La realizzabilità multipla: un errore filosofico?

Fossimo anche fatti di emmenthal svizzero, la cosa non avrebbe nessuna importanza.1

1. Riflessione introduttiva

La tesi della realizzabilità multipla consiste nell’ipotesi secondo cui uno stesso stato mentale può venire realizzato in molteplici modi e strutture differenti. Nel secolo scorso tale congettura è andata incontro a diverse argomentazioni volte a sostenerla o ad accantonarla quale principio forte nel panorama della filosofia della mente. Alla sua apparizione ad essa è stata riconosciuta una certa importanza a favore di un perdurante dualismo2 tra mente e corpo. Ed è proprio in quanto facente parte dell’intenso ed importante dibattito mai concluso circa il rapporto mente-corpo che si presenterà tale ipotesi ed il suo ruolo nel dibattito in questione.

Al problema mente-corpo vengono tradizionalmente ricondotte tutte quelle idee prodotte in secoli di storia della filosofia da vari illustri pensatori (basti pensare a Platone, Cartesio, Kant, Hume e via dicendo) nel tentativo di dare una risposta alla domanda: il mentale è qualcosa di categorialmente e/o sostanzialmente differente dalla materia fisica? Nonostante le scoperte scientifiche e le argomentazioni che favoriscono oggi un qualche tipo di riduzionismo,3 il dualismo sembra non cedere le armi. In questa resistenza all’ammettere come possibile una naturalizzazione4 della mente si può scorgere, riprendendo un argomento avanzato da Sigmund Freud, un marcato antropocentrismo secondo cui l’uomo deve possedere in qualche modo qualcosa di «diverso» che lo renda speciale rispetto al resto del Creato:

Nel corso dei tempi l’umanità ha dovuto sopportare da parte della scienza due grandi mortificazioni del proprio ingenuo amor proprio. La prima, quando apprese che la nostra terra non è il centro dell’universo, bensì una minuscola particella di un sistema cosmico che, nella sua grandezza, è difficilmente immaginabile. […] La seconda, poi, quando la ricerca biologica annientò la pretesa posizione di privilegio dell’uomo nella creazione, gli dimostrò la sua provenienza dal regno animale e l’inestirpabilità della sua natura animale. […] Ma la terza e più scottante mortificazione, la megalomania dell’uomo è destinata a subirla da parte dell’odierna indagine psicologica, la quale tende a dimostrare all’Io che non solo egli non è padrone in casa propria, ma deve fare assegnamento su scarse notizie riguardo a quello che avviene inconsciamente nella sua vita psichica.5

Nel tentativo spasmodico di porre un freno alle argomentazioni volte in favore dell’idea che la mente sia parte integrante del mondo biologico, però, i sostenitori del dualismo a volte rischiano di cadere in fraintendimenti che mettono a repentaglio il dialogo e la ricerca pur essendo originati da ipotesi non scientifiche ma dal valore prettamente intuitivo. L’idea alla base di questo scritto è che la congettura della realizzabilità multipla del mentale potrebbe essere una di quelle ipotesi che, nate dal senso comune, hanno portato con sé, nel loro inserimento nel contesto della discussione scientifica, problemi vacui da chiarire ed eliminare per la comprensione della natura del nostro pensiero e della sua relazione con il corpo biologico.

2. Identità contro molteplicità

A partire dalla metà del secolo scorso alcuni studiosi iniziano a parlare di una teoria dell’identità secondo la quale uno stato mentale si suppone sia identico ad un certo stato fisico.6 La teoria dell’identità originaria (cioè quella sostenuta dalla «scuola australiana» di Ullin T. Place,7 Jack J.C. Smart8 e David M. Armstrong9) postula una strettissima corrispondenza reciproca tra «tipi» di eventi neurali e «tipi» di eventi mentali. Nell’invocare un’identità di questo tipo, tuttavia, ci si scontra con alcune rilevanti problematiche: oltre a dover considerare che cosa s’intenda precisamente per identità, bisognerebbe anche definire esattamente che cosa s’intende per «classe» di eventi neurali o mentali. Inoltre, nessuna ricerca neurologica sinora sembra aver trovato tipi neurali corrispondenti ad una certa forma intenzionale del pensiero quale, esemplificando, «desiderare che… ».

Nel corso degli anni Sessanta Hilary Putnam, al fine di contrastare tale teoria dell’identità di tipo, discute invece la possibilità di una differente «realizzazione» di uno stesso tipo mentale in molteplici e totalmente differenti strutture siano esse organiche o meno. In effetti Putnam argomenta che l’identità di tipo ha come conseguenza il dover ammettere che se noi uomini proviamo dolore e se i polpi provano dolore, allora entrambi dovremmo trovarci in un identico stato fisico, il che è impossibile vista l’enorme diversità biologica.10

Di qui la nascita della tesi della realizzabilità multipla del mentale, destinata a suscitare tanti consensi quante critiche.

