Un’esecuzione capitale redentrice? Domande teologiche e questioni umane

1. Un congedo dal cristianesimo (e dalla teologia)

Nein und Amen, il libro pubblicato nel 1992 a firma di Uta Ranke-Heinemann, merita forse molta più attenzione di quanta gli sia stata dedicata.1 Ad un primo sguardo il testo (nella sua prima edizione sottotitolato «Introduzione al dubbio di fede») appare come uno dei tanti esempi di opere militanti contro la dottrina cristiana: in diciotto capitoli vengono affrontati tutti i punti più caratteristici del credo e della tradizione, e tutti vengono demoliti come palesemente assurdi se pretendono ad una dignità intellettuale di carattere metafisico (a cominciare dall’incarnazione e la trinità, per arrivare fino alle rappresentazioni dell’aldilà), falsi o falsificati se asseriscono qualche cosa di storicamente fattuale (per esempio la presenza di Pietro a Roma, o l’attribuzione di molti scritti neotestamentari), favolosi e incredibili se vogliono incrociare i due livelli (per esempio i racconti dei miracoli, o la resurrezione di Gesù). Se le due ultime categorie possono essere ricondotte a movimenti interni alla teologia cristiana (il metodo storico-critico, per esempio, o la demitizzazione di Bultmann), almeno la prima, nei contenuti e forse ancor più nel tono usato, pone l’opera chiaramente al di fuori di qualsiasi appartenenza cristiana nel senso comune della parola. Certamente (come è prevedibile) da quest’opera di distruzione rimane salva la figura di Gesù: del quale biograficamente si sa pochissimo, tranne la sfortunata morte ad opera dei Romani, ma del quale rimane un altissimo insegnamento morale umano: un insegnamento che però la tradizione cristiana ha contribuito molto di più ad oscurare, inquinare e falsificare che a trasmettere. E il fatto che questa falsificazione inizi potentemente nel Nuovo Testamento rende velleitario anche ogni progetto ingenuo di ritorno alla purezza della Scrittura. In Nein und Amen anche l’esistenza di Dio, a dire il vero, resiste a quest’opera di demolizione: ma è un Dio intimo, personale, umano, quello all’incontro col quale Gesù invitava, che ha ben poco a che fare con l’artefatto dogmatico delle tradizioni cristiane. Così presentato, il libro di Uta Ranke-Heinemann difficilmente può apparire particolarmente interessante: le stesse identiche osservazioni si ritrovano in mille altre opere.2

Molto più interessante, invece, è questo libro quando si ha presente il curriculum dell’autrice. Brevemente: Uta Ranke-Heinemann ha studiato teologia evangelica per tredici semestri (dal 1947), durante i quali intrattenne stretti rapporti con Rudolf Bultmann (nel suo libro si può permettere di citare la sua corrispondenza privata con lui), fino alla sua conversione al cattolicesimo nel 1953. Allora inizia a studiare teologia cattolica a Monaco, avendo come compagno di studi tra l’altro Joseph Ratzinger, e addottorandosi nel 1954 sotto la guida di Michael Schmaus, uno dei nomi più influenti della teologia dogmatica immediatamente preconciliare (e perito egli stesso al Concilio Vaticano II). Dopo alcuni anni di insegnamento di carattere pedagogico, nel 1969 si abilita in teologia cattolica, promossa da una giuria il cui primo membro era Karl Rahner. L’anno successivo inizia ad insegnare la relativa disciplina. Anche se ciò di per sé aggiunge poco al suo curriculum, è certamente significativo che Uta Ranke-Heinemann è stata la prima donna a conseguire un dottorato in teologia, la prima a conseguire l’abilitazione, la prima ad avere un insegnamento di teologia. L’incarico di teologia le viene ritirato dal vescovo di Essen, Franz Hengsbach, nel 1987 dopo che ella dichiara di non poter credere alla realtà biologica della concezione verginale di Gesù: il suo appello ad idee similissime di Karl Rahner e Joseph Ratzinger non la salva dal provvedimento di esclusione. Subito dopo Uta Ranke-Heinemann pubblica Eunuchi per il Regno dei Cieli, un campione di vendite mondiale in cui viene ricostruita, con toni caustici, la storia delle idee della Chiesa sulla sessualità. Quattro anni più tardi è la volta del già citato Nein und Amen, che sarà riveduto e ristampato nel 2002 con il sottotitolo più esplicito: «Il mio congedo dal cristianesimo tradizionale». Insomma: Uta Ranke-Heinemann non è soltanto una fuoriuscita dalla Chiesa (cosa molto comune tra i critici più accesi della dogmatica cristiana), ma è una seria (già) teologa che ha avuto il privilegio di stare a contatto con alcuni degli esponenti più intelligenti della teologia contemporanea, il progetto dei quali ha per la maggior parte della sua vita condiviso e che perfino nella sua ultima fase non-cristiana continua a stimare (basti rileggere le parole elogiative che scrive in occasione dell’elezione al papato di Joseph Ratzinger). Insomma: Nein und Amen, malgrado i toni spesso irritati (e forse irritanti), non può essere scartato come una banale opera anticlericale e rancorosa.

Nella rapida sintesi prima tracciata abbiamo omesso un aspetto capitale di quest’opera, sul quale vogliamo soffermarci: l’ultimo capitolo, il più lungo, è dedicato all’idea di redenzione. Più esattamente, il suo titolo è «Redenzione tramite esecuzione» (pp. 638-705) ed è una critica spietata alla soteriologia tradizionale, che sostiene un valore espiatorio della morte di Gesù in croce. Il fatto che questo sia l’ultimo tema affrontato può dipendere in parte dal fatto che esso riguarda più lo svolgimento della dottrina cristiana che le sue fonti neotestamentarie (nelle quali pur è presente), ma in parte certamente anche dal fatto che esso viene presentato dall’autrice come l’aspetto più sconveniente, più sbagliato, più disumano del cristianesimo tradizionale. La favola dell’ascensione di Gesù (puta caso) è solo offensiva per l’intelligenza se creduta nella sua letteralità; il concepimento verginale di Gesù (dall’altra parte) è un mito di per sé innocuo, benché nella storia della Chiesa sia stato funzionale al mantenimento del potere da parte di maschi celibi. Ma il caso della teoria della redenzione è diverso: qui si tratta di una fantasia morbosa, fin dall’inizio dannosa perché perverte oltre ogni limite il significato delle parole umane di Gesù. Eppure questa fantasia è esattamente quella che per tanti secoli (e in parte, ritiene l’autrice, anche oggi) ha definito il nucleo del cristianesimo come religione di salvezza. Quali sono nel dettaglio gli argomenti di Uta Ranke-Heinemann?

