1. Alterità e individuazione
Nella tradizione filosofica dell’ultimo secolo, il «personalismo» nelle sue diverse varianti si è facilmente coniugato con forme di spiritualismo. Sostenere il primato della persona è sovente andato di pari passo con l’affermazione del predominio dello spirito sulla materia, il che spesso ha significato anche della libertà sulla necessità, del valore sul dato di fatto. La fecondità e l’opportunità storica di tale connessione è evidente. Vogliamo però chiederci se nella tradizione del pensiero occidentale — sia nelle forme antiche che in quelle moderne, sia sottintesa che esplicita — ci sia anche un’altra possibilità complementare: quella di pensare la persona a partire dalla materia, di elaborare cioè quello che potrebbe essere provvisoriamente definito un materialismo della persona. Il termine «materialismo» ha, nella storia del pensiero e in genere della cultura, una sua accezione precisa, e l’uso di questa espressione potrebbe risultare equivoco: essa potrebbe infatti suggerire una riduzione della persona alle sue dimensioni materiali, dove il concetto di «materia» è già predeterminato in direzione fisica o sensistica. Il nostro tentativo sarà del tutto differente, e intenderà solo approfondire per una via meno consueta la questione della persona. Questa strada si apre spontanea appena si tenti di mettere a fuoco in maniera concettualmente precisa la nozione di alterità, il cui immediato legame con l’esperienza e con la comprensione della persona può essere considerato un dato di partenza sicuro.
Il luogo classico da cui si fa spesso iniziare la consapevolezza teorica dell’alterità è il Sofista di Platone. Il contesto è costituito dalla discussione della nozione di essere, riguardo alla quale si intende infrangere l’assoluta univocità sostenuta da Parmenide. Tale infrazione avviene grazie ad una discussione della nozione di «ciò che non è» (me ón), che secondo l’analisi dello Straniero di Elèa dovrebbe fungere da cardine della distinzione tra generi diversi che purtuttavia, ciascuno a modo suo, tutti quanti sono. Ora, come è possibile ammettere che qualcosa contemporaneamente sia e non sia? Il fulcro della risposta consiste nel rifiutare di considerare «ciò che non è» il contrario (enantíon) di «ciò che è»: esso non è un predicato assoluto, ma piuttosto relazionale, ed esprime un rapporto tra generi. Esso dunque deve avere il senso de «l’altro» (tháteron). Ecco il brano in cui vengono tratte e riassunte le conclusioni più importanti dell’analisi:
Dunque nessuno dica che noi, pur dichiarando «ciò che non è» il contrario di «ciò che è», osiamo dire che esso «è». Infatti noi da tempo riguardo ad un qualche suo contrario abbiamo lasciato perdere se è oppure no, se abbia discorso o sia pure assolutamente indicibile: ciò che ora abbiamo detto essere «ciò che non è», o qualcuno ci confuti e ci dica che non abbiamo detto bene, o finché non è capace anche lui deve dire come diciamo noi: che i generi si mescolano l’un con l’altro, e che «ciò che è» e «l’altro» attraversano tutti i generi e si attraversano reciprocamente; che «l’altro», partecipando di ciò che è, grazie a questa partecipazione «è», non però ciò di cui partecipa, ma altra cosa, ed essendo altro da «ciò che è» appare chiarissimo che è necessariamente qualcosa che «non è»; che «ciò che è» da parte sua partecipando de «l’altro» è altro dai restanti generi, ed essendo altro da tutti quanti quei generi non è né ciascuno di essi né tutti assieme, ma solo sé stesso, cosicché «ciò che è» indubitabilmente in mille modi e in mille relazioni «non è», e gli altri generi, uno alla volta e tutti assieme, in molti modi «sono», in molti modi «non sono» (Soph. 258 e 6 — 259 b 6).
In questa pagina c’interessa solo notare con quanta difficoltà venga raggiunto quel dato che al pensiero umano, di sua natura unificante, non solo non appare affatto originario, ma sembra costituire un elemento di disturbo: il fatto cioè che la realtà sia frantumata, distinta, varia di quella multiformità che pare sfiorare la contraddizione. Da qui la necessità di intendere anche questa frammentazione attraverso la coerenza di un genere unico: il genere appunto de «l’altro», un genere relazionale per partecipazione al quale anche gli altri generi mantengono la propria distinzione essenziale e dunque la propria individualità. Solo «l’altro» evita quel collasso in una entità unica che è il pericolo che Platone vede in agguato laddove eleaticamente non si voglia rinunciare al ruolo fondante dell’immobilità dell’essere.
È tutto ciò di aiuto per chiarire il problema dell’alterità personale? Certamente può esserlo, certamente viene offerto un modello concettuale di primaria importanza. Ma bisogna rilevare che il problema affrontato da Platone è un altro: egli infatti non vuole chiarire e fondare la differenza tra individui di una stessa specie, ma tra differenti speci (o, nella terminologia qui usata, tra diversi generi). La differenza, per esempio, tra l’uomo e il cavallo, ma non la differenza tra questo e quell’uomo. Qui non si è più all’interno della struttura gerarchica del mondo delle idee, che implica vari livelli di distinzione; si tratta piuttosto di uscire dal mondo delle idee per entrare nel mondo sensibile, di uscire dal mondo eterno e perfettamente determinato per entrare nel regno della mutabilità e dell’indefinito, dove manca qualsiasi criterio non empirico per predeterminare la molteplicità e la distinzione individuale. Questa è evidentemente la distinzione tra persone, quella che permette di dire che l’una è diversa dall’altra.