Con l’entrata in scena di questa nuova congettura s’intravede la possibilità di porre in discussione altre tesi oltre quella sopra esposta dell’identità di tipo, quali:

  • l’eliminativismo, ossia il progetto (estremizzazione del riduzionismo) ontologico di riduzione-eliminazione della mente e del vocabolario mentalistico, una cattiva abitudine da estirpare al pari di altri oggetti chimerici presenti in passato sulla scena scientifica quali il calorico o l’etere o ancora il flogisto;
  • il progetto metodologico di riduzione interteorica della psicologia alla fisica di cui Ernest Nagel ci offre la concezione classica nel testo La struttura della scienza.11

La congettura della realizzabilità multipla si viene successivamente precisando nel pensiero di Jerry Fodor,12 discepolo di Putnam. Egli, nel tentativo di conciliare un certo mentalismo13 con la naturalizzazione del mentale, giunge all’idea di interpretare funzionalmente il ruolo degli stati mentali senza dare alcuna importanza al sostrato su cui essi sono implementati né al contenuto veicolato (se non in quanto a sua volta causa del tipo di forma che invece interviene nel processo del pensiero). Nell’ottica fodoriana tale funzionalismo ha dunque a fondamento proprio la tesi della realizzabilità multipla del mentale: infatti, per Fodor, la realizzabilità multipla in qualche modo condurrebbe inevitabilmente alla necessità di postulare un certo carattere irriducibile del mentale.

Il pensiero fodoriano si configura, assumendo tale visione funzionalista, come una forma di fisicalismo di tipo non riduzionista: la teoria dell’identità delle occorrenze, una nuova forma della teoria dell’identità precedentemente discussa. Per identità delle occorrenze s’intende l’ipotesi secondo cui ogni occorrenza di un certo tipo di stato mentale (per esempio, ogni volta che sono cosciente di provare un dolore) è identica ad un evento neurale il quale sarà diverso la prossima volta che si avrà un’occorrenza diversa dello stesso stato mentale. È una teoria indebolita dell’identità: non richiede, infatti, che classi di fenomeni distinti siano da porre in una relazione d’identità, ritiene invece che il medesimo stato mentale, nelle sue varie manifestazioni, possa essere identico a differenti configurazioni cerebrali. In altre parole, un tipo psicologico può ammettere di essere realizzato attraverso differenti configurazioni fisiche, ma l’occorrenza singola di tale tipo coincide necessariamente con la realizzazione attuale di quell’evento. Inoltre in Fodor l’ipotesi della realizzabilità multipla si arricchisce di particolari e dunque si delinea con maggiore chiarezza:

  • strutture fisiche diverse possono realizzare gli stessi stati mentali;
  • la stessa struttura fisica (cioè, nello stesso individuo) può realizzare diversi stati mentali;
  • e dunque nello stesso organismo uno stato mentale può essere realizzato, in tempi diversi, da differenti configurazioni fisiche.

Secondo Fodor infatti può accadere che:

Every psychological event is paired with some neurological event or other, but psychological events of the same kind are sometimes paired with neurological events of different kinds.14

Quindi Fodor si serve di una realizzabilità multipla che ci sembra modellata ad hoc per essere adatta a fornire una base teorica come difesa tanto dal riduzionismo quanto dalla ricaduta nel dualismo, una difesa tuttavia non così salda come da lui immaginato.

La sua visione è molto vicina a quello che alcuni studiosi chiamano dualismo delle proprietà,15 cioè la teoria secondo cui, pur non essendoci a livello ontologico due tipi di sostanza differenti (mentale e fisica, res cogitans e res extensa: il dualismo delle sostanze) tuttavia vi è una classe di entità che hanno proprietà mentali in aggiunta alle proprietà fisiche. La versione maggiormente consolidata di tale teoria è probabilmente quella della sopravvenienza, originatasi negli anni Settanta ad opera di Donald Davidson16 per entrare successivamente a far parte del dibattito mente-corpo come teoria rispettata ed autonoma dal restante pensiero davidsoniano.

Riassumendo: la congettura della realizzabilità multipla nasce dalla constatazione intuitiva e comunemente accettata della differenza tra il sistema nervoso delle varie specie viventi, e si configura subito come una prova dell’impossibilità di «appiattire» il mentale sul fisico.