Il discorso condotto di Nein und Amen non è esattamente lineare, ma i suoi punti capitali possono essere riordinati così. Il punto di partenza è che la morte in croce di Gesù è una crudele esecuzione capitale: riconoscerle un valore salvifico significa affermare che la pena di morte fa parte della «santità dell’ordinamento divino» (parole che l’autrice cita letteralmente da un testo di pochi anni prima del card. Joseph Höffner, p. 642): «Dio è il supremo avvocato della pena di morte, giacché egli ha condannato suo figlio a morte e ha voluto la sua crocifissione: come mezzo di redenzione» (p. 643). Se l’Impero Romano fosse stato più civile e avesse abolito la pena di morte, la redenzione (secondo i teologi cristiani) non sarebbe potuta avvenire: ciò significa che in fondo sono stati i boia romani a salvare l’umanità (pp. 658-659). Ma in questo modo Dio stesso dimostra di essere un amante del sangue umano. Tale mostruosità arriva fino al punto da attribuire perfino alla madre di Gesù l’approvazione della crocifissione del figlio, tanto che ella stessa (come nel XV secolo afferma Antonino di Firenze) sarebbe stata pronta, se nessun altro lo avesse fatto, ad inchiodare alla croce Gesù (pp. 646-647; appena più sfumata l’idea di Giovanni Paolo II, secondo cui Maria «acconsentì amorosamente al sacrificio della vittima», p. 647). Queste idee hanno causato il proliferare di un linguaggio sadico e morboso, in cui, come nello Stabat Mater, si chiede la grazia di potersi ubriacare del sangue di Cristo (p. 642), anziché invocare la vita e protestare contro la condanna di Gesù: «i cristiani sono desiderosi di vedere Gesù inchiodato in accordo con la volontà divina, e non hanno la minima intenzione di salvarlo dalla croce» (p. 654). Questo linguaggio cruento permea la sensibilità cristiana, al punto che una comune preghiera della sera protestante per bambini invoca il «sangue di Gesù» per trasformare il male in bene (p. 658). Come Eugen Drewermann ha ricordato, questo linguaggio non può che provocare in ogni bambino anzitutto sensi di colpa per la propria cattiveria che ha causato la morte di Cristo (p. 666). Certamente già nei vangeli esistono passi in cui quest’idea della morte redentrice viene messa in bocca a Gesù (in primis nelle parole dell’ultima cena): ma queste, secondo il giudizio di Rudolf Bultmann, sono interpretazioni della prima comunità ellenistica, non parole autentiche di Gesù: ciò mostra che tutta l’interpretazione redentiva della morte di Gesù è un’eco della sensibilità religiosa pagana (quella che amava i sacrifici umani come modo per placare la divinità) e non ha nulla a che fare con la predicazione autentica di Gesù (p. 664). Di fatto l’antichissima Didaché non presenta alcuna traccia di quest’interpretazione e mostra un modello di eucarestia completamente diverso da quello che presto si sarebbe imposto (p. 665). Il problema, sottolinea Uta Ranke-Heinemann, non è insomma in qualche fraintendimento popolare (come i teologi più avveduti vorrebbero far credere), ma nella linea principale stessa della teologia cristiana, che inizia fin dalla redazione dei Vangeli. La teoria della sostituzione vicaria di Anselmo d’Aosta (secondo la quale il sacrificio di un Dio-uomo è necessario per espiare la colpa infinita di un’offesa a Dio: una «follia barbara», un «calcolo dell’orrore», p. 674) non è un’occasionale aberrazione intellettuale, ma un culmine logico che è stato innumerevoli volte ripetuto nella storia della teologia e della predicazione cristiana.3 Gli stessi simboli di fede cristiani non dicono nulla sulle parole o la vita di Gesù, ma saltano direttamente dalla nascita alla morte: «con la sua religione del sacrificio umano, la cristianità ha sostituito la parola di Gesù con una teologia del boia» (p. 675).

2. Una questione umana

Non è ovviamente possibile ripercorrere nel dettaglio tutte le affermazioni di Uta Ranke-Heinemann, che in più di un caso ad un esame appena attento si rivelano molto meno sicure di quanto appaiano.4 È però necessario fare almeno due osservazioni. La prima è anzitutto biografica. Come abbiamo visto nel nostro breve sunto, l’autrice cita come esempio dell’infezione sadica del linguaggio teologico della redenzione una preghiera della sera protestante per bambini. Ci vuole poco ad immaginare che questa sia stata anche, per lunghi anni, la sua stessa preghiera. In questo caso però non c’è bisogno di contentarsi di ipotesi, perché in una conferenza tenuta nel 2013 è stata lei stessa a dirlo esplicitamente.5 Dopo aver riferito il testo di questa preghiera per bambini, allegra e innocente se non fosse per l’improvvisa comparsa del sangue di Cristo come rimedio alle marachelle della giornata, Uta Ranke-Heinemann riferisce il suo persistente sgomento: «Ma perché sangue? ho fatto qualcosa di male?». E prosegue commentando: «Per tante piccole pensatrici il biglietto di entrata per il paradiso è sporco di troppo sangue. Sarebbe meglio che i cristiani, anziché celebrare la crudele esecuzione capitale di Gesù e bere il suo sangue, seguissero l’esempio della sua vita». Quando scrive queste righe, ormai il suo congedo dal cristianesimo è totale: non si tratta più, come detto una decina di anni prima nel sottotitolo della sua opera, solo di quello «tradizionale»: i «cristiani» vengono qui nominati sempre come un gruppo estraneo. Ma soprattutto, appunto, viene dichiarato apertamente il problema personale, che ha accompagnato l’autrice fin da un’infanzia i cui punti oscuri sono stati la paura della morte e lo sgomento di non poter più vedere le persone amate da una parte, dall’altra un’immagine mortifera della redenzione che ha acuito anziché consolato questa paura. Il rifugio in una sorta di religione del dubbio viene narrato come salvifico, ed è al suo interno che riappare (seppure appena intravisto) un Dio razionale e buono. Delle tre virtù teologali la fede è dissolta, ma almeno sono rimasti speranza e amore.

Liquidare Nein und Amen come una tappa nel districamento di un groviglio psicologico personale mancherebbe però (ci pare) completamente l’obiettivo. È vero che il disagio di Uta Ranke-Heinemann ha evidentemente alimentato buona parte della sua demolizione della soteriologia tradizionale, e sicuramente ne spiega la foga. Però esso testimonia perlomeno il fatto che il problema che ella pone è davvero un problema umano.6 Non si tratta solo di bilanciare le parole in maniera da formulare ermeneutiche equilibrate della vicenda di Gesù: si tratta (dal punto di vista della teologia cristiana, ovviamente) di far sì che le sue parole continuino ad essere «parole di vita», e non siano trasformate in parole di morte. In questione, insomma, c’è la vita umana: una preoccupazione a cui una teologia degna di questo nome non può essere ultimamente estranea.

La seconda osservazione dev’essere invece molto più ampia e riguarda la pertinenza delle sue critiche nel contesto della teologia contemporanea. Notiamo anzitutto che è difficile dar torto all’autrice sulla pervasività del linguaggio del sacrificio nella cultura cristiana, anche contemporanea. Sarebbe per esempio spontaneo replicarle che sia improprio e fuori tempo massimo contestare la teoria della soddisfazione vicaria di Anselmo d’Aosta: un tentativo brillante sì, ma situato in un particolare clima razionalistico, poggiante su presupposti sociali e culturali oggi assenti e di fatto abbandonato, inquinato (come spesso si è ripetuto) da una mentalità «giuridica». Ma per smentire questa replica basterebbe percorrere il testo del Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicato nel 1992.7 Esso assume con poche sfumature la spiegazione di Anselmo d’Aosta: i responsabili della morte di Gesù sono tutti gli uomini peccatori, perché Gesù muore per loro (n. 598), la morte di Gesù è stata voluta da Dio (Padre), seppure gli esecutori materiali non siano stati in ciò passivi (nn. 599-601), la solidarietà di Gesù con i peccatori significa l’assunzione che egli fa delle conseguenze del peccato, pur essendo senza peccato (nn. 602-603), nella morte di Gesù si manifesta l’amore di Dio (nn. 604-605), Cristo si incarna allo scopo di portare a termine la sua passione redentrice, lasciandosi portare in silenzio al macello (nn. 606-608), l’umanità passibile e mortale di Cristo è dunque «lo strumento libero e perfetto del suo amore divino» (n. 609: ecco un aspetto cruciale della spiegazione di Anselmo), ciò che ha carattere redentore è esattamente la morte di Gesù, come anticipato nell’ultima cena (nn. 610-612), il sacrificio di Gesù dunque è in «sostituzione» dei peccatori e dà «soddisfazione al Padre» per i loro peccati (nn. 613-615: un secondo aspetto centrale di Anselmo), solo lui, essendo Dio oltre che uomo, è in grado di prendere su di sé i peccati di tutti gli uomini (n. 616: appena sfumato, ancora un punto centrale di Anselmo), dunque per questo la croce va venerata (n. 617). Se si prova a confrontare l’esposizione più breve del Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, pubblicata nel 2005, o di YOUCAT, la versione destinata ai giovani apparsa nel 2010, si trova una maggiore brevità ma nessuna variazione. Insomma, in testi che vengono scritti per riassumere, perfino con una finalità immediatamente formativa, gli aspetti essenziale della fede cristiana, non si trova solo il contenuto neotestamentario, ma anche quella loro particolare interpretazione risalente ad Anselmo d’Aosta, quella che nelle parole di Uta Ranke-Heinemann è una «follia barbara» e un «calcolo dell’orrore». Si potrebbe tentare di replicare che un aspetto cruciale di quest’interpretazione, quello più inquietante, non viene in realtà integrato: si tratta della sua interpretazione della «soddisfazione», secondo cui essa è una punizione che sottrae al trasgressore (e restituisce all’offeso) quanto egli ha sottratto trasgredendo, e anzi più ancora: questa punizione sarebbe necessaria per preservare la bellezza del creato, che altrimenti patirebbe per un perdono offerto per pura misericordia. In questa prospettiva, dunque, anche se Gesù è innocente la sua esecuzione capitale «dà soddisfazione» a Dio e ripristina l’armonia del mondo. Questa replica è però molto fragile: anzitutto perché, anche se effettivamente mancano i dettagli, il termine chiave «soddisfazione» (che non è certo neotestamentario ma anselmiano!), come abbiamo visto, viene usato; in secondo luogo perché comunque nessun’altra spiegazione alternativa viene minimamente data. Certo, forse più che in Anselmo viene ribadito che sia da parte del Padre, sia da parte del Figlio si tratta nella redenzione di un gesto di amore: ma questa sottolineatura purtroppo non spiega affatto in maniera diversa perché proprio e solo la morte violenta di Gesù abbia un carattere redentivo, al punto che quest’esecuzione capitale è stata la finalità della sua incarnazione. Insomma: non è quindi prima facie assurda l’osservazione di Uta Ranke-Heinemann secondo cui la teoria classica della redenzione cristiana non può fare a meno della rivendicazione della necessità morale della pena di morte.8