Siamo così arrivati a quello che classicamente è noto come problema del principio d’individuazione. Solo quando c’è qualche cosa che mi permette di distinguere all’interno della stessa specie un individuo dall’altro ha senso parlare e riflettere sull’alterità. Di più ancora: solo quando c’è qualcosa che fondi, che giustifichi, che dia ragione della sussistenza autonoma dell’individuo, l’alterità assume senso. Da questo punto di vista la prospettiva del Sofista può essere ripresa e declinata per i nostri scopi: l’altro è il nome che permette alle cose distinte di non collassare, senza negarne d’altra parte, ma anzi esigendone, il raggruppamento organico in reti di relazioni reciproche: «“ciò che è” e “l’altro” attraversano — come visto — tutti i generi e si attraversano reciprocamente», ma ciò significa che sussistenza e individualità permettono la nascita di rapporti che restituiscono il significato stesso di ciascun elemento in gioco. Come ogni idea si precisa nell’essere o non essere qualche altra cosa, e proprio in ciò consiste la sua esistenza, così ogni persona si individualizza attraverso le relazioni instaurate con il mondo circostante e soprattutto con le altre persone. Principio d’individuazione e principio di alterità paiono insomma quasi coincidere.
2. La materia, principio d’individuazione
Dunque, qual è il principio d’individuazione? Una lunga tradizione di pensiero ha risposto che si tratta della materia. Questa tradizione comincia senza dubbio da Platone, e il punto di riferimento questa volta è il Timeo. È in questo grande dialogo che per la prima volta viene affrontato con tanto dettaglio il problema del mondo sensibile, nel quale appunto le cose si presentano sempre nella loro singolarità e moltiplicabilità indefinita, contrapposte in ciò al mondo ideale nel quale ogni ente possiede la perfezione dell’unicità universale. Sono diversi i passi in cui Platone tenta di chiarire quale sia il fondamento di questa sostanziale differenza, che pur non è assoluta e incolmabile in quanto sempre attraversata da un reciproco riferimento. La varietà dei tentativi di chiarimento è già da sola un chiaro indizio della difficoltà che Platone percepiva in tale problema. Ecco uno dei passi più interessanti, in cui si tenta di risolvere la difficoltà ricorrendo ad un paragone:
Se qualcuno plasmando in oro tutte le figure non cessasse di trasformare ciascuna in tutte quante le altre, quando uno ne indicasse una e domandasse che cosa mai è, sarebbe di gran lunga più sicuro per la verità dire che è oro, ma del triangolo e di tutte quante le altre figure che in esso sono sorte, non bisogna mai dire che sono, perché mentre sono poste si mutano, e se volesse accettare con una certa sicurezza come risposta che hanno una tale qualità, potremmo essere contenti.
Lo stesso discorso vale anche per la natura che riceve tutti i corpi. Bisogna dire che essa è sempre la stessa cosa, perché non esce affatto dalla propria potenzialità. Infatti essa riceve sempre tutte le cose, e non ha preso mai per nessuna strada e in nessuna maniera nessuna forma simile ad alcuna delle cose che entrano in essa. Infatti, per natura essa sta come materiale da impronta per ogni cosa, mossa e informata dalle cose che vi entrano, e appare a causa di esse ora di una qualità, ora di un’altra. E le cose che entrano e che escono sono imitazioni delle cose che sono sempre, improntate da esse in un certo modo difficile da spiegare e meraviglioso, del quale dopo ci occuperemo (Tim. 50 a 5 — c 6).
Di fronte all’unicità dello «stampo», cioè della realtà eterna, sta dunque l’indeterminazione di una «natura» pronta ad accogliere — mai però stabilmente e perfettamente — forme e qualità sempre differenti. Platone non denomina «materia» (cioè hýle) questa natura indefinita, ma questo è il termine interpretante che s’imporrà da Aristotele in poi. Si tratta in realtà di un vocabolo che viene usato in forza di una metafora: la hýle (così come del resto la materia latina) è originariamente il «legname», con il quale può essere portata a termine una qualsiasi opera, a seconda del progetto perseguito dall’artefice. Ora, per Platone senza questa «materia prima» sarebbe impossibile che gli esemplari eterni e unici dessero esistenza a differenti individualità che mantengano l’una nei confronti dell’altra una relazione di alterità.
Anche in Aristotele questa concezione talvolta affiora. Il passo forse più significativo si trova nella Metafisica, e curiosamente in un contesto di critica a Platone, del quale viene respinta — qui come in molti altri luoghi — il ruolo esemplare delle idéai o éide:
E per alcune cose è anche evidente che ciò che genera è tale quale ciò che viene generato, ma non è la stessa cosa né una cosa unica per il numero, ma per l’aspetto (éidei), come nelle [nascite] naturali (infatti un uomo genera un uomo), a meno che nasca qualcosa contro natura … . Cosicché è evidente che non c’è nessun bisogno di presentare l’aspetto come modello (infatti soprattutto in queste cose sarebbero richieste, perché soprattutto queste sono esistenze), ma è sufficiente che ciò che genera produca e sia causa della [presenza dell]’aspetto nella materia. E il tutto, ormai, è l’aspetto di questa qualità in questa carne e queste ossa, Callia e Socrate: e sono altro a causa della materia (infatti è altra), ma la stessa cosa per l’aspetto (infatti l’aspetto è individuo) (Metaph. VII, 8 1033 b29 — 1034 a8).
