L’altro e la misericordia. L’itinerario del femminile in Levinas

1. L’eccezionalità del femminile

Di fronte a tante opere dell’età contemporanea scritte da un punto visuale esplicitamente femminile, le conferenze su Il tempo e l’altro del 1946-47 di Emmanuel Levinas vanno annoverate tra le poche che assumono consapevolmente una prospettiva maschile. La circostanza è così interessante che merita non solo di essere approfondita, ma anche di essere scelta come punto di partenza di una riflessione che potrebbe portarci lontano.1

Il titolo delle conferenze intende far allusione alla tesi che in polemica con l’opera maggiore di Heidegger viene qui sviluppata: il tempo non è «l’orizzonte dell’essere» (così le ultime parole di Essere e tempo), ma piuttosto la relazione del soggetto con l’altro. Nei termini della successiva riflessione di Levinas, evocata nella prefazione del 1979, ciò significa che il tempo sarebbe una modalità dell’«al di là dell’essenza». Se il confronto con Essere e tempo risulterebbe certo ingeneroso visto il carattere dichiaratamente rapsodico e provvisorio delle riflessioni di Levinas, sicuramente più equo può essere l’accostamento con l’analoga conferenza di Heidegger su Il concetto del tempo. In entrambi i casi lo stesso punto nevralgico della filosofia teoretica viene scelto come chiave per progettare una comprensione della soggettività umana — e di qui dell’intero problema dell’essere.

Un confronto tra le due prospettive, che peraltro non sarebbe affatto infedele alle intenzioni di Levinas, porterebbe qui troppo lontano. Ci contentiamo allora di osservare il punto nevralgico costituito dalla riflessione sulla morte. Se in Heidegger l’«essere per la morte» è la forma suprema di libertà del soggetto umano, che può accettare autenticamente la sua temporalità solo progettandosi in riferimento ad essa, in Levinas l’avvicinarsi della morte nella sofferenza è l’istaurarsi del rapporto con l’estraneità più totale, con un futuro che non diventerà mai presente e dunque mai conoscibile (pp. 55-61, it. 41-45). Ma se la morte è la solidificazione più inconfutabile dell’effetto del tempo sul soggetto umano, ciò significa capovolgere il senso di quest’ultimo: non più l’orizzonte donde comprendere che cos’è l’essere umano, ma piuttosto che cosa egli non è, ovvero che capacità e necessità abbia d’incontrare ciò che è assolutamente altro e inconoscibile («relazione con il mistero», dice anche Levinas). D’altra parte, così viene anche neutralizzata l’antica determinazione del tempo come «immagine mobile dell’eternità», che nascostamente continuerebbe ad operare anche laddove, come in Heidegger, la finitudine è ammessa come qualcosa che limita l’esistenza umana anziché permetterle di entrare in rapporto con ciò che è altro. Ma dove si realizza originariamente tale rapporto con l’altro? Questo è il tema che Levinas affronta nella sua quarta e ultima conferenza:

Esiste una situazione in cui l’altro non abbia soltanto l’alterità come l’inverso della sua identità, non obbedisca soltanto alla legge platonica della partecipazione, in cui ogni termine contiene lo stesso e per ciò stesso contiene l’altro? Non c’è una situazione in cui l’alterità venga portata da un essere a titolo positivo, come essenza? Qual è l’alterità che non entra puramente e semplicemente nell’opposizione delle due specie dello stesso genere? Io penso che il contrario assolutamente contrario, la cui contrarietà non è colpita in nulla dalla relazione che può stabilirsi tra esso e il suo correlativo, la contrarietà che permette al termine di restare assolutamente altro, è il femminile (p. 77, it. 56).

Secondo Levinas sono diverse le caratteristiche che pongono questa alterità su un piano eccezionale. Anzitutto essa non risulta da una distinzione puramente logica, ma ha un contenuto empirico semplicemente non deducibile razionalmente. In secondo luogo, il femminile non si ottiene semplicemente negando il maschile, ciò che consentirebbe una sorta di conversione di un termine nell’altro. In terzo luogo, i due termini non sono complementari, perché non suppongono una totalità preesistente, né riescono effettivamente mai a crearla (il che sarebbe appunto l’aspetto patetico del rapporto sessuale). È abbastanza evidente (sia detto per ora per inciso) come queste analisi segnino un ulteriore congedo dall’analitica esistenziale di Heidegger, in cui il Dasein è programmaticamente indifferente alla differenza sessuale.2

Indicare l’alterità come femminilità tradisce una voce maschile in una maniera troppo evidente per non essere consapevole. La cosa venne prontamente osservata da Simone de Beauvoir, che fece di Levinas l’espressione par excellence del «privilegio maschile».3 Ma non sarebbe allora molto semplice generalizzare i termini del discorso, renderlo insomma reciproco, traendo anche spunto dall’occasionale uso dell’espressione «differenza dei sessi» proprio nelle stesse pagine? La conclusione sarebbe un po’ frettolosa. Lo stesso Levinas, ancora nella prefazione scritta nel 1979 (praticamente alla fine del suo itinerario filosofico) si mostra circospetto, quando a proposito della femminilità come alterità osserva: «bisognerebbe vedere in qual senso ciò si possa dire della maschilità o della virilità, cioè della differenza dei sessi in generale» (p. 14, it. 14). Il discorso de Il tempo e l’altro si sviluppa del resto con riflessioni sul carattere «altro» della femminilità, a partire dalla natura specifica di questa. Questo discorso è reso formalmente necessario dal rifiuto di considerare, come abbiamo visto, maschile e femminile come due opposti o come due complementari: con queste premesse, il tema della «differenza sessuale» non può essere affrontato se non sulla base di una determinazione concreta di entrambi i termini.

Se le premesse sono promettenti, gli sviluppi delle analisi sul «mistero del femminile» lasciano perplessi. Leggendo le poche pagine dedicate al tema è difficile reprimere l’impressione di avere a che fare con banalità vagamente conservatrici, un po’ dogmatizzate dalla patina fenomenologica che le avvolge:

L’altro in quanto altro non è qui un oggetto che diviene nostro o che diviene noi stessi; esso al contrario si ritira nel suo mistero. […] Ciò che mi importa in questa nozione del femminile non è solo l’inconoscibile, ma un modo d’essere che si sottrae alla luce. […] La maniera di esistere del femminile è nascondersi, e questo fatto di nascondersi è precisamente il pudore. […] La trascendenza del femminile consiste nel ritirarsi altrove, movimento opposto al movimento della coscienza. Ma non è per questo incosciente o subcosciente, e non vedo altra possibilità che chiamarlo mistero (pp. 78-81. it. 56-59).