3. «Si sarebbe rivoltato contro questa crocifissione»

Ma, una volta costatata la pervasività del linguaggio del sacrificio, significa ciò che non esistano alternative all’interno della teologia cristiana? Ovviamente no, esse attraversano anzi una parte importantissima della teologia contemporanea. Una di esse è anzi citata da Uta Ranke-Heinemann alla fine del capitolo sulla redenzione e proviene dal suo compagno di studi Joseph Ratzinger, nella sua celebre Introduzione al Cristianesimo.9 Vale perciò la pena vederla più estesamente. Ratzinger affronta il tema per due volte. La prima volta, in via preliminare, all’inizio della discussione degli articoli del Credo riguardanti Cristo (pp. 188-191). Egli anzitutto nota che l’ormai tradizionale divisione delle trattazioni teologiche al riguardo in due parti separate, l’una trattante della persona di Cristo («cristologia»), l’altra del suo ruolo di salvatore («soteriologia») è estremamente sfortunata e conduce all’incomprensibilità di entrambe. In secondo luogo riassume accuratamente l’esposizione di Anselmo e riconosce che, seppure contenga una comprensione corretta del centro della fede cristiana, fedele alle espressioni bibliche, in alcuni aspetti della sua formulazione e soprattutto nel modo semplificato in cui essa è stata poi ripresa lungo i secoli e nella coscienza comune, essa ha reso un pessimo servizio alla comprensione della fede cristiana: «non può essere negato che il sistema legale divino-umano, perfettamente logico, che Anselmo ha eretto distorce le prospettive e con la sua rigida logica può far apparire l’immagine di Dio in una luce inquietante [unheimlich]» (pp. 190-191). Tutto cambia, afferma Ratzinger, se persona e opera di Cristo non vengono separate in due capitoli differenti. Dopo quindi aver parlato di Cristo come modello di umanità (pp. 191-199) e aver aggiunto un lungo excursus sulle «Strutture dello spirito cristiano [Strukturen des Christlichen]», un cui punto centrale è l’essere «per» gli altri (pp. 200-225), Ratzinger giunge alla discussione diretta degli articoli del Credo e, dopo aver esaminato quello riguardante la nascita di Gesù affronta l’altro: «patì sotto Ponzio Pilato, fu crocifisso, morì e fu sepolto» (pp. 235-247). Daccapo egli sottolinea (con più veemenza di prima) i limiti di Anselmo e delle sue versioni popolari: in queste teorie della redenzione sembrerebbe che tutto si gioca su un piano di rigido dare-avere, in più risolto tramite una finzione (Dio che espia al posto nostro): «Da molti testi devozionali nasce l’impressione che la fede cristiana nella croce immagini un Dio la cui inesorabile giustizia ha richiesto un sacrificio umano, il sacrificio del suo proprio Figlio. E ci si volge via inorriditi da una giustizia la cui oscura collera rende impossibile da credere il messaggio dell’amore» (p. 235). Ma il linguaggio del Nuovo Testamento, sostiene Ratzinger, non presenta mai la croce come parte di un meccanismo di reintegrazione di un diritto violato, bensì come espressione della natura radicale dell’amore che si dona completamente. Non è insomma l’uomo che (per interposta persona divina) si riconcilia con Dio offrendogli qualcosa, ma Dio che riconcilia a sé l’umanità: in questo modo le tradizionali concezioni religiose dell’espiazione vengono addirittura capovolte. La croce quindi «sta lì non come un’opera di espiazione che l’umanità offre ad un Dio incollerito, ma come l’espressione di quel folle amore di Dio che si dona, fin dentro all’umiliazione, per poter così salvare l’uomo: è il suo approccio a noi, non il contrario» (p. 237). Per questo anche il culto cristiano ha un movimento inverso rispetto a quello pagano: si tratta essenzialmente di ricevere i doni divini e ringraziare (eucharistein) Dio per questo.

Tuttavia i problemi (per Ratzinger e per i suoi lettori) non finiscono qui. Il fatto è che bisogna ammettere che nel Nuovo Testamento esiste anche una «linea ascendente», che presenta la croce come «il sacrificio che Cristo offre obbedientemente al Padre» (p. 238). Il punto di partenza per risolvere questa (apparente?) contraddizione consiste nell’osservare il punto di partenza delle interpretazioni della croce nel Nuovo Testamento: esso si trova nel disorientamento dei discepoli dopo la morte di Gesù, che viene lentamente superato comprendendo gli eventi tramite le immagini e i concetti dell’Antico Testamento e le sue idee del culto. L’esempio più compiuto di quest’operazione si ha nella Lettera agli Ebrei, che interpreta la morte di Gesù come la vera realizzazione del Giorno dell’Espiazione ebraico: ciò che è stato impossibile tramite la ripetuta e inefficace offerta di animali, finalmente si realizza tramite l’offerta di sé del Figlio di Dio. Quindi la morte di Gesù, che dal punto di vista umano è stato solo un evento profano e di natura politica, in realtà è stata la celebrazione di un’insostituibile liturgia cosmica. L’espiazione compiuta tramite il «sangue» di Cristo è quindi nient’altro che l’espressione del suo amore «fino alla fine». Seppure con un linguaggio cultuale, anche la Lettera agli Ebrei effettua dunque un capovolgimento dell’idea storico-religiosa di sacrificio. Anche nella spiritualità cristiana non è quindi affatto giusto sottolineare le sofferenze di Cristo: «il principio fondamentale del sacrificio non è la distruzione, ma l’amore» (p. 243). Il valore redentivo della Croce non consiste quindi affatto nell’accumulo di sofferenza: «In che modo Dio dovrebbe gioire per il dolore della sua creatura, o addirittura del suo Figlio, o addirittura vedere in esso la moneta con cui da lui dovrebbe essere acquistata la riconciliazione? La Bibbia e la retta fede cristiana sono lontanissime da tali idee» (p. 245). Se così non fosse, bisognerebbe allora dire che i soldati che hanno crocifisso Gesù sono stati i sacerdoti che hanno offerto il sacrificio. L’idea di un Dio che richiede l’uccisione di suo Figlio per pacificare la sua ira è quindi assolutamente estranea al Nuovo Testamento.

