1. Fine del sogno dell’umanesimo?
Ritentare a diversi anni di distanza una lettura critica delle Regole per il parco umano di Peter Sloterdijk,1 dopo l’acceso dibattito che fin dalla pubblicazione ne seguì, non può avere né il senso di una risposta, che sarebbe tardiva, né di una valutazione della capacità predittiva delle sue tesi fondamentali, che sarebbe d’altro canto prematura. Abbastanza distanti da entrambe le urgenze, ci troviamo però nella posizione giusta per tentare di riflettere non tanto a ciò che Sloterdijk disse, quanto a ciò che non disse, vale a dire a quali siano i presupposti non citati che sostengono la sua valutazione filosofica dell’antropotecnica, una valutazione la quale (diciamolo sùbito), pur alleggerita della tara del linguaggio provocatorio che la anima, segue però troppo bene alcune curvature della cultura contemporanea da poter essere superficialmente scartata come una bizzarria. In questo limitato senso, i pochi anni passati sono sufficienti per lo meno a riconoscere la crescente pertinenza dei problemi sollevati.
Prima di tentare questo compito, cerchiamo di riassumere con esattezza il filo argomentativo dello scritto. Il punto di partenza di Sloterdijk è una determinazione dello spirito dell’umanesimo europeo: esso si basa sulla fiducia nella creazione di una comunità di amici, istituita dalla comune lettura di buoni testi, che istillino nelle persone sentimenti di socievolezza e li allontanino così dai loro istinti bestiali distruttivi. Malgrado tentativi di rivivescenza, tale modello di umanesimo è tuttavia inesorabilmente sulla via del tramonto: non sono più le letture, presumibilmente buone, ad indirizzare lo spirito umano:
La nostra tesi allora consisterebbe nel dire che le grandi società moderne possono produrre le loro sintesi politiche e culturali solo marginalmente ormai attraverso i media letterari, epistolari e umanistici. […] Il legame sociale non è più, nemmeno in apparenza, qualcosa che ha principalmente a che fare con libri e lettere. […] È finita l’era dell’umanesimo moderno come modello di scuola e di formazione, poiché non ci si può più illudere di poter organizzare le macrostrutture politiche ed economiche in base all’amabile modello della società letteraria.2
Il mutamento non è dovuto, secondo Sloterdijk, ad una decadenza della letteratura, ma semplicemente all’insufficienza della comunicazione letteraria in una società di massa i cui legami sono stati progressivamente stabiliti con altri mezzi comunicativi (radio, televisione, Internet), che posseggono uno spirito radicalmente differente da quello della letteratura. Proprio tale mutamento epocale impone però una riflessione sulla natura dell’umanesimo: alla sua radice c’è «la convinzione che gli uomini siano animali influenzabili e che perciò sia indispensabile sottoporli al giusto tipo di influenze».3 Il libro è stato nell’era dell’umanesimo l’antidoto (per esempio) agli spettacoli abbrutenti, che disinibiscono e scatenano le tendenze bestiali dell’uomo. La Lettera sull’umanismo di Heidegger sarebbe da questo punto di vista un testimone privilegiato: essa infatti segna acutamente il bilancio di una crisi drammatica, fino a chiedersi, ribaltando la questione dell’interlocutore, se sia ancora necessario parlare di «umanismo». Tale contestazione avviene in nome del ritorno ad una considerazione più radicale, di carattere ontologico, che soprattutto interrompa la tradizione di comprensione dell’uomo come animal rationale, la quale agli occhi di Heidegger impedirebbe di pensare l’origine essenziale dell’uomo. Commenta acidamente Sloterdijk:
Su questo punto Heidegger è implacabile, incede come un angelo collerico con spade incrociate tra l’animale e l’uomo, per impedire ogni comunità ontologica tra i due. Nella sua passione antibiologistica e antivitalistica, si lascia andare ad affermazioni quasi isteriche, ad esempio quando spiega che sembra «che l’essenza del divino ci sia più vicina di quanto non lo sia l’estraneità degli esseri viventi». Al centro di questo pathos antivitalistico vi è la concezione per cui l’uomo si trova, rispetto all’animale, in un rapporto di differenza ontologica, non di specie o di genere, e perciò non può venir concepito in nessun caso come un animale con in più un che di culturale o metafisico.4
La certezza di Heidegger che la decisa critica all’umanismo classico non sfocia in un antiumanismo sarebbe facile da interpretare. Essa riposerebbe sul fatto che un elemento cruciale del primo rimane in vigore e anzi riceve una dignità filosofica unica: la possibilità di fare amicizia tramite la parola, possibilità che qui viene tradotta negli eterei termini ontologici dell’uomo come «pastore dell’essere» e del primato assegnato alla voce dei poeti. Tale riflessione (che Sloterdijk qualifica «criptocattolica») ha però il merito di porre la domanda cruciale: «che cosa addomestica ancora l’uomo quando l’umanismo come scuola dell’addomesticamento dell’uomo fallisce?».5
È qui che il testo di Sloterdijk raggiunge la sua parte più propositiva e originale. In primo luogo si tratta, una volta assunto il campo problematico delineato da Heidegger, di formulare una risposta più convincente agli interrogativi sull’essenza dell’uomo: essi non andrebbero tanto ricercati in un’origine metafisica, quanto in un processo di evoluzione antropologica. Sloterdijk, abbreviando considerazioni altrove svolte più nel dettaglio, individua due linee principali: la prima è quella dell’apertura al mondo causata dal «fallimento» animale dell’uomo e dalla compensazione offerta dalla creazione del linguaggio; la seconda è quella del divenire stanziale dell’uomo e della nascita della casa, al cui interno soltanto comincia ad aver senso qualcosa come un’«addomesticazione» (che è letteralmente l’esser capaci di vivere in una casa) e contemporaneamente una selezione degli uomini più capaci di dominare. Nietzsche sarebbe stato colui che con più precisione ha individuato il problema: le sue pagine scandalose sulla «virtù come addomesticamento» in realtà coglierebbero il problema fondamentale: quale uomo vogliamo fare, e in quali modi? Basta già la formulazione dell’interrogativo in questi termini per entrare nel campo di discussione delle antropotecniche, la cui finalità è appunto quella della trasformazione dell’uomo. Una volta declinati i tradizionali metodi letterari (a causa, come abbiamo visto, della nuova natura della società di massa e dei suoi strumenti di comunicazione), l’umanità odierna si sta affacciando alla nuova possibilità di usare metodi tecnologici:
Il tratto distintivo dell’epoca della tecnica e dell’antropotecnica risiede nel fatto che gli uomini finiscono sempre più dalla parte attiva e soggettiva della selezione, anche senza che abbiano assunto volontariamente il ruolo di selettore. Si può asserire perciò che vi è un motivo di disagio nell’avere il potere della scelta, e che presto questo diventerà un’opzione di discolpa nel caso che gli uomini si rifiutino esplicitamente di esercitare il potere di selezione che nei fatti hanno già raggiunto. Ma non appena in un settore vengono sviluppate positivamente le potenzialità del sapere, gli uomini fanno brutta figura se lasciano agire al loro posto, come un tempo, quando non ne avevano i mezzi, un potere superiore: si tratti di dio, del caso o altro.6
Si tratta del futuro terrificante di una pianificazione da parte di un’élite tecnocratica? Sloterdijk da una parte non cela il volto inquietante di questo dislocamento tecnologico dell’ideale di humanitas, dall’altra insiste sul carattere di «autoeducazione» che le antropotecniche potranno accompagnare. Così come l’essenziale distanza tra istruttori ed istruiti è andata via via sfumando con l’alfabetizzazione generale, così è immaginabile che l’umanità nel suo complesso sappia sottrarsi al suo destino fatale. Se Platone nel Politico intuisce il fatto che la differenza di sapere crea di fatto due «specie» diverse di uomini, i governatori e i governati, contemporaneamente sembra presentire che ormai la saggezza divina che può guidare veramente la vita politica è andata smarrita. Questa è per Sloterdijk anche la situazione attuale, nella quale l’umanità, senza più alcuna guida sapiente e indiscutibile e finito il sogno dell’umanesimo, non può far altro che affrontare con disincanto il problema della humanitas futura.
