1. L’infinito e il desiderio
Se forse sono fin troppi coloro che hanno affermato di aver inaugurato ovvero concluso la storia della filosofia «vera», Levinas appartiene senza dubbio alla piccola schiera di chi ha insinuato il dubbio che nessuna «verità» possa ritenersi innocente e assolversi troppo facilmente. È in questo spirito che intendiamo prendere il suo modello di pensiero come punto di riferimento per una riflessione sul rapporto tra alterità e costruzione dell’io umano. Scegliamo come esordio emblematico uno scritto, l’articolo «La filosofia e l’idea dell’infinito», che si pone grosso modo a metà del suo itinerario di pensiero. Pubblicato per la prima volta nel 1957, alle spalle esso possiede gli importanti studi tramite i quali Levinas consuma la sua rottura con la filosofia dell’esistenza di Heiddeger («Dell’evasione» [1936], Dall’esistenza all’esistente [1947], Il tempo e l’altro [1948], «L’ontologia è fondamentale?» [1951]). Davanti ad esso si trovano invece le grandi opere della maturità, soprattutto Totalità ed infinito, che apparirà di lì a quattro anni nel 1961, e ancora Altrimenti che essere o al di là dell’essenza (1974) e Di Dio che viene all’idea (1982).1 Esso pare dunque offrire la buona opportunità di vedere già elaborate le idee portanti, proprio nel momento in cui esse stanno per passare ad una configurazione relativamente più espositiva e (per quanto possibile) sistematica.
Di fatto, Levinas pare affidare a «La filosofia e l’idea dell’infinito», in forma insolitamente limpida ed esplicita, una sorta di introduzione programmatica della sua filosofia, concepita come una presa di posizione radicale nei confronti dell’intera tradizione occidentale. Il punto di partenza è una distinzione tra due differenti «vie» lungo le quali lo spirito filosofico può realizzare la sua aspirazione alla ricerca della verità. La prima via è quella che definisce la verità a partire dall’esperienza di qualcosa di «altro». Si tratta in fondo dell’antica definizione della verità come adeguazione, la quale adeguazione suppone appunto un itinerario da percorrere e una distanza da colmare:
La verità indicherebbe così il punto di arrivo di un movimento che, partendo da un mondo intimo e familiare — benché non ancora completamente esplorato — , conduce verso quanto ci è estraneo, verso un laggiù, secondo la parola di Platone. Più che un’esteriorità, la verità implicherebbe la trascendenza. La filosofia si occuperebbe dell’assolutamente altro, sarebbe l’eteronomia in quanto tale. … Ed è così che filosofia significa metafisica e che la metafisica s’interroga sul divino (La filosofia, p. 31).
Una seconda via evidenzia invece l’aspetto soggettivo dell’appropriazione della verità: essa è un’adesione libera, laddove la libertà può essere interpretata come «il rifiuto dell’essere pensante di alienarsi nell’adesione, la conservazione della sua natura e della sua identità, il fatto di restare lo Stesso nonostante le terre ignote dove sembra condurre il pensiero» (p. 32). Ogni estraneità che è differente dall’io esiste in questo modello soltanto come una minaccia, la vittoria sulla quale è appunto ciò che si chiama «libertà». Benché tale seconda strada non parrebbe formalmente incompatibile con la prima, in realtà essa tematizza un atteggiamento spirituale profondamente differente, che secondo Levinas contraddistingue di fatto gran parte della storia del pensiero: «La filosofia occidentale il più delle volte ha inclinato dal lato della libertà e dello Stesso. … In tal modo è parso che il pensiero occidentale escludesse molto spesso il trascendente, incorporasse qualunque alterità nello Stesso e proclamasse il diritto di primogenitura filosofica dell’autonomia» (p. 32-33).
Un aspetto caratteristico di tale atteggiamento, in quanto sua conseguenza inevitabile, è costituito da Levinas dal ricorso al «neutro». Conoscere l’individuo significa infatti qui «neutralizzarlo» tramite un concetto, che nella sua generalità è un prodotto del soggetto pensante. In questo modo è aperta anche la strada dell’appropriazione: «La resa della cose esteriori alla libertà umana mediante la loro generalità non significa solo innocentemente comprenderle, ma anche utilizzarle, addomesticarle e possederle» (p. 34). Questa struttura troverebbe la sua ricapitolazione finale nella filosofia di Heidegger: il Dasein è da lui di fatto concepito anzitutto come identità, e la sottolineatura della «differenza ontologica» tra essere ed ente significa riaffermare il predominio di un neutro (l’«essere» appunto) che rende eticamente indifferente il rapporto con l’altro uomo.
Come è possibile ripercorrere all’interno del linguaggio filosofico la prima strada verso la verità, quella della eteronomia e della trascendenza? La struttura formale più caratteristica viene individuata da Levinas nelle considerazioni sull’idea dell’infinito che Descartes svolge nelle Meditazioni sulla filosofia prima:
L’idea dell’infinito ha questo di eccezionale: l’ideatum supera l’idea. Nel caso dell’idea dell’infinito, la distanza fra idea e ideatum non equivale alla distanza che nelle altre rappresentazioni separa l’atto mentale dal suo oggetto. … L’intenzionalità che anima l’idea dell’infinito non è paragonabile a nessun’altra: essa tende a quanto non può contenere e, in questo senso appunto, all’Infinito. Capovolgendo le formule che abbiamo usato sopra, diremo che l’alterità dell’infinito non si annulla né si estingue nel pensiero che lo pensa (p. 39).