Non sorprende che Uta Ranke-Heinemann citi con sollievo il suo antico compagno di studi Joseph Raztinger. Dopo aver riportato un collage di estratti da queste analisi ella conclude: «Giusto. Possiamo supporre che se fosse vissuto in quel tempo, il card. Ratzinger si sarebbe rivoltato contro questa crocifissione» (p. 703). Ma ora, prosegue, le cose sono diverse, perché la teologia ha inserito la crocifissione in un edificio dogmatico che non può più fare a meno di essa: senza morte in croce, non ci sarebbe redenzione. L’osservazione non è sciocca. È vero che Ratzinger rifiuta il «calcolo dell’orrore» della teoria della soddisfazione (che tuttavia attribuisce, senza spiegar bene perché, più che ai ripetitori di Anselmo che a lui stesso). È vero che sottolinea come il valore essenziale non risieda nella sofferenza ma nell’amore. È anche vero che, in una pagina senza dubbio suggestiva (p. 246), ricorda come già Platone aveva scritto che l’esito del perfetto giusto in questo mondo non può essere altro che la persecuzione e la morte (e questa è una necessità non ontologica, ma fondata sulla condizione umana). Ma tutto ciò può dispensare dal linguaggio secondo cui è la morte di Gesù che ha redento l’umanità? Rifiutare l’idea che siano le sofferenze in sé ad avere carattere redentivo (cosa che Ratzinger fa esplicitamente) non è la stessa cosa, né è la stessa cosa rifiutare l’idea di un Dio irato che ordina l’esecuzione capitale del Figlio. Ma la sfida posta da Uta Ranke-Heinemann è esattamente questa. In effetti, nel contesto della discussione dello «Strutture dello spirito cristiano» Ratzinger usa la formula tradizionale «l’uomo è redento dalla croce», presentandolo come un punto centrale della fede cristiana, che avrebbe solo bisogno di essere «reso accessibile alla nostra comprensione odierna» (p. 221). Il problema, quindi, rimane.

4. Comprendere la morte

La biografia di Uta Ranke-Heinemann, come abbiamo visto, si incrocia con un altro grande e influente teologo del Novecento: Karl Rahner. Dato che lo cita con attenzione e stima in altri contesti, è praticamente certo che ella conosca la sua opinione su questo punto cruciale della fede cristiana. Ma qual è appunto la sua opinione? Riassumere le posizioni di Rahner non è mai facile, per la straordinaria ampiezza e complessità delle sue analisi, ma in questo caso il compito è reso accessibile, come vedremo, dalla relativa esiguità delle sue riflessioni in proposito: un’esiguità, ovviamente, che già di per sé fa pensare. La prima presa di posizione di Rahner sulla questione si trova nel suo celebre articolo del 1954 sui «Problemi della cristologia di oggi».10 In poche dense pagine egli si esprime in forma polemica nei confronti della «teologia oggi corrente nelle nostre scuole», centrata (non c’è bisogno di dirlo) sulla teoria della soddisfazione vicaria. Ciò che viene fondamentalmente ad essa rimproverata è l’idea secondo cui Cristo avrebbe potuto redimere l’umanità con qualsiasi atto morale diverso dalla morte, purché Dio lo avesse voluto e lo avesse accettato come soddisfazione vicaria. Questo allentamento del legame tra redenzione e morte a suo parere conduce la dottrina della salvezza in un vicolo cieco: affermare che Dio avrebbe potuto salvare l’uomo «in altro modo» o significa che il mezzo concreto in realtà è identico quanto alla sua causalità, oppure che un’altra causa avrebbe prodotto pur sempre una redenzione, ma un’altra redenzione. Ma la prima ipotesi è indimostrabile, la seconda mostra che si sta parlando solo di un’ipotetica storia di salvezza che non è quella reale: il linguaggio neotestamentario secondo cui l’uomo è redento dalla morte di Cristo (e non da un altro suo gesto) va quindi preso sul serio. Ma per prenderla sul serio (scrive qui Rahner) sono necessarie due cose: anzitutto una migliore comprensione dell’unione ipostatica delle due nature in Cristo; poi una teologia della morte, a parere di Rahner finora completamente inesistente.

Se letto come una polemica nei confronti della teoria di Anselmo, il discorso di Rahner manca completamente il bersaglio. È vero che Anselmo nel Cur Deus homo attraversa continuamente la questione sulla possibilità che Dio avesse potuto salvare in modo diverso l’umanità: ma, pur rifiutando l’idea che Dio sia costretto da qualcosa di esterno, tutte le sue osservazioni vanno nella linea di mostrare come la morte da una parte sia un eccellente esempio morale per gli uomini (meglio perdere la propria vita che violare la giustizia!), dall’altra realizzi proprio essa quel valore infinito in grado di redimere tutti i peccati dell’universo, incluso il peccato di chi uccise Cristo. Il legame tra morte e redenzione è in lui strettissimo. Di fatto e paradossalmente, quindi, Rahner sta protestando contro l’allontanamento da Anselmo da parte della scolastica successiva. La soluzione che però propone è evidentemente del tutto diversa da un ritorno alle origini: non si tratterebbe né di invocare l’ordine metafisico del mondo né di fare appello ad una imitatio Christi, ma piuttosto di capire che cosa sia e quale senso abbia quella morte di Cristo che il Nuovo Testamento dice salvifica. Di fatto, questa strada non pare aver mantenuto le sue promesse. Lo stesso Rahner aveva messo mano al compito da lui individuato nel 1949 (quindi cinque anni prima) con un articolo sulla teologia della morte, poi più volte ripreso.11 Un’analisi esplicita è dedicata proprio alla morte di Cristo e al suo valore redentivo, ma i risultati sono un poco deludenti. La morte redentiva di Cristo viene spiegata come condivisione della condizione umana decaduta, in particolare segnata da quella conseguenza del peccato che è la morte. Nel caso di Cristo quindi perfetta obbedienza al Padre e morte s’identificano nel loro valore redentivo: proprio perché in Cristo c’è pura libertà, la sua morte appare quindi anch’essa come un puro atto di libertà e di amore. Dato che inoltre la vita umana è un continuo approssimarsi alla morte, «prolixitas mortis», parlare del valore redentivo della morte di Cristo significa di per sé includere anche la sua vita. Le osservazioni sono perfettamente coerenti con il discorso neotestamentario: ma aggiungono poco al discorso classico di Anselmo e soprattutto il contributo di una «teologia della morte» appare esile. C’è solo un elemento effettivamente originale: Rahner in questi testi ipotizza che al momento della morte l’anima umana, perdendo il rapporto immediato con il corpo, acquisti una dimensione «pancosmica»: ammettendo la stessa cosa nell’anima di Gesù, ciò aiuterebbe a spiegare l’effetto universale della redenzione di Gesù: egli con la sua morte diventa «cuore del mondo, centro intimo di tutta la realtà creata». Questo è sì un elemento nuovo: ma anche abbastanza estrinseco ed eccentrico rispetto alla dottrina cristiana e pare non contribuire al chiarimento del problema qui in discussione (perché proprio la morte ha valore redentivo?); di fatto, Rahner stesso successivamente abbandonò quest’idea.12