3. Realizzabilità, relatività e causalità

L’argomento della realizzabilità multipla, oltre a suscitare l’entusiasmo dei molti che in essa hanno intuitivamente avvertito un fondo di disvelamento del reale ed un appoggio all’affermazione della differenza (se non sostanziale, almeno qualitativa) tra la sostanza spirituale-mentale e quella corporea, ha suscitato numerose critiche.

Nel dibattito suscitato da tale ipotesi, la prima osservazione rilevante è formulata da David Lewis il quale sostiene che sia possibile superare la contrapposizione ad un certo riduzionismo:

Pain might well be one brain state in the case of men, and some other brain (or nonbrain) state in the case of mollusks. It might even be one brain state in the case of Putnam, another in the case of Lewis. No mystery: that is just like saying the winning number is 17 in the case of this week’s lottery, 137 in the case of last week’s.17

A seguito di questo tipo di argomentazioni, Jaegwon Kim18 si oppone all’idea che la realizzabilità multipla, anche nel caso dovesse essere confermata come vera, possa provare l’irriducibilità del mentale. Secondo la sua teoria, infatti, sono possibili delle riduzioni locali: esiste ed è possibile trovare, per ogni stato mentale ed in ogni sistema in cui esso si trovi espresso, uno stato fisico nomologicamente coestensivo, basta iniziare a ragionare per riduzioni locali e per relatività alla specie o alla struttura-tipo. In questo nuovo quadro le proprietà mentali molteplicemente realizzabili assumono nuove valenze (quale l’importantissima relativizzazione) che conducono a coniugare la realizzabilità multipla al riduzionismo contro il quale Fodor l’aveva sollevata. Dunque, se l’interpretazione di Kim fosse corretta, tale congettura non avrebbe alcun peso a favore di un fisicalismo non riduzionista. Ma vi sono altri ambiti in cui la realizzabilità multipla è stata invocata, ed uno di essi è la critica al riduzionismo metodologico.

Prima di passare a questo, però, vi è un altro argomento rilevante nel dibattito circa lo statuto dell’argomento della realizzabilità multipla: si tratta dell’atteggiamento espresso al riguardo da Lawrence A. Shapiro.19 A suo avviso, una funzione molteplicemente realizzata dovrebbe rendere possibili differenze significative nei modi di giungere ad un risultato causale identico. Quindi una stessa funzione, laddove si trovi in sistemi differenti, dovrebbe potersi attuare in modi causalmente diversificati. Tra due realizzazioni così sorte, però, verrebbe a cadere la possibilità di un qualche tipo di generalizzazione in legge, in quanto la formale attuazione della funzione chiamata in causa avverrebbe sotto la guida di leggi diverse: sotto quale punto di vista sarebbero dunque stesse realizzazioni di un certo tipo, visto che per tipo s’intende un kind che possegga (come per Kim20) lo stesso ruolo causale? Dunque, con Shapiro entra in campo un modo ulteriore d’intendere la realizzazione multipla del mentale al fine tanto di chiarirla quanto di combatterla.

4. Contro la riduzione interteorica

Per riduzionismo metodologico intendiamo la concezione, che ha origine nel classico nageliano La Struttura della Scienza, secondo cui alcuni ambiti di studio possono essere ridotti (o, diciamo pure, inglobati) in un altro ambito scientifico. Nel modello concepito da Nagel tale riduzione dovrebbe aver luogo come una totale deduzione delle leggi di una teoria di livello superiore (nel caso in questione, la psicologia) dalle leggi di una teoria di livello inferiore (come la fisica). Per poter trascrivere i fenomeni della teoria ridotta nel linguaggio della teoria riducente, debbono essere specificate delle leggi-ponte che stabiliscano equivalenze tra i due vocabolari. Ed è proprio sul concetto di legge-ponte che tale modello classico di riduzione aveva trovato il suo punto debole: come trovare corrispondenze puntuali, infatti, tra un generico stato mentale e le molte, innumerevoli e tra loro — potenzialmente — del tutto differenti realizzazioni fisiche di tale stato?