Ma l’idea dell’infinito non è per Levinas una nozione innata dello spirito umano. Essa viene piuttosto sperimentata nell’incontro con l’«altro» (Autrui) e può essere dunque definita il «rapporto sociale» stesso. L’altro è l’essere umano incontrato nella sua assoluta esteriorità, come qualcuno (e non più «qualcosa») sperimentato nella sua esteriorità, eccedente rispetto a qualsiasi concetto astratto. Il viso dell’altro uomo mi dice anzitutto «Non ucciderai», ma ciò non è né una deduzione da princìpi morali generali, né un semplice sentimento soggettivo. Questo comandamento esprime al contrario l’«esperienza» per eccellenza, che trasmette una conoscenza maggiore rispetto a qualsiasi movimento di appropriazione concettuale. «Non ucciderai» significa infatti la non conquistabilità dell’altro in quanto altro, ovvero quella trascendenza che assicura l’esperienza in senso proprio.2
Come definire un pensiero non appropriativo? Levinas (con un termine che in Totalità e infinito giocherà un ruolo ancora più importante) parla di «Desiderio»: il desiderio è quella tensione che non solo non può mai essere soddisfatta, ma viene incrementata dalla stessa presenza del desiderato. Non essendo né potendo essere soddisfatto, il desiderio «prende atto dell’alterità dell’Altro e la colloca in quella dimensione di altezza e di ideale che appunto da lui è aperta nell’essere» (p. 42). Nel desiderio non si verifica dunque il ritorno ad una patria perduta, il che ha inteso dire forse proprio Platone nel mito di Eros, il quale è posto come figlio dell’abbondanza e della miseria. Come di desiderio, così si può parlare di «coscienza etica» in assoluto: se nel modello di Descartes l’idea dell’infinito è quella che permette di percepire la mia finitezza, nella traslazione morale che ne opera Levinas è nel rapporto con l’altro che la volontà si scopre «ingiusta», che la libertà dell’io viene messa in questione. La vita morale non ha dunque la libertà come presupposto, ma piuttosto consiste nell’«investitura della libertà» (p. 44) e quindi in una essenziale eteronomia. È così che la filosofia raggiungerebbe la sua meta propria: «Se l’essenza della filosofia consiste nel risalire, al di qua di tutte le certezze, verso il principio e se la filosofia vive di critica, il volto dell’Altro sarebbe l’inizio stesso della filosofia» (p. 46).
2. Alterità e società umana
Ma questo capovolgimento eteronomo significa inevitabilmente che all’Altro va riconosciuto non solo dal punto di vista genetico, ma anche effettivo, un primato sull’io. Questa è una conseguenza alla quale Levinas non ha mai rinunciato. Se il lógos dell’Altro è il comandamento, allora la relazione fondante di ogni prassi e di ogni verità è essenzialmente asimmetrica. L’«altezza» dell’Altro significa che egli è non solo il tramite occasionale, ma il luogo stesso in cui si realizza l’unica possibilità di una relazione metafisica, cioè con Dio stesso: «Dio comanda solo attraverso gli uomini per i quali è necessario agire» (La filosofia, p. 45). In un rapporto simmetrico — così Levinas aveva già spiegato efficacemente nelle conferenze su Il tempo e l’altro — i ruoli sono invece interscambiabili, e dunque l’umanità è riassorbita in un «neutro» che conferma il primato dello Stesso. In altri termini, la parola dell’Altro è la stessa mia coscienza che sempre mi giudica e mi scopre colpevole:
La volontà, che nell’incontro con l’Altro viene giudicata, non fa suo il giudizio che pure accoglie. Questo sarebbe ancora il ritorno dello Stesso che decide in ultima istanza dell’Altro; l’eteronomia sarebbe così riassorbita nell’autonomia. La struttura della volontà libera che diventa bontà non ha più alcun rapporto con la spontaneità gloriosa e autosufficiente dell’Io e della felicità, spontaneità che sarebbe l’ultimo movimento dell’essere, ma ne è piuttosto il rovesciamento. La vita della libertà che si scopre ingiusta, la vita della libertà nell’eteronomia, consiste in un movimento infinito in cui la libertà si mette sempre più in questione (La filosofia, p. 44).
Ma come è possibile fondare dei rapporti sociali su una relazione essenzialemente asimmetrica?3Non è pur sempre vero che io sono l’altro dell’altro, e che dunque dinanzi a lui godrei contradditoriamente della stessa superiorità che il volto altrui manifesta nei miei confronti? Il problema verrà affrontato esplicitamente da Levinas in Totalità e infinito, tramite l’introduzione della categoria del «terzo», colui che esiste al di là della relazione tra lo Stesso e l’Altro:
Il povero, lo straniero, si presenta come eguale. Ma la sua eguaglianza in questa povertà essenziale consiste nel riferirsi al terzo, così presente all’incontro e che, nella sua miseria, è già servito dall’Altro. Egli si unisce a me. Ma mi unisce a sé per servire, mi dà ordini come un Padrone. Ordine che può riguardarmi solo nella misura in cui sono padrone a mia volta, ordine, quindi, che mi ordina di dare ordini. Il tu si pone di fronte ad un noi. Essere noi non significa «spingersi» o fiancheggiarsi in un compito comune. La presenza del volto — l’infinito dell’Altro — è miseria, presenza del terzo (cioè di tutta l’umanità che ci guarda) e comando che comanda di comandare (Totalità e infinito, p. 218).
Ci sembra di poter riassumere in questi termini: il rapporto con l’altro è assolutamente asimmetrico: egli è il mio padrone; ma la presenza di altri uomini fa sì che proprio questa asimmetria generi, in seconda battuta, l’esigenza di relazioni simmetriche (quindi di tipo sociale, istituzionale). Il terzo è contemporaneamente colui che devo servire assieme all’Altro e colui che deve essere servito dall’Altro. Se, per assurdo, esistesse solo un Altro all’universo, la giustizia nel senso dell’eguaglianza non avrebbe senso. Ma data l’esistenza di una società, in ogni mio gesto di sottomissione all’altro uomo è coinvolta già l’intera umanità.4
Bisogna riconoscere e precisare che Levinas non sostiene affatto che le esigenze della giustizia debbano correggere o limitare l’infinita asimmetria del rapporto originario con l’Altro: ma al contrario che solo quest’ultima è in grado di generare l’armonia e la giustizia dei rapporti sociali. La società generata da un rapporto simmetrico, e dunque generico e «anonimo», è la società della sopraffazione e dell’ingiustizia, che spalanca lo spazio della strumentalizzazione potenzialmente sconfinata di ogni essere umano. In altri termini, se il «terzo» non significasse l’esigenza della simmetria della giustizia, la convivenza umana verrebbe proprio a tradire quel comandamento etico che nell’esperienza del faccia-a-faccia si è rivelata come prima e assoluta. Ma rimane pur sempre vero che la relazione con l’altro non è affatto omogenea con la struttura di qualsiasi istituzione, soprattutto quando essa sia esaminata dal punto di vista della soggettività in formazione. Tra le esigenze della completa sottomissione e dedizione e quelle derivate dell’equità c’è una discontinuità essenziale. Gli scritti posteriori di Levinas, soprattutto Altrimenti che essere, confermano questa prospettiva: la soggettività è proprio responsabilità infinita, e anzi totale passività, «sostituzione», non socialità nel senso dello zóon politikón.5
Questa limitazione del modello etico originario ci sembra che vada anzitutto valorizzata: si deve concordare che la costituzione della soggettività umana non è un evento primariamente e anzitutto collettivo, quindi né economico né giuridico. Un punto di partenza olistico rischierebbe di trasformare la soggettività umana in un anonimato essenziale prim’ancora che gli eventi della socialità facciano comparire l’anonimato come un problema esistenziale (qualcosa come il Man di Heidegger). Solo di fronte all’altro, sorgente del comandamento, le forme del soggetto risultano informate e delimitate nella loro irriducibile plasticità.
