considerazione della nozione di vita nell’Omelia sul Prologo di Giovanni. Infatti, subito dopo che ha sostenuto che ciò che è fatto nel Verbo è vita, Giovanni Scoto non esita a riconoscere nella vita stessa il Verbo; anzi, più precisamente il Verbo è la vita: Et vita erat lux hominum, per cui Giovanni Scoto può considerare la vita e la luce come un ulteriore denominazione del Verbo:
Verbum siquidem dei filium nominasti, quia per ipsum locutus est pater omnia: «Quoniam ipse dixit et facta sunt»; lucem vero et vitam, quoniam idem filius lux est et vita omnium quae per ipsum facta sunt.24
Il ragionamento dell’Eriugena cerca di mostrare come il fondamento delle cause primordiali, il Verbo, sia, proprio perché fondamento,ciò che in definitiva manifesta se stesso, anzitutto per sé e per il Padre che gli è, detto con il linguaggio eriugeniano di chiara matrice greca, coessenziale nella distinzione delle sostanze, e poi al mondo, al quale si rivela in due forme diverse: attraverso la Scrittura e attraverso la creatura. È il processo teofanico che implica e richiede questa duplice forma di rivelazione; processo che si poggia sul rapporto di partecipazione proprio del platonismo e per il quale la realtà sensibile non sprofonda nel nulla in quanto il fondamento stesso, l’intelligibile del platonismo, la sostiene.[^38]
Il pensiero di Giovanni Scoto sulla nozione di vita sembra mostrare anche la difficoltà di pensare un processo trinitario che si configuri come superessentialis congiutamente ad un mondo la cui struttura corrisponde alle regole della dialettica: in fondo l’alternativa è oscillante tra la possibilità di individuare una sospensione, nella divinità, della logica, un paradosso che va comunque riconosciuto ed accettato senza per giunta poterlo risolvere, ma solo esprimerlo con il linguaggio metaforico dell’ossimoro o con l’utilizzo dei prefissi come super- e trans-;25 oppure ammettere in fondo l’impossibilità di mantenere una coerenza nel sistema di Giovanni Scoto come giustamente sospetta la Cristiani:
Se il modello produttivo eriugeniano è quello della pura attività intellettuale, a partire da un cognoscere che si identifica immediatamente con il facere, possiamo tentare di comprendere il senso delle affermazioni eriugeniane per cui l’esse in Deo equivale in qualche modo all’esse Deus, per cui le cause contenute nel Verbo sono il Verbo, nonostante le affermazioni esplicite di trascendenza del principio senza principio (ánarchos), rispetto alle cause create. L’universo, nella totalità e perfezione delle cause primordiali, «è» il Verbo, «è» Dio, perché l’essere creatore include necessariamente la relazione al creato; mentre, inversamente, la relazione del mondo al Verbo è quella dell’oggetto-linguaggio, che non esaurisce mai l’infinità del significante, la trascendenza dell’intelletto che in esso si esprime: «Il creatore e la sua creazione […] sono tuttavia necessariamente relativi e simultanei, perché il creatore senza creazione non è creatore, e la creazione senza creatore non è creazione».26
3. La dinamica del Verbo divino a partire dalla distinzione tra la vox e il Verbum
Uno dei cardini su cui poggia l’intero edificio eriugeniano è la generazione da parte del Padre dell’unico suo Verbo e con esso delle cause primordiali, coeterne, ma, secondo le esplicite affermazioni dell’Eriugena, non coessenziali allo stesso Verbo. La difficoltà della riflessione di Giovanni Scoto, poco sopra messa in luce, sembra che debba essere fatta risalire all’aver inserito le acquisizioni della riflessione agostiniana sul linguaggio in una prospettiva la cui ultima parola è data dalla teologia apofatica: il risultato di tale operazione forse è il segno più evidente di una crisi dell’ontologia nella meditazione trinitaria, crisi, più precisamente, della comprensione della realtà nel suo assoluto fondamento all’interno dell’orizzonte dell’essere.27 Se infatti, il dire del Padre per Agostino è il dire se stesso in modo che il detto sia della sua stessa sostanza e si configuri in quanto detto come essere, in modo che anche il dicente deve essere compreso come essere, per Giovanni Scoto tale ragionamento raggiunge il paradosso: il Padre dice se stesso, ma la sua essenza è totalmente inesprimibile.