In anni recenti nasce la New Wave Intertheoretic Reduction proprio per superare questo tipo di ostacoli. John Bickle è il maggiore esponente di questo nuovo modello, e soprattutto è colui che lo ha sistematizzato. Nel suo testo fondamentale Psychoneural Reduction: the New Wave21 egli ci mostra attraverso quali passaggi si sia definito il nuovo paradigma. Per prima cosa, è stata un’intuizione di Clifford Hooker a porre una nuova base. Hooker, d’accordo con Nagel sul fatto che una teoria possa essere ridotta ad un’altra solo nel caso in cui sia possibile effettuare una deduzione della prima dalla seconda, intuisce di poter mutare l’oggetto della deduzione: vista l’impossibilità (almeno teorica ed ipotetica) di trovare leggi psicofisiche con le quali attuare una deduzione di fenomeni da una disciplina all’altra — il cui vocabolario ed il cui schema concettuale non permetterebbe ai fenomeni da ridurre di avere un significato — Hooker ipotizza la possibilità di costruire un’immagine equipotente22 della teoria da ridurre la quale possa essere formulata nel linguaggio della teoria riducente e quindi essere dedotta da quest’ultima senza lasciarne al di fuori possibili sfumature. Con questa immagine isomorfica23 dev’essere possibile dunque spiegare, descrivere, rendere intellegibili i fenomeni (e le leggi che li governano) della teoria che si sta riducendo attraverso la metodologia ed i concetti della teoria che deve operare la riduzione. Certo, Hooker non nasconde le difficoltà che sorgono nella creazione di questo terzo nuovo livello, ma importante è il fatto che a partire da questo divenga possibile una pura deduzione. Riportiamo una sua descrizione di questo approccio citata dallo stesso Bickle:

Within TB construct an analog, T*R, of TR under certain conditions CR such that TB and CR entails T*R and argue that the analog relation, AR, between TR and T*R warrants claiming (some kind of) reduction relation, R, between TR and TB. […] What this discussion indicates so far is that, while the construction of T*R within TB may be a complicated affair […] the ultimate relation between TB and T*R remains straightforward deduction. The importance of this is that TB continues to directly explain T*R and this is the basis for TB’s indirect explanation of TR’s erstwhile scientific role.24

Questo tipo di riduzione offre dunque la possibilità di sormontare le difficoltà implicite nel concetto di legge-ponte, come Bickle afferma, riuscendo a superare quello che era stato un vessante problema del riduzionismo di stampo nageliano.

Un altro argomento importante subentrato nel nuovo modello di riduzione interteorica è quello di David Lewis secondo cui tale riduzione è tipicamente dominio-specifica. L’esempio più celebre di cui ci si avvale per esemplificare tale questione è quello della riduzione della termodinamica classica alla microfisica ed alla meccanica quantistica. Con questo argomento viene del tutto superata la critica alla riduzione interteorica posta dalla realizzabilità multiplanella versione da Fodor definita come across physical structure types, ossia l’ipotesi originaria di Putnam secondo cui vi è differenza nella realizzazione di uno stato psichico tra enti differenti. Per quanto riguarda invece la realizzabilità multipla nel suo senso più radicale, secondo cui anche in uno stesso individuo in tempi diversi lo stesso stato mentale viene realizzato differentemente, Bickle fa ricorso alla storia delle ricerche neuroscientifiche ed alle tecniche ivi utilizzate, le quali se Fodor fosse nel giusto non avrebbero ragion d’essere:

A guiding methodology in contemporary neuroscience assumes continuity of underlying physical mechanisms both within and across individuals and species. This assumed continuity is more than a mere analogy, especially at the level of cellular and molecular neuroscience, and informs most experimental techniques, research paradigms, and theoretical conclusions. (Special techniques also exist to control for idiosyncratic activity on individual trials: e. g., subtraction techniques in PET (Positron Emission Tomography) imaging. […]) If the radical sense of multiple realizability really obtained to the degree stressed by anti-reductionists, the experimental techniques of contemporary neuroscience would have borne little fruit. But clearly these techniques are effective and not hopelessly naïve, and this is evidence that the kinds postulated by psychological theories might not be as radically multiply realized as anti-reductionists imagine.[^25]

5. Una sconfitta?

Nell’articolo Multiple realizability revisited: linking cognitive and neural states25 William Bechtel e Jennifer Mundale ci offrono l’argomento decisivo che conduce al superamento della congettura della realizzabilità multipla. In tale scritto, infatti, i due studiosi si occupano di dimostrare le seguenti affermazioni:

  • le neuroscienze possono realmente aiutarci a comprendere come funziona la nostra mente-cervello;
  • il concetto di brain state è interamente di tipo filosofico, non è un dato di fatto;
  • il successo della realizzabilità multipla è basato su di un errore metodologico.

L’idea guida nella formulazione di tale discorso è, per Bechtel e Mundale, che la teoria giusta da adottare quando si voglia studiare il rapporto mente-corpo è quella che essi definiscono una identità di tipo dal valore euristico.