Non c’è però in questa limitazione anche qualcosa di fragile e problematico? è inevitabile che la società umana sia qualcosa di discontinuo rispetto all’esperienza del faccia-a-faccia, benché su di essa fondata? ancor di più, è ciò possibile? Deve essere lecito sollevare la questione. Nel modello di Levinas, bisogna chiedersi quale spazio concreto rimanga all’esperienza del faccia-a-faccia una volta che alle modalità della giustizia sociale sia riconosciuto uno statuto differente. È possibile che io, al di fuori di esperienze spirituali eccezionali (le quali per altro non vengono affatto considerate normative da Levinas), possa essere responsabile dell’altro e perfino del male che l’altro mi fa, senza contemporaneamente augurarmi che intervenga un terzo a ristabilire almeno un po’di equilibrio? il mio grido d’aiuto di fronte alla tortura può forse essere scartato come eticamente non rilevante proprio per quella primarietà del comandamento che Levinas vuole stabilire? Certamente no, ma c’è allora da chiedersi se l’esperienza del faccia-a-faccia possa far parte del discorso filosofico, o in generale del discorso, o se proprio la sua introduzione in tale contesto non la degradi irrimediabilmente — malgrado le intenzioni e le comprensibili proteste di Levinas — a suggestione psicologica o esortazione ascetica. Tenteremo di riprendere questa domanda in fine; per ora citiamo come molto significativa la risposta che Levinas diede quando gli venne chiesto con scetticismo dove fosse possibile riscontrare quell’ossessione del soggetto da parte dell’altro che egli teorizzava nella sua filosofia:
Un giorno, a Lovanio, mi condussero, dopo una conferenza su questi temi, in una casa di studenti che laggiù chiamano «pedagogia»; mi trovai circondato da studenti sudamericani, quasi tutti preti, preoccupati soprattutto per la situazione in America del Sud. Mi parlarono di ciò che succedeva laggiù come di una suprema prova dell’umanità. Mi interrogavano non senza ironia: dove avrei mai incontrato concretamente lo Stesso preoccupato dell’Altro al punto di subirne una fissione? Io risposi: almeno qui. Qui in questo gruppo di studenti, di intellettuali che avrebbero potuto benissimo occuparsi della loro perfezione interiore e che ciononostante non avevano altri argomenti di conversazione che la crisi delle masse dell’America Latina. Non erano forse ostaggi? Questa utopia della coscienza si trovava storicamente compiuta nella sala in cui mi trovavo (Di Dio, p. 105-6).
Ma non c’è qui proprio quella giustizia sociale che da Levinas viene considerata come derivata dal rapporto con l’unico altro? Nello stesso dialogo, Levinas ribadisce che «in realtà la relazione con l’altro non è mai unicamente la relazione con l’altro: nell’altro il terzo è da subito rappresentato; nella stessa apparizione dell’altro già il terzo mi guarda» (Di Dio, p. 107, sott. nostra). Ma questo riconoscimento non rende ancora più precaria la teorizzazione di una responsabilità infinita e asimmetrica? e non si tradisce questa come una semplice astrazione di un dato più immediato e dunque fondante? Il problema ci sembra acuito dal fatto che Levinas sottolinea che la non simmetria del rapporto con l’altro è concepibile proprio solo in assenza del terzo:
L’Altro in quanto tale si situa in una dimensione di gloria e di umiliazione — gloriosa umiliazione; ha la faccia del povero, dello straniero, della vedova e dell’orfano e, nello stesso tempo, del signore chiamato ad investire e a giustificare la mia libertà. Ineguaglianza che non appare al terzo che dovrebbe giudicarci. Essa significa appunto l’assenza di un terzo che dovrebbe essere capace di abbracciare me e l’Altro, così che la molteplicità originaria è costatata proprio nel faccia a faccia che la costituisce. Essa si produce alle molteplici singolarità e non ad un essere esterno a questo numero e che dovrebbe giudicare i molteplici. L’ineguaglianza è in questa impossibilità del punto di vista esterno che solo potrebbe abolirla (Totalità e infinito, p. 257).
Ma come concepire un rapporto con l’Altro in cui il terzo è insieme necessariamente assente e necessariamente implicato?6Di fronte a questi problemi, che non sono solo problemi di interpretazione di Levinas, ma riguardano il fondamento dell’etica come tale, ci sembra che la ricerca possa essere arricchita grazie ad un altro modello: quello dell’etica di Aristotele, nella quale — come vedremo — la philía è descritta come il compimento della giustizia.
3. Il «necessarissimo alla vita»
Come è noto, la grande distanza metodologica che separa in questo campo Aristotele dal suo maestro risiede nell’assunzione di un punto di vista sostanzialmente empirico: l’etica non è la teorizzazione di una finalità trascendente, ma piuttosto l’elaborazione razionale (benché solo approssimativa) delle strategie che permettono agli uomini di raggiungere quella finalità ultima che essi di fatto si ripropongono: la felicità (eudaimonía) , che può essere più da vicino considerata come la piena realizzazione della complessità dell’esistenza umana, coordinata e resa sensata dall’attività intellettuale. Proprio tale complessità rende necessario frantumare il problema della felicità nei tanti problemi delle singole «virtù», cioè delle «eccellenze» (aretái) che possono essere prodotte nei singoli ambiti della vita. Per tale motivo l’etica si trasforma in una dottrina delle virtù.
Ciò non significa affatto che la virtù vada identificata stoicamente con la felicità: la virtù è quello stile di esercizio pratico grazie al quale può essere cercata la felicità, la quale però da parte sua dipende anche da altre variabili a volte puramente accidentali: per esempio i beni esteriori, o anche le caratteristiche fisiche o intellettuali derivanti dalla natura. C’è però un’eccezione più importante, alla quale Aristotele dedica uno spazio amplissimo a partire dal libro VIII: la philía, l’amicizia:
Dopo di ciò potrebbe seguire una trattazione dell’amicizia: infatti essa o è una qualche virtù oppure è assieme alla virtù, e inoltre è necessarissima alla vita. Infatti senza amici nessuno sceglierebbe di vivere, pur avendo tutti gli altri beni. … E non solo è cosa necessaria, ma anche bella: infatti lodiamo gli amanti dell’amicizia, ed avere parecchi amici sembra essere una delle cose belle: e inoltre la gente ritiene che siano gli stessi uomini ad essere e buoni ed amici (Eth. Nich. , VIII. 1 1155 a3-31).