Certo: Levinas dichiara esplicitamente di non voler «ignorare le legittime pretese del femminismo che suppongono tutta la conquista della civiltà» (p. 79, it. 57), e distingue chiaramente la sua posizione da quella «romantica». Ma il problema è un altro: attribuire proprio alla femminilità, cioè in concreto alla modalità d’essere delle donne, le caratteristiche dell’«altro» per eccellenza potrebbe significare da una parte irrigidire la maschilità nel ruolo di soggetto, dall’altra (e questo è più grave) proiettare sull’essere femminile delle pure esigenze teoriche (derivabili dal suo status di altro), non sfiorando neppure la ricerca di una determinazione positiva.4

Che del resto la determinazione della femminilità sia a questo stadio ancora affetta da una certa instabilità risulta da un ulteriore elemento: la trattazione che riceve la materia. Levinas cita con evidente disapprovazione l’identificazione platonica della femminilità con la materia (p. 88, it. 63), e contemporaneamente assegna a quest’ultima il ruolo di sancire la solitudine del soggetto. L’unità indissolubile tra l’esistente e il suo esistere (il sorgere dell’«ipostasi» che interrompe l’anonimità dell’«essere») avrebbe infatti il suo sigillo nella materialità, descritta come «la tragedia della solitudine», «l’infelicità dell’ipostasi» (pp. 38, 39, it. 29, 30). D’altra parte, ancora una volta in polemica con Heidegger, il primitivo rapporto con il mondo è definito non come «strumentalità» (per la quale, sospettiamo con un po’ d’ironia, Levinas cita ad esempio il pulsante dello sciacquone), ma come «nutrimento»: il mondo è per l’uomo anzitutto un «insieme di nutrimenti» (p. 45, it. 34), a partire dai quali si definisce il suo primitivo rapporto di «godimento». Si può pensare che qui differenti elementi preziosi siano ancora irriconosciuti nella loro unità? Forse si può ipotizzare che nell’identificazione platonica della femminilità con la materialità sia all’opera una duplice sottovalutazione, maschilista e idealista, che avrebbe bisogno di un duplice capovolgimento più che di una negazione. E la materia non è anzitutto proprio l’unico medium per uscire fuori di sé? e il nutrimento non è anzitutto il rapporto con la madre prima che il rapporto con il mondo? Per ora lasciamo queste domande in sospeso.

2. Debolezza e tenerezza

Fatto sta che nell’armonica architettura di Totalità e infinito, pubblicato più di una ventina d’anni dopo, il tema del femminile viene rielaborato in forme notevolmente differenti. Ciò è tanto più degno di nota in quanto l’intento fondamentale dell’opera, e anche in buona misura il repertorio di temi e la terminologia, coincidono con quelli delle conferenze su Il tempo e l’altro. Ciò che muta più vistosamente è il punto di partenza, che ora è costituito da una più generale critica al pensiero della «totalità», che Levinas trae dichiaratamente da Franz Rosenzweig. Ma se in questi l’obiettivo polemico era principalmente Hegel, ora esso si estende fino a diventare l’intero corso principale del pensiero europeo: «Il volto dell’essere che si rivela nella guerra si fissa nel concetto di totalità che domina la filosofia occidentale. In essa gli individui sono ridotti ad essere i portatori di forze che li comandano a loro insaputa. Gli individui traggono da questa totalità il loro senso (invisibile al di fuori di questa totalità stessa)» (p. X, it. 20). Ma il pensiero della totalità viene radicalmente spodestato dal desiderio dell’infinito che costituisce da parte sua un movimento altrettanto tipico del pensiero filosofico: in esso l’io va alla ricerca di ciò che esso non è e che solo l’Altro può offrire. Questo significa riconoscere un primato all’etica, perché l’Altro è colui che mi costringe alla responsabilità e a partire dal quale soltanto la mia libertà è «investita». Così potrebbe essere riassunta la tesi fondamentale di Totalità e infinito.

Ma appunto, dov’è ora il posto della femminilità? Essa ora compare in due tappe distinte dell’itinerario. La prima si trova verso la fine della sezione dedicata ad «Interiorità ed economia». In essa Levinas intende mostrare come l’Infinito, al contrario della totalità, permette ed esige che l’Io abbia separazione ed interiorità: il rapporto con l’Infinito che si annuncia nell’altro consiste proprio nel fatto che questo si «contrae» per lasciare all’io la possibilità di esistere senza essere inglobato. Questa esistenza separata è a sua volta quella che permette che vi sia qualcosa come un’interiorità, che non sia il semplice canale di passaggio per il raggiungimento di una verità universale (come nella reminescenza platonica). Dal punto di vista dell’esistenza, tale esigenza d’interiorità, che fa tutt’uno con la soggettività umana, si realizza nell’abitazione. In essa deve avvenire un duplice movimento a prima vista contraddittorio: da una parte la «sospensione delle reazioni immediate sollecitate dal mondo» (p. 129, it. 157), dall’altra la conferma del proprio rapporto con il mondo sotto forma di «godimento»: ma questa è proprio la «dimensione di interiorità a partire dalla familiarità intima in cui si immerge la vita» (p. 130, it. 158), dimensione che esige l’incontro con qualcuno. È qui che entra in gioco il femminile:

Perché l’intimità del raccoglimento possa prodursi nell’ecumenicità dell’essere è necessario che la presenza d’Altri non si riveli soltanto nel volto che si fa strada attraverso la propria immagine plastica, ma che si riveli, contemporaneamente a questa presenza, nel suo ritiro e nella sua assenza. Questa contemporaneità non è una costruzione astratta della dialettica, ma proprio l’essenza della discrezione. E l’Altro la cui presenza è discretamente un’assenza e a partire dal quale si attua l’accoglienza ospitale per eccellenza che descrive il campo dell’intimità, è la Donna. La donna è la condizione del raccoglimento, dell’interiorità della Casa e dell’abitazione (p. 130, it. 158).

D’altra parte, è solo il raccoglimento che rende possibile l’accoglienza, quell’aprire le porte della propria casa che appare ancora una volta il gesto di una donna.

La seconda presenza del femminile in Totalità e infinito si trova alla fine dell’itinerario, nella sezione «Al di là del volto». Qui Levinas si confronta con il tema della morte: se esso viene preventivamente anestetizzato in un pensiero della totalità (questa l’intuizione iniziale della Stella della redenzione di Rosenzweig), nella prospettiva dell’Infinito richiede una risposta del tutto diversa. Ora in questione è una violenza che pare che «riduce al silenzio la soggettività» (p. 231, it. 259), proprio quella soggettività che l’Infinito permette nella sua «separazione». È possibile per l’Io andare al di là della morte? La risposta di Levinas è positiva, ed è significativo che essa riutilizzi proprio lo stesso contesto che era prima servito a caratterizzare l’interiorità che rende possibile la soggettività: il superamento della morte avviene infatti nella fecondità, che è il prolungamento intrinseco della relazione d’amore. Il femminile viene dunque qui incontrato sotto la figura dell’Amata:

L’amore tende ad Altri, vi tende nella sua debolezza. La debolezza non rappresenta qui il grado inferiore di un attributo qualsiasi, la deficienza relativa di una determinazione comune a me e all’altro. Anteriore alla manifestazione degli attributi, essa qualifica l’alterità stessa. Amare significa temere per altri, dare aiuto alla sua debolezza. In questa debolezza, come nell’aurora, sorge l’Amato che è Amata. Epifania dell’Amato, il femminile non viene ad aggiungersi all’oggetto e al Tu, preliminarmente dati o incontrati al neutro, il solo genere che la logica formale conosca. L’epifania dell’Amata è una cosa sola con il suo regime di tenerezza (p. 233, it. 263).