2. Che cosa non viene detto
Fin qui il testo di Sloterdijk. Un esame appena attento del suo andamento mostra come sarebbe oltremodo superficiale liquidare queste analisi come una fantasia infondata: non c’è praticamente alcun’osservazione che non abbia una sua ragione. Mutamenti tecnologici e sociali, inefficacia di una concezione metafisica dell’uomo, sguardo disincantato sulle possibilità antiche e nuove di influenza sociale: dovunque vengono toccati problemi reali e nervi scoperti. I problemi, come prima accennato, risiedono piuttosto nel non detto. Un primo e radicale non detto riguarda la natura della violenza umana. Sloterdijk la esemplifica ricorrendo agli spettacoli circensi romani, che rappresenterebbero la regressione dell’uomo ad uno stato «bestiale». In tal senso, l’ominizzazione sarebbe (tra l’altro) un processo di allontanamento dalle proprie origini animali verso costumi più miti. Ma è davvero sostenibile un’identificazione del «violento» con il «bestiale», o piuttosto questo è il primo grave passo falso dell’argomentazione? Non si tratta qui ovviamente di ripercorrere le trite osservazioni sulla «naturalità» del mondo animale e sulla presenza nella specie umana di violenze molto peggio che «bestiali», ma piuttosto di verificare che la violenza umana possiede una sua dinamica appunto propriamente umana, culturale, radicata (seppure in maniera non inevitabile) in ciò che contraddistingue l’emergere della civiltà. Comunque la si valuti nei particolari, la lunga tradizione che ha creduto di individuare nella «legge naturale» un recinto fondamentale della moralità ha inteso dare voce anche a questa consapevolezza. La violenza umana nel suo complesso, e soprattutto nelle forme cui l’«umanesimo» tradizionale ha inteso dare risposta, è inseparabilmente radicata nell’impossibilità tutta umana di realizzare un’immediata identificazione con sé stessi che non sia continuamente sfidata e turbata da tensioni, desidèri inappagati, aspirazioni indefinite e infinite, slanci verso una felicità complessa continuamente a rischio di essere vanificata nelle semplificazioni del piacevole. Quel Platone che giustamente Sloterdijk invoca come testimone dell’inevitabilità di concepire la gestione sociale come «allevamento», è lo stesso che individua la radice di ogni brama, desiderio, violenza, guerra, nel «corpo»: vale a dire esattamente in quel radicamento naturale che però diventa percepibile soltanto a partire dall’«anima», nel cui concetto Platone riassume non solo genericamente le facoltà intellettuali dell’uomo, ma soprattutto quella capacità di raggiungere le idee eterne che è assicurazione di un’origine e contemporaneamente di un destino che superano i limiti naturali.7 Ma tutto questo, a meno di non banalizzare l’antropologia platonica, significa riconoscere che il male contro cui l’umanità deve combattere è propriamente umano, esattamente legato a quelle capacità di avere parola e avere casa nelle quali Sloterdijk vede l’origine del processo di ominizzazione. Per riconoscere questo non c’è nessun bisogno di sostenere una completa e assoluta differenza dei comportamenti umani da quelli animali: l’etologia contemporanea ha fatto numerosi passi in direzione di una migliore comprensione della continuità tra i primi e i secondi. È invece sufficiente non mettere tra parentesi, come se fosse irrilevante, il fatto che l’esistenza umana ha aspetti tipicamente umani, che vanno compresi in quanto tali.8
Qui si connette direttamente quello che appare il secondo non detto del discorso di Sloterdijk. A due riprese nel filo argomentativo affiora il tema dell’educazione. Una prima volta ciò accade quando l’argomentazione di Heidegger viene apprezzata nella sua capacità di porre in evidenza la vera questione sottesa all’umanesimo, che per Sloterdijk può essere così formulata: «Che cosa addomestica l’uomo quando, dopo tutti gli esperimenti condotti finora con l’educazione del genere umano, non si è ancora chiarito chi o che cosa e a che fine educa gli educatori?».9 Una seconda volta l’educazione è citata quando viene riassunto e interpretato il senso delle osservazioni di Nietzsche, il quale «si rifà a dei processi antichi, che durano da migliaia di anni, attraverso cui finora, grazie a una stretta connessione tra allevamento, addomesticamento ed educazione, è stata portata avanti la produzione degli uomini in una fabbrica che certo riuscì a rendersi quasi invisibile mentre sotto la maschera della scuola si occupava del progetto di addomesticamento».10 Questa prospettiva viene citata con ancor maggiore simpatia, tanto è vero che, come prima abbiamo visto, la testimonianza di Nietzsche svolge un ruolo cruciale nell’argomentazione sul «parco umano». Il problema è che la domanda sull’addomesticazione e la «stretta connessione tra allevamento, addomesticamento ed educazione» svolgono qui l’unica funzione di trasformare uno slittamento verbale in slittamento semantico. «Allevamento» e «addomesticamento» fino a quel punto infatti potevano e dovevano essere intese semplicemente come metafore regressive dell’educazione: che cos’è l’ideale umanistico di una trasformazione dell’essere umano tramite le buone letture e la conseguente creazione di una comunità di amici se non l’ideale educativo per eccellenza? Ma accostare la metafora al termine letterale ha nell’argomentazione di Sloterdijk l’effetto di promuovere improvvisamente la metafora a realtà. Il livello del discorso può così slittare insensibilmente su un reale allevamento dell’uomo, dominato da una zootecnica che forse solo per pudore viene chiamata «antropotecnica»:
Se poi lo sviluppo a lungo termine condurrà anche alla riforma genetica dei caratteri della specie, se una futura antropotecnica giungerà fino a un’esplicita pianificazione delle caratteristiche umane, e se l’umanità, dal punto di vista della specie, potrà compiere il sovvertimento del fatalismo della nascita in una nascita opzionale e in una selezione prenatale, tutte queste sono questioni nelle quali inizia ad albeggiare l’orizzonte dell’evoluzione, anche se in modo ancora confuso e inquietante.11
Il problema è che questo spostamento del livello del discorso, dissimulato linguisticamente, non riceve alcuna giustificazione. Prim’ancora insomma che sia toccata qualsiasi questione strettamente etica, il lettore rimane privo di qualsiasi vera spiegazione su perché il problema educativo sia oggi trasformato in problema zootecnico. A questo punto è anche facile notare il legame per lo meno retorico tra questo non detto e il precedente: suggerire un’interpretazione «bestiale» della violenza, trasformando surrettiziamente in tesi teorica uno scusabile ma imperfettissimo modo di dire, prepara e rende più verosimile anche una trasformazione dell’educazione in zootecnica. Se il problema dell’uomo è la sua residua animalità, che cosa dovrebbe proibire di affrontarlo con le stesse armi con le quali l’uomo ha imparato a trasformare gli animali? Una tesi contro cui si deve almeno ipotizzare che il vero problema dell’uomo è la sua umanità.