In realtà Giovanni Scoto spinge la dinamica trinitaria all’estremo: il momento del proferire di Dio è totalmente compreso come intelligere e ogni riferimento al Verbum sembra diventare equivoco in quanto non conduce, né potrebbe condurre neanche per mezzo di una pallida similitudine, ad una forma di comprensione della trinità. Il sistema eriugeniano sembra così cadere nella contraddizione di chi rifiutando di comprendere Dio come essere voglia poi spiegare il dogma trinitario ricorrendo alla riflessione psicologica di Agostino. L’Eriugena, infatti, non esita a spiegare la dinamica del Verbo divino partendo dalla distinzione agostiniana tra la Parola di Dio e le parole umane che diviene nel suo pensiero la distanza tra la vox e il Verbum, di cui il primo termine esprime il linguaggio umano nel suo articolarsi nel tempo, disperso nella molteplicità; il secondo invece è la superessenza uguale al Padre eternamente ed immutabilmente generato dal Padre, fondamento e conservazione nell’essere dell’universo creato:
[…] in universitate condita verbum lux erat, id est subsistit et semper erat, quia numquam in omnibus subsistere desistit. Ut enim qui loquitur, dum loqui cessat, vox eius esse desinit et evanescit, sic caelestis pater, si verbum suum loqui cessaverit, effectus verbi, hoc est, universitas condita non subsistet. Universitatis namque conditae substitutio est et permansio dei patris locutio, hoc est, aeterna et incommutabilis sui verbi generatio.28
La distanza tra la vox e il Verbum è raffigurata nell’esegesi dell’Eriugena dalla figura di Giovanni il Battista, la cui voce è quella stessa del Verbo che grida, cioè del Verbo che predica se stesso attraverso la carne: «[…] qui post venit; ut segregaret vocem transeuntem a verbo semper et incommutabiliter manente […]»;29 l’uomo Giovanni il Battista è pertanto il precursore, proprio per indicare la distanza che sussiste tra la voce umana e il Verbo divino. Ma la voce umana diviene, se sostenuta dalla grazia, la voce dello stesso verbo, non solo come è già di per se stessa, dato che ogni frammento di realtà, anche il più insignificante riflette la luce del Verbo, bensì dando la voce al Verbo ed essendo in questo modo voce del Verbo: «Itaque ego sum vox, non mea vox, sed clamantis vox. Vox enim relative dicitur. Clamantis igitur verbi, hoc est, per carnem praedicantis vox est Iohannes».30
Anche in questo caso la riflessione di Scoto Eriugena sembra essere in linea con quella agostiniana, una caratteristica che emerge particolarmente nella comprensione del rapporto tra la voce e l’anima:
Sed cur vocis appellatione praecursor verbi significatur, non immerito quaeritur. Est igitur vox interpres animi. Omne enim, quod intra semetipsum prius animus et cogitat et ordinat invisibiliter, per vocem in sensus audientium sensibiliter profert. Animus itaque, id est intellectus omnium, dei filius est. Ipse est enim, ut sanctus Augustinus, intellectus omnium, immo omnia.31
Posizione quest’ultima che non è affatto in contrasto con un altro passo del commentario a Giovanni in cui l’Eriugena scrive a proposito del Battista: «Vox vocatur quia, sicut vox praecedit mentis conceptum, ita Iohannes praecessit dei verbum»,32 poiché qui non è in discussione il rapporto Verbum-vox come potrebbe sembrare, piuttosto la dinamica di colui che parla e di colui che ascolta, come giustamente ha notato il Jeauneau:
Pour communiquer sa pensée, l’orateur doit d’abord parler. Ainsi, la voix de l’orateur précède, dans le temps, le concept qui se forme dans l’esprit de l’auditeur. Il n’y a pas de contradiction entre ce qui est affirmé ici et ce qui a été dit plus haut.33
Il riferimento è al brano che poco sopra abbiamo citato e che si chiude con la citazione da parte di Scoto Eriugena di Agostino. La direzione agostiniana fatta propria dall’Eriugena assume, come già detto, nella riflessione di Giovanni Scoto un carattere del tutto originale: il Padre, infatti, genera il Verbo della sua stessa natura o essenza, meglio superessenza: «[…] idem verbum superessentialiter genitum ex patre ante et ultra omnia»,34 un carattere questo che evidentemente non è presente nel pensiero di Agostino.
Questa differenza rispetto alla prospettiva agostiniana porta a chiedere qual è il carattere autentico della parola umana e come esso possa in definitiva armonizzarsi con una teoria del linguaggio come quella di Agostino in cui l’orizzonte ultimo di riferimento è l’essere.35 Certamente il linguaggio umano rientra nell’universo teofanico; è esso stesso una teofania con la caratteristica di essere una realtà fisica e il veicolo in cui si è espressa la sacra scrittura. Come ogni teofania che è in rapporto con l’uomo e la terra, il linguaggio si articola nel modo proprio della molteplicità: il suono delle parole, anche quando esprime la realtà immutabile, anche quando riesce a comunicare ciò che supera ogni forma di teofania, resta fuggevole e avviluppato nel tempo e nello spazio. Così è nel caso di Giovanni l’evangelista, colui che ha trasceso ogni «teoria», al di là di tutte le cose che sono e che non sono, la cui voce è fuggevole ed ha bisogno di distendersi nel tempo dell’enarratio36 per poter comunicare ciò che ha visto: «Vox spiritualis aquilae pulsat ecclesiae. Exterior sensus transeuntem accipiat sonitum, interior animus manentem penetret intellectum».37
La rivelazione del Verbum è così affidata alla fugacità della vox ed è proprio per questa fugacità, segno della piena partecipazione alla materia, che è richiesta la decifrazione degli scritti sacri, in cui la vox della rivelazione si è per sempre fissata proteggendo con lo spessore della lettera, come una pietra tombale, i misteri della divinità e dell’umanità del Verbo incarnato:
Monumentum christi est divina scriptura, in qua divinitatis et humanitatis eius misteria densitate litterae veluti quadam muniuntur petra.38
Il rapporto tra la vox e il Verbum nella posizione di Giovanni Scoto sembra restare comunque equivoco: da una parte la generazione del Verbum compresa nella dinamica della generazione del linguaggio, in cui la prospettiva agostiniana sembra tracciare la direzione speculativa; dall’altra parte la sfera divina al di là dell’essere, in cui solo la sospensione di ogni «linguaggio logico» e il ricorso alla figura retorica carica di paradosso dell’ossimoro sembra offrire la possibilità di poter dire il divino.39 Così si può leggere negli scritti dell’Eriugena che:
Et quae est consequentia verbi quod locutum est os altissimi? Non enim in vanum locutus est pater, non infructuose, non sine magno effectu; nam et homines inter se ipsos loquentes aliquid in auribus audientium efficiunt. Tria itaque credere et intelligere debemus: loquentem patrem, pronuntiatum verbum, ea quae efficiuntur per verbum. Pater loquitur, verbum gignitur, omnia efficiuntur.[^54]
in cui la linea agostiniana è evidente nel riferimento al proferire del Padre, alla consequenziale generazione del Verbo, al paragone con il parlare degli uomini e infine nella coppia concettuale credere-intelligere. Accanto a brani di questo tipo, però, si può leggere anche una completa lista di ossimori:
Omne namque, quod intelligitur et sentitur, nihil aliud est, nisi non apparentis apparitio, occulti manifestatio, negati affirmatio, incomprehensibilis comprehensio, ineffabilis fatus, inaccessibilis accessus, inintelligibilis intellectus, incorporalis corpus, superessentialis essentia, informis forma, immensurabilis mensura, innumerabilis numerus, carentis pondere pondus, spiritualis incrassatio, invisibilis visibilitas, illocalis localitas, carentis tempore temporalitas, infiniti definitio, incircumscripti circumscriptio, et cetera, quae memoriae finibus capi nesciunt, et mentis aciem fugiunt.40
in cui emerge chiaramente il limite della conoscenza umana, limite segnato dall’inconoscibilità dell’essenza di Dio, ignoto anche a se stesso.41 Il contrasto, così, reso dall’uso metaforico del linguaggio, esprime la struttura propria dell’intelletto in grado di comprendersi grazie alla trama dei significanti finiti delle teofanie, eppure, proprio per questo, noto a se stesso solamente nella dimensione del finito, il quale a livello di intelletto non può che riconoscere se stesso, in quanto riflesso finito dell’intelletto infinito, e Dio come una totale alterità senza volto.