Ma la teorizzazione che è rimasta paradigmatica si deve a Tommaso d’Aquino, il quale parla esplicitamente di principio d’individuazione e seguendo Avicenna introduce alcune ulteriori precisazioni:
Ma poiché la materia è il principio d’individuazione, da ciò sembra forse seguire che l’essenza (che in sé abbraccia insieme materia e forma) sia solo particolare e non universale. Da ciò seguirebbe che le cose universali non hanno definizione, se l’essenza è ciò che viene significato tramite la definizione. E dunque bisogna sapere che non la materia presa in qualsiasi senso è il principio d’individuazione, ma solo la materia designata (materia signata). E dico materia designata quella considerata sotto determinate dimensioni. Ma questa materia non viene posta nella definizione dell’uomo in quanto è uomo, ma verrebbe posta nella definizione di Socrate (se Socrate avesse definizione). Nella definizione dell’uomo invece viene posta la materia non designata; infatti nella definizione dell’uomo non vengono poste queste ossa e questa carne, ma ossa e carne in assoluto, che sono la materia dell’uomo non designata (De ente et essentia, c. 2).
La designazione è insomma la caratteristica per cui la materia è spazializzata, è «indicabile», e dunque si presta a distinguere un individuo dall’altro, ciò che invece la materia in assoluto non può fare. Non è la semplice composizione di materia e forma che conferisce unicità ad un ente, ma il fatto che la prima è di sua natura tale da poter accogliere e significare la singolarità, in un certo spazio e in un certo tempo. Ora, è evidente che nell’uomo la materialità è corporeità, come dice Tommaso «queste ossa e questa carne». Quando si vuole significare l’esistenza singola e irriducibile di una persona umana, non c’è altro modo che indicare il suo corpo che vive: che sussiste nella sua forma, che si muove, che sente, che pensa.
3. Persona e corporeità
Questa linea di pensiero che abbiamo tratteggiato conduce dunque ad una ipotesi di lavoro: per poter pensare l’alterità come qualcosa di costitutivo ed essenziale nella persona umana bisogna pensare immediatamente e prioritariamente la corporeità. La definizione classica di persona, che da Boezio attraversa l’intero Medioevo e in qualche modo continua ad essere il sottofondo di molte discussioni, suona: rationalis naturae individua substantia (De duabus naturis, c. 3 [PL 64, 1343]). La perifrasi più spontanea è: un’essenza che possiede razionalità e che sussiste individualizzata. Secondo la nostra ipotesi, essa potrebbe essere altrettanto bene e forse meglio parafrasata come: un corpo che vive una vita razionale, o potenzialmente razionale.1 Si tratta insomma di porre fin dall’inizio la corporeità come prima espressione di quella singolarità che caratterizza originariamente la persona e anzi quasi la definisce nella sua assoluta unicità: io sperimento me stesso come unico (come Selbst, diremmo in tedesco) a partire dal mio insostituibile corpo, e comprendo gli altri nella loro unicità a partire dalla loro esistenza corporea. Forse, le due cose possono essere comprese anche come reciproche: un corpo che è assolutamente mio incontra altri corpi che sono assolutamente non miei, altrui.
In questa direzione si giunge vicini alla fondazione dell’alterità che Husserl compì nelle Meditazioni cartesiane (§§ 50-54) facendo uso della distinzione tra Leib e Körper, tra corpo immediatamente vissuto nella sua sensibilità, volontarietà e vitalità, e corpo percepito come distante, differente. È questa una polarità non ulteriormente riducibile a concetti più originari, ma che s’impone con la forza di un’evidenza. Vogliamo tuttavia scegliere un altro riferimento, teoreticamente più semplice, ma soprattutto interessante perché dimostra quanto facilmente la rivalutazione del carattere originario della corporeità possa venire inglobata in prospettive di pensiero estranee e quindi sostanzialmente vanificata. Si tratta di Feuerbach, il Feuerbach della «filosofia dell’avvenire», mai venuta e tanto meno venuta quanto più compresa come una forma di positivismo o di piatto «materialismo».2 Una lettura attenta dei Princìpi della filosofia dell’avvenire mostra in effetti come entrambe le prospettive siano sostanzialmente estranee alla sua rivendicazione: che è invece in favore della concretezza, della realtà, della immediatezza. Il punto polemico di confronto è costituito allora da tutto l’arco della filosofia moderna che va da Descartes a Hegel, in cui l’uomo è stato concepito anzitutto come pensiero, e la sussistenza è stata legata all’innegabilità del cogito (o dell’Ich denke, o del Geist). Ma proprio questa sussistenza, secondo Feuerbach, scivola inevitabilmente nella generalità, nell’astrazione, se non addirittura nell’impersonalità e nell’irrealtà. Ecco uno dei passi programmaticamente più netti:
La vecchia filosofia aveva come proprio punto di partenza la massima seguente: io sono un essere astratto, un essere esclusivamente pensante, e il corpo non appartiene al mio essere. La nuova, invece, incomincia con quest’altra massima: io sono un essere reale, sensibile, e il corpo appartiene al mio essere, proprio nel senso che il corpo nella sua totalità è il mio stesso io, il mio stesso essere. Di conseguenza, mentre il vecchio filosofo svolgeva il proprio pensiero in una continua contraddizione e in una continua disputa contro i sensi, al fine di difendersi dalle rappresentazioni sensibili, e non contaminare con esse i concetti astratti; la nuova svolge il proprio pensiero in accordo e in pace coi sensi (§ 36).