Ciò ci porta vicini all’ultimo non detto, che riguarda la mancata distinzione tra il contenuto e gli strumenti della prassi di umanizzazione. È sulla base di essa che è possibile a Sloterdijk esordire identificando lo spirito dell’umanesimo nell’ideale di migliorare gli uomini tramite le letture di buoni libri. Tale tesi può apparire verosimile solo perché rispecchia, almeno apparentemente, una situazione che ha perdurato per quasi due millenni e mezzo, nonché effettivamente una teoria infinita di lodi degli effetti educativi della letteratura. Ma, ancora una volta ricorrendo alla fin troppo nota testimonianza di Platone, è facile osservare che proprio l’introduzione dei «buoni libri» portò con sé gli stessi problemi di una comunicazione di massa che mezzi tecnologici più capillari e pervasivi amplificano soltanto. Quando Platone nel Fedro osserva che il libro scritto sulla carta è un bel gioco che può capitare nelle mani di chiunque e che in ogni caso ha bisogno del soccorso dell’autore, mentre l’attività veramente degna del filosofo è la «scrittura nell’anima», ripete quell’ideale paidetico del rapporto personale che prima e dopo di lui rimarrà fondamentale nella civiltà occidentale (e tanto più in altre civiltà che meno hanno subìto l’impatto della scrittura). Non interessa qui entrare nell’annosa polemica sul senso esatto di questa lode dell’oralità: ma il meno che si possa dire è che essa testimonia la coscienza dell’insuperabilità del rapporto educativo personale, di cui qualsiasi strumento di comunicazione è solo mediatore. Ovviamente la mediazione introduce curvature significative. In pieno ideale umanistico classico lo riconobbe per esempio Seneca, il quale, dando così per ovvio il medium della scrittura da non citarlo neppure, sottolineò in maniera suggestiva la capacità che esso conferiva di stabilire rapporti umani paidetici al di là degli stretti limiti della brevità della vita:
Tra tutti, i soli che davvero dispongono del loro tempo sono coloro che attendono alla saggezza; sono i soli che vivono e non si limitano ad amministrare bene i loro anni, ma aggiungono tutte le età alla loro. Tutti gli anni trascorsi prima che essi esistessero fanno parte del loro patrimonio. […] Ci è possibile disputare con Socrate, dubitare con Carneade, riposare con Epicuro, dominare la natura umana con gli stoici, oltrepassarla con i cinici. E poiché la natura ci permette di subentrare da compartecipi in tutta la storia, perché non dovremmo uscire da questa angusta e provvisoria parentesi cronologica e darci con tutto l’essere a ciò che è immenso, eterno, condiviso dai migliori?12
Anche sottraendo la tara dell’eleganza retorica, l’assunzione di fondo è chiara: l’ideale umanistico non si realizza nei buoni libri, ma nei «migliori» uomini, il cui esempio, nella sua varietà, è in grado di modellare i punti di riferimento della vita. Se ciò che in Platone era rischioso e pericoloso (cioè il carattere incontrollabile del libro) qui viene capovolto in una possibilità preziosa, ciò avviene non perché venga assolutizzata la scrittura, ma al contrario perché essa viene considerata solo il canale per espandere nel tempo le possibilità d’incontro umano, fino a far quasi arditamente coincidere quest’allargamento di orizzonte con il senso dell’eternità del valore ricercato. In che misura questa coscienza è proseguita e si è trasformata nelle vicissitudini della scrittura e poi della stampa, e se e come può essere rivissuta all’interno delle recenti trasformazioni dei canali di comunicazione, sarebbe una questione molto interessante, ma eccessiva per i nostri scopi. Quello che c’interessa mettere in luce è che solo riducendo lo spirito dell’umanismo allo spirito della scrittura si può giudicare oggi inesorabilmente tramontato l’ideale della trasformazione umana degli uomini. In effetti è questa l’unica giustificazione della tesi dello slittamento del problema educativo in problema zootecnico, che in un certo senso dà per ovvio ciò che proprio si vorrebbe dimostrare: e cioè che gli esseri umani sono trasformati dalle tecniche, e non da altri esseri umani (eventualmente tramite tecniche). Un tema questo che dovremo riprendere e precisare.
3. Biotecnologia o educazione?
Uno straordinario deficit di riflessione sull’educazione, il processo tramite cui gli esseri umani rendono più umane le nuove generazioni, in cui trasmettono loro i punti di riferimento a partire dai quali è possibile ogni progresso, miglioramento, contestazione, rivoluzione: questo sembra dunque, prima di ogni giudizio sulla pertinenza etica delle biotecnologie, il fondamentale limite delle Regole di Sloterdijk. Quest’ipotesi sembra confermata da molti dei dibattiti che sono seguìti sul tema delle antropotecniche. Un intervento molto significativo, diversi anni dopo, fu uno dei testi più chiaramente schierati in difesa delle biotecnologie migliorative: Liberal Eugenics di Nicholas Agar.13 Riuscendo senza dubbio a differenziarsi efficacemente sia dallo spettro dell’eugenetica nazista, sia dalle fantasie biotecnologiche d’immortalità che non marginalmente stanno entrando nella scena pubblica con una patina di scientificità, l’autore riesce a disegnare e a difendere in maniera a suo modo convincente la prospettiva di un’eugentica liberale. Tale difesa viene effettuata nella prospettiva di un «ottimismo pragmatico», secondo il quale l’ammissibilità di una tecnica va anzitutto valutata (e anche delimitata) nell’ipotesi migliore: in questo caso, immaginando che in un domani siano effettivamente e senza errore programmabili alcune caratteristiche genetiche «migliorative» dell’essere umano: per esempio (questo pare il caso che interessa di più) la dotazione di particolari qualità intellettuali.14 Una prospettiva liberale viene d’altro canto utilizzata non solo per stabilire in linea di principio l’impossibilità di una riconduzione all’unità degli innumerevoli diversi progetti di vita, con conseguente diversa valutazione di certe caratteristiche umane,15 ma anche per indicare i criteri giuridici che dovrebbero permettere sia di escludere usi impropri della programmazione genetica, sia di evitare che la sua pratica diventi socialmente discriminante, stabilendo dei meccanismi giusti di distribuzione nel senso di Rawls (analoghi per esempio a quelli in uso, o auspicabili, per cure mediche costose).16 La gran quantità di ipotesi assunte (più o meno realistiche poco qui importa) rende a prima vista difficilmente attaccabile questo giudizio positivo sul progetto di un’eugentica liberale. In fondo, sembrerebbe che l’autore stia chiedendo poco più che consentire alla tautologia secondo cui una tecnica è buona se e solo è usata in modo buono per fini buoni e senza effetti collaterali peggiori.