Innanzitutto, i due studiosi mettono a fuoco un punto importante del discorso: con la realizzabilità multipla vengono messi a confronto stati mentali e stati fisici, e di essi si parla come di enti ben definiti; in realtà, tanto gli uni quanto gli altri non vengono caratterizzati in un modo preciso ed universalmente condivisibile. Ma mentre nel caso degli stati mentali — enti referenzialmente opachi e caratterizzati da proprietà per definizione non oggettivabili — tale problema era stato tenuto in debito conto,26 per quanto concerne lo stato cerebrale i filosofi non si sono mai posti il problema, considerando tale stato del tutto scientificamente delimitato ed osservabile oggettivamente:

When Putnam characterizes brain states, he treats them as physical-chemical states of the brain. While an appeal to physics and chemistry may be an intuitively plausible way of characterizing brain states, it is not how scientists characterize them. Actually, the notion of a brain state is a philosopher’s fiction; a notion closer to what neuroscientists would use is activity in the same brain part or conglomerate of parts. […] By considering how neuroscientists map brains, we will demonstrate that the scientifically operative notion of a «brain state» differs from the sort of fine-grained conception of brain states employed in philosophy; it is more coarse-grained and linked to an equally coarse-grained notion of psychological state27 (corsivo mio).

Di qui la chiarificazione del problema. Sin dall’inizio, nell’identificazione di un’area funzionale nel cervello giocò un ruolo potente la possibilità che una certa funzione potesse essere comune a cervelli di differenti specie. Ciò non implicava l’idea che tale funzione venisse molteplicemente realizzata ma, anzi, si basava sull’ipotesi di una profonda comunanza nell’organizzazione cerebrale delle specie esaminate o, meglio, nelle strutture di base che realizzano le diverse funzioni.28 In ambito questa volta filosofico tuttavia in seguito la nozione di stato cerebrale mutò il suo significato originario creando false convinzioni e generando un errore linguistico-concettuale il quale ha a sua volta procurato le basi per l’origine di un problema metodologico. Infatti, potendo la realizzabilità multipla contare su di una intuitiva visione del mondo,29 venne semplicemente cercato un riscontro fattuale, il cui caso può essere semplicemente dato applicando un tipo di classificazione diversa ai due enti posti in correlazione (più puntuale per gli stati fisici, più «grossolana» per gli stati mentali):

One diagnosis of what has made the multiple realizability claim as plausible as it has been is that researchers have employed different grains of analysis in identifying psychological states and brain states, using a coarse grain to identify psychological states and a fine grain to differentiate brain states. Having invoked different grains, it is relatively easy to make a case for multiple realization. But if the grain size is kept constant, then the claim that psychological states are in fact multiply realized look far less plausible.30

Ma se si muta prospettiva e si sceglie di passare da un ingenuo — quasi «pre-copernicano» — approccio alla realtà, ci si accorge che la questione della realizzazione multipla è talmente mal definita da trovare proprio in questa scarsa e controversa definizione il suo punto di maggior forza. Riassumendo, ciò che Bechtel e Mundale vogliono dire è che i neuroscienziati hanno costruito un concetto di stato cerebrale molto generico ma sufficiente al loro programma di ricerca, e la stessa cosa è avvenuta tra i filosofi nel concepire gli stati mentali. Ma poi nel pensiero filosofico si è creata una confusione che ha fatto ritenere che gli stati cerebrali fossero qualcosa di differente e di più particolareggiato: talmente particolare ed unico da condurre all’idea di Putnam che ha dato origine all’ipotesi della realizzabilità multipla. Se, come sembra, condividiamo con altre specie animali alcuni processi cognitivi, dev’esserci infatti qualche concetto psicologico applicabile a tutti, ma realizzato in un chimerico «modo diverso» solo perché ognuno di noi è, banalmente, diverso!

Questo errore classificatorio (o di caratterizzazione dello stato fisico che dir si voglia), e di conseguenza l’errore nell’analisi degli stati mentali rispetto agli stati cerebrali, ha fatto sì che l’ipotesi della realizzabilità multipla venisse avvalorata. Bechtel e Mundale tuttavia sostengono — in modo convincente — che se iniziassimo ad utilizzare lo stesso metro nell’indagare entrambi i fenomeni, troveremmo una mappatura completa degli stati mentali nel cervello: troveremmo cioè un’identità di tipo:

For example, one can adopt a relatively coarse grain, equating psychological states over different individuals or across species. If one employs the same grain, though, one will equate activity in brain areas across species, and one-to-one mapping is preserved (though perhaps further taxonomic refinement and/or delineation may be required).31

Di qui l’identità di tipo come euristica cui si è precedentemente accennato, e che viene così definita:

HIT (Heuristic Identity Theory) proposes that identity claims between psychological processes and neural mechanism are advanced as heuristics that serve to guide further research. Emphasizing the thoroughly hypothetical character of identity claims in science, HIT focusses on the way that proposed identifications of psychological and neural processes and structures contribute to the integration and improvement of our neurobiological and psychological knowledge. Hypothesized identities advance research by suggesting new avenues for the empirical investigation of both mind and brain.32