Se la lettura del volume Sulla teologia della morte sembra non mantenere le promesse, l’impressione è un poco diversa nelle celebri lezioni del Corso fondamentale sulla fede, la cui elaborazione era iniziata nel 1964.13 Anche qui la questione della redenzione viene introdotta da una critica alla tradizionale dottrina, giudicata incomprensibile «oggi». Ogni tentativo di spiegare l’idea sottesa di sacrificio è in realtà una critica a questo concetto così come risulta dalla storia delle religioni. La dottrina della redenzione presente nel Nuovo Testamento (che Rahner qualifica sempre come «tarda», per sottolineare la sua possibile distanza dal Gesù storico) è solo una possibile interpretazione di ciò che è implicato nella resurrezione di Cristo, cioè nella fede nel fatto che la volontà salvifica di Dio si è fatta presente storicamente. A maggior ragione, la dottrina della soddisfazione vicaria di Anselmo è certamente «legittima», ma non per questo obbligatoria (tanto più che, nota giustamente Rahner, essa non è stata mai oggetto di esplicita definizione dogmatica nella tradizione cristiana). Ma dove trovare allora un’interpretazione alternativa? Rispetto all’approccio basato su un orientamento ad una teologia della morte, qui appare una sottolineatura diversa: Cristo è anzitutto colui che ha annunciato il Regno di Dio (cioè in definitiva la salvezza per l’umanità peccatrice) e ha tanto dimenticato sé stesso da identificarsi paradossalmente proprio con quest’annuncio. Quindi anche prima della morte e resurrezione Gesù ha potuto sperimentarsi come il salvatore assoluto degli ultimi tempi. Ora basta appurare il fatto, storicamente fondato, che Gesù andò liberamente incontro alla morte, reputata almeno come la sorte normale dei profeti: si può tranquillamente lasciare in sospeso, osserva Rahner, il problema più delicato consistente nell’appurare se Gesù stesso (e non solo la più tarda teologia neotestamentaria) abbia interpretato questa morte imminente come espiatoria. «Accettando liberamente il destino della morte Gesù si abbandona precisamente alle imprevedibili e incalcolabili possibilità della sua esistenza; e, in secondo luogo, Gesù mantiene nella sua morte la sua unica pretesa di un’identità tra il suo messaggio e la sua persona, nella speranza che in questa morte egli sarà giustificato da Dio riguardo a questa pretesa. Ma ciò significa che questa morte è un’espiazione per i peccati del mondo ed è stata adeguatamente consumata in quanto tale» (p. 248). Come avviene spesso in Rahner, il linguaggio tradizionale viene sì mantenuto come «legittimo», ma reinterpretato in maniera così profonda da renderne il contenuto difficilmente riconoscibile. Non solo la morte viene qui sovrapposta alla resurrezione nel suo valore salvifico (ciò che non fa certo parte della tradizionale dottrina della soddisfazione vicaria), ma entrambe ricevono il loro senso solo dall’intera parola proclamata da Gesù, in cui già c’è (e non come limitata anticipazione) l’annuncio della presenza salvifica di Dio. In ciò rimane poco del concetto di espiazione di Anselmo: questi esplicita sì il carattere di obbedienza al proprio destino insito nella morte di Cristo, ma certamente intende in modo diverso il carattere causale della morte di Cristo rispetto alla redenzione.

5. «Dimmi perché Gesù è stato crocifisso»

È stata soddisfatta Uta Ranke-Heinemann di questo riorientamento ad opera di Rahner della tradizionale dottrina della redenzione? Pare di no: queste idee non vengono neppure nominate in tale questione cruciale. Il motivo può essere immaginato facilmente. Da una parte, la riflessione di Rahner inizia proprio da una polemica contro l’idea secondo cui il valore salvifico della morte di Cristo deriverebbe da un decreto divino, e non dalle qualità intrinseche ed esistenziali dell’evento umano della morte. Quindi non soltanto per Rahner rimane verissimo che l’umanità è salvata da una morte, ma è anche vero che (intendendo ciò rettamente) non sarebbe potuto avvenire altrimenti: e questa è esattamente la tesi che Uta Ranke-Heinemann ritiene così disumana da ipotecare tutto l’edificio teologico del cristianesimo. Dall’altra parte è vero che sotto la penna di Rahner la morte umana diventa (più o meno heideggerianamente) la libertà del proprio atteggiamento di fronte alla vita: ma è sufficiente ciò a lasciare sullo sfondo il fatto che la morte di cui si parla è stata appunto una condanna a morte? Se Rahner rivendica la necessità di prendere sul serio il linguaggio neotestamentario che associa così strettamente la redenzione alla morte di Cristo (e non genericamente alla sua vita), perché tale linguaggio non dovrebbe essere preso altrettanto sul serio quando sottolinea come decisivo per la redenzione non un qualsiasi atto di libertà esistenziale, ma l’evento tragico e cruento di una morte violenta, che proprio per questo viene assimilata per esempio nella Lettera agli Ebrei (seppure, come abbiamo visto, sotto la forma del capovolgimento) agli innumerevoli e inutili sacrifici espiatori dell’ebraismo e delle religioni? è sufficiente sostenere che questo potentissimo universo concettuale va solo rettamente compreso? Dal punto di vista di Uta Ranke-Heinemann, continuare a sostenere quest’interpretazione sacrificale come «legittima» (benché inadatta per l’uomo d’oggi, per esempio, o filosoficamente fragile alla luce di un’adeguata antropologia trascendentale) significa lasciare comunque uno spazio per la disumanità. È uno spazio, peraltro, che continua retrospettivamente a legittimare, e forse addirittura ad incoraggiare, secoli di crudeltà: «In realtà, non è certo che tutti i cristiani non rischino di perdere la compassione a causa della dottrina della croce, che considerano il centro della dottrina cristiana. Non è certo che con questa disumana teologia della croce il cristianesimo, invece di rendere gli uomini più umani, non promuova solo la disumanità dell’uomo».14