È l’incontro con l’Amata che permette la fecondità e quindi la vittoria sulla morte, ma esso è avvolto in quella che Levinas denuncia con forza come un’ambiguità: l’Eros è certo proiezione verso un aldilà sempre più lontano, ma anche spinta al godimento e all’appropriazione. Il volto femminile è debolezza, tenerezza e commozione, ma anche possibilità di fraintendimento nella voluttà e nella profanazione. Attraverso la femminilità risulterebbe dunque filtrato per eccellenza l’equivoco della soggettività umana.5

Sono tali posizioni coerenti o anche solo compatibili con quelle espresse ne Il tempo e l’Altro? Ancora nel 1982, Levinas dichiarava di non «rinnegare» queste ultime. È tuttavia evidente che tale continuità non esclude un’evoluzione precisa e palpabile: la femminilità in Totalità e Infinito viene trattata non più come l’alterità in assoluto, ma piuttosto come il punto di riferimento dal quale la concretezza del rapporto con l’altro si produce nella maggiore potenzialità — e ambiguità. Si potrebbe dire che la lezione della femminilità, con tutta la differenza abissale che essa porta con sé, è già stata imparata e, seppure compaia esplicitamente solo dalla metà dell’indagine in poi, in realtà ne determina le movenze fin dall’inizio. La prima allusione al rapporto d’amore compare in effetti fin dalla prima pagina, dove il «desiderio» viene distinto dal «bisogno» con l’aiuto di una sobria allusione all’incontro dell’amore:

Il desiderio metafisico non aspira al ritorno, perché è il desiderio di un paese nel quale non siamo mai nati. Di un paese straniero ad ogni natura, che non è stato la nostra patria e nel quale non ci trasferiremo mai. Il desiderio metafisico non si fonda su nessuna parentela preliminare. Infatti si parla troppo alla leggera di desideri soddisfatti o di bisogni sessuali o, ancora, di bisogni morali e religiosi. Perfino l’amore è allora considerato alla stregua della soddisfazione di una fame sublime. Un linguaggio di questo tipo è possibile solo perché la maggior parte dei nostri desideri, compreso l’amore, non è pura (p. 3, it. 32, cors. nostro).

Insomma: la netta identificazione dell’alterità con la femminilità si scompone in Totalità e infinito in una costellazione di temi: c’è anzitutto il volto d’Altri con la sua fusione di debolezza e sublimità, c’è la «casa» dove il soggetto costruisce nei rapporti familiarità la sua interiorità, c’è l’eros attraverso cui l’io si proietta al di là del tempo nel tempo infinito della fecondità. Se l’analisi della femminilità ne Il tempo e l’altro intendeva quindi contestare Heidegger, il discorso di Totalità e Infinito se ne fa ancora più essenzialmente lontano: le conseguenze di una riflessione filosofica sulla femminilità vengono incorporate nella stessa struttura del discorso filosofico e poste all’origine dei movimenti fondamentali della soggettività. In questo senso, per quanto l’immagine del femminile possa apparire pregiudiziale, essa implicitamente rimette in questione anche la maschilità, sottraendole la possibilità di essere concepita come una possibilità autonoma: il maschile è tale solo nell’intimità resa possibile dal femminile.

Che rapporto ha tutto ciò con la questione ontologica, il cui primato Totalità e infinito vuole spodestare in nome dell’originarietà dell’etica? Come Levinas stesso riconobbe, affermare l’alterità come femminilità significa anzitutto affermare l’impossibilità d’incontrare l’altro indipendentemente dai contenuti vitali della sua esistenza, un po’ come la «sostanza» di cui parlava Locke, un sostrato enigmatico e privo di contenuti: ma privo di contenuto perché artificialmente svuotatone, nel quale quindi non bisogna stupirsi di non trovare alla fine ciò che fin dall’inizio è stato soppresso. Ma non era questa la connotazione dell’«il y a» dalla quale Levinas intende dissociarsi? Questa assonanza merita di essere presa sul serio. Come abbiamo accennato, l’analisi de Il tempo e l’altro prendevano le mosse dall’emergere della concretezza dell’esistenza umana, l’«ipostasi», dall’anonimità silenziosa e opprimente del brusìo dell’essere, quell’anonimità in cui Levinas vede imprigionato il discorso di Heidegger.

Ma a che cosa corrisponde questa nozione nel discorso di quest’ultimo? Le dichiarazioni di Levinas sono un poco oscillanti. Nella prefazione alla seconda edizione di Dall’esistenza all’esistente Levinas avverte, echeggiando del resto le considerazioni di Heidegger stesso nella Lettera sull’umanismo, che il bersaglio non è l’«es gibt» («si dà»): «[“Il y a” è un] termine fondamentalmente distinto dall’“es gibt” heideggeriano. Non è mai stato né la traduzione, né la copia a buon mercato dell’espressione tedesca e delle sue connotazioni di abbondanza e generosità». Ma nel breve testo della «Firma» del 1963, pubblicata in Difficile libertà, Levinas sembra dubitare di questa distinzione: «Nessuna generosità che pare conterrebbe il termine tedesco “es gibt” si manifestava in esso tra il 1933 e il 1945. Bisogna che sia detto!» (p. 375, it. 43). Più costante sembra la proposta d’identificare l’«il y a» con il «Sein» di Heidegger: ciò avviene tra l’altro proprio in Totalità e infinito, dove il paragrafo conclusivo che dichiara guerra «Contro la filosofia del Neutro» denuncia la «neutralità impersonale» dell’«essere dell’ente» di Heidegger che trascinerebbe la filosofia di questi verso un «materialismo vergognoso» (pp. 278-9, it. 306-7). Ma anche tale corrispondenza è problematica (lo notò tra gli altri Derrida): l’essere è certo sempre l’essere di qualcosa, non una forza opaca e bruta da cui, come un’increspatura, si coagulerebbero i singoli enti. Se la presa di distanza sembra insomma giustificabile sulla base di una vaga tonalità del pensiero di Heidegger, più difficile è individuare un bersaglio preciso.

Ma non potrebbe questo trovarsi, un po’ obliquamente, proprio nel fatto che l’analisi del Dasein, dalla quale secondo le movenze del primo Heidegger dipende il chiarimento della domanda sull’essere, prescinde dalla considerazione della maschilità e della femminilità? è un caso che un essere anonimo viene così efficacemente caratterizzato da Levinas come «neutro», che etimologicamente significa «né maschile né femminile»? È ovvio che prescindere non equivale a negare (ogni discorso con pretese filosofiche, se non ogni discorso in assoluto, è costretto a prescindere da innumerevoli fattezze per poter aspirare all’universalità). Il problema è se l’omissione della differenza sessuale non faccia dimenticare qualcosa di essenziale ad una pure elementare determinazione dell’umano, fino a gettarlo, insieme con l’essere nel quale è implicato, in un’impermeabile nebbia, in cui l’essere-nel-mondo non riuscirebbe mai a raggiungere, parimenti per uomini e donne, né l’intimità di una casa né l’emozione di un’accoglienza. Ecco un’ipotesi che, seguendo il discorso di Levinas, ci sarà preziosa.6

3. La trascendenza dell’io

Se già in Totalità e Infinito il femminile appariva ridimensionato nella sua funzione apparente, tale movimento sembra giungere al suo esito ultimo in Altrimenti che essere. Il tema, e con esso la terminologia che lo esprimeva, è praticamente scomparso. Il motivo può essere cercato anzitutto nella differente impostazione del discorso, sulla quale il primo capitolo, «Essenza e disinteressamento», può darci sufficienti indicazioni. Prendendo le mosse, grazie al lessico platonico del Sofista, dal problema della trascendenza come passaggio all’«altro dell’essere», Levinas chiarisce la natura «violenta» di ogni essenza. Non si tratta di denunciare la presunta natura violenta del discorso sull’essere (cosa che qui a Levinas sembra importare poco), ma di rilevare come la stessa «essenza», interpretata come «interessamento», sia la radice di ogni violenza:

Positivamente, [l’interessamento] si conferma come conatus degli enti. E la positività cosa può significare d’altro se non questo conatus? L’interessamento dell’essere si drammatizza negli egoismi in lotta gli uni contro gli altri, tutti contro tutti, nella molteplicità di egoismi allergici che sono in guerra gli uni contro gli altri e, così, insieme. La guerra è il gesto o il dramma dell’interessamento dell’essenza (pp. 4-5, it. 7).