E tuttavia, ancora una volta, ciò che sorprende è la disinvoltura con la quale l’autore sorvola su una qualsiasi riflessione sull’educazione. Ciò è ancora più appariscente dato che la prospettiva di un’«eugenetica liberale» viene esplicitamente posta nell’orizzonte di una libera scelta dei genitori di dotare il proprio figlio di qualità migliori: nel contesto cioè di un rapporto in cui naturalmente la trasmissione della vita si connette alla scommessa sulla trasmissione dell’umanità della vita. In tale ipotesi la celebre confutazione di Habermas invocava la perdita di reciprocità che in tal caso si stabilirebbe: un figlio nato con certe caratteristiche prescelte dai genitori non sarebbe in grado in nessun modo di metterle in questione e di opporvisi, situazione che a suo avviso altererebbe gravemente la simmetria che deve esistere tra i rapporti morali.17 È abbastanza facile ad Agar replicare da una parte che sembra davvero esagerato vedere l’espressione di un partenariato nel capriccio che effettivamente un bambino può esprimere di fronte, puta caso, all’imposizione genitoriale di lezioni di matematica, dall’altra che solo un insostenibile determinismo genetico può far dimenticare la facoltà che un essere umano ha di dar seguito o meno a caratteristiche che sono iscritte nel suo corredo cromosomico: dotare di potenzialità è ben diverso dal prescrivere scelte esistenziali.18 In tal senso, l’obiezione di Habermas sembra efficacemente respinta.
Molto meno facilmente essa lo potrebbe se fosse meglio formulata e posta nel suo reale contesto, che non è quello di una generica simmetria morale, ma di una reciprocità specificamente educativa. La reciprocità educativa senza dubbio ha tra i suoi elementi il confronto con dati di partenza (umani e in secondo luogo ambientali), all’interno dei quali si gioca l’esperienza umana della libera elaborazione di progetti e valori. Il meno che si possa dire è che, pure al di fuori della prospettiva del determinismo genetico, la sola intenzione di uno «human enhancement» fallisce quindi singolarmente l’obiettivo: il fine del miglioramento viene infatti spostato regressivamente sulle qualità di partenza, senza che venga seriamente presa in esame l’unica grandezza veramente umana: il processo a suo modo drammatico tramite cui un nuovo essere umano assume via via sempre più coscientemente le condizioni della propria esistenza, e coloro che lo hanno generato e poi l’intera società si assumono la responsabilità di trasmettergli un’eredità culturale, in rapporto alla quale egli possa dar forma alla propria vita. Insomma: pure ammesso che una predeterminazione genetica fosse da giudicare indifferente rispetto ai suoi effetti sul nascituro, per il quale l’avventura esistenziale e i suoi possibili esiti si porrebbero in termini esattamente identici rispetto ai suoi coetanei geneticamente non alterati, tale predeterminazione sarebbe contemporaneamente il segno e lo strumento di un’alterazione del rapporto degli esseri umani con la generazione futura, e quindi in sostanza con il senso della vita. Questo è un problema antropologico, che non può essere risolto all’interno di una prospettiva bioetica (perlomeno nel suo significato corrente), anzi che in essa diventa singolarmente invisibile, perché il passo falso fondamentale consiste proprio, come abbiamo visto, nella sua surrettizia trasformazione in problema medico-tecnologico.
In tal senso anche la prospettiva liberale assunta da Agar fa parte esattamente dei dati del problema: in questione non sono le regole procedurali degli Stati democratici (che nel loro àmbito di applicazione non si possono seriamente revocare in dubbio), ma se esse vengano usate per fare da schermo rispetto ad un’alterazione antropologica epocale, la graduale trasformazione da un’accettazione della dinamica della vita e della morte, nella quale l’uomo farebbe «brutta figura», alla sottoposizione della nuova vita al desiderio di realizzazione individuale, in cui è giocoforza che entrino come fattori determinanti anche le fantasie sulle qualità umane del figlio. Il recente stimolante studio di Paul Yonnet ha portato al centro dell’attenzione con prepotenza il legame strettissimo che esiste tra controllo dei fenomeni della nascita, logica del desiderio del figlio e paralisi dei processi educativi:19 l’eventuale presenza di unilateralità nella sua ricostruzione non toglie nulla alla sua pertinenza, e perlomeno dovrebbe impedire di continuare per esempio a parlare di «diritti riproduttivi» (è il quadro in cui si pongono a lungo termine anche le prospettive eugenetiche) senza contemporaneamente interrogarsi sulla dimensione sociale e morale delle trasformazioni compiute e di quelle in atto.
Ad ulteriore conferma, citiamo un passaggio del testo di Agar dove il paradosso della messa tra parentesi della dimensione umana delle relazioni personali appare con molta chiarezza. Si tratta della discussione del caso delle due donne omosessuali affette da sordità che vollero assicurarsi un figlio anche lui sordo, prescegliendo opportunamente il donatore dei gameti maschili. L’autore (il quale peraltro in altro contesto respinge tale decisione come immorale, in quanto evidentemente limitante per il figlio) osserva preliminarmente che le «procreative consequences» finali di tale decisione sono in realtà identiche a ciò che sarebbe avvenuto se una delle due donne avesse avuto una storia d’amore con il donatore: contro la quale nessuno avrebbe sollevato un’obiezione morale.20 C’è da rimanere francamente perplessi di fronte alla disinvoltura con la quale viene messa tra parentesi, fosse pure solo euristicamente e limitandola all’aspetto «procreativo», l’incomparabile diversità affettiva ed esperienziale, in una parola la diversità umana, tra una storia d’amore e la ricerca di una modalità per portare a realtà il desiderato profilo ideale di prole. Si tratta di una diversità che potrebbe essere giudicata ininfluente, o addirittura valutata in modo contrario rispetto al senso comune (non è raro incontrare lodi della soppressione delle pastoie sentimentali): ma non certo ignorata. Isolare un «effetto» produttivo dal contesto vitale, narrativo, emozionale in cui esso si produce, è una riduzione scorretta teoricamente e impossibile praticamente. A meno che, appunto, non si assume, esattamente come in Sloterdijk, come principio ciò che invece andrebbe dimostrato: e cioè che le questioni umane oggi sono diventate questioni tecnologiche.21
4. Identità biologica, identità morale
La rivendicazione di una dimensione irriducibilmente non biotecnica della questione dell’uomo deve tuttavia difendersi da diversi sospetti. Il primo è quello di essere un’ingenuità. Da Epicuro a Spinoza a Jacques Monod c’è una variopinta linea di pensatori che con acume hanno gettato dubbi sulle trasfigurazioni dell’ignoranza umana e invitato, per quanto la conversione mentale possa essere dolorosa, ad assumere con serietà il punto di vista del sapere. Insomma, tutte le difese della differenza umana, ancorate come sono su un radicato sentimento e desiderio di unicità difficilmente sopprimibile, potrebbero di fatto rappresentare semplicemente una rinuncia al sapere, un genere nel quale la mente umana sembra particolarmente dotata. In questo campo specifico, le ambiguità sono sotto gli occhi di tutti. Uno degli esempi più interessanti, forse il più pertinente per il nostro discorso, riguarda le recenti discussioni sullo statuto filosofico del genoma umano. Nel 2001 la posta in gioco venne messa a fuoco dal biologo e bioeticista svizzero Alex Mauron con una celebre nota.22 In essa si evidenziavano anzitutto le indubbie affinità tra la nozione scientifica di genoma e la tradizionale concezione di origine aristotelica, che tanta parte ha avuto nel dar forma alla civiltà occidentale:
L’idea che il genoma contiene il contrassegno della natura umana è affine ad un importante punto di vista all’interno della metafisica occidentale che interpreta tutti gli organismi viventi come aventi «anime», che determinano i loro tratti caratteristici. Da questa prospettiva, l’anima umana è considerata contenente l’essenza umana: La convergenza di queste idee forse non deve molto sorprendere. Max Delbrück, un pioniere della biologia molecolare nel XX secolo, notò come la nozione di programma genetico (che i biologi molecolari avevano mutuato dalla neonata cibernetica) aveva una suggestiva affinità con il concetto aristotelico di eidos, il principio organizzatore inerente in ogni essere vivente. Aristotele e filosofi medievali come Tommaso d’Aquino consideravano il concetto di eidos strettamente connesso con la nozione di una forma o «anima», che si reputava che profilava la materia nella forma riconoscibile di un organismo vivente. La forma veniva vista come ciò che conferiva ad un organismo le sue caratteristiche individuali, nonché come l’essenza di quella specie.23