L’indicazione iniziale secondo la quale l’amicizia potrebbe essere una virtù va in effetti intesa come una manifestazione d’incertezza, che si staglia davanti ad una risposta sostanzialmente negativa: proprio nel momento in cui la virtù viene individuata in generale come «disposizione» (héxis), l’amicizia è classificata tra le «passioni» (páthe, II. 5 1105 b22). È vero che nella tavola delle virtù particolari l’amicizia è citata come medietà tra la compiacenza o adulazione (áreskos, kólax) e la litigiosità o scorbutichezza (dýseris, dýskolos), consistendo essa nell’esser piacevoli come bisogna nella vita quotidiana (II. 7 1108 a26-30); ma al momento della trattazione specifica di tale virtù Aristotele precisa e corregge il senso di questa denominazione provvisoria:
Ad essa non è assegnato alcun nome, ma somiglia soprattutto all’amicizia. Infatti colui che segue la disposizione mediana è quella persona che intendiamo con «buon amico», quando in più abbia l’affetto (to stérgein) . Ma differisce dall’amicizia, perché questi è senza passione e senza affetto verso coloro con cui tratta: infatti non è per il fatto che vuol bene o prova avversione (to philéin é echtháirein) che egli approva ciascun comportamento come bisogna, ma perché ha una certa qualità. Infatti farà la stessa cosa in pari modo verso sconosciuti e conoscenti, verso compagni ed estranei, ma in ogni caso come si addice: infatti non si addice preoccuparsi in pari modo di compagni e stranieri, e neanche essere tristi per loro (IV. 6 1126 b19-28).
In conclusione, Aristotele pensa all’amicizia come ad una specie particolare di sentimento che si accompagna spontaneamente ad atteggiamenti di aspetto «virtuoso»: tra essi è tipica, come visto, quella sincerità che conduce ad approvare e disapprovare liberamente il comportamento dell’altro. Più in generale, si tratta del «volere l’uno il bene per l’altro» (VIII. 3 1156 a9).
Nella prospettiva di Aristotele, ciò non può però significare che l’amicizia manchi di valore etico. Non è difficile costatare che in essa al contrario si trova immediatamente realizzato quel valore di «piacevolezza» (hedý) che viene individuato come elemento caratteristico dell’acquisizione di un abito morale: «Bisogna porre come segno delle disposizioni morali (héxeis) il piacere e il dolore che si aggiungono alle azioni: infatti, colui che si astiene dai piaceri del corpo e gode proprio di questa stessa astinenza è temperante, colui che, invece, lo fa contro voglia è intemperante, e chi affronta i pericoli e ne gode o almeno non ne soffre è coraggioso, chi lo fa soffrendo è vile» (II. 3 1104 b3-8). In altre parole: se l’amicizia non è essa stessa una virtù, ciò avviene perché in essa l’uomo trova già esistente quella conformazione interiore che invece alla virtù è posta come obiettivo, a volte lontano e puramente regolativo. Laddove in tutte le virtù etiche si tratta di raggiungere una «medietà» e dunque per lo più di contrastare un elemento sentimentale che spinge verso l’uno o l’altro estremo, nell’amicizia è proprio il sentimento ad indicare (benché in una maniera che va essa stessa disciplinata dalla ragione) un comportamento che induce alla pienezza personale.
Le notazioni iniziali sull’amicizia come «necessarissima alla vita» non vanno allora sottovalutate. Dietro alla costatazione empirica comincia a tralucere un elemento fondante che curiosamente rimane nascosto per ben sette decimi dell’Etica Nicomachea: pur non essendo virtù essa stessa, o forse proprio non essendolo, la passione dell’amicizia è quella condizione senza la quale l’intero edificio morale sarebbe fallimentare, non riuscendo a trasmettere neanche il più elementare gusto per la vita, e insieme quella disposizione interiore che è capace di compiere e oltrepassare le stesse esigenze morali: «Quando si è amici, non c’è alcun bisogno di giustizia, ma quelli che sono giusti hanno in più bisogno di amicizia, e il massimo della giustizia sembra essere un atteggiamento amichevole (philikón) » (VIII. 1 1155 a26-28).
In questo modo, anche l’approccio spontaneamente individualista dell’etica risulta cancellato o almeno controbilanciato: è vero che l’indagine etica ha la forma di una ricerca delle strategie per il raggiungimento della propria felicità (questo in sintesi il senso delle prime pagine dell’opera di Aristotele); il modello asintotico di felicità inoltre è costituito dal dio completamente autosufficiente e pensiero di sé stesso. Ma è pur vero che ciò senza cui nessuno vorrebbe vivere è quella possibilità di volere piacevolmente «l’uno il bene dell’altro» in cui Aristotele riassume l’essenziale dell’amicizia; il rapporto tra amore di sé e amore dell’altro si fa dunque circolare:
Gli atteggiamenti amichevoli verso i vicini, tramite i quali si definiscono le amicizie, sembrano esser derivati da quelli verso sé stesso. Infatti definiscono amico chi vuole e fa cose buone (o che appaiono tali) per amor dell’altro, o chi vuole che l’amico esista e viva per amor di lui: il che è proprio ciò che provano le madri verso i figli … . Altri [definiscono amico] colui che vive assieme e sceglie le stesse cose, o colui che è gioioso o triste insieme con l’amico (e anche ciò accade per le madri) … E all’uomo buono spetta ciascuna di queste cose verso sé stesso (IX. 4 1166a1-11).
In altre parole (così Aristotele concluderà esplicitamente) chi ama veramente sé stesso (e solo costui) amerà veramente gli altri e tramite quest’amicizia (non tramite gli amici) amerà sé stesso (IX. 8 1168 a28 — 1169 b2). L’esempio ricorrente dell’amore della madre verso i figli e quello, appena meno presente, dell’innamorato verso la persona amata (l’uomo è «inclinato alla vita di coppia (syndyastikón)» prima che politico, VIII. 12 1162 a17), mettono in guardia dal restringere il discorso di Aristotele all’amicizia (che pur viene soprattutto lodata) motivata dalla percezione della virtù altrui. Amicizia, philía, è piuttosto il titolo generico, ma non vago e sfuggente, sotto cui porre tutti i rapporti che fondano la socialità dell’uomo, a cominciare da quelli più naturali, elementari e indispensabili. L’amicizia è in assoluto quella passione che permette all’uomo di essere quel che è e dev’essere: «Ma forse è assurdo anche considerare l’uomo beato (makárion) un solitario: nessuno infatti sceglierebbe di avere tutti i beni da solo, perché l’uomo è un essere politico e nato per vivere assieme (politikón gar ho ánthropos kai syzén pephykós). In verità ciò spetta anche all’uomo felice» (IX. 9 1169 b16-19).