Controbilanciando le pagine finali (281-4, it. 313-5) di Totalità e Infinito dedicate al tema, ora Levinas si mostra scettico pure verso l’ideale della pace: benché ovviamente preferibile alla guerra, anch’essa, come risultato di compensazioni e mediazioni, esprime la stessa autoaffermazione dell’«essenza» che si manifesta nella guerra. Si tratta di una presa di distanza molto significativa per misurare il grado di approfondimento, a volte quasi parossistico, cui Levinas sottopone le analisi degli anni precedenti, tentando di purificarle e smascherarne ogni più piccola ambiguità. Insomma: il problema non consiste più soltanto nell’individuare una trascendenza verso l’Altro, che ora non sarebbe più ritenuta abbastanza «trascendente», ma nel pensare una trascendenza dell’Io stesso, della soggettività, che la liberi dell’incatenamento alla sua identità, fonte prima di ogni violenza. Le prime indicazioni fornite non possono che essere evocative:

Si tratta di pensare la possibilità di uno sradicamento dall’essenza. Per andare dove? Per andare verso quale regione? Per attenersi a quale piano ontologico? Ma lo sradicamento dall’essenza contesta il privilegio incondizionato della questione: dove? Esso significa il non-luogo. L’essenza pretende di ricoprire e di recuperare ogni ec-cezione; la negatività, la nientificazione e, già dopo Platone, il non-essere che «in un certo senso è». Bisognerà perciò mostrare che l’eccezione dell’«altro dall’essere», al di là del non-essere, significa la soggettività o l’umanità, il sé stesso che respinge le annessione dell’essenza. Io unicità, al di fuori di ogni paragone perché al di fuori della comunanza, del genere e della forma, che non trova più riposo in sé, in-quieto, che non coincide con sé (pp. 9-10, it. 12).

La dialettica Stesso-Altro, che dominava finora, si vede così contestata fin dal primo elemento: il «sé», l’umanità, la soggettività umana, è pensabile solo non come essente, ma come «altrimenti che essente». Certo spontaneamente e inevitabilmente tende all’essere, all’autocomprensione neutra e sistematica parallela all’autoaffermazione esistenziale, ma nel suo gesto iniziale è altra da esso. È evidente che in questa nuova impostazione non c’è più spazio per un’alterità concepita esplicitamente come femminilità, semplicemente perché è il tema stesso dell’Altro che diventa in una certa misura secondario, o comunque non più prioritario in un mutato punto di vista.7

L’impresa di Levinas può sperare di essere convincente, di non essere liquidata come un’utopia morale surrettiziamente vestita da antropologia, solo nella misura in cui mostra concretamente tali rapporti di precedenza. Ciò avviene per esempio nelle analisi che vengono dedicate al rapporto tra «Dire» e «Detto»: che il secondo prenda corpo solo nel contesto del primo è evidente. Ma laddove il secondo consente e incoraggia una comprensione sinottica della realtà (trasportando dunque nel campo dell’essere), il primo è un atto in cui la persona si espone, si mette in gioco, si «rivolge» a qualcun altro. Questo «rivolgere» può essere inteso pure nel senso in cui si «rivolta» un vestito, cioè si fa diventare esteriore e dunque non più confinato nel tranquillo dominio dell’interiorità ciò che sarebbe altrimenti una pacifica identità con sé. Anche in questo caso, come in quello prima notato della pace, le analisi che qui abbiamo riassunto (e forse anche ridetto con una certa libertà) riprendono temi consueti del pensiero di Levinas, radicalizzandoli però in una direzione nuova.

Ma il centro di Altrimenti che essere, come dichiarato dall’autore stesso nella «Nota preliminare», è la riflessione sulla «sostituzione» che domina il capitolo quarto. Se volessimo tentare di esprimerne il nucleo come esito dell’itinerario di pensiero di Levinas, potremmo più o meno dire così: l’autentico atto di trascendenza della persona è l’incontro con l’altro in cui viene scoperta la propria originaria responsabilità; ma essere responsabile di un altro, «rispondere» di ciò che egli fa, è possibile solo «sostituendosi» a lui, cioè vivendo la sua esistenza nella propria. Dalla trascendenza di cui parlava Totalità e infinito, la trascendenza verso l’altro, si passa così a concepire una trascendenza all’interno di sé. Ma questa è una perdita dell’«essere», della coincidenza con sé: se l’uomo è definito essenzialmente come essere morale (il che in fondo vale certo non solo in Levinas, ma più o meno da Socrate in poi), sostituirsi ad un altro significa un altrimenti che essere, e soltanto giustifica in senso radicale quello che fin dal tempo di Dall’esistenza all’esistente è il motto platonico che guida Levinas: il «Bene al di là dell’essere», e ciò anche riguardo all’essere proprio. Tutto ciò crediamo che ridimensioni efficacemente l’accusa al discorso levinasiano di costituire non una descrizione dell’esperienza umana comune, ma piuttosto l’assolutizzazione di un’esperienza eccezionale: una critica singolarmente superficiale che funziona egualmente bene ovunque l’uomo venga ritenuto qualcosa di più che «vestigium coiti aliquamdiu permanens» (Schopenhauer).

4. Il soggetto materno

Molte delle analisi che Levinas conduce potrebbero essere a prima vista definite come riscritture del concetto di empatia, che proprio nella scuola fenomenologica, grazie alla penna di Edith Stein, avevano ricevuto approfondimenti di prim’ordine. Il parallelo va limitato notando che per Edith Stein l’empatia è essenzialmente una via di riconoscimento dell’altro, mentre per Levinas la sostituzione costituisce il nucleo originario dell’esperienza etica. Tale distinzione non va tuttavia esagerata: se ciò di cui parla Levinas non è conoscenza, non è perché la contraddica, ma piuttosto perché se ne situa alle spalle, prima che le inevitabili architetture del «Detto» intervengano a cristallizzare il gesto del «Dire» (la coppia concettuale prima introdotta ora ci è molto utile). Non sono contrarie al conoscere misericordia, pietà, compassione, tenerezza, responsabilità: semplicemente sono più originarie, o meglio ancora (l’ossessione terminologica non è qui ingiustificata) sono pre-originarie, perché rimandano più ad uno spazio vuoto e accogliente nel proprio essere che ad un fondamento stabile.8

Ma — non è questo un linguaggio tipicamente femminile e ben poco maschile? Già l’interesse di una donna come Edith Stein potrebbe mettere sull’avviso, ma l’elenco delle testimoni può essere molto allungato. Tra le numerose voci che potrebbero essere evocate, scegliamo quella di Carol Gilligan, che nel suo celebre studio del 1982 distingueva la natura di un’etica maschile da quella di un’etica femminile caratterizzando la prima in termini di diritti, norme, giustizia, la seconda in termini di cura, responsabilità, interdipendenza. Si tratta di priorità differenti che sono caratteristiche di ciascun sesso, dato che affondano le proprie radici nei differenti percorsi di evoluzione psicologica:

Per il bambino e per l’uomo la separazione e l’individuazione sono legate in modo decisivo all’identità di genere, in quanto per lo sviluppo dell’identità maschile è essenziale la separazione dalla madre. Per la bambina e per la donna, invece, i problemi di femminilità o di identità femminile non dipendono dall’aver realizzato la separazione dalla madre o dal progredire del processo di individuazione. Poiché la mascolinità si definisce attraverso la separazione e la femminilità si definisce attraverso l’attaccamento, l’identità di genere maschile risulta minacciata dall’intimità, mentre l’identità di genere femminile è minacciata dalla separazione. Perciò i maschi tendono ad avere problemi di rapporto, e le femmine problemi di individuazione (Con voce di donna: etica e formazione della personalità, Feltrinelli, Milano 1991 [or. 1982], p. 36).