Altrettanto deciso è il passo in cui Feuerbach abbozza una sorta di apologia del tempo e dello spazio, i quali individualizzano l’esistenza in un modo molto simile alla «designazione» di cui parla Tommaso:
Lo spazio e il tempo non sono semplici forme del mondo fenomenico: sono condizioni essenziali, forme razionali, leggi così dell’essere come del pensiero.
L’esistenza è l’essere primo, la prima forma di determinazione dell’essere. Il primo segno che vi è un essere vivo e reale è nel fatto che «io sono qui». Il dito indice mostra la strada che conduce dal nulla all’essere. Il «qui» è il primo limite, la prima separazione. … La domanda della coscienza che si risveglia, la prima domanda della filosofia è la seguente: «Dove sono?» … Pensare realmente vuol dire pensare nello spazio e nel tempo (§ 44).
Può questa prospettiva essere designata come «materialismo»? Certamente il termine va respinto quando la «materia» venga intesa nel quadro della contrapposizione con lo spirito. Scegliere di partire da quella «materia umana» che è il corpo non dice ancora nulla sulla realtà e sul ruolo di uno spirito non materiale. Allo stesso modo sarebbe senza dubbio frettoloso identificare senz’altro la «materia umana» con ciò che le scienze positive possono dirci: il concetto stesso di «materia» è tra l’altro uno dei più problematici a livello fisico, ed è scorretto dichiarare irrilevanti le difficoltà che in quella sede vengono sollevate. Ma in realtà, proprio le origini platoniche del concetto di materia che tentiamo di usare mettono in guardia dall’uso di questa prospettiva: la materia di cui si parla non è qualcosa di cui indicare le caratteristiche sperimentabili (per Platone si tratta anzi dell’indeterminato per eccellenza), ma si identifica proprio con l’individualità delle cose, con il loro sussistere concreto e verificabile, con la tensione tra l’éidos che posseggono ed esprimono e la caducità che immancabilmente le accompagna.
In questo senso è lecito parlare di un «materialismo della persona»: la persona umana si offre anzitutto come un corpo vivente, e ciò significa che essa viene esperita (in prima, seconda o terza persona) come una individualità mutevole e però esistente, fragile e però razionale. Togliere la materia, o anche togliere lo spazio e il tempo, significa dunque togliere la persona umana (come ben vide anche Schopenhauer, seguace della dottrina scolastica e tardo-scolastica dell’individuazione). Ciò — notiamolo — è vero in grande misura anche nella prospettiva di Tommaso: ammettere un’anima immateriale sussistente non toglie che la moltiplicazione individuale è resa possibile solo dall’incarnazione dell’uomo, giacché non è ammissibile che un’anima individuale venga creata indipendentemente dal corpo in cui si incarna (o anche solo prima di esso). L’essere individuale dell’uomo deriva del tutto dalla sua corporeità.3
Ma a questo punto ha senso parlare ancora di principium individuationis? In effetti, il problema dell’individuazione si pone solo quando viene ammessa come realtà primitiva l’universale; bisogna allora spiegare donde questo universale riceva la sua sussistenza particolarizzata. Questa è chiaramente la linea di Platone, e anche di Tommaso nella misura in cui questi accoglie forti motivi neoplatonici nella sua speculazione. Molto di meno, sotto forma di un’incerta eco, tale problema può essere ritrovato in Aristotele, il quale solo di sfuggita cita la hýle come principio d’individualità. Il fatto è che fin dall’inizio la próte ousía, e cioè la prima e immediata espressione dell’esistenza, viene ricercata nel tóde ti, nella «cosa designata», indicabile col dito, spazializzata e materializzata. Ciò diventa tanto più chiaro quanto più si osserva la forza con cui Aristotele rifiuta di assegnare esistenza all’universale:
Ma [ad alcuni] pare che anche l’universale sia soprattutto causa (áition) per alcune cose, e che l’universale sia principio (arché): per questo trattiamo anche di esso. Sembra infatti impossibile che sia esistenza (ousía) qualsiasi cosa detta in universale. Infatti anzitutto è esistenza di ciascuna cosa quella propria a ciascuna cosa, che non appartiene ad altro, ma l’universale è comune: infatti viene detto universale ciò che per natura appartiene a più cose. Di quale dunque ciò sarà esistenza? In realtà o di tutte o di nessuna; ma di tutte non è in grado, e se sarà di una sola, anche le altre saranno questa: infatti le cose la cui esistenza è una cosa unica e il cui essere determinato è una cosa unica, anch’esse sono una cosa unica … Da queste cose per chi indaga è evidente che nessuna delle cose che sussistono in universale è esistenza, e che nessuna delle cose predicate in comune significa qualcosa di designato, ma una certa qualità (Metaph. VII, 13 1038 b6 — 1039 a3).