4. Amore e costruzione dell’io
La peculiare tensione che abbiamo costatato nelle pagine di Aristotele (un dato passionale empirico che riorienta, forse preterintenzionalmente, l’intero impianto razionale dell’etica) rende inevitabile una considerazione più approfondita. È facile supporre che dietro alla riflessione sull’amicizia da parte di Aristotele vi sia il tentativo di una laicizzazione della teoria platonica dell’eros, ma anche se così non fosse il confronto è illuminante.
L’eros di Platone è quella tensione anzitutto emotiva (e secondariamente anche intellettuale e pratica) che trascina l’uomo verso l’idea del Bene, la somma ipostasi di carattere etico alla cui luce soltanto anche le singole idee possono essere, possono manifestare il loro valore. Ma l’eros può costituire la forza di questa ascesa solo in quanto riesce tramite l’emozione immediata a comunicare ciò che nessuna struttura concettuale potrebbe fare: la certezza nell’esistenza di un valore assoluto, qualche cosa (per dirlo con Kierkegaard) «tanto grande, tanto magnifica che ogni altra sia un nulla al suo confronto e anche se si dimenticasse tutto il resto, quella non la si dimenticherebbe mai più» (Pap. II A 58). È evidentemente la persona amata che anzitutto incarna agli occhi dell’innamorato tale assoluto: di lui o di lei ogni cosa è sommamente desiderabile, prima e indipendentemente da qualsiasi giudizio oggettivo. Certamente anche l’innamorato cerca la propria felicità, cioè la propria realizzazione umana, ma tale felicità va immediatamente ad identificarsi con la felicità dell’altro: è nel volere tutto il bene dell’altro che chi ama è completamente realizzato. È così che tramite l’altro viene spalancato un intero nuovo mondo, un mondo dove non può trovare spazio il male e il negativo. La grande sfida teoretica della filosofia di Platone è affermare che tutto ciò non è una illusione, ma che il mondo dischiuso dall’esperienza dell’amore è il vero mondo, e che esso possa e debba quindi diventare pienamente oggetto di un pensiero che è alla ricerca del vero, del buono e del giusto. O, in termini equivalenti, la sfida è ritenere l’«essere» solo la seconda parola, che dipende nella sua ricchezza e affidabilità solo dal Bene che lo precede.
Non è difficile seguire la trasformazione che tale visione subisce e deve subire in Aristotele: una volta negato (perché in parte inevitabilmente frainteso) l’intero mondo delle idee come un inutile doppione ontologico, una volta contestata l’idea del Bene come inutile e ridotta la ricerca al bene autenticamente umano, l’eros non può che venire tradotto nei sobri termini della philía, che costituisce così, come abbiamo visto, una sorta di pre-realizzazione istintiva della felicità umana. Essa, proprio in forza della sua dimensione spontaneamente altruistica, è in grado di sorreggere e ispirare ogni dimensione dell’agire umano, da quello più spontaneo della cura parentale a quello più elaborato delle strutture giuridiche ed economiche.7
Se confrontiamo tale modello con quello prima delineato di Levinas, incontriamo subito una situazione curiosa che merita qualche considerazione. L’idea del Bene è, come è noto, uno dei rari episodi della filosofia occidentale in cui Levinas vede realizzato un movimento di trascendenza: se le pagine relativamente giovanili di Dall’esistenza all’esistente scelgono appunto l’idea del Bene come idea-guida generale, il testo della piena maturità Altrimenti che essere o al di là dell’essenza utilizza perfino nel titolo la definizione platonica (epékeina tes ousías). È evidente che ciò non significa da parte di Levinas un’accettazione di ogni contenuto della filosofia platonica: ma l’eros significa in Platone proprio la spinta eteronoma della trascendenza. Tuttavia, gli sviluppi della teoria dell’eros nell’amicizia aristotelica puntano in una direzione chiaramente diversa da quella di Levinas: la philía è il fondamento naturale tanto della vita a due quanto della vita sociale, in una progressione e articolazione di forme di convivenza in cui tuttavia è caratteristica la coincidenza (se così ci si può esprimere) di eteronomia e di autonomia, di ricerca della felicità propria e ricerca della felicità altrui: il che sembra a chiare lettere rifiutato da Levinas: «La situazione in cui non si è soli non si riduce all’incontro felice di anime fraterne che si salutano e dialogano, ma è coscienza morale — esposizione della mia libertà al giudizio dell’Altro» (La filosofia, p. 46).
Siamo così giunti, per altra strada, proprio alla stessa tensione a causa della quale avevamo affrontato il modello aristotelico: la tensione di una visione che effettua una divisione tra Altro e Terzo dichiarandola al contempo un’astrazione irreale, che teorizza una netta divisione tra soggezione e giustizia portando però per la prima esempi che riconducono all’equità sociale. Questo ritorno non è stato tuttavia inutile, giacché ci permette ora di affrontare il nodo della questione nel modo più appropriato: che ne è dell’eros nel pensiero di Levinas? In effetti, la quarta e ultima sezione di Totalità e infinito è dedicata interamente al tema, e lo stesso Levinas è lucidamente cosciente del fatto che è attorno a tale nozione che l’intero impianto etico-metafisico gioca la sua definitiva credibilità:
Abbiamo cercato al di fuori della coscienza e del potere una nozione d’essere che fondasse la trascendenza. L’acutezza del problema consiste nella necessità di mantenere l’io nella trascendenza con la quale, fino ad ora, sembrava incompatibile. Il soggetto è soltanto soggetto di sapere e soggetto di potere? Non si offre come soggetto in un altro senso? La relazione cercata che egli sostiene come soggetto e che, a sua volta, soddisfa contemporaneamente queste esigenze contraddittorie ci sembra inscritta nella relazione erotica (Totalità e infinito, p. 285).