In questo modo si rivelerebbe non soltanto l’unilateralità delle teorie morali (e dell’evoluzione morale) che hanno il proprio fulcro sul perseguimento di valori astratti e universali, ma anche delle analisi psicologiche, Freud in testa, che, dopo aver preso come punto di riferimento l’evoluzione maschile, giungono a giudicare quella femminile come «malriuscita». Essa non passa infatti per la canonica formazione di una coscienza morale («Super-Io» se si vuole) inesorabile e impersonale, ma piuttosto si mantiene essenzialmente sensibile ai sentimenti, alla tenerezza, alla capacità d’immedesimarsi negli altri e vivere come proprie le loro gioie e sofferenze: tutti aspetti che fatalmente alla percezione etica maschile possono apparire immaturi e umorali.

Se questa ipotesi è fondata, bisognerebbe concludere che il mutamento di prospettiva adottato da Levinas nel passaggio da Totalità e Infinito ad Altrimenti che essere ha ottenuto i suoi effetti in modo ancora più perfetto di quanto esplicitamente dichiarato: la femminilità scompare — è vero — da una considerazione esplicita, perché non viene più tematizzata la trascendenza verso l’altro; ma il fatto che la trascendenza ora avvenga nel soggetto fa sì che la femminilità venga descritta dentro ad esso, venga anzi identificata con la soggettività stessa, come se l’umanità stessa non fosse pensabile senza una matrice di femminilità — di tenerezza e di accoglienza — alla sua base. Esistono almeno due indizi che corroborano questa interpretazione.

Il primo si trova nella diversa considerazione della «materialità»: se ne Il tempo e l’altro essa veniva, come abbiamo visto, addebitata dell’incatenamento a sé della soggettività, ora essa, intesa come «incarnazione» diventa la possibilità stessa di una soggettività intesa come sostituzione. Le analisi andrebbero qui seguite attentamente fino a percorrere l’intero campo della sensibilità. Completando le analisi di Totalità e infinito (come esplicitamente notato a p. 92, it. 93, nt. 8), Levinas ora legge la sensibilità come «esposizione all’altro», dunque segno di una passività originaria e inversione del conatus essendi. Ma ovviamente un soggetto sensibile non è altro che un soggetto realizzato nella materia, avente un corpo tramite cui può avvicinarsi (diventar «prossimo») all’altro e incontrarlo nei suoi bisogni:

È perché la soggettività è sensibilità — esposizione agli altri, vulnerabilità e responsabilità nella prossimità degli altri, l’uno-per-l’altro, cioè significazione — e la materia è il luogo stesso del per-l’altro […] — che il soggetto è di carne ed ossa, uomo che ha fame e che mangia, viscere in una pelle e, così, suscettibile di dare il pane della propria bocca o di dare la propria pelle (p. 95, it. 96).

Non potrebbe dunque questa dislocazione della materia, trascinata, via dalla pesantezza dell’esistenza dove si affaccia la solitudine del dolore (Il tempo e l’altro), alla vicinanza dove avvengono la condivisione e la misericordia, essere proprio uno degli squarci di una femminilità innestata nel cuore dell’umano? Certo, il facile gioco etimologico mater — materia (tanto facile, però, che rischia di passare inosservato) deve essere guardato sempre con un po’ di distacco: ci si potrebbe ancora una volta chiedere se sia lecita questa riconduzione, o se essa non nasconda in fondo ancora un residuo di maschilismo.

Ma a ridimensionare il dubbio c’è un secondo indizio meno ambiguo: nel capitolo sulla sostituzione, in un paio di occasioni cruciali, Levinas usa direttamente il termine «maternità». La prima volta la metafora viene esplicitamente evidenziata come la più preziosa per comprendere il senso del «sé stesso», di quel movimento che Levinas chiama la «ricorrenza»: esso indica quella passività del soggetto che è anteriore a qualsiasi coscienza di sé, che permette di percepirsi come «creatura» indipendentemente da, anzi senza, la percezione di un «creatore»: «il sé stesso non è nato di sua propria iniziativa» (p. 133, it. 132). In questo contesto Levinas spiega:

Il si del «mantenersi» o del «perdersi» o del «ritrovarsi» non è un risultato, ma la matrice stessa delle relazioni, o degli avvenimenti che questi verbi pronominali esprimono. E l’evocazione della maternità in questa metafora ci suggerisce il senso proprio del sé stesso. Il sé stesso non può farsi, esso è già fatto di passività assoluta e, in questo senso, vittima di una persecuzione che paralizza ogni assunzione che potrebbe svegliarsi in esso per porlo per sé, passività del legame già annodata come irreversibilmente passata, al di qua di ogni memoria, di ogni richiamo (pp. 132-3, it. 131).

L’unico modo in cui l’osservazione di Levinas può essere intesa sembra questo: il «sé stesso» ha un carattere «materno» in quanto, così come appunto la madre, ha una natura eminentemente passiva. Ma perché evocare la maternità e non semplicemente la femminilità? È evidente che la maternità indica un rapporto con l’altro (il figlio) che manca alla femminilità in quanto tale. Ma sarebbe fuorviante fermare la propria attenzione sul punto di partenza della metafora: come il seguito del discorso mostra, il rapporto che interessa non è quello nei confronti «delle relazioni, o degli avvenimenti», ma piuttosto del prossimo, che richiama alla responsabilità prim’ancora che ce se ne possa accorgere o ce se ne possa ricordare, dunque per così dire da un passato immemorabile. La funzione del tempo è qui simile a quella intravista in Il tempo e l’altro (che Levinas in effetti non manca di citare), ma viene proiettata verso il passato, che ancora più del futuro mantiene il suo carattere di totale estraneità e improgrammabilità, per lo meno quando non sia considerato il semplice correlato di una reminescenza in cui ancora il soggetto celebrerebbe la sua rivincita.9

Un paio di pagine dopo, Levinas riprende lo stesso termine in una dichiarazione lapidaria: «L’identità ingiustificabile dell’ipseità si esprime in termini come me, io, sé stesso e — tutto questo lavoro tende a mostrarlo — a partire dall’anima, dalla sensibilità, dalla vulnerabilità, dalla maternità e dalla materialità che descrivono la responsabilità per gli altri» (p. 135, it. 133). Il nesso che viene stabilito con la responsabilità è chiarificatore e ci permette questa parafrasi: la soggettività umana può essere descritta a partire dalla maternità perché l’io è responsabile dell’altro così come una madre è responsabile del figlio, perché l’io viene «colpito» ed è ostaggio dell’altro così come una madre è ostaggio del proprio figlio, perché l’io si sostituisce all’altro così come una madre si sostituirebbe al figlio — cioè indipendentemente da ogni calcolo e al di fuori di ogni reciprocità. È in questo modo che Levinas, seppure in una sola frase, può recuperare in un colpo quel mondo del sentimento che così difficilmente riusciva a farsi strada nelle opere precedenti: «È in nome della condizione di ostaggio che nel mondo ci può essere pietà, compassione, perdono e prossimità» (p. 150, it. 148). La materia è dunque mater non perché l’uomo da essa provenga e debba distaccarsi (questo sarebbe proprio il meccanismo psicologico dell’evoluzione maschile da cui Levinas si affranca), ma piuttosto perché permette all’uomo di essere «materno», prima che l’ontologia creata dallo spirito stabilisca la supremazia di un’etica fondata sulla giustizia universale.