4. Conclusioni
L’aspetto problematico che presenta il sistema eriugeniano si manifesta in maniera piuttosto evidente nel rapporto tra il Verbum e le causae primordiales: da una parte il Verbum, generato superessentialiter, la cui comprensione è in sintonia con la posizione di Agostino; dall’altra parte le cause primordiali che sono frutto della coincidenza in Dio di esse e facere. Ne deriva, in questo modo, una concezione in cui l’essere non è altro che una manifestazione finita di Dio, mentre lo stesso Verbo sembra identificarsi con l’essere, configurandosi così come la prima delle manifestazione divine. La difficoltà è, forse, da attribuire allo spostamento del problema della creazione e del rapporto che questa ha con la trinità rispetto alla tradizione latina più consolidata:
[…] rispetto al tradizionale esemplarismo, che dalla predicazione dell’intelligibilità del reale risaliva all’affermazione dell’esistenza di intelligibili eterni nella mente di Dio, l’Eriugena doveva portare in primo piano il problema inverso: non si trattava di risalire dalla realtà ai suoi prototipi eterni (le forme), ma di vedere l’origine e il rapporto di queste forme nel loro scaturire dall’eterno pensiero divino e di definire la parabola della loro «discesa»; sicché, volendo indugiare ad una approssimativa schematizzazione, potremmo dire che se nel primo modo di impostare il problema delle forme può dirsi predominante la dialettica ascendente del Fedone platonico, nel modo dell’Eriugena predomina quella discendente del Parmenide.42
Se dunque il problema per l’Eriugena era quello di mantenere ferma l’assoluta trascendenza di Dio e dialetticamente spiegare la produzione della molteplicità soprattutto nel suo scaturire dal pensiero divino, il ricorso alle cause primordiali poteva rappresentare una soluzione, in cui però le stesse cause primordiali, che non sono delle creature, devono essere coeterne al Verbo, semplici, quindi raccolte in unità e non molteplici, e infine ontologicamente costituite. In definitiva, proprio per questo l’Eriugena sembra oscillare tra l’identificazione delle cause con il Verbo e il mantenerle distinte da lui.43
Il tentativo eriugeniano di riprendere temi che Agostino ha maturato all’ombra dell’essere e ripensarli nella direzione aperta dalla teologia apofatica, sembra rendere se non problematico almeno equivoco il rapporto tra il Creatore, necessariamente trinitario nella visione cristiana, e la creazione del mondo: il facere creativo di Dio che pone se stesso nell’essere come prima teofania di sé, è in realtà il primo momento del processo di alienazione di Dio verso il finito. D’altronde più che un rapporto di causa ed effetto nella dinamica dell’essere, l’Eriugena offre un sistema di significati che rimandano non ad un essere creatore ma ad un’intelligenza creatrice che agisce per manifestarsi:
Laddove noi riconduciamo tutto a dei rapporti di causa ed effetto nell’ordine dell’essere, Eriugena pensa piuttosto a quello che sono, nell’ordine della conoscenza, i rapporti di segno e cosa significata. Il Dio di Eriugena è come un principio che, sapendosi incomprensibile, dispiegherebbe tutta in un colpo la totalità delle sue conseguenze per rivelarsi in esse. Un simile Dio non agisce mai fuori di sé che per «manifestarsi».44
Ne consegue che Dio non si conosce se non attraverso le sue manifestazioni[^60] ed è per questo che Dio per conoscersi incomincia ad essere nelle cause primordiali.[^61] Di qui si spiega il fatto che, contrariamente a quanto lo stesso Eriugena ritenga, esse in Deo è esse Deus.
Con Giovanni Scoto, la tradizione del pensiero latino subisce il forte impatto, non privo di traumi e di difficoltà, scaturito dalla scoperta di una altra tradizione, di origine greco-platonica, che arricchirà, grazie anche a Giovanni Scoto Eriugena, il medioevo latino. La dialettica eriugeniana in cui si divide la natura in un continuo rimando del significante al significato, paradossalmente sembra condurre, nonostante dunque la via apofatica, al dominio della ratio in quanto il tutto è frutto della necessità, di cui una volta individuata la struttura interna risulta interamente comprensibile, tranne il fondamento ultimo che resta per sé e per noi avvolto nel nulla conoscitivo e probabilmente ontologico. Esito questo che forse caratterizza ogni platonismo che tenta dialetticamente di salvaguardare l’Uno e di spiegare la produzione della molteplicità.
Scrive il Jeauneau nell’introduzione a: Jean Scot, Commentaire sur lÉvangile de Jean, con testo critico a fronte, Sources Chrétiennes, Paris 1972 (d’ora in poi questo testo verrà citato con l’abbreviazione In Io.Ev.):
On sait en quelle haute estime l’Érigène tenait l’évêque d’Hippone, «le très saint, le très divin théologien», «le plus fécond interprète des choses divines et humaines». Il était tout naturel qu’il recourt fréquemment à lui pour exposer l’evangile johannique. En fait, il a cité Augustin bien plus souvent qu’il ne le dit, et il ne s’est pas contenté d’utiliser les seuls Tractatus in Johannem. C’est ainsi qu’il recopie, sans nommer l’auteur, des phrases empruntées au De vera religione, au De ordine et au De spiritu et littera d’Augustin. C’est ainsi encore qu’il designe Dieu par la formule augustinienne: «Lumière des esprits», Lux mentium (p. 27).