Non è la prima volta che tale relazione viene assunta ad oggetto di riflessione in Levinas. Un fuggevole accenno c’era stato — l’abbiamo visto — in «La filosofia e l’idea dell’infinito». Ma una trattazione appena più lunga si trovava già nella conclusione di Dall’esistenza all’esistente, dove Levinas rimprovera a Heidegger proprio il misconoscimento della relazione che più d’ogni altra salva la considerazione dell’umanità dall’anonimato (l’«il y a», dice Levinas). Anche Il tempo e l’altro vi aveva dedicato le pagine finali, tra l’altro identificando la differenza sessuale (la «femminilità», vien detto) con l’alterità in assoluto. Ma è appunto in Totalità e infinito che Levinas intende dire interamente la sua, in modalità che non ci pare che siano stati poi mai sostanzialmente modificate.
L’eros è certamente, come abbiamo or ora letto, la relazione in cui vengono salvate le esigenze contraddittorie dell’io e della trascendenza, l’eros porta «al di là del volto» (così suona il titolo della sezione) rendendo possibile quella fecondità che è la radice di ogni socialità. Ma l’eros è anche portatore di una essenziale ambiguità: conduce al di là del volto ma contemporaneamente ne resta immensamente al di qua, significa il movimento della trascendenza più completa e contemporaneamente quello dell’appropriazione più egocentrata, quella tramite cui l’Altro diventa possesso e godimento dell’Io. Si tratta in fondo di ambiguità che già in Platone sono evidenti, nel modo più netto (e preterintenzionale) quando l’eros come movimento della trascendenza coincide paradossalmente con quel movimento di definitiva immanenza che è la reminescenza.
Le analisi che Levinas dedica all’eros dovrebbero essere oggetto di considerazioni puntuali. Ci si potrebbe interrogare ad esempio se venga resa veramente giustizia al fenomeno dell’amore umano quando si afferma che «una cosa, un’astrazione, un libro, possono essere, allo stesso titolo [di una persona], oggetti d’amore [cioè eros]» (Totalità e infinito, p. 261), o se non sia già questo concetto a generare parte delle ambiguità che poi vengono giustamente denunciate. Ci si potrebbe chiedere se queste ultime non siano poi un riflesso di un «male radicale», una più essenziale ambiguità che ha luogo nel cuore stesso dell’uomo (se ci è lecito introdurre un termine che intendiamo un po’come pendant del «volto»). Si potrebbe discutere se sia lecito equiparare (come ci sembra fare Levinas) l’esclusività del rapporto amoroso ad una sorta di isolamento asociale (Totalità e infinito, p. 272), quando al contrario è spesso vero che proprio la trasfigurazione del mondo che ha luogo nel movimento dell’eros fornisce la spinta ad una trasformazione estetica ed etica del mondo come dato (come insegna il nesso tra metafisica erotica e politica in Platone).
Al di là di tutti questi aspetti specifici, ci sembra però che ci sia un aspetto strutturale più importante da considerare: se cioè l’analisi dell’eros non giunga in Levinas un po’troppo tardi, quando ormai è già consumata la frattura tra l’uguaglianza della giustizia e l’asimmetria della dedizione. Non è forse allora lo stesso eros costretto a prendersi carico di una riconciliazione troppo difficile, del compito immane della composizione di una distinzione destinata a rimanere tale? non si può invece sostenere che l’eros nulla ancora sa di una distinzione tra giustizia e misericordia, e che l’umanità come specie (un concetto che Levinas lega con penetranti analisi a quello dell’eros) si costituisce proprio in questa ignoranza? (Intendiamo dire, nel trasporto entusiasta per la persona amata e nella cura amorosa dei genitori per il loro bambino.) Eancor di più: è sicuro che l’idea dell’infinito non sia fenomenologicamente originaria in quell’amore che, secondo la determinazione di Feuerbach, è esattamente l’ambito nel quale il finito viene interpretato e percepito come infinito? In questo caso, l’analisi dell’eros dovrebbe precedere non solo la frattura tra giustizia e carità, ma addirittura tra Stesso e Altro.
Altrimenti detto e riassumendo: quando la felicità altrui viene sperimentata immediatamente come felicità propria (ciò che a Kant non riuscì mai possibile di dire) si costituisce una sorta di simmetria asimmetrica, in cui ciascuna delle due persone è il tutto dell’altra; ma lo stato eccezionale di questa simmetria è poi in grado, come vide Aristotele, di generare la nascita di quella simmetria sociale in cui la commozione per l’altra persona si travasa e razionalizza nelle esigenze del rispetto, della giustizia, dell’alleanza in vista del bene comune.
Se così stanno le cose (e abbiamo qui voluto suggerire che perlomeno potrebbero stare così) c’è da chiedersi se nell’impianto filosofico di Levinas non sia in conclusione la stessa presenza del «terzo» qualcosa di difficile e disomogeneo, nei cui confronti si possa suggerire che entia non sunt multiplicanda. Quando in «La filosofia e l’idea dell’infinito» questa viene definita come «il rapporto sociale» in assoluto, non c’è già in tale identificazione il germe di un’intera teoria politica, che lascia, appunto, che l’infinito resti tale? C’è un passo (il più esplicito a nostra conoscenza) in cui Levinas connette l’esigenza del terzo con quello che più volte ha dichiarato essere il motivo ispiratore del proprio pensiero: permettere alla Bibbia di parlare in greco. Èinteressante leggerlo per intero:
D: Nei suoi più recenti scritti, un tema sembra assumere sempre più importanza, quello dell’Europa e dell’Europa la cui «eredità biblica implica la necessità dell’eredità greca». Potrebbe precisare il senso di tale implicazione che non dipende, come lei stesso afferma, da «una semplice confluenza di due correnti culturali»?
R: È il tema dell’apparizione del terzo; il «primo venuto» per me e per l’altro sarebbe anche il terzo che ci riunisce e che sempre ci accompagna. Il terzo è anche il mio altro, il terzo è anche il mio prossimo. Dov’è la priorità? È necessaria una decisione. La Bibbia chiede giustizia e deliberazione! Dal seno dell’amore, dal seno della misericordia. Bisogna giudicare e concludere: è necessario un sapere, è necessario verificare, è necessaria la scienza oggettiva e il sistema. Bisogna riunire gli unici dell’amore, esteriori ad ogni genere, alla comunità e al mondo. Prime violenze nella misericordia! Bisogna, attraverso l’amore dell’unico, rinunciare all’unico. È necessario che l’umanità dell’Umano trovi un nuovo luogo nell’orizzonte dell’Universale. Istruirsi presso i Greci e apprendere il loro verbo e la loro saggezza. Il greco, inevitabile discorso dell’Europa che la Bibbia stessa raccomanda (Di Dio, p. 214).