Da tutto ciò è evidente che quello che qui interessa a Levinas non è il rapporto di generazione in sé. Questo era stato già oggetto di analisi dettagliate (e molto profonde) alla fine di Totalità e Infinito, dove però ne veniva individuato il protagonista il padre, non la madre. Nella sezione «Al di là del volto» la generazione del figlio, prendendo le mosse dal rapporto erotico, veniva studiata come ciò che è capace dall’interno di rompere l’intimità e la conseguente ambiguità del rapporto a due. Il figlio è un altro sé stesso che tuttavia è un altro, e questo è appunto il senso della generazione. L’essenziale della maternità invece non è più la relazione con l’esistenza del figlio, ma verso di questi il sentimento, la partecipazione emotiva, il lasciarsi commuovere, l’inevitabilità del «sostituirsi». Insomma: il discorso di Levinas procede come se il figlio fosse correlativo al solo padre, mentre la maternità disegnasse il dover essere di ogni persona, fin nel suo intimo, e quindi, prima ancora del suo «essere» maschile, il suo «altrimenti che essere» femminile. Dicendo così, non stiamo ripetendo alla lettera Levinas, ma stiamo riannodando alcuni fili pendenti, esplicitando così quell’ultimo trait-d’union che Altrimenti che essere sembra non avere ancora il coraggio di fare.

Il filo che stiamo riannodando è in realtà anche un altro. Esso si trova nelle pagine in cui Levinas intende distinguere l’«altrimenti che essere» non solo dall’«essere altrimenti», ma pure dal «non essere»:

Nemmeno non-essere. In questo caso passare non equivale a morire. L’essere e il non-essere si chiariscono mutuamente e sviluppano una dialettica speculativa che è una determinazione dell’essere. O la negatività che tenta di respingere l’essere è subito sommersa dall’essere. Il vuoto che si crea si riempie subito del sordo e anonimo fruscìo del c’è, così come il posto lasciato vacante da chi muore si colma del mormorìo dei postulanti (p. 6, it. 6).

Insomma: se l’«altrimenti» fosse inteso come negazione, ciò che si otterrebbe sarebbe ancora una volta l’«anonimità», il «neutro», Ma non è allora così confermata l’ipotesi prima formulata, che cioè nel pensiero di Levinas, più meno coscientemente, sia la femminilità (qui intesa come capacità di compassione e di tenerezza) ad evitare che l’universalità dell’essere si rivolti nell’indecifrabilità di un brusìo?

5. Ancora misericordia

È da porre seriamente in dubbio (sia detto con rammarico) che il discorso di Levinas sia facilmente integrabile, malgrado le tenui proteste di quest’ultimo, nel variegato sforzo per compensare le donne della marginalità in cui tanta storia mondiale le ha costrette e le costringe. Che «femminismo» sia il nome di un nobile e rispettabile movimento, ma «maschilismo» solo di una rozza prepotenza, non è purtroppo una stranezza linguistica. Il significato delle parole è anche la traccia della storia che sono costrette a sopportare e del futuro che propongono. E il peso della storia non dovrebbe mai proibire lo slancio dell’utopia, in questo caso la ricerca di un futuro in cui sia restituito e assicurato il valore della femminilità, e dunque anche la maschilità possa tornare a giocare il suo ruolo con serenità, svanita la prepotente illusione di rappresentare il modello dell’umanità tout-court, un’illusione che attraversa la storia della cultura occidentale da Aristotele a Freud.

Più in generale, è difficile credere che il lungo itinerario di Levinas, che abbiamo tentato di ricostruire e interpretare, abbia qualcosa di veramente significativo da dire in vista di una «determinazione filosofica» della femminilità. Ma è questo il compito più urgente? è sicuro che abbiamo bisogno di definizioni filosofiche del maschile e del femminile? non si trasforma fatalmente ogni definizione in un’assegnazione di compiti e in un criterio di giudizio e pregiudizio? Ci sembra che la morale della storia che abbiamo ricostruito sia completamente diversa. Alla fine, della donna sappiamo esattamente quanto prima (lo scrivente associa inevitabilmente la sua voce maschile a quella di Levinas): da un «mistero» (Il tempo e l’altro) ad un’assenza (Altrimenti che essere) il progresso non pare molto. Tuttavia, dell’essere umano si ha l’impressione che si è capito molto di più: perché questi — ne parliamo come fosse un personaggio in una storia a puntate — si è lasciato interrogare e provocare dal femminile, da ciò che ha trovato irriducibilmente differente. In altre parole, la strada tracciata da Levinas suggerisce quanto sia prezioso fare i conti con l’altro per comprendere sé, e attraverso lo specchio della differenza interrompere la catena della continuità con sé stessi.

Ciò non significa usare l’altro come una sponda per poi ritornare a sé stessi (secondo il mito di Ulisse tante volte citato da Levinas per prenderne le distanze), ma piuttosto ottenere un senso di libertà più originario di quello del libero arbitrio: la possibilità di ricominciare in maniera nuova la propria identità, non più predeterminati dal peso del proprio passato. Quasi come se l’«intersoggettività», sotto cui è facile catalogare frettolosamente anche il pensiero di Levinas, fosse in fondo una scala che può esser gettata via dopo l’uso. È in questo modo che vogliamo interpretare il lungo itinerario in cui l’incontro con il «femminile», per quanto possa essere ritenuto filtrato da stereotipi e pregiudizi, di fatto ha spinto il discorso di Levinas a riformulare la stessa nozione di soggettività umana: fino a scoprire dentro di essa, come la sua possibilità da sempre presente e però fino ad allora non tematizzata, la capacità di percepire e vivere dolori e gioie degli altri come proprie, di essere sempre nuovi non in nome dell’originalità ma in nome della misericordia — usiamo volentieri questo termine per rispettare la contestabile ma comprensibile diffidenza di Levinas verso le ambiguità dell’«amore».