6. Considerazioni conclusive

In conclusione si ritiene che la congettura della realizzabilità multipla, considerata in origine quasi un asso nella manica a favore di argomentazioni anti-riduzionistiche, ora non riesce più a far timore:

  • il funzionalismo senza di essa può sopravvivere benissimo;33
  • il riduzionismo non ne è intaccato;34
  • per il nuovo paradigma del riduzionismo metodologico non avrebbe null’altro da dire;
  • non ci sono prove a suo favore35 ma un buon argomento — quello di Bechtel e Mundale — a suo svantaggio.

Ci si potrebbe a questo punto chiedere: essendo consapevoli degli errori a cui si può andare incontro basandosi su definizioni così generiche ed inaffidabili, come si può parlare ancora di stato mentale e di stato neurale? La risposta è, provvisoriamente, la seguente: per alcuni ambiti in cui il concetto di stato mentale viene invocato,36 esso potrebbe bastare pur nella sua problematicità; altrove, dove esso pone dei seri problemi o conduce a fraintendimenti, probabilmente dovrebbe essere abbandonato in favore di un concetto maggiormente definito ed osservabile.

Per quanto riguarda il concetto di stati neurali, invece, è Churchland37 a tracciare una nozione che vuole essere utilizzabile empiricamente come criterio oggettivo per confrontare stati neurali di individui differenti. Infatti, ciò che s’intende normalmente per stato cerebrale, abbiamo detto, non è altro che una finzione filosofica, mentre nelle neuroscienze uno stato neurale corrisponde ad una certa zona di attivazione media in risposta ad un tipo di input; e dunque si tratta di una nozione a cui di per sé non sono facilmente applicabili criteri relazionali. Churchland parte dall’idea secondo cui ogni neurone assume il proprio ruolo non per la propria individualità specifica o per la propria posizione assoluta, ma in virtù delle relazioni intessute con gli altri neuroni. E, a suo avviso, nonostante la diversità individuale è comunque possibile ravvisare una residua e robusta similarità nella strategia di codifica dell’informazione, la quale si rispecchia appunto nella posizione reciproca (e dunque relativa) assunta dai neuroni. Per Churchland esiste dunque una configurazione isomorfica di punti passibile di osservazione oggettiva della quale usufruire se si vuole avere un’idea della similarità nelle mappe concettuali presenti in individui diversi. Questo è possibile perché usiamo una stessa organizzazione concettuale (chissà, magari perché più semplice da creare o mantenere attiva) per far fronte ad un comune problema discriminatorio. E questo di Churchland è un buon concetto da cui partire nel caso si vogliano relazionare stati neurali.

Riassumendo, si è tentato di formulare un brevissimo chiarimento attorno alla nozione di realizzazione multipla ed al ruolo che questa tesi (mal supportata dai fatti e mal definita dalla filosofia) grazie alla sua grande forza evocativa ha potuto giocare in un quadro di ricerca così influente. La speranza è che possano sorgere, in luogo delle ambiguità linguistiche e concettuali, dei perni attorno cui far ruotare in comune lo studio ed il vocabolario di tutte quelle discipline che ancora s’interrogano, oggi come duemila anni fa, sulla relazione intessuta da ciò che viviamo come la nostra vita mentale e ciò che sperimentiamo essere il nostro corpo fisico.

7. Bibliografia generale

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  1. J. Bickle, «Concepts of intertheoretic reduction in contemporary philosophy of mind», a metà del § 6, URL: http://host.uniroma3.it/progetti/kant/field/cir.htm.

  1. H. Putnam, «La natura degli stati mentali», in Mente, Linguaggio e Realtà, Adelphi, 1987, p. 318. ↩︎

  2. Per dualismo s’intende una teoria del rapporto mente-corpo secondo cui la mente ed il corpo devono essere considerate entità diverse nella loro essenza, nei modi d’azione, nelle leggi cui sottostanno, nel tipo di causazione e finanche nel modo in cui devono essere studiate. Un dualismo di questo tipo viene chiamato dualismo delle sostanze in quanto, appunto, parla di mente e corpo come di due sostanze a sé stanti. Il padre fondatore di tale concezione è René Descartes, il quale è nello stesso tempo l’esempio più illustre di un filosofo che basa tutto il suo pensiero su quest’idea. Ricordiamo brevemente che in Cartesio res cogitans (mente, sostanza pensante) e res extensa (materia fisica) hanno tutte le caratteristiche di eterogeneità sopra riportate e sono tra loro in comunicazione in una parte speciale del nostro corpo, la cosiddetta ghiandola pineale, nella quale avviene quindi il misterioso scambio e la combinazione d’informazioni che conduce al comportamento dell’individuo. ↩︎