Sull’insegnamento in Irlanda soprattutto della grammatica cfr. L. Holz, «Grammairiens Irlandais au temps de Jean Scot: quelques aspects de leur pédagogie», in Jean Scot Erigène, pp. 69-78. Sinteticamente descrive la situazione culturale nell’Irlanda a cavallo tra il IV e il VII secolo C. Vincent in: Storia dell’Occidente medievale, Il Mulino, Bologna 1997, scrivendo:
Contemporaneamente l’Irlanda, recentemente cristianizzata da san Patrizio, sviluppò una vita monastica dai caratteri originali. Ispirati anch’essi dai padri del deserto, i monaci irlandesi se ne distinguevano tuttavia per il gusto accentuato per le pratiche ascetiche, per un tipo di reclutamento quanto mai dipendente dalle reti familiari e per l’introduzione, nelle loro comunità, di scuole destinate a insegnare la lingua liturgica, il latino, del quale erano ignoranti, a differenza dei loro omologhi continentali. In questo modo le loro case diventarono in breve prestigiosi focolari di cultura (p. 37).
Nel commento al Vangelo di Giovanni, Scoto Eriugena vede allegoricamente nei calzari del Cristo la scrittura e le realtà create, entrambe «vestito del Verbo» e modi della sua incarnazione:
Potest etiam per calciamentum christi visibilis creatura et sancta scriptura significari; in his enim vestigia sua veluti pedes suos infigit. Habitus quippe verbi est creatura visibilis, quae eum aperte praedicat, pulchritudinem suam nobis manifestans. Habitus quoque eius facta est divina scriptura, quae eius mysteria continet. Quorum omnium — id est creaturae et litterae — corrigiam, hoc est subtilitatem, solvere indignum se praecursor existimat. Duo pedes verbi sunt, quorum unus est naturalis ratio visibilis creaturae, alter spiritualis intellectus divinae scripturae. Unus tegitur sensibilis mundi sensibilibus formis, alter divinorum apicum, hoc est scripturarum, superficie. Duobus quippe modis divinae legis expositores incarnationem dei verbi insinuant. Quorum unus est, qui eius incarnationem ex vergine, qua in unitatem substantiae humanam naturam sibi copulavit, edocet. Alter est, qui ipsum verbum quasi incarnatum, hoc est, incrassatum litteris rerumque visibilium formis et ordinibus asserit. Cuius biformis calciamenti corrigia est diligens in his omnibus veritatis inquisitio ac perplexa admodum investigatio, cuius solutione indignum se praecursor iudicat (In Io. Ev.; pp. 154s.).
Per Giovanni Scoto la ratio corrisponde ad una ben precisa facoltà conoscitiva distinta dall’intellectus e dal sensus iterior. Essa corrisponde alla pensiero riflettente, distinto dal pensiero intuitivo in grado di cogliere l’ineffabilità di Dio. È il livello discorsivo che spiega la logica interna dell’universo e la conduce ad espressione nel linguaggio. A livello di facoltà conoscitive sembra così presentarsi un’aporia, riflesso forse di una più profonda e situata a livello metafisico: come, insomma, possono essere espresse dalla ratio, realtà che vengono colte dall’intellectus. Una questione analoga è posta da D’Onofrio a proposito della possibilità comunicativa della visione dell’evangelista Giovanni in termini dianoetici: cfr. G. D’Onofrio, Oltre la teologia. Per una lettura dell’«Omelia» di Giovanni Scoto Eriugena sul Prologo del Quarto Vangelo, in «Studi Medievali» (1990); pp. 304-307. Una domanda simile si pone anche W. Beierwaltes:
Come si può considerare il Non-Essente e come si può esprimerlo col linguggio? Questo tentativo, non dicendo nulla, non finisce esso stesso «nel nulla»? Pensare e parlare di quello di cui il common sense vieterebbe tanto di pensare quanto di parlare è un intento fondamentale perseguito appassionatamente da Eriugena (Pensare l’Uno. Studi sulla filosofia neoplatonica e sulla storia dei suoi influssi, Vita e Pensiero, Milano 1992; p. 293).
C’è d’aggiungere che i due testi sul IV Vangelo rappresentano una vera sintesi del pensiero di Giovanni Scoto, in particolare per il tema della teologia negativa:
Anche l’omelia sul Prologo di Giovanni ed il Commentario proprio a questo stesso Vangelo, frammenti dell’opera tarda di Eriugena, portano avanti precise questioni dell’opera principale: la teologia negativa, per esempio, il Dio accessibile solo in un mondo inteso come una «teofania», la deificatio dell’uomo mediante «purificazione» e «illuminazione», Cristo come prototipo dell’uomo «restituito» al suo stato originale (W. Beierwaltes, o. c.; p. 290).
Periphyseon, PL, 122, 442-443. Nell’Omelia, Giovanni Scoto così definisce le cose che sono e quelle che non sono:
Dico autem quae sunt, quae sive humanum sive angelicum non omnino fugiunt sensum; quae vero non sunt, quae profecto omnes intelligentiae vires relinquunt, cum post deum sint et eorum numerum quae ab una omnium causa condita sunt non excedant (Prologo, p. 8).
Nel commento al IV vangelo, Giovanni Scoto offre un esegesi del mondo in cui quest’ultimo non è altro che l’uomo in quanto fatto ad immagine e somiglianza di Dio:
Sed quaeritur quem mundum dilexit deus. Non enim credendum est mundum istum, id est universitatem quae constat ex caelo et terra, patrem delexisse. Ille enim non propter seipsum, sed propter superiorem mundum factus est. Mundum igitur superiorem, quem ad imaginem et similitudinem suam condidit, id est humanam naturam, pater dilexit ita ut filium suum pro eo traderet. Sed notandum quod mundus quem pater dilexit, id est homo, non propterea mundus vocatur quod quattuor elementis constiterit, quod solum secundum corpus fieri in terreno adhunc homine consideratur; sed ideo homo «cosmos» vocatur quoniam ornatus est ad imaginem et similitudinem dei quae, vel solum vel mxime, in anima intelligetur, non mundus. Et quae creatura tam ornata est quam ea quae ad imaginem creatoris condita? Ad hoc itaque dilexit deus mundum, et pro eo tradidit filium, ut omnis credens in eum non eum pereat, sed habeat vitam, non temporelem, sed aeternam (In Io. Ev., o. c.; pp. 230s.).