Se non c’è motivo di rifiutare a Levinas il diritto all’autointerpretazione, la tensione tra Altro e Terzo (con le oscillazioni concettuali che abbiamo notato) è dunque il riflesso della fatica di questo necessario accordo. Se almeno da un millennio e mezzo l’intera filosofia occidentale può esser definita contemporaneamente greca e cristiana, alle spalle di questo problema, che qui lasciamo del tutto impregiudicato, c’è forse lo stesso tema dell’identità e dello scopo della filosofia. Ma allora questo significherebbe che l’intera storia della filosofia è teleologicamente orientata a portare alla luce questo complesso intreccio in cui la finitudine estrema dell’io e dell’altro (nell’un caso messa in questione, nell’altro fragilità) si unisce per generare, nel pensiero e nella realtà, un’umanità capace di giustizia. Forse questo è uno dei casi in cui capire i problemi è più importante che dar loro risposta, perché questa comprensione riguarderebbe la modalità d’essere dell’uomo stesso, colui che (su questo è difficile dar torto ad Heidegger) è in grado d’interrogarsi sul suo stesso essere e che dunque è crocevia di ogni metafisica.
Non vogliamo però — se prendere posizione su ciò di cui si discorre è un dovere prima che un diritto — omettere di osservare che, pur nei suoi limiti e nella sua talvolta arcaica ingenuità, il modello aristotelico pare il più coerente e fedele, e forse il più fecondo in un’ora di universale disincanto, dove cessate le illusioni sul raggiungimento di un «mondo vero» normativo rimangono tuttavia i dati della propria esperienza vissuta. Malgrado la loro fragilità essi testimoniano che la felicità esiste, e che l’io umano si costituisce sempre e soltanto nel rapporto amichevole con i suoi simili. È vero che l’eros, punta di diamante della philía, porta con sé tutte le ambiguità del cuore umano, ma è altrettanto vero che è in questa ambiguità che l’uomo vede tralucere, fin dalla sua venuta al mondo, il senso delle cose e della vita, e dunque riceve lo stesso valore del suo essere — espressione questa intenzionalmente paradossale nella misura in cui all’essere viene attribuita una relazione assiologica con ciò che è al di là di ogni essere e non è neppure esprimibile nei termini di esso. Allora l’esperienza del faccia-a-faccia può e deve far parte del discorso filosofico (tentiamo una risposta alla domanda prima lasciata in sospeso) proprio perché essa è l’esperienza della costituzione dell’io umano a tutti i livelli, da quello più intimo del rapporto a due a quello più pubblico della preoccupazione civile per la comunità planetaria, laddove l’uomo si scopre capax hominis.
Ma accanto a questa presa di posizione di sapore platonico-aristotelico, ci sembra impossibile non provare ammirazione verso il modello — quello di Levinas — che traduce nei toni di una ineludibile presa di coscienza il dramma di un’umanità che ha visto e continua a vedere l’amicizia strumentalizzata o violentata in nome di «verità» denudate di tutto l’entusiasmo e la vertigine del Bene. Anche se in nome dell’eros abbiamo creduto di poter contestare l’incrinatura tra carità e giustizia, e più fondamentalmente la frattura tra Stesso e Altro, al medesimo titolo ci pare di poter riconoscere felix questa culpa, grazie alla quale siamo stati costretti a ripensare a quello stato eccezionale tramite cui gli uomini scoprono l’infinito e costruiscono sé stessi — quello stato che, conformemente alla definizione di Levinas, permette che l’amore della sapienza sia sapienza dell’amore.
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Ecco i riferimenti completi dei testi che citeremo in forma abbreviata: «La philosophie et l’idée de l’infini» (1957), in En découvrant l’existence avec Husserl et Heidegger, Vrin, Paris, II ed. 1967, pp. 165-178 (trad. it. di Fabio Ciaramelli, «La filosofia e l’idea dell’infinito», in Emmanuel Levinas, Adriaan Peperzak, Etica come filosofia prima, Guerini e Associati, Milano 1989, pp. 30-46); Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1971 (trad. it. di Adriano Dell’Asta, Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, Jaca Book, Milano 1980); De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Paris 1982 (trad. it. di Giulio Zennaro, Di Dio che viene all’idea, Jaca Book, Milano 1986). La paginazione si intenda sempre quella delle edizioni italiane, ma la traduzione sarà spesso modificata. ↩︎
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Data la delicatezza di questo punto, riportiamo le parole di Levinas: «Il rapporto etico non si innesta in un preliminare rapporto di conoscenza. È fondamento e non sovrastruttura. Distinguerlo dalla conoscenza non significa ridurlo a un sentimento soggettivo. Solo l’idea dell’infinito, in cui l’essere oltrepassa l’idea o in cui l’Altro oltrepassa lo Stesso, segna una rottura rispetto ai giochi interni all’anima e merita il nome di esperienza, di relazione con quel che è esteriore all’io. Di conseguenza l’idea dell’infinito ha un valore conoscitivo maggiore della stessa conoscenza e ogni oggettività deve parteciparvi» (La filosofia, p. 41). Si tratta di osservazioni perfettamente in linea con l’impostazione del saggio, che muove, come abbiamo visto, non dalla contrapposizione tra una verità speculativa e una verità etica, ma piuttosto tra due modelli parimenti teoretici di verità, giudicati entrambi necessari, al più alto dei quali viene tuttavia riconosciuto un fondamento di natura etica. Riassumendo in pochissime parole: autentica esperienza c’è solo dell’individuo; ma giacché teoreticamente si dànno solo concetti, l’individuo è colui che è dato «praticamente»; tale individualità viene dunque espressa nel comandamento che me ne proibisce o dichiara impossibile l’appropriazione (si noterà che «Tu ne tueras point» è contemporaneamente imperativo e futuro); solo all’interno di questa esperienza dell’individuo è possibile anche la conoscenza concettuale. Dunque, perlomeno in queste pagine, non c’è nulla di quella tendenza antispeculativa che a prima vista si potrebbe attribuire a Levinas. Ci pare che nella medesima direzione va la ripetuta preoccupazione di riconoscere all’idea dell’Infinito uno statuto filosofico e non solo religioso, anzi testimoniato fin dall’origine della filosofia («una tradizione almeno altrettanto antica» [p. 38]). ↩︎