  3. Per riduzionismo s’intende in generale una tesi secondo cui ogni stato mentale (una configurazione della nostra mente, ossia un suo modo di essere il quale può possedere un contenuto, sia esso una credenza, un desiderio o la constatazione di uno stato emotivo) può essere ridotto ad un corrispettivo stato del sostrato fisico essendo la stessa cosa (anche se forse non solo la stessa cosa) con esso. ↩︎

  4. Ovvero, in generale, l’inserimento della mente nell’ambito della Natura, conseguente alla visione secondo cui essa è un fatto biologico naturale, non più qualcosa di misterioso e di altro dal corpo da spiegare con mezzi differenti da quelli delle scienze naturali. ↩︎

  5. S. Freud, Introduzione alla Psicoanalisi, Boringhieri, Torino, 1969, p. 258. ↩︎

  6. Ma che cosa s’intende per «identico»? Ed esattamente, quale tipo di stato mentale è identico ad uno stato fisico? Questi interrogativi si pongono nel momento in cui si cerchi effettivamente di capire il funzionamento di una certa identità. Si prenda l’esempio del dolore come stato mentale: bisogna capire in che senso il dolore è identico ad uno stato neurale. Con la parola «dolore» infatti si può intendere sia il singolo dolore provato da un singolo individuo in un determinato momento ed in certe circostanze variabili, sia la classe dei dolori possibili e variamente esperibili: l’identità s’instaura quindi tra una certa base fisica ed una classe di eventi mentali tutti accomunabili sotto una stessa etichetta (quale «dolore») oppure tra tale base fisica e singole occorrenze dell’evento mentale che si pensa identico ad esso? Questo è uno degli interrogativi che la tesi della realizzabilità multipla per sua propria natura lascia aperti. ↩︎

  7. U.T. Place, «Is consciousness a brain process?», British Journal of Psychology, 47, 44-50, 1956. ↩︎

  8. J.J.C. Smart, «Sensations and brain processes», The Philosophical Review, n. 68, 1959, pp. 141-56. ↩︎

  9. D.M. Armstrong, A Materialist Theory of the Mind, London, Routledge, 1968. ↩︎

  10. H. Putnam, «La natura degli stati mentali», cit. alla nt. 1↩︎

  11. E. Nagel, La Struttura della Scienza, Feltrinelli, Milano, 1968. ↩︎

  12. Senza entrare nei dettagli del pensiero fodoriano, si rimanda per un approfondimento ad altre specifiche trattazioni: J. Fodor, Mente e Linguaggio, a cura di F. Ferretti, Laterza, Bari, 2003; M. Marraffa, Scienza Cognitiva. Un’Introduzione Filosofica, CLEUP, Padova, 2002. ↩︎

  13. Secondo cui gli stati mentali interagiscono causalmente con il fisico. ↩︎

  14. J. Fodor, «Special Sciences», in Representations, the MIT Press, Cambridge Mass., 1981, p. 137. ↩︎

  15. Per la trattazione di questo argomento si veda W. Bechtel, Filosofia della mente, il Mulino, Bologna, 1992, pp. 133-146. ↩︎

  16. “Sebbene la posizione da me descritta neghi l’esistenza di leggi psicofisiche, è compatibile con l’idea che le caratteristiche mentali sono in qualche senso dipendenti da, o che sopravvengono a caratteristiche fisiche. Si può intendere tale sopravvenienza nel senso che non possono esserci due eventi simili in tutti gli aspetti fisici, ma diversi per qualche aspetto mentale; oppure che un oggetto non può mutare per qualche aspetto mentale senza mutare per qualche aspetto fisico. Tale dipendenza o sopravvenienza non implica una riducibilità mediante leggi o definizioni” (D. Davidson, Azioni ed Eventi, il Mulino, Bologna, 1992, p. 293-4). ↩︎

  17. D. Lewis, «Review of art, mind and religion», Journal of Philosophy, 66, 1969, p. 23-35. ↩︎

  18. «Multiple realization and the metaphysics of reduction», in Philosophy and Phenomenological Research, Vol. 52, No. 1, Mar., 1992, pp. 1-26. ↩︎

  19. L.A. Shapiro, «Multiple realizations», Journal of Philosophy, vol. 97, num. 12, pp. 635-654, 2000; disponibile all’URL: http://philosophy.wisc.edu/shapiro/HomePage/multiplerealizations.pdf; «The metaphysics of multiple realizability: it’s like apple and oranges», URL: http://philosophy.wisc.edu/shapiro/papers/apples%20and%20oranges.htm↩︎