Insomma: come «sembra che l’esistenza appartenga evidentissimamente ai corpi» (Metaph. VII, 2 1028 b8-9), così anche la pluralità e dunque l’alterità sono dati originari, irrefutabili, che non hanno bisogno in senso proprio di fondazione ma semmai d’interpretazione e chiarimento. Solo per il pensiero «astratto» (direbbe Feuerbach) costituisce un enigma o addirittura un impedimento che dinanzi a me vi sia anche l’altro uomo. Si tratta in realtà di un dato, contemporaneo e necessario alla percezione della mia stessa esistenza. Così come costituisce un dato iniziale e non un incidente il fatto che l’uomo sia originariamente «maschio e femmina», perché non può esistere un corpo che non sia vitalmente determinato in una delle due polarità sessuali.4
4. Sensibilità e ragione dialogica
Le riflessioni finora condotte convergono nell’accordare un privilegio genetico alla sensibilità. È infatti la sensibilità che anzitutto viene collegata alla vita corporea (per quanto essa sia nella sua dinamica ultima sfuggente al soggetto tanto quanto il pensiero stesso), ed è soprattutto la sensibilità che pone subito in un modo circostante che è differente dal soggetto, nel quale sono presenti e viventi e agenti altre persone. Se l’intelletto dell’uomo fosse da solo e in quanto tale in grado di produrre conoscenza, allora si tratterebbe di un intelletto infinito, creatore, la cui spontaneità è già di per sé fonte di realtà; ma l’uomo è un essere finito, che ha necessità di una facoltà recettiva per garantire l’oggettività dei propri concetti. Questa è una delle grandi lezioni della Critica della ragione pura, nella quale Kant non ha esitazioni nel premettere alla logica un’estetica, nel limitare le conoscenze universali ai vincoli delle forme sensibili (o, come egli si esprime, della «possibile esperienza»): una lezione che è anche critica anticipata all’idealismo assoluto.5 Critica consapevole è invece quella che avanza Feuerbach, il quale sottolinea il ruolo che i sensi posseggono nel presentare al pensiero qualcosa di altro da sé, quell’irriducibilmente diverso che solo è in grado di tracciare i confini tra la realtà e la fantasia, fantasia che non cessa d’essere tale pure quando venga esposta nella veste àlgida della speculazione concettuale:
Provare che una cosa esiste è lo stesso che provare che questa cosa non è soltanto il contenuto di un pensiero. Ma è chiaro che una prova siffatta non può essere costruita dallo stesso pensiero. Se ad un oggetto del pensiero si deve riferire l’essere, bisogna riferire al pensiero qualcosa di distinto dal pensiero. … Se si tratta dell’essere di un oggetto, io non posso consultare soltanto me stesso, ma devo interrogare dei testimoni che siano diversi da me in quanto soggetto pensante. Questi testimoni sono i sensi (Princìpi, § 25).
Come qualche riga più sotto verrà detto, i sensi sono dunque «liberali», perché concedono a ciò che mi è attorno, a quanto entra nel mio campo di esperienza, di essere ciò che io stesso sono, cioè un soggetto realmente esistente, un hypokéimenon; solo il pensiero assolutizzato è «intollerante», perché ammette come unica «realtà» quella dei propri predicati o contenuti, ma solo in quanto tali, cioè come propri accidenti. Ma c’è anche qualcosa di più. Non solo i sensi sono i testimoni altri da me che provano l’esistenza, ma permettono anche l’ingresso nell’orizzonte delle altre persone, tramite le quali la nozione di realtà riceve un ulteriore sostegno: l’oggettivamente esistente non è infatti altro che l’intersoggettivamente esistente. Ecco come Feuerbach riprende e rielabora il celebre esempio kantiano:
I talleri immaginari io li ho soltanto nella testa, quelli reali li ho in mano; quelli sono soltanto per me, questi sono anche per gli altri; e possono essere sentiti e veduti: ora, è un fatto che esiste soltanto ciò che è nello stesso tempo per me e per gli altri, quello su cui io e gli altri possiamo accordarci, quello che non è soltanto mio, ma di tutti (Princìpi, § 25).
Siamo così tornati al punto di partenza: la necessità d’intendere in maniera radicale l’alterità aveva fatto scegliere la strada del principio d’individuazione del soggetto; ma esso rimanda alla materia e cioè alla corporeità; ciò che la corporeità porta in primo piano sono i sensi, che soli possono dare la realtà delle cose come differente dall’autoidentità del pensiero; ma i sensi realizzano dunque quell’apertura intenzionale al mondo circostante che è sguardo rivolto alle altre cose e soprattutto alle altre persone il cui accordo mi assicura la realtà oggettiva del mio mondo. Di fatto, proprio in Feuerbach si trovano i germi speculativi di quel pensiero «dialogico» che saranno poi soprattutto richiamati e valorizzati da Martin Buber:6
L’uomo singolo, considerato in sé stesso, non racchiude l’essenza dell’uomo in sé, né in quanto essere morale, né in quanto essere pensante. L’essenza dell’uomo è contenuta soltanto nella comunione, nell’unità dell’uomo con l’uomo: ed è tale unità che si appoggia sulla realtà della differenza tra l’io e il tu (Princìpi, § 59).