Malgrado questo, all’autore era abbastanza facile mostrare la debolezza di una «genomic metaphysics» che pretenda di usare il concetto scientifico di genoma per gli stessi scopi antropologici per i quali tradizionalmente si era usato quello di anima: per esempio, lasciando supporre che l’«uguaglianza di geni» coincida con l’«uguaglianza di persona», oppure paventando che l’inserimento di geni umani in un maiale transgenico possa condurre a maiali via via «più umani».24 Di fatto (questa è la conclusione), per quanto preziosa possa essere la conoscenza del patrimonio genetico umano, essa non rappresenterebbe in alcun modo una comprensione completa dell’uomo:
Ponendo tutte le nostre speranze (e i nostri timori) nei nostri geni, noi stiamo alimentando l’aspettativa che il genoma umano sarà l’ultima parola sulla natura umana. Ma questa aspettativa è un’illusione. È vero, la genetica e la biologia ci permettono di esercitare un crescente potere sui nostri destini, ma ciò non significa che forme più tradizionali di ricerca su noi stessi siano state rese superate dalla nostra maggiore comprensione della biologia umana. Più che mai, abbiamo bisogno di una conoscenza più ricca della condizione umana. Essere una persona umana significa più che avere un genoma umano, significa avere una propria identità narrativa. Parimenti, essere membri della famiglia umana implica una ricca rete di nessi culturali che non possono essere ridotti a tassonomia. Sulla questione della natura umana, abbiamo bisogno di un nuovo inizio filosofico che non può essere fornito solo dalla genomica.25
Simpatizzare con Mauron e con il suo sano scetticismo nei confronti di un cortocircuito tra antropologia e biologia significa però prendere sul serio anche il suo invito ad una nuova ricerca filosofica. L’annotazione sull’«identità narrativa» costituisce evidentemente un rapidissimo cenno a Paul Ricœur, che utilizza tale nozione in Tempo e racconto per indicare non l’astratta identità dell’idem, ma la singolarità dell’ipse, che è insuperabilmente connessa ad una storia che può essere narrata e nella quale proprio attraverso i mutamenti è possibile riconoscersi; secondo l’esempio proposto dallo stesso Ricœur, tipico caso di una identità narrativa è la promessa, giacché questa ha senso proprio perché intende assicurare della stabilità della persona malgrado lo scorrere del tempo con tutte le sue imprevedibili vicissitudini. La prospettiva così portata all’attenzione è certo interessante, ma probabilmente non decisiva, perlomeno finché non venga precisata. In un certo senso, infatti, anche nel linguaggio dell’antropologia classica si potrebbe affermare che «essere una persona umana significa più che avere un’anima umana», se questo «più» significa non tanto il criterio in base al quale riconoscere la persona, ma l’intero tessuto di esistenza che si svolge in essa a partire dalla sua inalienabile interiorità. Da questo punto di vista, il linguaggio antico dell’anima concepita come un punto di identità rischia di non aggiungere molto rispetto a quello contemporaneo del patrimonio genetico.
Le cose cambiano se l’anima viene considerata il punto di partenza per pensare una certa capacità di «trascendenza» dell’uomo. Ma che cosa intendere qui per trascendenza? C’è un significato di trascendenza, che grosso modo si può ricondurre al dualismo cartesiano, secondo cui essa è identificata con l’impossibilità di una riduzione ai mezzi di accertamento e di misura scientifici. In tal senso, l’anima costituirebbe sempre un aldilà di ciò che è empiricamente accertabile, comunque questi confini vengano espansi. Ma non significa ciò ipostatizzare un asylum ignorantiae, confidando nel fatto che mai una conoscenza scientifica reale, che accerta processi naturali in linea di principio prevedibili, potrà contemporaneamente dimostrare la propria completezza? e, ancor più, non significa ciò esser costretti a spostare sempre più avanti i confini di una trascendenza che, man mano che progredisce la conoscenza scientifica, rischia di divenire non solo inafferrabile, ma anche umanamente non significativa? La conoscenza dell’anima subirebbe insomma lo stesso destino della conoscenza del «cielo», che dapprima creduto spontaneamente abitazione degli dèi, e di Dio, un po’alla volta si è secolarizzato fino a trasformare la sua citazione in contesti religiosi poco più che una metafora per qualcosa che tuttavia nessuno si sente in grado di descrivere o precisare, perché nel momento in cui lo facesse rischierebbe il ridicolo della fantascienza. Qui tuttavia la questione è in un certo senso ancora più grave: il risultato sarebbe infatti non riuscire più a descrivere o precisare che cosa siamo.
La questione è molto diversa se la trascendenza viene pensata non in un senso reale ed esplicativo, ma nel senso morale in cui la intendeva Platone. Forse troppo facilmente la storia successiva delle interpretazioni ha messo in ombra che l’«aldilà dell’essere» di cui parla Platone è anzitutto non il punto di riferimento di un’esperienza mistica o meta-scientifica, ma il luogo ideale nel quale è possibile concepire un giudizio sulla realtà. La realtà può essere giudicata solo da qualcosa che si trova «fuori» di essa, rispetto a cui è possibile stabilire ciò che esiste realmente, e ciò che invece è una variopinta apparenza. Non è un altro il motivo per cui il contesto etico-politico della Repubblica è l’unico nel quale compare questo tema, che peraltro mantiene un suo certo profilo enigmatico. In negativo, forse ci sono poche pagine che mettono a fuoco lucidamente il problema come quella celebre di Nietzsche:
A che cosa può ridursi la nostra tesi? Al fatto che nessuno dà all’uomo — né Dio, né la società, né i suoi genitori e antenati, né lui stesso — le sue proprie caratteristiche (— l’assurdità dell’idea qui finalmente rifiutata è stata insegnata come «libertà intelligibile» da Kant e forse anche già da Platone). Nessuno è responsabile della sua esistenza, del suo essere costituito in questo o in quel modo, di trovarsi in quella situazione e in quell’ambiente. La fatalità della sua natura non può essere districata dalla fatalità di tutto ciò che fu e che sarà. Egli non è la conseguenza di un personale proposito, di una volontà, di uno scopo, non è che con lui si faccia il tentativo di raggiungere un «ideale di uomo» o un «ideale di felicità» o un «ideale di moralità» — è assurdo voler far rotolare la sua natura verso un qualsivoglia scopo. Siamo stati noi a inventare il concetto di «scopo»: nella realtà lo scopo è assente… Si è necessari, si è un frammento di fato, si appartiene al tutto, si è nel tutto — non c’è nulla che possa giudicare, misurare, verificare, condannare il tutto… Ma fuori del tutto non c’è nulla! — Che nessuno più sia reso responsabile, che la natura dell’essere non possa venire ricondotta a una causa prima, che il mondo non sia, né come sensorium, né come «spirito», una unità, tutto ciò soltanto è la grande liberazione — con ciò soltanto è nuovamente ristabilita l’innocenza del divenire… Il concetto di «Dio» è stato fino a oggi la più grande obiezione contro l’esistenza… Noi neghiamo Dio, neghiamo, in Dio, la responsabilità: soltanto in questo modo noi redimiamo il mondo.26
Non è qui il luogo per affrontare il problema se e in che misura sia rappresentativo del travagliato pensiero di Nietzsche tale rifiuto della morale nella sua comprensione platonica (evocata anche tramite un evidente richiamo al theós anáitios della narrazione di Er), rifiuto esteso fino al cristianesimo interpretato come platonismo popolare. Ci basta qui considerare questa pagina il simbolo di un’acuta messa a fuoco della dimensione fondamentalmente della trascendenza platonica: essa s’identifica in effetti con la possibilità di un’etica assoluta, forse di un’etica tout court.