Di Dio non si sa assolutamente nulla. Non conoscono Dio ma solo una sua sublime teofania, perfino le anime beate e gli spiriti puri, teofanie a loro volta. Nonostante la lunghezza conviene riportare questo brano molto significativo:
Quid ergo sanctae animae hominum et sancti intellectus angelorum vident, dum deum vident, si ipsum deum non vident, quem videre perhibentur? […] Quid, inquam, vident homines et angeli, vel visuri sunt, dum apertissime et sanctus ambrogius et Dionysius ariopagita absque ulla cunctatione inculcant deum, summam trinitatem, nulli per seipsam umquam apparuisse, numquam apparere, numquam apparituram? Apparebit itaque in theophaniis suis, hoc est in divinis apparitionibus, in quibus iuxta altitudinem puritatis et virtutis uniuscuiusque deus apparebit. Theophania autem sunt omnes creaturae visibiles et invisibiles, per quas deus — et in quibus — sepe apparuit, et apparet, et appariturus est. Item virtutes purgatissimarum animarum et intellectuum theophaniae sunt et eis quaerentibus et dilgentibus se deus “seipsum” manifestat, in quibus, veluti quibusdam nubibus, rapiuntur sancti obviam christo, sicut ait apostolus: «Rapiemur in nubibus obviam christo», nubes appellans altitudines clarissimas divinae theoriae, in qua semper cum christo erunt. Hinc est Dionysius ait: «Et si quis eum — deum videlicet — vidisse dixerit, non eum vidit, sed aliquid ab eo factum». Ipse enim omnino invisibilis est, «qui melius nesciendo scitur», et «cuius ignorantia vera est sapientia» (In Io. Ev.; pp. 122ss).
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Per un orientamento generale su Giovanni Scoto oltre al volume, ormai classico negli studi eriugeniani, di M. Cppuyns, Jean Scot Erigène, sa vie, son œuvre, sa pensée, Louvain-Paris 1933; cfr. anche Storia della Teologia mediaevale, vol. I: I princìpi, direz. di G. D’Onofrio, Piemme, Casale Monferrato 1996; pp. 243-303. Il capitolo di questa voluminosa opera in tre volumi dedicato a Giovanni Scoto è dello stesso D’Onofrio che offre alla fine anche un’ampia nota bibliografica. ↩︎
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Sulla controversia De predestinatione e sull’intervento di Giovanni Scoto, cfr. M. Cristiani, Lo sguardo a occidente…, o. c.; pp. 29-38. ↩︎
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Sulle due espressioni «valle della storia» e «montagna della teologia», utilizzate da Giovanni Scoto nell’Omelia sul prologo di Giovanni, cfr. M. Cristiani, introduzione a: Giovanni Scoto, Il prologo di Giovanni, testo critico a fronte, Fondazione Lorenzo Valla, Fizzonasco (Mi) 1989, pp. LIII-LXI (d’ora in poi questo testo verrà citato in nota con la sola parola Prologo). Riferimenti alla «montagna della teologia» si trovano sparsi qua e là anche nel commentario, tra questi sottolineamo In Io.Ev. p. 316s. ↩︎
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«Conficitur inde veram esse philosophiam veram religionem conversim que veram religionem esse veram philosophiam» (De divina praedestinatione liber, edizione CCh, s.l., c. m., L, cap. 1, linea 16). ↩︎
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Per una monografia, ricca ancora di spunti interessanti, sul pensiero in generale di Giovanni Scoto e sul rapporto, tracciato in linee essenziali, con il neoplatonismo, in particolare con il suo sviluppo nel corso del medioevo successivo a Scoto Eriugena, cfr. M. Dal Pra, Scoto Eriugena ed il neoplatonismo medievale, Bocca Editori, Milano 1941. Cfr. anche P. Mazzarella, Il pensiero di Giovanni Scoto, CEDAM, Padova 1957. ↩︎
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Periphyseon, P. L., 122, 463. ↩︎
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M. Cristiani, Prologo, introduzione; pp. XXX-XXXI. ↩︎
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Sulla dinamica del concetto e della metafora in Giovanni Scoto, cfr. AA.VV:, Begriff und Metapher. Sprachform des Denkens bei Eriugena, a cura di W. Beierwaltes, Carl Winter-Universitätsverlag, Heidelberg 1990. Tra i vari saggi si segnala, in relazione alle tematiche qui trattate, il contributo di R. Brueren, Die Schrift als Paradigma der Wahrheit. Gedanken zum Vorbegriff der Metaphysik bei Johannes Scotus Eriugena; pp. 187-201. 15. La struttura dialettica propria dell’Eriugena, non va intesa come un semplice metodo di composizione e divisione delle idee, ma come divisione della natura, legge intrinseca delle cose. In definitiva, come nota sinteticamente e chiaramente il Gilson, la divisione dialettica del reale corrisponde alla stessa creazione:
Abbiamo detto che non si trattava di una semplice divisione logica, ma di una reale divisione della natura; bisogna aggiungere che la natura non è un genere comune alle diverse divisioni dell’essere, né un tutto che si dividerebbe in parti. […] Non si tratta d’una divisione di un genere informe, o di un tutto in parti, perché Dio non è il genere della creatura, né la creatura la specie del genere Dio. Allo stesso modo Dio non è il tutto della creatura, né la creatura una parte di Dio, o viceversa […] Il concetto di divisione della natura è quindi equivalente a quello di creazione, la quale equivale a sua volta alla produzione della molteplicità da parte dell’Uno (É. Gilson, La filosofia nel Medioevo. Dalle origini patristiche alla fine del XIV secolo, La Nuova Italia, Bagno a Ripoli 1988; p. 250).