C’è però ancora un’ultima tappa nella riflessione di Karl Rahner che vale la pena di notare. Una nuova prospettiva in effetti già viene fuggevolmente accennata nel Corso fondamentale, ma compare poi esplicitamente in due articoli rispettivamente del 1975 («L’unico Gesù Cristo e l’universalità della salvezza») e del 1981 («La comprensione cristiana della redenzione»).15 In essi Karl Rahner presenta esplicitamente una prospettiva nuova per comprendere il tipo di causalità della morte di Cristo nei confronti della salvezza. L’idea che essa sia la causa efficiente morale dell’amore redentore di Dio va esclusa. Ma per chiarire che tipo di causalità sia all’opera è possibile allora far ricorso ad un concetto tratto dalla teologia dei sacramenti: «La croce è il signum efficax, il segno efficace dell’amore redentore che comunica Dio stesso, poiché la croce stabilisce l’amore di Dio nel mondo in una maniera definitiva e storicamente irreversibile» (p. 246). Secondo Rahner non si tratta solo di un’analogia: il concetto di sacramento era stato in effetti già allargato dal Concilio Vaticano II, che lo aveva applicato alla Chiesa nel suo complesso. In questo modo il concetto di «sacramento» ritorna al suo posto originario dopo le strettoie in cui lo aveva collocato la teologia scolastica. In tale concetto «segno» e «causa» si condizionano reciprocamente: si tratta insomma di un «simbolo reale». Quindi la croce di Cristo non «causa» semplicemente la salvezza, ma rende la volontà divina irreversibile attraverso la sua comparsa storica in una maniera tangibile. Ed è proprio la dottrina dell’unione ipostatica delle nature in Cristo a chiarire il senso di questa causalità: «A causa dell’unione ipostatica la passione e la morte di Gesù nell’incarnazione sono un elemento intrinseco della volontà salvifica di Dio. Questa volontà si rivela in questa passione e morte e si rende definitiva manifestandosi in questa maniera oggettiva. In Gesù Cristo Dio opera il suo proprio atto, l’atto di rivolgersi al mondo in un modo irrevocabile. Comunque, bisogna notare di passaggio che questa rivelazione del volgersi di Dio al mondo nella croce (la quale è il simbolo reale del definitivo amore vittorioso di Dio per il mondo, e dunque anche un modo per esprimerlo) implica anche nell’obbedienza di Gesù fino alla morte l’accettazione umana di quest’offerta da parte del mondo» (p. 248). Queste osservazioni di Rahner hanno ovviamente anche rilevanza per la dottrina dei sacramenti (nel primo degli articoli citati compare la definizione di Cristo come Ursakrament, sacramento originario), ma qui ci interessa solo notare il ruolo che questa spiegazione svolge nel riformulare la teoria della redenzione di Anselmo. Il passo sembra più profondo e significativo del precedente: non si tratta qui principalmente (o solo) di comprendere meglio che cosa significhi la morte, ma si tratta di comprendere in che rapporto sia questa morte con la salvezza. Qui Rahner risponde che si tratta sì di una causalità, realissima sì, ma di quel tipo particolare che si trova nei sacramenti. Come spesso accade, in entrambi i testi egli conduce il discorso fino alla formulazione dell’ipotesi, ma poi l’interrompe sottolineando genericamente che molte altre cose sarebbero da dire e approfondire. Non tocca certo a noi completare il discorso di Rahner, ma notiamo almeno un aspetto importante: aver spostato la causalità della redenzione nel genere sacramentale significa anche (se non erriamo) aver spostato su un piano diverso la riflessione sul senso della croce. La riflessione di Anselmo sulla redenzione si interroga non solo sulla volontà salvifica di Dio e sulla sua misericordia, ma anche sul perché proprio la morte di suo Figlio consenta (se così si può dire) a Dio di salvare il mondo. Con il suggerimento di Rahner si tratterebbe invece di capire in che modo la croce consente all’umanità di riconoscere in maniera definitiva l’amore di Dio, così come (per esempio) l’immersione nell’acqua del battesimo consente di riconoscere l’irrevocabilità nella storia personale del perdono e dell’inserimento nella morte e resurrezione di Cristo. E tutto questo (di nuovo: se non erriamo) alleggerisce anche il compito di una valutazione sulla storia della dottrina e anche sulla molteplicità di linguaggi all’interno del Nuovo Testamento: che diverse storie, diverse tradizioni, diverse sensibilità, diversi presupposti culturali (anche completamente sbagliati) abbiano consentito questo riconoscimento non è più uno scandalo, ma rientra, appunto, nella storia delle interpretazioni: quella storia di cui la croce sarebbe in grado di portare anche il peso di fraintendimenti e disumanità.

Sarebbe più soddisfatta Uta Ranke-Heinemann? La risposta probabilmente sarebbe anche in questo caso negativa, ma per motivi diversi dai precedenti. Ciò che però sicuramente questo dialogo a distanza ha suggerito è che la questione è degna di essere ancora pensata ed è tutt’altro che chiusa. Non si tratta di affrontare un problema solo «teologico»: la vicenda di Uta Ranke Heinemann lo mostra, ma la sofferenza di cui ella ha voluto farsi testimone non è un caso curioso e isolato. Certo: alle sue proteste (e in una certa misura, mutatis mutandis, a diverse riletture teologiche contemporanee) si potrebbe replicare che sostituire ad un’ipostatizzazione metafisica della violenza un’ipostatizzazione del proprio disagio come norma di verità non è un gran passo avanti: una narrazione più serena e piacevole non può certo rivendicare per questo una maggiore verità, e neppure una maggiore vicinanza alla storia umana, che di fatto è piena di ineliminabile sofferenza e lutto che vorrebbero essere superate anche tramite un loro logos, che possibilmente non si riduca a banalità. Ma tutto questo non toglie appunto che in gioco vi siano questioni umane. Uno dei dischi più significativi degli anni 80, The Final Cut dei Pink Floyd (una sorta di appendice al più celebre The Wall), inizia esattamente con la domanda che è al cuore della dottrina della redenzione cristiana e la collega, in pochi versi, con la questione della sofferenza innocente e dell’angoscia di esserne colpevoli: «Tell me true. Tell me why / Was Jesus crucified? / Was it for this that daddy died? / Was it you? Was it me? / Did I watch too much T.V.? / Is that a hint of accusation in your eyes?» («The Post War Dream»). Sullo sfondo c’è la fine del giovanissimo padre di Roger Waters, leader dei Pink Floyd, mandato incontro a morte certa in un’inutile battaglia nell’Agro Pontino. Se certe domande possono essere le prime di un disco rock in cima alle classifiche di vendita, probabilmente hanno un interesse universalmente umano che supera quello dei confini disciplinari della teologia. Forse, indipendentemente da come si giudichino le interpretazioni che abbiamo attraversato (esse andrebbero quanto meno seriamente confrontate con quelle alternative), ci si può chiedere se in quella grande gamma di sfumature che una tradizione di fede può incarnare, dalla più semplice devozione popolare alla più elaborata discussione intellettuale, la teologia non abbia a volte comunque un ruolo decisivo da svolgere: parafrasando ciò che il biblista Raymond E. Brown ebbe a dire riguardo all’esegesi, a coloro che dicono che la teologia può disorientare i semplici (un’idea questa che attraversa la storia del pensiero cristiano, da Origene in poi), bisogna replicare che anche la mancanza di teologia può disorientare, o peggio.16 A meno che (è un’altra ipotesi) il compito di una teologia della salvezza non si ritenga chiuso perché ormai anche ogni discorso in proposito è così tranquillamente secolarizzato da riguardare solo l’orizzonte ferito di questa terra, e le antiche teorie della redenzione, che fino a qualche decennio fa evidentemente appassionavano la teologia cristiana, siano da giudicare solo un suggestivo simbolo. Come se, capovolgendo il finale del Faust di Goethe, «tutto ciò che è eterno è solo una metafora».

Questo testo è stato preparato nel quadro del convegno nazionale dell’Associazione Italiana di Filosofia della Religione «A caro prezzo». La redenzione in filosofia della religione e in teologia, Firenze 16-17 novembre 2018. Una versione ridotta sarà pubblicata nella rivista Humanitas.


  1. Uta Ranke-Heinemann, Nein und Amen. Anleitung zum Glaubenszweifel, Hoffmann und Campe, Hamburg 1992; 2ª ed. empliata, Nein und Amen. Mein Abschied vom traditionellen Christentum, Heyne, München 2002; trad. it. della 1ª ed., Così non sia. Introduzione al dubbio di fede, Rizzoli, Milano 1993. Citeremo dalla prima edizione tedesca. La traduzione (in questo caso e in tutti gli altri testi citati) si intenda nostra. Dopo la grande eco del suo precedente Eunuchen für das Himmelreich. Katholische Kirche und Sexualität, Hoffmann und Campe, Hamburg 1988 (tradotto in molte lingue, italiano incluso), questa sua seconda opera ha attirato meno interesse. È facile immaginare peraltro che essa sia stata imbarazzante per chi aveva voluto arruolare nella fila di una riforma del cattolicesimo l’autrice, che ora semplicemente dichiarava il suo abbandono del cristianesimo tout court↩︎

  2. Notiamo che il confine tra anticristianesimo e cristianesimo marginale è in casi siffatti sfumato e problematico: come classificare per esempio il celebre Jesus in schlechter Gesellschaft (DVA, Stuttgart 1971) di Adolf Holl che di fatto propone un’interpretazione solo sociale della vita di Gesù? oppure, per restare in Italia, La religione della ragione (Bruno Mondadori, Milano 2007) di Marco Vannini, in cui l’aspetto valido della dottrina cristiana viene limitato al contenuto mistico-filosofico, escludendo tutto il resto come un bagaglio prossimo alla superstizione? Su questo problema (che non si lascia affatto risolvere distinguendo tra intenzioni soggettive e risultati oggettivi) torneremo implicitamente nelle osservazioni finali. ↩︎