5. Che cosa è elementare
Se Nietzsche va citato come il testimone di un rifiuto radicale, è molto difficile non riconoscere ad Emmanuel Levinas il merito di avere riportato questo significato al centro dell’attenzione della filosofia, anzi della cultura contemporanea, considerato l’impatto che il suo pensiero ha avuto anche al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Forse l’asse fondamentale del suo pensiero è costituito proprio dall’aldilà dell’essere come bontà, come orientamento irriducibile al gioco dei bisogni e agli equilibri della giustizia. Ma contemporaneamente, laddove in Platone, almeno a livello espressivo, tale aldilà subiva anche il filtro di un linguaggio misterico che vi proiettava un chiarore difficile da afferrare e precisare, che nel neoplatonismo diverrà luce smagliante, in Levinas tale trascendenza si ritraduce continuamente e completamente nella concretezza della carne, nella premura della preoccupazione, nella costanza di un impegno a favore degli altri: tutti temi che da nulla sono guastati quanto dalla tentazione di avvolgere di un’aura di irraggiungibilità mistica il linguaggio, caro a Levinas, del «volto». Se l’esistenza degli altri è portatrice di una trascendenza, ciò avviene non perché sia mediatrice di un’esperienza straordinaria, ma perché è punto di riferimento di un gesto che può essere buono — oppure no. È esattamente questa prospettiva che consente di giudicare le culture umane nella loro varietà. In effetti, Levinas dà l’impressione di presagire traduzioni semplificatrici dell’etica dell’altro uomo nei termini di un pluralismo indifferente, quando scrive righe come queste:
La sarabanda delle culture innumerevoli ed equivalenti, ognuna delle quali si giustifica nel suo contesto, crea sì un mondo dis-occidentalizzato, ma anche un mondo disorientato. Riconoscere al significato una condizione che precede la cultura, riconoscere il linguaggio movendo dalla rivelazione dell’Altro — che è insieme l’origine della morale — nello sguardo di un uomo che vede un uomo precisamente come uomo astratto, libero da ogni vincolo culturale, nella nudità del suo viso — è ritornare, in altro modo, al platonismo. È anche permettere di giudicare le civiltà movendo dall’etica. Il significato — l’intellegibile — consiste, per l’essere, nel darsi a vedere nella sua semplicità non-istorica, nella sua nudità assolutamente inqualificabile e irriducibile, nell’esistere «prima» della storia e «prima» della cultura. […] Né le cose né il mondo percepito né il mondo scientifico consentono di giungere alle norme dell’assoluto. Opere culturali, sono bagnati dalla storia. Ma le norme della morale non sono imbarcate nella storia e nella cultura. Non sono neanche isolotti che ne emergono, perché rendono possibile ogni significato, anche culturale, e consentono di giudicare le Culture.27
Queste affermazioni sono tratte da uno dei saggi che costituiscono Umanesimo dell’altro uomo: anche in questo caso, un titolo che evoca chiaramente una presa di distanza da Heidegger e dal suo giudizio sull’umanesimo tradizionale. Certo, gli immensi dolori dell’umanità hanno dimostrato quanto sia ingenuo affidarsi ai tradizionali progetti culturali dell’Occidente, ma tutto questo, piuttosto che spingere ad un regresso in una profondità metafisica in fin dei conti anonima e sorda (questo è in sostanza il giudizio di Levinas), dovrebbe invitare a ricostruire un umanesimo, la cui base sia interamente etica: è il rapporto con l’altro uomo che permette una prospettiva superiore a tutti i progetti culturali, che permette appunto di giudicarli (o indirizzarli, o renderli sensati, se si preferiscono termini meno duri ma essenzialmente equivalenti). Non è il gioco di un equivoco «pluralismo» che permette una società più umana. L’«etica come filosofia prima» diventa quindi il modo per riformulare, in termini forse ad effetto ma non certo malpensati, ciò che una nobile tradizione ha chiamato la trascendenza del bene.
Nei confronti della rilettura platonica di Levinas, malgrado la nobiltà che certamente la anima, è possibile avanzare diversi dubbi. Un suo grande merito è però quanto meno mettere in guardia dal lasciare indefinita la contrapposizione tra umanità e tecnica, dalla quale abbiamo preso le mosse grazie alla provocazione di Sloterdijk. Tale contrapposizione deve difendersi dal sospetto non solo di essere la trasfigurazione di un desiderio di non sapere, ma anche di non cogliere quale sia la vera posta in gioco. In fondo, la tecnica aristotelicamente si deve definire come la capacità che gli esseri umani hanno di causare in maniera intenzionale un processo di trasformazione, e in questo significato amplissimo entrerebbe a pieno diritto anche l’arte educativa con la quale ci siamo dovuti più volte incontrare; in ogni caso, poi, «la téchne imita la phýsis» ed esiste quindi un sottile ma fortissimo nesso tra ogni operazione tecnologica e il corrispondente evento naturale da cui essa trae ispirazione. D’altra parte, è evidente che qualsiasi azione dell’uomo sull’uomo è mediata da strumenti in senso lato, perché un contatto immediato di due spiriti semplicemente non esiste: se non altro la parola e l’udito, il mostrare e la vista, tutta la costellazione sensoriale, costituiscono una mediazione tecnica almeno in un certo senso (evidente per esempio quando il discorso è attentamente studiato perché possa produrre l’effetto migliore: la scrittura, la stampa ed Internet hanno in ciò differenziato e via via aggiunto nuove strategie ad una cura della parola che probabilmente ha accompagnato dalle origini l’umanità). Ma allora, se intervento umano e intervento tecnico sono poco più che due punti di vista differenti su un continuum esperienziale senza interruzioni, qual è la vera posta in gioco?
Crediamo di poter rispondere: la posta in gioco è nei contenuti dell’etica. Non è un caso che l’età in cui gli sviluppi della tecnologia vengono spesso vissuti e presentati come una sorta di forza anonima contro cui sarebbe sbagliato, o comunque illusorio, opporsi, è la stessa in cui sempre più frequentemente la dimensione etica viene espulsa dalla scena pubblica e confinata nel dominio delle scelte personali postulate inquestionabili, e le più frequenti ripercussioni sul dibattito pubblico riguardano solo la ricerca di un minimo, di un comun denominatore pragmaticamente condivisibile. In realtà, è facile sospettare che il problema della tecnica non sarebbe tale, o comunque avrebbe tratti meno angoscianti di quelli attuali, se esso fosse controbilanciato dalla coscienza del significato morale concreto che essa inevitabilmente media. Forse il problema risiede meno nella crescente e pericolosa capacità di trasformazione che la tecnica conferisce (come vuole Jonas), meno nell’incrinatura che essa opera sull’immagine ontologica dell’essere (come si può dichiarare sulla scìa di Heidegger), e molto più nel fatto che di essa rischia di andare smarrito il senso, una volta che l’alibi delle «migliori condizioni di vita» si appanna senz’alcun bisogno di fantasticare regressi archeologici.