Quali conseguenze ha tutto ciò sul concetto di ragione? non rimane essa quasi schiacciata al ruolo di strumento di elaborazione secondaria, se non addirittura ridotta a controparte pericolosa e poco affidabile di una sensibilità infallibile? Tutto ciò sarebbe grave perché significherebbe che la conquista dell’individualità avrebbe fatto perdere l’umanità: l’umanità di un «animale avente discorso», ovvero di una natura rationalis, o anche, come abbiamo prima detto, di un «corpo che vive una vita razionale», e dunque autenticamente umana. In realtà, proprio gli ultimi sviluppi hanno suggerito un’altra possibilità, quella cioè d’intendere la ragione non tanto come la facoltà del «tirar conclusioni», ma come la capacità di dialogare, di convincere, di portare argomenti a favore delle proprie intuizioni. Un’abilità e una prassi, cioè, che richiede originariamente la coesistenza con l’altro, e che solo ad immagine di questa può svilupparsi, secondo l’espressione platonica, come «dialogo dell’anima con sé stessa» (Theaet. 189 e 6-7). È naturale così aspettarci ancora una volta un tono polemico nei confronti della dialettica idealistica:
Ogni dimostrazione dunque non è una mediazione del pensiero nel pensiero e per il pensiero, ma è una mediazione ad opera del linguaggio tra il pensiero, in quanto mio pensiero, e il pensiero dell’altro, in quanto pensiero suo … ; oppure è una mediazione tra l’io e il tu per il riconoscimento dell’identità della ragione; oppure ancora una mediazione, con la quale io trovo conferma del fatto che il mio pensiero non è mio, ma è un pensiero in sé e per sé, il quale, appunto perché tale, può esser tanto mio quanto altrui. … La verità non è mia né tua, ma è universale. È vero soltanto il pensiero in cui l’io e il tu si riuniscono: e questa unione è la conferma, l’indizio, l’affermazione della verità, soltanto perché è già essa stessa la verità (Critica, pp. 15-16).
Nell’ambito razionale va cercata dunque la stessa dinamica che la sensibilità mostra in modo originario: è l’incontro dialogante con gli altri che mi convince della verità di ciò che penso, o viceversa mi confuta, mostrandomi rispettivamente la realtà e l’irrealtà del mio pensiero: «La vera dialettica non è un monologo del pensatore solitario con sé stesso, ma un dialogo tra l’io e il tu» (Princìpi, § 62). La dimostrazione è così l’esito dell’istinto a comunicare e trasmettere la verità, quell’istinto che prende corpo nella prassi dell’insegnamento. Illusoria se non mistificante è la «dialettica» che pretende di essere uno svolgimento solitario e autosufficiente del pensiero.
Questa concezione non è però di per sé connessa ad un fine polemico: al di fuori di esso anzi assume anche maggiore plausibilità. La prospettiva che ci pare più feconda è di carattere storico, e riguarda le stesse origini della nozione di razionalità filosofica. In effetti, è molto difficile individuare la presenza di un lógos razionale (e cioè libero dai legami mistico-aristocratici delle origini) prima del consapevole avvento del diálogos, del confronto argomentante delle idee. Qualche testimonianza platonica riguardo a Socrate presenta una situazione molto chiara: lo scopo dell’uomo è lottare per la verità, nella massima onestà intellettuale, senza presumere di sapere ma accettando sempre la verifica critica delle proprie posizioni. Ecco una significativa dichiarazione che Socrate rivolge a Gorgia:
Almeno io credo che sia necessario che tutti facciamo a gara nel sapere che cosa è vero e che cosa è falso riguardo a ciò che diciamo: infatti è un bene comune per tutti che ciò divenga chiaro. Proseguirò dunque nel discorso, come mi pare che stiano le cose: e se ad uno di voi sembrerà che io mi contraddica riguardo al nostro tema, bisogna che interrompa e confuti. Infatti neanche io dico ciò che dico perché lo so, ma cerco insieme a voi, cosicché, se apparirà che chi discute con me dica qualcosa di importante, io per primo vi consentirò (Gorg. 505 e4 — 506 a6).
E ancora, in uno degli ultimi dialoghi in carcere, Socrate dichiara la sua fedeltà all’ideale della razionalità:
Io, non solo ora ma sempre, sono stato tale da non obbedire dei fatti miei a nient’altro che a quel discorso che a me, ragionando, pare il migliore. Quei discorsi che facevo in passato non posso rinnegarli ora che m’è capitata questa sorte; essi mi paiono più o meno simili, e io li venero e li onoro proprio come prima. E se in questo momento non ne abbiamo di migliori da dire, sappi bene che non sarò d’accordo con te nemmeno se il potere del popolo ci minacciasse, come a bambini, cose ancora maggiori di quelle di adesso: carcere e morte e confisca di beni (Crit. 46 b4 — c6).
Dunque, anche lo svolgimento storico mostra che è l’incontro con l’altra persona il luogo di nascita della razionalità, che il diálogos non è una derivazione del lógos ma al contrario il secondo è il risultato di un’astrazione dal primo. E ritornando alla nostra prospettiva: il corpo che vive una vita razionale è la persona che s’incontra, scambia parole e pensieri alla ricerca del vero, o che — per essere più esatti — mantiene questo ideale di razionalità aperta come télos iscritto nella sua stessa esistenza, anche indipendentemente dalla propria volontà o dalle proprie capacità di realizzarlo concretamente e attualmente. Ed è precisamente questa apertura linguistica e intellettuale al mondo umano circostante che distingue essenzialmente quella individualità materiale che è l’uomo dalle altre individualità non umane o non senzienti o non viventi.