È solo questa novità che consentirebbe d’infrangere un concetto di «essere» che altrimenti, perennemente preoccupato solo di essere identico a sé stesso, deve ben presto, malgrado qualsiasi intenzione contraria, ridursi ad una nebbia anonima e prendere congedo da ogni sorpresa e da ogni emozione. Tra esse c’è, forse al primo posto, quella commozione che mostra una madre verso il suo bambino, per il quale lei stessa è il primo e fondamentale nutrimento, commozione viscerale che è l’unica che permette all’umanità di esistere e ad immagine della quale è concepibile ogni minuscolo atto di condivisione.10 Se Hannah Arendt ha scoperto, di fronte a tante «meditazioni della morte» filosofiche e religiose, quanto sia fondamentale la «nascita» per comprendere la carica di novità insita nella presenza umana del mondo, Levinas fornisce i materiali per cominciare a pensare quanto ogni gesto di misericordia segni una rinascita dell’umano: un ingresso nella coscienza di qualcosa prima inesistente e improgrammabile (sentimenti altrui, ora nella propria pelle), un ingresso che contemporaneamente riconosce l’altro ed è perciò in grado di farlo realmente «nascere», di farlo cioè entrare come soggetto in un mondo. Tutte le volte in cui con evidente timore e tremore Levinas si è avvicinato all’idea del «morire per un altro», la forma estrema e irreversibile della compassione, ha avvicinato in effetti alla riflessione la possibilità che una tale fine del soggetto rappresenti, pure indipendentemente da qualsiasi promessa d’immortalità (e forse ancor meglio prima di essa), un capovolgimento del linguaggio della morte: come se il significato fosse il contrario di ciò che letteralmente viene detto.

Che tutto ciò stia all’origine dell’eticità e dell’umano, e non ne sia né una decorazione sentimentale né un’opzionale eccellenza, ci pare che sia il punto focale verso cui convergono in fin dei conti, in maniera più o meno espressa e cosciente, gli sforzi di Levinas. In ogni caso, questa è l’idea con cui simpatizziamo. Che la misericordia sia all’origine della responsabilità, che il perdono sia all’origine della giustizia, che il «porgere l’altra guancia» sia all’origine della pace: tutto ciò non significa sostituire l’etica e la politica con i buoni sentimenti, ma solo richiedere che la ragione che individua innocenze e colpe, stabilisce e ristabilisce l’eguaglianza, determina e tutela gli equilibri della convivenza, abbia già contenuti e moventi che coincidono con quell’esperienza reale più elementare che (almeno la psicologia qui è d’accordo) spinge l’intero corso della vita. Forse questa è anche la grande lezione della dottrina platonica dell’eros, che, malgrado i sospetti di cui viene fatta oggetto da parte di Levinas, è pur sempre congiunta inseparabilmente a quell’idea del «bene al di là dell’essere» grazie alla quale è consentito non rassegnarsi a ciò che c’è e sperare che ci sia ancora misericordia.

Testo preparato in occasione dell’Incontro Interculturale tenuto presso la Pontificia Università Salesiana di Roma il 22 ottobre 2001, i cui Atti sono stati pubblicati a cura di Maurizio Marin e Mauro Mantovani, Eleos: «l’affanno della ragione». Fra compassione e misericordia, LAS, Roma 2002.


  1. Le opere di Levinas cui faremo dettagliatamente riferimento sono le seguenti: Le temps et l’autre, PUF, Paris 1983 (Il tempo e l’altro, trad. it. di Francesco Paolo Ciglia, Il melangolo, Genova 1987); Totalité et infini. Essai sur l’extériorité, Nijhoff, La Haye 1961 (Totalità e infinito. Saggio sull’esteriorità, trad. it. di Adriano Dell’Asta, Jaca Book, Milano 1980); Autrement qu’être ou au-delà dell’essence, Nijhoff, La Haye 1974 (Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, trad. it. di Silvano Petrosino e Maria Teresa Aiello, Jaca Book, Milano 1983); Difficile liberté, Albin Michel, Paris, 2ª ed. 1976 (Difficile libertà, trad. it. di Giancarlo Penati, La Scuola, Brescia 1986, che contiene però una minima parte del testo originale). A queste opere faremo riferimento con il solo numero di pagina dell’originale francese e della traduzione italiana; questa tuttavia la ritoccheremo senza darne avviso ovunque ci sembri opportuno. ↩︎

  2. «La peculiare neutralità del titolo “il Dasein” è essenziale, perché l’interpretazione di questo essente va condotta prima di ogni concrezione effettiva. Questa neutralità significa anche che il Dasein non è nessuno dei due sessi. Ma questa asessualità non è l’indifferenza del vuoto nullo […], ma l’originaria positività e potenza dell’essenza. […] Questo Dasein neutrale non è mai l’esistente; il Dasein esiste solo sempre nella sua concrezione effettiva. […] Il Dasein in generale nasconde l’intima possibilità per la disseminazione effettiva nella corporeità e quindi nella sessualità» (Metaphysische Anfangsgründe der Logik im Ausgang von Leibniz, in Gesamtausgabe, Klostermann, Frankfurt a. M., vol. 26, 2ª ed. 1990, pp. 172-3: il testo riproduce un corso del 1928, quindi praticamente contemporaneo ad Essere e Tempo). La posizione di Heidegger non avrebbe nulla di sorprendente se non fosse inserita all’interno di un discorso filosofico che valorizza così profondamente la dimensione esistenziale dell’essere umano. Così, il Dasein desessualizzato rischia pericolosamente di avvicinarsi al «man» dell’impersonale, che però significativamente mantiene estenuata la traccia della sua etimologia maschile — alla quale con una certa liceità il contemporaneo linguaggio femminista tedesco può contrapporre il neologismo «frau» (frau sagt come man sagt). ↩︎

  3. Così commenta Simone de Beauvoir nello stesso anno della pubblicazione delle conferenze: «Suppongo che Levinas non dimentichi che la donna è anche di per sé coscienza. Ma è degno di nota che egli adotti deliberatamente un punto di vista maschile senza porre in evidenza la reciprocità del soggetto e dell’oggetto. Quando scrive che la donna è mistero, è sottinteso che ella è mistero per l’uomo. Cosicché questa descrizione che vorrebbe essere obiettiva è in realtà una affermazione del privilegio maschile» (Le deuxième sexe, Gallimard, Paris 1949; trad. it., Il secondo sesso, Il Saggiatore, Milano 1999, p. 29, nt. 3); il senso del «privilegio maschile» sembra qui identificarsi con l’assumere per ovvio e obiettivo il punto di vista dell’uomo: «La donna appare essenzialmente al maschio un essere sessuato: la donna per lui è sesso, dunque lo è in senso assoluto. La donna si determina e si differenzia in relazione all’uomo, non l’uomo in relazione a lei; è l’inessenziale di fronte all’essenziale. Egli è il Soggetto, l’Assoluto: lei è l’Altro» (p. 16). ↩︎

  4. Che quest’ultima preoccupazione sia tutt’altro che aliena dalle intenzioni di Levinas, risulta dal fatto che egli, in un’intervista del 1985, dichiara che ciò che rimane dell’identificazione tra alterità e femminilità nelle opere posteriori (nello specifico Totalità e infinito) è l’idea che l’«altro» va sempre pensato non formalmente, ma nel suo contenuto specifico («Intention, Ereignis und der Andere», in Humanismus des anderen Menschen, trad. ted. di Ludwig Wenzler, Felix Meiner, Hamburg 1989, p. 135). Ma appunto, in una femminilità definita sostanzialmente come alterità (tanto il «pudore» quanto il «mistero» ne costituiscono traduzioni in una prospettiva erotica) l’esigenza di un contenuto reale sembra soltanto posta e non ancora soddisfatta. A meno che l’«alterità» qui non significhi in realtà qualcosa di più e di diverso rispetto a ciò che Levinas stesso intende e dice: che è ciò che tenteremo di mostrare. ↩︎