Dunque: un senso come inafferrabile trascendenza, che curiosamente apparenta un certo neoplatonismo misticheggiante con la cosiddetta «legge di Hume», la quale ormai, spinti nella penombra sociale quelli religiosi, vale come uno dei dogmi laici cui pare dovuto incondizionato rispetto? Forse no, e piuttosto un senso come amicizia, sostegno, dono, e ancora ricerca, sforzo, speranza, e poi tenerezza, gioia, bellezza.28 Sarebbe certamente possibile tentare un repertorio ordinato di ciò che gli esseri umani naturalmente stimano prezioso, ma forse è ancor più importante notare che è l’esperienza stessa, indipendentemente da qualsiasi classificazione e riflessione (ma non indipendentemente dall’inserimento in un tessuto umano di trasmissione e di verifica esigente), che pone davanti agli occhi la costellazione di ciò per cui vale la pena esistere, quelle cose che, pure nello scetticismo sull’esistenza di un fine ultimo, si pongono come i tanti fini che riescono a rendere felici, «ciò che tutti gli uomini desiderano» secondo Aristotele. È qui in effetti molto significativa la testimonianza di questi, certamente reduce dallo slancio dell’etica del maestro, in bilico tra la carnalità dell’esperienza dell’innamoramento e l’altezza inafferrabile di un bene così alto da non essere più umano. L’etica di Aristotele abbandona certamente tale tensione, e imposta il problema della felicità nella nobilmente prosaica ricerca di un equilibrio avente il suo vertice nell’intellettualità dell’uomo; e tuttavia, dopo che l’intero edificio potrebbe esser giudicato ormai terminato, egli si trova costretto quasi a ricominciare daccapo, ristabilendo l’amicizia come un nuovo punto di partenza: quell’«amicizia» che anzitutto gli esseri umani sperimentano nella tenerezza di una madre per il figlio e nel trasporto di un innamorato per l’innamorata.29
Forse, senza cedere alla fascinazione dell’«elementare» nel senso delle scienze esatte e naturali, questi sono tasselli dell’umanità che, apparenti nell’orizzonte dell’essere, possono e debbono essere presi sul serio anche dalla filosofia. È facile osservare che nella complessità degli esseri umani, l’«elementare» non è ciò che è tale in un testo di biologia, o anche di metafisica. Piuttosto lo è ciò che corrisponde ad esperienze primordiali e costituenti: la filosofia non può ignorare il fatto che per un essere umano, fin dalla culla, infinitamente più semplice che calcolare 1 + 1 è riconoscere il sorriso di un altro essere umano, con tutto il carico di vicinanza e fiducia che ciò comporta: quel sorriso che dissolto nei suoi elementi fisici, chimici, biologici, fisiologici, genetici, neurologici, occuperebbe innumerevoli volumi e diventerebbe indecifrabile. È attorno al valore di tali esperienze elementari che, con il consenso o il dissenso dei filosofi morali, le persone costruiscono e riconoscono le loro vite. Per questo è un’illusione pericolosa immaginare che qualsiasi configurazione culturale, tecnica, pragmatica, possa essere pacificamente integrata nell’esistenza umana, se anzitutto non viene riconosciuta, vissuta, narrata e significata appunto come umana — e tutto ciò ha un valore eminentemente etico. Forse è una tautologia: ma tra i compiti maggiori della filosofia c’è sempre stato riattirare l’attenzione su ciò che è ovvio.
Il testo è una rielaborazione dell’intervento su «La domanda antropologica nella cultura odierna» presentato a Venezia il 19 ottobre 2006 nell’ambito del progetto di ricerca e di formazione «Uomo, Polis, Economia» (vedi Gabriel Richi Alberti (curatore), Al cuore dell’umano. La domanda antropologica I, Marcianum Press, Venezia 2007). Questa stesura tiene conto anche della discussione che è seguìta.
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Peter Sloterdijk, Regole per il parco umano, in Non siamo ancora stati salvati, Bompiani, Milano 2004, 241-261. Il testo originale, con il titolo Regeln für den Menschenpark, è del 1999 e può essere letto integralmente in diversi siti Internet, per esempio all’indirizzo http://www.genethik.de/genethics/menschenpark.htm. Il dibattito che ne seguì sulla stampa è documentato all’indirizzo http://www.uni-oldenburg.de/EthikProjekt/Liste_der_Artikel.htm. ↩︎
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Ibid., 243. ↩︎
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Ibid., 245. ↩︎
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Ibid., 249. ↩︎
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Ibid., 252. ↩︎
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Ibid., 259-260. ↩︎
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«Forse esiste come un sentiero che ci conduce assieme al discorso nella ricerca, perché, finché abbiamo il corpo e la nostra anima è confusa con un simile malanno, noi non possederemo a sufficienza ciò che desideriamo: e ciò affermiamo che è la verità. Il nostro corpo ci procura infiniti fastidi a causa della necessità del nutrimento; e inoltre, quando ci vengono delle malattie, ci impediscono dalla caccia della verità; e, poi amori, desidèri, paure, immagini d’ogni genere e vanità ci riempiono completamente, così che non possiamo veramente concentrarci su nulla. E così le guerre, le discordie, le battaglie, è nient’altro che il corpo che le suscita con i suoi desideri. Infatti tutte le guerre nascono per il possesso di beni, e i beni siamo costretti a procurarceli per il corpo: siamo dunque degli schiavi al suo servizio. A causa di tutto questo non abbiamo il tempo per dedicarci alla filosofia. E alla fine, anche se riusciamo a trovare tranquillità e ci volgiamo ad indagare qualcosa, durante le ricerche un chiasso che viene da ogni parte ci porta agitazione e confusione, così che per colpa sua non possiamo distinguere la verità (Platone, Phaed., 66 b3-d7). ↩︎
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Sia lecito, malgrado il rischio di seguire una moda, citare gli ormai notissimi studi di René Girard. Tra gli aspetti fondamentali che rischiano di venire più facilmente trascurati c’è senza dubbio lo strettissimo legame tra violenza e civiltà umana: senza la prima (e ovviamente senza i ripetuti tentativi di controllarla, neutralizzarla e infine smascherarla) neppure la seconda, così sembra di comprendere, potrebbe comparire. Appiattire la violenza umana su una generica animalità sarebbe quindi un singolare fraintendimento, che precluderebbe anche di superarla: un po’ come, seppure in una prospettiva diversa, Hannah Arendt pose il perdono come la somma azione di cui è capace l’uomo, perché soltanto un agire libero è in grado di rimediare ai rischi mortali dell’agire libero. Su questa dimensione drammatica della questione antropologica dovremo ancora tornare. ↩︎
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Sloterdijk, op. cit., 252-253. ↩︎
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Ibid., 258. ↩︎
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Ibid., 260. ↩︎
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Lucio Anneo Seneca, De brevitate vitae, 14, 1-2. ↩︎
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Nicholas Agar, Liberal Eugenics. In Defence of Human Enhancement, Blackwell, Oxford 2004. ↩︎
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Ibid., 34-38. ↩︎
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Ibid., 100-103. ↩︎
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Ibid., 136-141. ↩︎