Per un’interpretazione della dialettica eriugeniana storicizzata e collegata allo studio delle arti liberali, in relazione particolare con l’Omelia, cfr. anche G. D’Onofrio, Oltre la teologia…, a. c.; in particolare pp. 294 — 310. ↩︎
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Su Marciano Capella, come fonte dell’Eriugena, cfr. G. Schrimpf, Johannes Scottus und die Rezeption des Martianus Capella im karolingischen Bildungswesen, in: Eriugena. Studien zu seinen Quellen, a cura di W. Beierwaltes, Carl Winter-Universitätsverlag, Heidelberg 1980; pp. 135-148. Il testo del commento di Giovanni Scoto a Marciano Capella si trova in È. Jeauneau, Quatre thèmes érigéniens, Institut d’etudes médiévales Albebert-le-Grand-Vrin, Montréal-Paris 1978; pp. 101-166. 17. A proposito scrive il Jeauneau:
Un des thèmes que l’on rencontre très fréquemment lorsqu’on lit œuvres de l’Érigène est celui du «caché», du «mystérieux», de l’«obscur». Dès les premières pages duPeriphyseon il s’impose à nous (Quatre thèmes érigéniens, o. c.; p. 25.)
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T. Gregory, Giovanni Scoto Eriugena. Tre studi, Le Monnier, Firenze 1963; p. 14. ↩︎
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Periphyseon, PL. 122, 624. ↩︎
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Sul tema dello spazio, o come sostiene l’autrice del luogo, e del tempo nell’opera di Giovanni Scoto, cfr. M. Cristiani, Lo spazio e il tempo nell’opera di Giovanni Scoto, in Studi Medievali, I, Spoleto 1973. L’ampio lavoro della Cristiani, in continui rimandi ai testi eriugeniani e alle fonti, soprattutto greche, risulta interessante e fondamentale per l’interpretazione del rapporto tra la divinità e la predicazione categoriale. 21. Nel commento al vangelo di Giovanni, l’Eriugena non si è lasciato sfuggire l’occasione, presentata dal versetto: Nessuno è asceso al cielo se non chi è disceso dal cielo, il figlio dell’uomo che è in cielo, per presentare la sua concezione del exitus e del reditus del Cristo al cui destino sono associati tutti coloro che credono in lui. Dopo aver spiegato che il cielo nel versetto citato sta per il Padre, Eriugena si chiede quale sia la discesa e la salita del Cristo:
Qualis autem descensus eius et ascensus, ipse alibi aperte exposuit dicens: «Exivi a patre et veni in mundum, et iterum relinquo mundum et vado ad patrem». Exitus ergo eius a patre humanatio est; et reditus eius ad patrem hominis, quem accepit, deificatio et in altitudinem divinitatis assumptio. Solus ille descendit, quia solus incarnatus est. Sed si solus ascendit, quae spes est his pro quibus discendit? Magna quidem et inexplicabilis, quonia omnes, quos salvavit, in ipso ascendunt, nunc per fidem in spe, in fine vero per speciem in re, sicut ait Iohannes in epistola sua: «Scimus quoniam filii dei sumus; nondum apparuit quid erimus. Cum autem apparuerit, similes ei erimus; videbimus enim eum sicuti est». Solus itaque descendit, et solus ascendit, quia ille cum omnibus suis membris unus deus est, unicus filius dei. In ipso enim omnes credentes in ipsum unum sunt. Unus itaque christus, corpus cum membris, ascendit in patrem (In Io. Ev., o. c.; pp. 224s).
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Gregory, o. c.; p. 40. ↩︎
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M. Cristiani, Prologo, introduzione; p. XXXIII. ↩︎
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PL. 122, 518. ↩︎
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Cfr. Gregory, o. c.; p. 9. ↩︎
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In Io. Ev..; p. 218. Si deve notare che il termine substantia non ha un significato univoco negli scritti di Giovanni Scoto; cfr. G. D’Onofrio, Oltre la teologia…, a. c.; pp. 289s. Crediamo che nel brano citato la sostanza vada intesa in senso aristotelico. ↩︎
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Gregory, o. c.; p. 72. ↩︎
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In Io. Ev.; p. 128. 30. La distinzione eriugeniana tra il quia sit e il quid sit è, per Marta Cristiani, mediata dalla riflessione di Gregorio di Nissa e in particolare di Massimo il Confessore, per quanto la stessa Cristiani sottolinea adeguatamente l’originalità di Giovanni Scoto rispetto alla tradizione:
In rapporto alla tradizione greca, come pure in rapporto a Boezio, che si propone, in un contesto e con finalità diverse, gli stessi problemi, la dottrina eriugeniana dell’inconoscibilità dell’essenza assume un significato suo proprio, contrario sotto certi punti di vista alle sue fonti dirette o indirette, grazie a un completo capovolgimento di prospettiva (Lo spazio e il tempo…, o. c.; p. 49).
La differenza di Giovanni Scoto che la Cristiani individua rispetto a Boezio è vista nella diversa preoccupazione di quest’ultimo, più di tipo metodologico, cioè nel rifiutare il processo ad infinitum con la conseguenza di dover porre un principio primo sottratto ad ogni dimostrazione. Ciò, comunque, non toglie che, per la distinzione in questione, ci possa essere in Giovanni Scoto, per lo meno a livello di ipotesi, anche un risonanza della logica boeziana e attraverso questa di Porfirio. Qui vale osservare che una tale distinzione sotto varie forme percorre tutto il medioevo. Anche Tommaso d’Aquino l’adotta — assumendola il più delle volte nell’espressione, da far risalire a Gilberto Porretano, quo est e quod est —, con la differenza che il quid sit di Dio per Tommaso, in questo molto vicino ad Agostino, è l’esse stesso. Per quanto riguarda il quia sit, come per l’Eriugena anche per Tommaso indica ciò che è quoad nos. Su questo punto importante è la distinzione che Tommaso adotta in S. th. I, q. 2, a.2, in cui scrive, rispondendo alla questione Utrum Deum esse sit demonstrabile:
Respondeo dicendum quod duplex est demonstratio. Una est per causam, et dicitur propter quid; et haec est per priora simpliciter. Alia est per effectum, et dicitur demonstratio quia, et haec est per ea quae sunt priora quoad nos. Cum enim effectus aliquis nobis est manifestior quam sua causa, per effectum procedimus ad cognitionem causae. Ex quolibet autem effectu potest demonstrari propriam causam eius esse, si tamen eius effectus sint magis noti quoad nos; quia cum effectus dependeant a causa, posito effectu, necesse est causam praexistere. Unde Deum esse, secundum quod non est per se notum quoad nos, demonstrabile est per effectus nobis notos.