  3. Anselmo e la sua opera tornerà più volte nella discussione (vedi Anselmus Cantuariensis, Cur Deus homo, in Idem, Opera omnia, a cura di Franciscus Salesius Schmitt, Nelson, Edinburgh 1946-1961). Una valutazione storicamente contestualizzata è completamente al di fuori dei nostri obiettivi: notiamo solo che costituisce un fatto insolito se non unico che costanti prese di distanza dalla sua teoria nella letteratura teologica contemporanea siano accompagnate da una parte (come vedremo) da una sua sostanziale ripetizione in esposizioni dottrinali «ufficiali» e dall’altra da un’amplissima bibliografia storico-teologica che ne rivaluta il pensiero. Sarebbe altrettanto degno di attenzione esaminare la ripresa dell’idea di sostituzione vicaria nella letteratura filosofica e antropologica (ne abbiamo detto qualcosa in «Salvati da che cosa? La sostituzione vicaria in Levinas e Girard», in Maurizio Marin e Mauro Mantovani (curatori), Ira e sacrificio. Negazione dell’umano e del divino?, LAS, Roma 2003, pp. 453-472; ripubblicato in Reportata. Passato e presente della teologia, 25 gennaio 2004, http://mondodomani.org/reportata/salmeri01.htm). ↩︎

  4. Un solo rapido esempio: è perfettamente comprensibile che l’autrice citi con incondizionata approvazione la tesi di Rudolf Bultmann sull’origine ellenistica del linguaggio espiatorio dei Vangeli. Ma per esempio dopo il monumentale commentario di Rudolf Pesch al Vangelo di Marco (Das Markusevangelium (HTKNT), 2 voll., Herder, Freiburg 1976-1977) questa tesi appare molto più fragile. Se, come Pesch rende verosimile con un’opera attenta di interpretazione, lo stesso antichissimo nucleo premarciano del racconto della passione è ispirato ad una rilettura dei «carmi del servo» di Isaia, in cui appunto è messa in primo piano la figura di chi soffre innocentemente al posto dei reali colpevoli, la tesi di un carattere avventizio e spurio del linguaggio sacrificale diventa quasi insostenibile. Probabilmente dal punto di vista di Uta Ranke-Heinemann ciò non cambierebbe di una virgola il problema, ma solo lo sposterebbe indietro: sarebbero cioè già gli immediati discepoli di Gesù responsabili di questo fatale fraintendimento. Ciò però solleverebbe alla fine il problema di un’interpretazione del «vero Gesù» che alla fine non è basata su nient’altro che ciò che l’interprete di turno crede dignitoso attribuirgli. ↩︎

  5. Uta Ranke-Heinemann, «Das Kreuz mit der Christianisierung. Meine lebenslange Suche nach Gott», Vortrag an der Universität Paderborn, 13. September 2013, http://www.meinhard.privat.t-online.de/frauen/suche_nach_gott_13092013.html. Di questa conferenza sono peraltro significative molte altre cose. Forse la più notevole è la dichiarazione iniziale: «La domanda della mia vita, dalla mia prima infanzia fino ad oggi, è stata ed è ancora: dove vanno i morti?». La conferenza termina ricordando il giorno in cui, richiesta di scrivere una dedica per due genitori che avevano appena perso il loro unico figlio, non seppe scrivere altro, turbata, che le parole di Gesù: «Dio non è un Dio dei morti, ma dei vivi» e conclude: «Non so se questa frase […] abbia potuto essere una consolazione per quei genitori. Ma so che questa frase è stata, ed è, una consolazione per me». ↩︎

  6. Una carrellata efficace sui modi in cui la teologia può essere umanamente distruttiva è stata offerta da Karl Frielingsdorf, Dämonische Gottesbilder. Ihre Entstehung, Entlarvung und Überwindung, Matthias-Grünewald, Mainz 1992; trad. it. di Aurelio Reboldi, Ma Dio non è così. Ricerca di psicoterapia pastorale sulle immagini demoniache di Dio, San Paolo, Roma 1995. L’autore intende la sua opera (teorica e anche pratica) come perfettamente ortodossa nel quadro del credo cristiano, ma tra le immagini demoniache di Dio viene annoverata anche quella di un Dio contabile che non lascia nulla impunito, che è grosso modo quella che Uta Ranke-Heinemann addebita alla tradizionale teoria della redenzione, in cui la croce di Cristo, seppur (formalmente) offerta di misericordia, trascina con sé l’idea di una colpa che sempre dev’essere espiata e che anzi viene moltiplicata: ogni essere umano è punito per ogni sua distrazione, debolezza, e in più diventa colpevole anche di quella morte. ↩︎

  7. Catéchisme de l’Église Catholique, Mame–Plon, Paris 1992. Testo normativo (editio typica) viene però considerato quello latino pubblicato cinque anni più tardi (Catechismus Catholicae Ecclesiae, Libreria Editrice Vaticana, Vaticano 1997): in pratica le differenze tra le varie traduzioni raramente sono significative. Da notare che la commissione che elaborò il testo era presieduta da Joseph Ratzinger, le cui idee personali a prima vista abbastanza diverse citeremo dopo. Successive rielaborazioni di quest’opera, cui pure faremo riferimento, sono il Compendio del Catechismo della Chiesa Cattolica, Libreria Editrice Vaticana, Vaticano 2005, e YOUCAT. Jugendkatechismus der Katholischen Kirche, Pattloch, München 2010, anch’esse tradotte in molte lingue. ↩︎

  8. Ovviamente quest’assunzione della teologia di Anselmo in recenti esposizioni autorevoli della fede cattolica è tanto più interessante quanto più si osserva che questa teologia è appunto una tra le tante e praticamente nessuno dei suoi dettagli è stato mai assunto come dottrina vincolante, né nella Chiesa occidentale, né (se ci fosse bisogno di dirlo) in alcuna delle Chiese orientali. È vero che per esempio il decreto De iustificatione del Concilio di Trento (13 gennaio 1547) usa l’espressione «[Cristo] ha soddisfatto per noi Dio Padre», ma l’affermazione sembra più obliqua che diretta, e comunque il tema non viene in alcun modo ripreso nei successivi canoni: l’argomento specifico del resto non costituiva tema di controversia specifica con la Riforma protestante, che è l’oggetto principale del discorso. A maggior ragione non si può ritenere che proprio la sua inclusione nel Catechismo della Chiesa Cattolica del 1992 sancisca, dopo nove secoli esatti dalla loro formulazione, l’inclusione obbligatoria nella dottrina cattolica della teoria di Anselmo: ciò renderebbe le taglienti critiche di Uta Ranke-Heinemann ancora più oggettivamente giustificate, ma è difficilissimo da sostenere, data la notoria assenza di qualsiasi «nota teologica» nelle affermazioni del Catechismo, che mescola invece senza distinzione alcuna affermazioni di carattere diversissimo: ciò che nella terminologia usuale si sarebbe indicato per esempio come «de fine catholica», oppure «sententia fidei proxima», fin giù alla «sententia communis», «sententia probabilis» o addirittura «opinio tolerata». Notiamo di passaggio che si potrebbe sostenere che le modifiche introdotte nel Catechismo (n. 2267) da papa Wojtyła nel 1997 e da papa Bergoglio nel 2018 riguardo la pena di morte, che la sganciano completamente dalla prospettiva metafisica testimoniata in Anselmo (e quindi, ma solo come prevedibile conseguenza, la dichiarano alla fine «inammissibile»), rendono ora impossibile completare la dottrina della redenzione altrove esposta in un senso propriamente anselmiano: ma ciò non fa che acuire il problema di un punto centrale della fede cristiana che viene esposto in maniera pressoché completa fatta eccezione per un punto cruciale sul quale (almeno a prima vista) tale dottrina sta o cade. È curioso come tutto ciò sia non sia stato osservato (a quanto ci risulta) nelle pur roventi polemiche seguite all’ultima modifica introdotta da papa Bergoglio. ↩︎