  5. Che il discorso condotto presta il fianco a sospetti ancor più pesanti di vent’anni prima, è appena il caso di notarlo. È infatti facile accusare le analisi di Levinas di solidificare stereotipi sociali perlomeno discutibili: il sesso femminile come quello «debole», la donna come essere essenziale «sessuato» (il che significherebbe che solo con il suo apparire sarebbe possibile qualcosa come la «voluttà»), la sua localizzazione nella «casa», e così via. Tutto ciò potrebbe essere ancora una volta riassunto nella semplice osservazione che il discorso è condotto, dall’inizio alla fine, da un punto di vista maschile. Il giudizio non muterebbe se volessimo prendere in considerazione anche il saggio quasi coevo «Le judaïsme et le féminin» (in Difficile liberté, pp. 50-60), nel quale pure Levinas, enunciando sotto forma di esegesi della tradizione ebraica molte idee che filosoficamente trovano spazio in Totalità e infinito, protesta che si tratta di «idee più antiche dei princìpi in nome dei quali la donna moderna lotta per la sua emancipazione, ma verità di tutti questi princìpi» (p. 57). Alle obiezioni «femministe» contro Levinas è possibile timidamente replicare che in effetti, come noteremo, anche il maschile viene ridefinito e ripensato a causa del riferimento al femminile. Ma la nostra opinione è che il vero valore dell’itinerario di Levinas si mostri soltanto a partire dalla sua meta, che si trova in Altrimenti che essere↩︎

  6. È facile sospettare un motivo per lo meno inconscio della messa tra parentesi della differenza sessuale: essa non è un elemento specifico dell’essere umano, dal momento che lo accomuna a tutti gli animali superiori. Se il sospetto è fondato, c’è da osservare che in questo modo viene ripetuta la stessa torsione compiuta da Aristotele nella sua determinazione dell’uomo come animal rationale. Il pericolo di essa non consiste tanto nel pensare l’uomo a partire dall’animalità (come ritiene Heidegger nella Lettera sull’umanismo), ma tutt’al contrario nel non pensarla abbastanza. Ciò è eccellentemente mostrato nell’esordio dell’Etica Nicomachea, in cui proprio movendo implicitamente da questa definizione la felicità umana viene cercata in ciò che non può essere animale. È una strategia che da una parte permette ad Aristotele di teorizzare l’esaltante ideale dell’athanatízein, il «comportarsi da immortali», dall’altra lo costringe però a reintrodurre per semplice accostamento tutto il capitolo sulla philía: i fondamenti di essa sfuggono alla pura dimensione razionale e sono ravvisati da Aristotele stesso, quasi obtorto collo, nell’amore coniugale e in quello parentale, due forme che, analogicamente e mutatis mutandis, evidentemente si trovano anche negli altri animali. ↩︎

  7. In questo modo, alla fin fine Levinas concede a Kierkegaard più credito di quanto fosse disposto a dargli all’epoca di Totalità e infinito: «L’assolutamente Altro — la cui alterità è superata dalla filosofia dell’immanenza sul piano, che si pretende comune, della storia — conserva la sua trascendenza in seno alla storia. Lo Stesso è essenzialmente identificazione nel diverso, o storia, o sistema. Non sono io a rifiutarmi al sistema, come pensava Kierkegaard, è l’Altro» (p. 10, it. 38). Ma Altrimenti che essere costituisce proprio il tentativo di mostrare come anche l’Io si rifiuta «al sistema», come anche in esso si realizzi quella frattura dall’essenza che non è anzitutto «ontologica» perché avviene prima dell’ontologia e ne rimescola le carte. In questo slittamento, che peraltro rimane fedele alle intenzioni iniziali nel momento in cui ne sposta l’obbiettivo all’indietro, quale sia l’effettivo debito nei confronti di Kierkegaard è difficile dirlo. Fatto sta che Levinas cita proprio questi come colui che più di ogni altro seppe pensare l’«umiliazione di Dio», l’idea che, riformulata in termini orizzontali, sta al cuore della sostituzione come interpretazione della soggettività in Altrimenti che essere↩︎

  8. Il rapporto viene del resto stabilito da Levinas stesso in una breve osservazione: «La responsabilità per l’altro, per ciò che non è cominciato in me, responsabilità nell’innocenza di un ostaggio — la mia sostituzione ad altri è il tropo di un senso che non si limita all’empiria dell’avvenimento psicologico, di una Einfühlung o di una compassione che, in nome di questo senso, significano» (p. 161, it. 158 [ma con traduzione errata]). Nel momento stesso in cui si vuole distinguere lecitamente la nozione di sostituzione dall’empatia, si dichiara implicitamente che la seconda è condizionata dalla prima e ne costituisce per così dire il risvolto conoscitivo ed empirico. ↩︎

  9. Un’ulteriore conferma: in questa nuova prospettiva è coerente lo slittamento che subiscono le considerazioni sul perdono. Se esso in Totalità e Infinito veniva affidato quasi come un simbolo al figlio (il figlio con la sua nascita rappresenta una nuova storia «perdonata», cioè senza il carico del passato e della colpa che l’identificazione con sé rende inevitabile), in Altrimenti che essere daccapo il perdono ottiene il suo posto, citato per nome, come un’espressione della sostituzione «materna». Ciò è evidente nella dichiarazione prima citata e anche qualche pagina oltre, quando Levinas mette in parallelo (benché in maniera non del tutto chiara) il «puro perdono» con la «responsabilità per altri ed espiazione» (p. 161, it. 158). Queste considerazioni e altre simili rendono difficile accettare l’interpretazione proposta da Adriaan Peperzak nella sua ottima «Introduzione ad Altrimenti che essere», dove il senso del discorso di Levinas viene reso così: «[Il soggetto,] come una madre, porta l’altro dentro di sé, senza fondersi con lui» (Emmanuel Levinas, Adriaan Peperzak, Etica come filosofia prima, Guerini, Milano 1989, p. 128). È vero che Levinas stesso parla di una «gestazione dell’altro nel medesimo» (p. 135, it. 132), ma proprio per avvertire che malgrado ciò questo rapporto non è equiparabile ad un concepimento liberamente scelto e assunto. Privilegiare questa immagine rischia dunque da una parte di aggirare il linguaggio di Levinas nelle sue intenzioni dichiarate (passività, responsabilità), dall’altra di ridurlo, appunto, ad un’immagine, che sfuma nella retorica il corposo richiamo ad una originaria dimensione «femminile» dell’essere umano. ↩︎

  10. Formulando la questione in questi termini, è facile pensare al «principio responsabilità» di Hans Jonas. Anch’esso viene giustificato facendo appello alle cure dei genitori per il bambino: senza di esse l’umanità non potrebbe evidentemente sussistere. Ma ciò significa che a questa forma assolutamente elementare di responsabilità bisogna fare appello per spiegare quelle via via più complesse e istituzionalizzate, fino a ritenere la responsabilità stessa l’autentico principio dell’eticità. Come ulteriore e forse ancora più notevole elemento di vicinanza può essere citato il superamento della «legge di Hume» (separazione tra dati di fatto e imperativi morali) che per Jonas si realizza nel neonato: egli è, ma contemporaneamente significa un tu devi per i propri genitori; è difficile non vedere qualcosa di analogo (soprattutto dopo tutto ciò che abbiamo detto dell’itinerario di Levinas) nel comandamento «non uccidere» che per Levinas è il significato stesso del volto dell’altro. Ma malgrado tutte le somiglianze, l’andamento del discorso di Levinas tollererebbe molto difficilmente le esatte architetture e distinzioni di piani di Jonas, teso com’è alla ricerca di un nucleo di significato unico e originario, a suo modo «evidente» prima di ogni teoresi. ↩︎