(Su questo punto, cfr. sempre di Tommaso l’Expositio libri de ebdomadibus, cap. II, in cui Tommaso affronta il commento all’affermazione boeziana diversum est esse et id quod est). La posizione di Tommaso sembra molto vicina a quella dell’Eriugena, in realtà la distanza tra i due è grande: per l’Eriugena, infatti, Dio è ignoto oltre che per noi anche per sé, mentre per Tommaso ciò che Dio è in sé resta ignoto all’uomo, il quale pur conosce qualcosa di Dio in relazione all’identità dell’essenza ed essere in Dio (Su questo punto cfr. Super Boetium de Trinitate, quaest. I; S. th. quaest. II; III). Sembra quindi che la differenza tra i due debba essere vista in un diverso modo di prospettare la distinzione tra il quia sit e il quid sit, ché per l’Eriugena è non solo una distinzione nell’ordine della gnoseologia, ma rigurda anche Dio in se stesso, mentre per Tommaso è più propriamente una distinzione quoad nos. ↩︎
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In Io. Ev.; pp. 182s. In particolare si presti attenzione a questa formula: «infinitus enim infinite, etiam in purgantissimis mentibus, formatur», in cui come sottolinea il Jeauneau il verbo formare designa l’atto con il quale la forma di Dio imprime le sue teofanie negli spiriti creati. Poiché questa forma è infinita, il numero delle teofanie è esso stesso infinito. 32. Cfr. Ivi. Probabilmente la tripartizione corrisponde ai tre gradi della conoscenza che sulle orme della gnoseologia platonica caratterizzano il processo dialettico dell’Eriugena, precisamente al sensus interior, alla ratio e all’intellectus. Su questo punto cfr. G. D’Onofrio, Oltre la teologia…, a. c.; pp. 296s. La divisione della conoscenza in tre gradi emerge chiaramente nel commento al Vangelo in questo brano:
Ternaria quippe rationabilis animae divisio est, in animum et rationem et sensum interiorem. Animus semper circa deum voluitur, ideoque vir atque rector caeterarum animae partium merito dicitur, quoniam inter ipsum et creatorem suum nulla alia interposita est creatura. Ratio vero circa rerum creatarum et cognitiones versatur, et quicquid animus a superna contemplatione percepit, rationi tradit, ratio vero commendat memoriae. Tertia pars animae est sensus interior, qui ration subdditur quasi superiori se parti, ac per hoc per rationem subditur menti. Sub illo vero interiori sensu, naturali ordine, sensus exterior positus est, per quem tota anima quinquepertitum corporis sensum vegetat, regit, totumque corpus vivificat (In Io. Ev.; p. 304 s.).
L’animus, che è denominato in più modi — animus, qui multipliciter nominatur; aliquando enim intellectus, aliquando mens, aliquando animus, sepe etiam spiritus (Ivi, pp. 302s.) — , è la facoltà che consente di ascendere alle altezze della teologia: «Absente quoque intellectu, nemo novit altitudinem theologiae ascendere, nec dona spiritualia participare» (Ivi; p. 308). ↩︎
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Prologo; p. 30. ↩︎
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Prologo; p. 30s. ↩︎
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Prologo; p. 16. ↩︎
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Cfr. Prologo; p. 26. 38. Per Beierwaltes, i prefissi in Giovanni Scoto indicano la non nullificazione del Nulla di Dio: Dio è nulla, ma non nel senso nichilistico del termine, ma in quanto è totalmente altro. Scrive Beierwaltes:
Ciò che alla fine ha come conseguenza che il superessentialis-esse di Dio deve essere inteso come un potenziamento incommensurabile nei confronti dell’ente categoriale, che deve al tempo stesso valere sia per l’affermazione (per quanto riguarda la realtà) che per la negazione (per quanto rigurda la sua alterità) e inoltre che anche l’affermazione più generale e meno determinanta, che Dio è, deve essere superata; le espressioni solo apparentemente affermative «al di sopra di» o «più di» rivelano di essere negazione dell’essere. «Dio non è nulla» (per excellentiam nihilum, nihil per infinitatem): rimanda dunque al fatto che Dio, come Sovra-Essenziale o Sovra-Essente è l’alterità assoluta (nullum eorum...) o l’antitesi di tutto ciò che è opposto in sé, ma al tempo stesso è anche il fondamento universalmente fondante o determinante dell’ente […] (Pensare l’Uno…; o. c.; pp. 294-295).