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«Il giovane che sia stato geneticamente manipolato scoprirà il proprio corpo come qualcosa di tecnicamente prodotto. A questo punto, la prospettiva del partecipante che caratterizza la “vita vissuta” entra in collisione con la prospettiva oggettivante di produttori e sperimentatori. Infatti, al programma genetico i genitori hanno collegato intenzioni che — trasformandosi in aspettative — investono il bambino come destinatario, senza tuttavia concedergli la possibilità di una presa di posizione revisionistica. […] Trasformandosi in aspettative all’interno della storia-di-vita dell’interessato, queste intenzioni dei genitori si presentano come un normale elemento costitutivo dell’interazione, e tuttavia non si assoggettano ai prerequisiti di reciprocità dell’intesa comunicativa. […] A richieste geneticamente “fissate” egli [il bambino] non può dare nessuna vera risposta» (Jürgen Habermas, Il futuro della natura umana. I rischi di una genetica liberale, Einaudi, Torino 2002, 52-53). Si osservi come l’osservazione di Habermas, quantunque sostanzialmente condivisibile, sia costretta ad oscillare in maniera poco convincente tra il linguaggio di un’ontologia alquanto astratta e quello di una psicologia resa fragile dall’ovvia mancanza di dati sperimentali. ↩︎
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Agar, op. cit., 116-118. ↩︎
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Paul Yonnet, Famille I. Le recul de la mort, Gallimard, Paris 2005. ↩︎
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Agar, op. cit., 12-15; 105. ↩︎
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Sottolineiamo ancora questo aspetto. Agar denomina il suo procedimento «metodo delle immagini morali» (ibid., 39-63): indipendentemente da princìpi generali, si può, guidati solo dalla coerenza, pronunciare un giudizio convincente su circostanze ipotetiche se le si riesce a ricondurre a situazioni più familiari per le quali la qualifica morale è certa e condivisa (un procedimento che sembra ben poco differire dal tradizionale ragionamento per analogia). Applicandolo, e a mo’ di digressione, si potrebbe suggerire che un buon analogo delle antropotecniche non è affatto il processo educativo, ma piuttosto il doping sportivo. Se esso viene unanimemente condannato, ciò non avviene per la disparità che esso può creare tra concorrenti, tanto più che la maggior parte delle attività sportive coimplica un certo uso della tecnologia, il cui perfezionamento fa parte della competizione. La condanna è pronunciata piuttosto perché vi si percepisce, pure indipendentemente dagli effetti collaterali negativi, un’alterazione radicale del significato umano di una gara sportiva, che non sarebbe più una sfida con le proprie qualità (forza, abilità, impegno) e con quelle altrui. O meglio, continuerebbe di fatto ad esserlo (anche l’abilità dei medici e dei tecnici dell’alimentazione sarabbe messa in gara), ma in un modo che non sarebbe più umanamente percepibile e quindi rilevante: più o meno allo stesso modo che una gara di atletica leggera perderebbe ogni significato umano se fosse sostituita da una sofisticatissima analisi fisiologica dei concorrenti che predicesse con certezza l’esito dell’eventuale gara che si svolgesse in quel momento. È curioso che considerazioni così banali (Agar stesso risolve negativamente la questione sulla liceità morale di miglioramenti del campo sportivo: ibid., 128-131) abbiano invece bisogno di essere ripetute e difese quando si passi dal campo secondario e simbolico dello sport a quello cruciale e sostanziale dell’educazione. ↩︎
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Alex Mauron, Is the Genome the Secular Equivalent of the Soul?, in Science 291/5505 (2001), 831-832. L’autore ha toccato lo stesso tema, chiarendo di più la sua posizione, nell’intervista con G.M. Pace, Noi uomini e i maiali. La grande paura. Intervista con il bioetico Alex Mauron, in La Repubblica, 26 aprile 2001, disponibile su Internet all’indirizzo http://www.swif.uniba.it/lei/rassegna/010426a.htm. ↩︎
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Mauron, op. cit., 831. ↩︎
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È interessante notare come una variante di questo tema sia affiorata anche in un intervento di Giovanni Paolo II: «In forza dell’unità sostanziale del corpo con lo spirito, il genoma umano non ha soltanto un significato biologico; esso è portatore di una dignità antropologica, che ha il suo fondamento nell’anima spirituale che lo pervade e lo vivifica» (Discorso ai membri della Pontificia Accademia per la Vita, 24 febbraio 1998, disponibile su Internet all’indirizzo http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1998/february/documents/hf_jp-ii_spe_24021998_academy-life1998_it.html). La sfumatura che tuttavia qui viene introdotta non solo differenzia chiaramente genoma e anima, rimandando alla ricerca scientifica qualsiasi più precisa interpretazione del ruolo fisico del genoma, ma soprattutto connette il tema della «dignità» di questo ad una visione unitaria dell’uomo, in cui quindi tutto ciò che è corporeo è espressivo della sua spiritualità. Una testimonianza dell’ineludibilità del tema sembra ben mostrato dal recente libro di Vito Mancuso, L’anima e il suo destino, Cortina, Milano 2007, che meriterebbe una discussione attenta sia nel merito, sia nel metodo. ↩︎
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Mauron, op. cit., 832. ↩︎
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Friedrich Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Adelphi, Milano 2002, 63. ↩︎
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Emmanuel Levinas, Umanesimo dell’altro uomo, Il Melangolo, Genova 1985, 81-82. ↩︎
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Non quindi solo il senso come il comando etico che giunge dal volto dell’altro, ma anche quello che giunge come un orientamento innato della propria natura. È proprio lo scetticismo, se non l’esplicita negazione di questo, l’aspetto più problematico di Levinas, in cui l’accettazione entusiasta del platonismo della trascendenza è congiunto al rifiuto del platonismo dell’eros: come se la carne altrui potesse essere raggiunta altrimenti che con la carne propria. ↩︎
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Interpretare in questo modo l’etica di Aristotele non implica affatto giudicarla negativamente. Significa al contrario riconoscerne la forza proprio nel suo carattere non rigorosamente deduttivo: la dimensione morale della philía non è semplicemente ricavabile dalla definizione dell’uomo come animale razionale (una definizione che, del resto, è lungi dal poter essere qualificata come «sbagliata»). O per lo meno, essa si pone in discontinuità con la strategia chiaramente seguita da Aristotele nelle prime pagine dell’Etica, quelle in cui l’obiettivo della felicità viene centrato a partire da ciò che è primariamente caratteristico dell’uomo, dai tratti che lo distinguono dagli altri esseri viventi non permettendo una definizione sensoriale della felicità, che lo accomunerebbe a qualsiasi animale. La philía, agganciata com’è alla vita dell’uomo, pone piuttosto in risalto la dimensione animale dell’uomo, salvo poi ovviamente dover notare come tale dimensione risulta vertiginosamente arricchita dalla razionalità umana: in un certo senso, l’amore sa usare la razionalità per dilatare il suo senso e i suoi obiettivi, anzi di amore in senso proprio si può parlare proprio perché esso passa attraverso una libertà che è indissolubilmente libertà intellettuale e ragionante. Abbiamo cercato di documentare un poco meglio questa interpretazione in Homo capax hominis. Alterità e costruzione dell’io, in Armando Rigobello (curatore), L’altro, l’estraneo, la persona, Urbaniana University Press, Città del Vaticano 2000, 129-154. ↩︎