  20. Intendiamo con questo collegarci a quello che Kim chiama il principle of causal individuation of kinds che incontreremo di nuovo tra poco (cfr. nota 23). ↩︎

  21. J. Bickle, Psychoneural Reduction: the New Wave, The MIT Press, Cambridge, 1998. ↩︎

  22. Ovvero, che abbia la stessa potenza esplicativa sugli stessi enti. ↩︎

  23. Due teorie, in questo ambito, possono dirsi isomorfe se trattano dello stesso fenomeno considerandolo con uno stesso schema concettuale pur cambiando il vocabolario col quale tale fenomeno si trova ad essere analizzato. ↩︎

  24. Ivi, p. 27. ↩︎

  25. W. Bechtel e J. Mundale, in Philosophy of Science, 66 (June 1999), pp. 175-207. URL: http://mechanism.ucsd.edu/~bill/research/multiplerealizabilityrevisited.pdf↩︎

  26. Alcuni studiosi hanno infatti proposto dei modi per catalogare, per così dire, il mentale con specifiche categorie: si pensi al principle of causal individuation of kinds di Kim, dal quale deriva che un tipo mentale possa essere classificato in virtù del ruolo che occupa nel muovere all’azione, ovvero del meccanismo causale che è in grado di porre in atto. ↩︎

  27. «Multiple realizability revisited: linking cognitive and neural states», cit. alla nt. 26, qui p. 177. ↩︎

  28. Lo si può facilmente constatare se si osserva il modo stesso di procedere dei ricercatori nell’ambito delle neuroscienze. Si veda in proposito anche Tim Shallice, Neuropsicologia e Struttura della Mente, il Mulino, Bologna, 1990; Carlo Umiltà, Manuale di Neuroscienze, il Mulino, Bologna, 1995. ↩︎

  29. Secondo la quale, cioè, “Intuitively, a rat brain is sufficiently different from a human brain that the identification of brain areas in the two brain would be precluded” («Multiple realizability revisited: linking cognitive and neural states», cit. alla nt. 26, qui p. 201). ↩︎

  30. Ivi, p. 202. ↩︎

  31. Ivi, p. 202. ↩︎

  32. R.N. McCauley e W. Bechtel, «Heuristic identity theory (or back to the future): the mind-body problem against the background of research strategies in cognitive neuroscience», nella Conclusione; disponibile all’URL: http://mechanism.ucsd.edu/~bill/research/HIT.htm↩︎

  33. Abbiamo visto, infatti, che anche lo stesso stato del cervello — identico al corrispettivo mentale-funzionale — viene definito in termini funzionali; si veda («Multiple realizability revisited: linking cognitive and neural states», cit. alla nt. 26↩︎

  34. Ovvero, l’ipotesi della realizzabilità multipla non può più essere invocata in difesa di un anti-fisicalismo. ↩︎

  35. Negli studi neuropsicologici, in effetti, non vi sono testimonianze in favore di tale ipotesi teorica; la mancanza di risultati discriminanti potrebbe dunque essere considerata l’ennesima prova che il problema esaminato è stato mal posto e mal definito. ↩︎

  36. Come, ad esempio, nella psicologia sperimentale, nella quale sono stati trovati metodi con cui gestire lo stato mentale, anche se non completamente (si veda il problema dei qualia: come potremmo rendere gestibile la parte qualitativa dello stato mentale?), quali: 1) l’analisi del comportamento spontaneo, come nel caso in cui una persona vicino a noi pronunciasse il termine «ahi!»: esso sarebbe una manifestazione di un suo stato di dolore del quale potremmo anche definire una graduazione, e cioè forte abbastanza da esser manifestato ma non abbastanza da far scaturire lacrime o altri comportamenti che rivelerebbero un dolore di tipo diverso; 2) l’analisi del comportamento in risposta a test controllati, come avviene nelle indagini della psicologia sperimentale; 3) i resoconti verbali, nei quali si chiede ad una persona analizzata di descrivere ciò che sta provando in un certo momento e soprattutto in risposta a determinate stimolazioni; 4) l’introspezione, con la quale ciascuno di noi può analizzare, descrivere e confrontare diverse sensazioni, fino a poter effettuare tra di esse dei paragoni. ↩︎

  37. P.M. Churchland, «Conceptual similarity across sensory and neural diversity: the Fodor/Lepore challenge answered», The Journal of Philosophy, vol. XCV, no. 1, gennaio 1998, pp. 5-32. ↩︎