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M. Cristiani, Prologo, introduzione; p. LVII. ↩︎
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M. Cristiani, Prologo, introduzione; p. XLV. ↩︎
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Prologo; p. 53. ↩︎
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Prologo; p. 45. ↩︎
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In Io. Ev.; p. 136. ↩︎
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In Io. Ev.; p. 138. ↩︎
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In Io. Ev.; p. 144. ↩︎
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In Io. Ev.; p. 145 (3). ↩︎
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Prologo; p. 18. ↩︎
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Cfr. E. Gilson, Introduzione allo studio di Sant’Agostino, Marietti, Genova 1992; in particolare per il tema trinitario 250-260. Cfr. anche M. Schmaus, Die psychologische Trinitätslehre des hl. Augustinus, Münster im W. 1927; pp. 331-361. ↩︎
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Marta Cristiani, nella sua introduzione all’edizione italiana dell’Omelia, mette efficacemente in risalto la dinamica dell’enarratio negli scritti eriugeniani sul IV vangelo; cfr. pp. XL-XLII. In particolare in riferimento al punto in questione: «Questa capacità di oltrepassamento in senso ascensionale, oltre i limiti della finitudine che caratterizza l’umano e, più in generale, la conoscenza oggettuale, per effetto di un dono supremo della grazia, nell’Omelia appartiene soprattutto al secondo Giovanni [l’evangelista], la vox attraverso la quale la Parola inaccessibile non è più semplice annuncio, ma diviene enarratio, racconto di illimitate risonanze e significati, la cui complessità e profondità equivale all’universo creato. Enarratio che può essere affidata soltanto alla voce dell’aquila spirituale, in cui la facoltà dell’ascolto, donata al Battista, è superata e trascesa, platonicamente, dalla potenza irraggiungibile della visione, dello sguardo capace di immergersi nella luce assoluta» (ivi). Cfr. anche il già citato In Io. Ev.; p. 128. 130. ↩︎
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Prologo; p. 9. ↩︎
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Prologo; p. 12. ↩︎
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Questo che può sembrare un doppio binario nella prospettiva eriugeniana è stilizzato da D’Onofrio con le due fonti principali di Giovanni Scoto: Agostino e Dionigi l’Areopagita. Questi rappresenterebbero: il primo il momento catafatico; il secondo il momento apofatico del processo dialettico di Giovanni Scoto (cfr. Storia della teologia…; o. c.). Senza entrare in merito alla questione, sembra, comuque, che da un punto di vista teoretico permanga, o per lo meno è lecito supporlo, una certa difficoltà nel sistema eriugeniano a rendere ragione dei due momenti soprattutto in relazione alla spiegazione della dinamica trinitaria nella sua unità. ↩︎
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Prologo; p. 24. 54. Periphyseon, 122, 633 a b. Cristiani commenta questo passo considerando anzitutto l’impossibilità dell’intelletto a conoscersi come un quid; la manifestazione dello stesso intelletto che è, in una certa misura, sempre una forma di generazione nella corporeità; infine scrive:
Il carattere fondamentale del discorso significante, della vox che utilizza le strutture del linguaggio definite nelle sue leggi, in una forma equivalente alla corporeità, è allora quello della tensione costante, dell’eterno paradosso, dell’antitesi che introduce l’assenza, il non-essere, al cuore di ogni affermazione, dal momento che il significato procede costantemente dall’ineffabile (Prologo, introduzione; p. XXXVIII).
55.
Nam et noster intellectus, cum per se sit invisibilis et incomprehensibilis, signis tamen quibusdam et manifestatur et comprehenditur, dum vocibus vel literis vel aliis nutibus, veluti quibusdam corporibus incrassatur, et dum sic extrinsecus apparet, semper intrinsecus invisibilis permanet, dumque in varias figuras sensibus comprehensibiles prosilit, semper statum suae naturae incomprehensibilem non deserit (Periphyseon, 122, 633 b c).
Su questo punto cfr. M. Dal Pra, o. c.; pp. 105-150. Dal Pra ritiene, forse un po’ esageratamente, che si debba parlare di un vero e proprio agnosticismo in Giovanni Scoto Eriugena. Significative sono le sue conclusioni a riguardo:
Per Scoto dunque il mistero della Trinità non è altro che il prodotto d’una delle tante predicazioi con cui pensiamo Dio; è perciò non una verità rivelata e soprarazionale, quanto una verità di significazione strettamente umana e mentale. L’agnosticismo induce il filosofo irlandese a sacrificare il mistero cristiano al Neoplatonismo. […] Nonostante il suo iniziale atteggiamento razionalistico, in seguito Scoto accetta l’identità della natura fra Padre e Figlio; afferma che il Figlio non è creatura del Padre, che lo Spirito Santo procede dal Padre e dal Figlio o dal Padre per mezzo del Figlio, ripetutamente poi riconosce la divinità del Cristo e della sua missione redentrice. Non sempre invece è netta la distinzione fra la vita intima di Dio, nel procedere delle tre divine persone, dall’opera creatrice rispetto alle cose. Anche l’Incarnazione di Cristo viene sfumando in una rappresentazione semi-simbolica, in alcuni passi del De divisione naturae. Queste incertezze si spiegano, se si pensa che Scoto è costantemente dominato dal un duplice influsso: quello del Neoplatonismo e della grecità in generale, e quello dell’intuizione cristiana. Il suo Dio amorfo, lontano, inaccessibile, Indeterminato è troppo remoto dalla concezione cristiana; nonsembra infatti che il Dio delineato nella filosofia scotistica sia quel Padre che l’intuizione cristiana aveva definito; esso è un idolo muto, un Nulla trascendentale, una suprema freddezza, incapace di inserirsi nella travagliata vita degli uomini per salvarli e per aiutarli a ritrovarsi (ivi; pp. 149-150).
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Gregory, o. c.; pp. 3-4. ↩︎
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Cfr. le considerazioni già citate di Cristiani, Prologo, introduzione; p. LVII, la cui riflessione si chiude con una citazione del Periphyseon quanto mai significativa: «Il creatore e la sua creazione […] sono tuttavia necessariamente relativi e simultanei, perché il creatore senza creazione non è creatore, e la creazione senza creatore non è creazione» (ivi). ↩︎
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E. Gilson, o.c.; pp. 254-255. ↩︎
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Nell’Omelia si legge: «[…] non vos estis qui intelligitis me, sed ego ipse in vobis per spiritum meum meipsum intelligo, quia vos non estis substantialis lux, sed partecipatio per se subsistentis luminis» (Prologo; p. 40). Un passaggio in cui la conoscenza di se stesso da parte di Dio nelle creature si armonizza con la nozione di origine platonica (méthexis) della partecipatio. Su questo punto cfr. anche Prologo; pp. 39. 49. ↩︎
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Cfr. E. Gilson, o. c.; pp. 255-256. ↩︎