5. Natura e specie
In questo modo però la definizione classica di persona non è ancora completamente recuperata. È vero che entrambi i suoi elementi, «naturae rationalis» e «individua substantia» hanno trovato interpretazione. Ma sembra essere andata perduta la nozione forte di natura: che cosa immediatamente e attualmente distingue l’uomo dal non uomo, che cosa fonda l’unità dell’essere uomo? L’interpretazione della razionalità che abbiamo tentato non dà una risposta sufficiente, perché si pone in una prospettiva teleologica, che di sua natura è atta a dettare compiti ma non ad identificare stati. In altre parole, voler dedurre immediatamente dal «dovere» l’«essere» sarebbe forse una «fallacia moralistica» speculare a quella «naturalistica». Dal fatto che l’uomo deve rispondere della sua razionalità dialogica non si trae nessun criterio immediato per abbracciare nell’unità di una natura l’uomo. L’unica soluzione è allora quella dell’astrazione concettuale?
Ci pare che possa essere percorsa un’altra strada, che conduce molto vicino alla posizione di Aristotele. Il brano prima citato della Metafisica dava già un’indicazione chiara: non c’è alcun bisogno di concepire un éidos separato e paradigmatico, ma nelle nascite (genéseis) naturali «è sufficiente che ciò che genera produca e sia causa della [presenza dell]’aspetto nella materia». Una certa materia non è uomo perché rispecchia il modello eterno, l’«idea» dell’uomo, ma piuttosto perché essa viene informata da un padre e da una madre che sono esseri umani: e questo è il rapporto di generazione. Un altro passo della Metafisica chiarisce come questa nozione di nascita s’innesta di per sé nel concetto di materia:
Le nascite naturali sono quelle delle cose la cui nascita è per natura: ciò da cui nascono è ciò che diciamo «materia», ciò ad opera di cui nascono è una delle cose che sono per natura, ciò che diventano è un uomo o una pianta o qualche altra cosa simile, che soprattutto diciamo essere esistenze (ousíai). Ma tutte quante le cose che nascono o per natura o per tecnica hanno materia: ciascuna di esse infatti può sia essere sia non essere, e questa è in ciascuna la materia. E in generale è natura anche ciò da cui nascono ed è natura ciò per cui nascono (ciò che nasce infatti ha natura, per esempio pianta o animale), ed è natura ciò ad opera di cui nascono e che dal punto di vista dell’aspetto viene detta «di uguale aspetto» (ma questa è in un altro: infatti un uomo genera un [altro] uomo) (Metaph. VII 7, 1032 a15-25).
Padre e madre sono dunque homoeidéis, «dello stesso éidos» rispetto al generato. In questo modo l’éidos cessa d’essere una nozione astratta per indicare la concretezza di una specie vivente, che è unificata dal legame vitale della generazione e della interfecondità (che a sua volta è contemporanea all’esistenza corporea immediatamente sessuata). Uomo è ciò che nasce dall’uomo, non uomo è ciò che nasce dal non uomo. Ancora una volta (così come prima riguardo al concetto di materia) va osservato che queste affermazioni si scontrano presto, e soprattutto oggi, con incertezze e dubbi di ordine scientifico-naturale: siamo già nell’epoca dell’ingegneria genetica, e la naturalezza con cui Aristotele attribuiva la trasmissione dell’éidos ai genitori oggi corre il rischio di parere un’ingenuità.7 E soprattutto: come intendere questa affermazione in un quadro evoluzionistico?
Ci pare però che queste difficoltà non superino quelle che ad ogni passo s’incontrano nella definizione di un’idea di uomo, che viceversa — come tutte le strutture concettuali — offre innumerevoli àditi all’ideologia. È molto facile osservare, ad esempio, che gli stermìni della seconda guerra mondiale sono stati fondati e giustificati su un’idea di uomo, mentre la semplice nozione di specie umana ne avrebbe polverizzato i pretesti. Ma, oltre a queste costatazioni fattuali (che tuttavia hanno il loro peso), la comprensione «vitale» dell’éidos possiede il vantaggio di scaturire da un mondo esperienziale interamente umano e universale, che non si può immaginare soppresso senza contemporaneamente dover pensare estinta o essenzialmente trasmutata l’umanità stessa. L’esperienza della paternità e maternità e della figliolanza, l’esperienza dell’assunzione di un mondo materiale e culturale già dato dalle generazioni passate e la preoccupazione per le future: tutto ciò è il contenuto o almeno il contesto di questa nozione vitale di éidos. Anche indipendentemente da qualsiasi colore emotivo, percepire la corporeità del proprio figlio o del proprio genitore non rischia di essere una apprensione della realtà dell’umanità fenomenologicamente molto più originaria e precisa di qualsiasi nozione ideale?