  9. Joseph Ratzinger, Einführung in das Christentum, Kösel, München 1968. L’opera ha avuto numerose edizioni e traduzioni. ↩︎

  10. Karl Rahner, «Probleme der Christologie von heute», in Idem, Schriften zur Theologie, Benziger, Einsiedeln-Zürich-Köln 1954, [vol. I], pp. 169-222. ↩︎

  11. Karl Rahner, «Zur Theologie des Todes», Synopsis. Studien aus Medizin und Naturwissenschaft, quad. 3 (1949), pp. 87-112; l’articolo è ampliato in Idem, «Zur Theologie des Todes», Zeitschrift für Katholische Theologie, anno 79 (1957), pp. 1-44; infine è ripubblicato in un volume a sé insieme con uno studio sul martirio in Idem, Zur Theologie des Todes. Mit einem Exkursus über das Martyrium, Herder, Basel 1961. Nel 1970 aggiunse alle sue riflessioni una conferenza pubblicata in Idem, Zur einer Theologie des Todes, in Idem, Schriften zur Theologie, Benziger, Einsiedeln-Zürich-Köln 1972, vol. X, pp. 181-202; quest’ultimo testo però, concentrato su temi grosso modo pertinenti al tradizionale dominio dell’escatologia, non pare aggiungere molto di utile e significativo al tema della redenzione. Si può del resto ipotizzare che già a quest’epoca Rahner avesse cominciato a spostare la sua attenzione dal possibile contributo di una teologia della morte a quello di una teologia del sacramento. ↩︎

  12. Ciò risulta dalla prefazione che Rahner scrisse per Silvano Zucal, La teologia della morte in Karl Rahner, EDB, Bologna 1982. Qui egli dichiara di aver lasciato cadere l’ipotesi della pancosmicità dell’anima al momento della morte per aderire invece alla tesi di Gisbert Greshake (questa consiste, in breve, nel sostenere che non ha senso parlare di «anima separata dal corpo» e che quindi non esiste un momento intermedio tra morte e resurrezione: già nel momento della morte l’essere umano va a Dio nella sua unità psico-fisica, anche se non ovviamente caratterizzata dalla medesima fisicità del corpo biologico). Non interessa qui discutere il contenuto di questa diversa prospettiva alla quale Rahner aderisce in tarda età: basti appunto notare retrospettivamente che la tesi dell’anima pancosmica gli parve poi non solo superflua, ma anche sbagliata. Rahner stesso aveva del resto ripetutamente sostenuto che nel caso di Cristo l’intervallo temporale tra morte e resurrezione, seppure pensabile, andava giudicato irrilevante (così per esempio nell’abbozzo di Cristologia pubblicato nel 1972 insieme con Wilhelm Thüsing). Questo è anche uno dei motivi per cui il significato salvifico può essere attribuito, con solo un mutamento di accento, alla resurrezione anziché alla morte. ↩︎

  13. Karl Rahner, Grundkurs des Glaubens. Einführung in den Begriff des Christentums, Herder, Freiburg i.B. 1976. Le parti rilevanti che ora percorriamo sono i capp. 5, 6 e 7 della parte VI. ↩︎

  14. Queste sono esattamente le righe finali della prima edizione di Nein und Amen, cit., p. 704. Ovviamente, sarebbe facile replicare che con osservazioni di questo tenore Uta Ranke-Heinemann deforma o capovolge la realtà: non c’è bisogno di essere sostenitori entusiasti delle tesi di René Girard per osservare che è stata proprio la teologia della croce ad aver ispirato compassione in un’entità sconosciuta al resto della storia del mondo (una tesi, questa, che è condivisa pure da chi come Friedrich Nietzsche non può esser sospettato di nutrire soverchie simpatie per il cristianesimo storico). Ma, sottratta la tara della grossolana esagerazione (che peraltro la stessa autrice evidentemente sfuma: «non è sicuro…»), il problema di un Dio crudele che occhieggia dietro il calcolo della soddisfazione è così reale che non vi è praticamente teologo occidentale del Novecento che non lo abbia notato e tentato di affrontare o aggirare. A meno che, come più o meno avviene in Hans Urs von Balthasar, il tema non venga neutralizzato addirittura portandolo al parossismo: l’incarnazione di Cristo è completamente ed esclusivamente orientata alla passione, che è il culmine della kenosi incarnatoria in cui il Figlio di Dio assume non solo il destino mortale dei figli di Adamo, ma anche la seconda morte dell’abbandono divino: come nelle icone bizantine in cui il bambino in braccio a Maria si lascia sfuggire un sandaletto, sopraffatto dal terrore della morte futura. Non per nulla Balthasar inizia la trattazione con un esergo di Gregorio di Nazianzo: «Adesso occorre che noi consideriamo il problema e il dogma, spesso passato sotto silenzio, ma che proprio per questo motivo io voglio indagare con maggiore impegno: questo prezioso e glorioso sangue divino, sparso per noi: […] per quale ragione e qual fine è stato pagato un prezzo siffatto?»; vedi Hans Urs von Balthasar, «Mysterium Paschale», in Johannes Feiner, Magnus Löhrer (curatori), Mysterium Salutis, vol. III/2, Benziger, Einsiedeln 1969, pp. 133-326. Questa prospettiva apre nuovi problemi, decisivi, nell’interpretazione del Cristianesimo, che qui però non intendiamo neppure sfiorare. ↩︎

  15. Karl Rahner, «Der eine Jesus Christus und die Universalität des Heils», in Idem, Schriften zur Theologie, Benziger, Einsiedeln-Zürich-Köln 1975, vol. XII, pp. 251-282; Idem, «Das christliche Verständnis der Erlösung», in Idem, Schriften zur Theologie, Benziger, Einsiedeln-Zürich-Köln 1982, vol. XV, pp. 236-250; a quest’ultimo può essere accostato anche un altro breve testo dell’anno seguente sul tema «Riconciliazione e sostituzione vicaria»: Idem, «Versöhnung und Stellvertretung», in Idem, Schriften zur Theologie, Benziger, Einsiedeln-Zürich-Köln 1982, vol. XV, pp. 251-264. Qui Rahner (nel contesto di una conferenza dedicata a Maksymilian Maria Kolbe, qualcuno che letteralmente ha dato la sua vita per altri), pur opponendosi all’idea della possibilità di sostituire un altro nella sua libertà, recupera un senso di sostituzione basato sull’universale solidarietà. L’idea viene sostenuta dall’analogia con l’interdipendenza fisica delle cose, ma in fin dei conti è rinchiusa nel mistero di Dio: «La nostra solidarietà si estende nei più profondi recessi che si trovano nelle misteriose radici della nostra esistenza, note solo a Dio nella sua onniscienza, giacché lui solo vede e vuole la totalità del mondo e la sua storia nell’interdipendenza di tutte le parti» (p. 266). Ovviamente le nozioni che ora toccheremo dovrebbero essere chiarite e approfondite sullo sfondo della teoria del sacramento di Rahner, nella quale non possiamo entrare. Si veda però almeno Idem, «Was ist ein Sakrament?», in Idem, Schriften zur Theologie, Benziger, Einsiedeln-Zürich-Köln 1972, vol. X, pp. 377-391. ↩︎

  16. «If we acknowledge the danger of rash popularization, we must firmly accentuate the danger on the other side as well […]. So often we hear about the few that are scandalized, and no voice is raised about the much greater crime of leaving the many in ignorance of modern biblical criticism. Fear of scandal must never lead to a double standard whereby the simple or the young are taught things about the Bible that are false just so that they will not be schocked. […] Often more harm is done by the lack of ideas than by the presence of new ideas» (Raymond E. Brown, Sandra M. Schneiders, «Hermeneutics», in Raymond E. Brown, Joseph A. Fitzmyer, Roland E. Murphy (curatori), The New Jerome Biblical Commentary, Geoffrey Chapman, London 1989, p. 1165). ↩︎