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È significativo che nelle citate conferenze su Il tempo e l’altro Levinas usi il termine «carità» (charité), contrapponendovi la «giustizia» (justice) come tipica dei rapporti simmetrici. Evidentemente, tale termine è scelto al posto del più colloquiale «amore», verso il quale Levinas dichiara poca simpatia a causa dei suoi abusi e delle sue ambiguità (sulle quali dovremo tornare). Ad illustrazione della «carità» Levinas cita (cosa che non cesserà mai di fare) le prescrizioni bibliche riguardanti «l’orfano e la vedova». Ma non sono questi proprio esempi di giustizia, sia nel lessico biblico (sedaqáh) sia da un punto di vista sostanziale (giustizia «correttiva» nel senso aristotelico)?La notazione di Levinas è occasionale e non va dunque sopravvalutata. Ma sul suo sfondo si delinea quello che ci pare il problema fondamentale: se e come sia possibile e fruttuoso coniugare asimmetria e simmetria in una radice più essenziale della capacità umana di entrare in relazione. ↩︎
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La stessa idea è espressa da Levinas in maniera più semplice e inequivocabile in una posteriore discussione: «Se di fronte a me ci fosse solo l’altro, allora direi fino alla fine: gli devo tutto. Io sono per lui. Equesto vale anche per il male che mi fa: non sono suo eguale, io sono per sempre assoggettato a lui. La mia resistenza comincia quando il male che egli mi fa è fatto ad un terzo che è anche mio prossimo. È il terzo ad essere la sorgente della giustizia, e perciò della repressione giustificata. … L’io è perseguitato ed è, in principio, responsabile della persecuzione che subisce. Ma, “fortunatamente”, non è solo; ci sono dei terzi e non si può ammettere che si perseguitino dei terzi!» (Di Dio, p. 108). ↩︎
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È interessante notare che tale caratteristica (la non immediata applicabilità politica) accomuna il modello dell’alterità di Levinas a quello che per altro ne sta agli antipodi: la lotta per l’esistenza di Hegel. Anche questa, che viene posta come momento sorgivo della anerkennende Selbsbewusstsein (autocoscienza che riconosce) e dunque della costituzione dell’alterità, è però anteriore alla costituzione della società umana: «Per scongiurare possibili fraintendimenti riguardo al punto di vista sopra descritto, dobbiamo qui notare che la lotta per il riconoscimento nella forma indicata, spinta fino all’estremo, può aver luogo unicamente nello stato di natura, dove gli uomini esistono solo come singoli, mentre manca dalla società civile e dallo Stato, giacché qui ciò che costituisce il risultato di quella lotta, cioè l’esser-riconosciuti, è già presente (vorhanden)» (Enzyklopädie 1830, § 432, Z.). Se la società civile e poi lo Stato non rendessero già concretamente esistente il riconoscimento della persona, la lotta per il riconoscimento si trasformerebbe del resto in quella bestiale «guerra di tutti contra tutti» dalla quale una esigenza pragmatica può sì far uscire (come aveva insegnato Hobbes), ma solo a spese della libertà, e cioè proprio dell’essenza dello spirito umano, dunque a spese dell’umanità. Ovviamente, nel caso di Hegel questa discronia tra riconoscimento dell’alterità e costituzione della società politica porta a conseguenze molto differenti da quelle che noteremo tra poco in Levinas: «Lo Stato in sé e per sé è la totalità etica, l’attualizzazione della libertà, e il fine assoluto della ragione è che la libertà sia attuale (wirklich). … Parlando di libertà non bisogna partire dalla singolarità, dalla singola autocoscienza, ma solo dall’essenza dell’autocoscienza; infatti, che l’uomo lo sappia o no, questa essenza si realizza come potere autonomo, in cui i singoli individui sono solo momenti: l’essere dello Stato è il cammino di Dio nel mondo, il suo fondamento è il potere della ragione che si realizza come volontà» (Philosophie des Rechts, § 258 Z.). ↩︎
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La questione è ulteriormente complicata dal fatto che talvolta Levinas tende, se ben capiamo, a concepire la stessa presenza del terzo come non solo una necessaria implicazione della relazione con l’altro, ma addirittura una sua condizione di possibilità, nella misura cioè in cui il terzo viene a rompere la struttura egocentrata di un’etica dell’intenzione e la tramuta in un’etica della responsabilità, in cui io sono «colpevole più di tutti», secondo la parola di Dostoevskij. In tale direzione ci pare che vada il saggio «L’io e la totalità» (1954): «L’amore che il pensiero religioso contemporaneo, sbarazzato delle nozioni magiche, ha promosso al grado di situazione essenziale dell’esistenza religiosa, non contiene dunque la realtà sociale. Questa comporta inevitabilmente l’esistenza del terzo. Il vero “tu” non è l’Amato, staccato dagli altri. Egli si presenta in un’altra situazione. La crisi della religione nella vita spirituale contemporanea dipende dalla consapevolezza che la società oltrepassa l’amore, che un terzo assiste ferito al dialogo amoroso e che riguardo a lui la società stessa dell’amore ha torto. Il difetto di universalità non dipende qui da un difetto di generosità, ma dall’essenza intima dell’amore. Ogni amore — a meno che non diventi giudizio e giustizia — è l’amore di una coppia. La società chiusa è la coppia» (trad. di Emilio Baccarini, in Tra noi, Jaca Book, Milano, di prossima pubblicazione). ↩︎
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La contiguità tra philía e virtù politica è eccellentemente messa in luce nello studio di Terence Irwin, Aristotle’s First Principles, Oxford University Press, Oxford 1988 (trad. it. di Alessandro Giordani, Iprincìpi primi di Aristotele, Vita e Pensiero, Milano 1996), in particolare nel cap. XVIII («Il bene degli altri»). Eccone le illuminanti osservazioni conclusive: «L’estensione dell’interesse altruistico alla giustizia si basa sulle assunzioni relative alla condotta razionale che erano di supporto ad affermazioni relative all’amicizia. Aristotele afferma che l’amicizia è necessaria per l’autosufficineza di una vita completa che assicura il bene di un agente razionale (Eth. Nich. 1170 b17-19). In modo simile, la città costituisce la comunità completa che assicura una vita completa e autosufficiente. La stessa concezione dell’essenza e del bene dell’uomo che dà forma alla concezione aristotelica delle virtù autoreferenziali costituisce anche il supporto alla sua difesa dell’amicizia e della giustizia. Non concede la verità dell’accusa di Trasimaco per cui la giustizia è il bene dell’altra persona e un danno per sé stessi: afferma invece che è un bene per sé stessi proprio perché è il bene di un’altra persona, quando l’altra persona è un concittadino; e non si basa semplicemente su opinioni comuni per rispondere a Trasimaco, ma sulla dialettica forte» (p. 494-5). Malgrado l’accuratezza delle analisi, viene però omessa una considerazione precisa dello status etico della philía, che Irwin qualifica senz’altro come «virtù». ↩︎