Tale approccio all’umanità possiede inoltre un ulteriore vantaggio: il fatto che è immediatamente e costitutivamente storico, senza che questa storicità significhi in alcun modo relatività. L’umanità come specie può generarsi solo storicamente, nel rapporto e nel susseguirsi tra diverse generazioni. Proprio in questa successione l’umanità attraversa il tempo e dunque mantiene la sua perpetuità, sia biologica sia culturale. In questo quadro anche il concetto aristotelico di «eternità della specie» può mantenere valore una volta purificato dai suoi risvolti anti-evoluzionistici.8 L’eternità di cui parla Aristotele non è l’immobilità dell’idéa platonica, ma semplicemente la costatazione che ciascun vivente nasce da genitori che posseggono già la sua conformazione vitale, e a sua volta è in grado di trasmettere tale forma ad una generazione futura. La vita non viene dal nulla o dal caos, ma è in grado di costituirsi stabilmente («eternamente») solo nella catena delle nascite. Si tratta insomma di una eternità «storicizzata», il cui contenuto concreto non può essere dedotto ma soltanto indotto, vale a dire ricostruito nell’osservazione attenta e paziente della realtà.
Questa esigenza, in realtà, ci pare che si ripercuota sull’intero percorso che abbiamo tentato di delineare: che cosa significhi materia, corporeità, teleologia razionale e dialogica, non sembra potersi decidere in anticipo. Così come la razionalità, anche la conoscenza di sé sembra essere anzitutto un compito, e forse proprio una prospettiva «materialista» sui generis sottolinea con più forza questa necessità. La materia va sentita, indagata, compresa come un dato di fatto, potenzialmente sempre nuovo e comunque mai classificabile senza residui in concetti. Potrebbe anche essere che questa indagine paziente abbia qualcosa a che fare con quella pietas che porta l’uomo realmente accanto, nello spazio e nel tempo, all’uomo che soffre, e anche con quel desiderio di vicinanza e materialità di cui è tessuto il linguaggio dell’amore.9
Il testo è una rielaborazione dell’intervento al seminario conclusivo del convegno L’altro, l’estraneo, la persona. Condizione ontologica, tipologia morale, intenzionalità ontologica, svoltosi a Roma nei giorni 20-22 ottobre 1994. Questa stesura tiene conto anche della discussione che è seguìta.
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Impostare in maniera compiuta il problema della persona comporterebbe una considerazione della persona divina, e anche angelica, per lo meno in via ipotetica: non va infatti dimenticato che questo concetto ha preso corpo proprio nell’ambito delle discussioni teologiche. A questo esame rinunciamo del tutto, e continueremo a parlare di «persona» laddove dovremmo dire «persona umana». Questa è del resto l’unica per la quale possa essere prodotto un insieme di dati fenomenologicamente evidenti e irrefutabili. Ciò ovviamente non toglie che già in questi dati si possa ricercare un senso che orienti ad un compimento in direzione della persona divina. In questa direzione va per esempio l’«idea dell’infinito», sia nella versione originaria di Descartes, sia nella traduzione «sociale» che ne ha dato Levinas. ↩︎
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Ci riferiamo in particolare a Grundsätze der Philosophie der Zukunft e Kritik zur Hegelschen Philosophie, in Philosophische Kritiken und Grundsätze, Wigand, Leipzig 1846 (trad. it. di Norberto Bobbio, Principî della filosofia dell’avvenire, Einaudi, Torino 1979). Nel seguito queste opere saranno citate in forma abbreviata, indicando il numero di pagina della traduzione italiana. ↩︎
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«Il giudizio sulla moltiplicazione di una cosa è lo stesso del giudizio sul suo essere. Ma è manifesto che l’anima intellettuale, secondo il suo essere, si unisce come forma ad un corpo; e tuttavia, distrutto il corpo, l’anima intellettuale rimane nel suo essere. E per lo stesso motivo la moltiplicazione delle anime è secondo la moltiplicazione dei corpi; e tuttavia, distrutti i corpi, le anime rimangono nel loro essere moltiplicate» (S. Th. I, q. 72, a. 2, ad 2). ↩︎
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Questa costatazione non decide nulla circa un’eventuale distinzione «teleologica» (nel senso che preciseremo) dell’essere uomo e dell’essere donna. Altrimenti detto, il dato corporeo-vitale non ci pare possa dire alcunché d’immediato — e cioè all’infuori di mediazioni almeno psicologiche — circa gli eventuali contenuti differenzianti della razionalità maschile e femminile: il che ci sembra particolarmente importante da ripetere proprio nel momento in cui una salutare attenzione al dato di fatto sessuale nel campo antropologico-filosofico rischia di divenire il veicolo di generalizzazioni discutibili, che per lo più hanno l’origine nella falsa concezione biologica che riconosce alla donna un ruolo puramente «recettivo» (vedi nt. 8). Che tale «recettività» possa essere capovolta dialetticamente nel nome di una virtù (nel senso di accoglienza e ospitalità) non dimostra purtroppo nulla, né può surrogare il difficilissimo compito d’individuare un nesso diretto tra vita razionale e sentimento di sé in quanto essere sessuato. ↩︎
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Vedi Kritik der reinen Vernunft, B 33-36 (sul carattere recettivo della sensibilità), B 71-72 (circa la distinzione tra intuitus originarius e intuitus derivativus), B 146-148 (riguardo al campo di applicabilità dei concetti puri). È alla luce di questi principi che si intendono le pagine in cui Kant assume posizioni di tipo nettamente idealistico: «Noi abbiamo dunque voluto dire che tutta la nostra intuizione non è altro che la rappresentazione di un’apparenza (Erscheinung); che le cose da noi intuite non sono in sé stesse così come le intuiamo, e che i loro rapporti non sono costituiti in sé così come appaiono a noi; che se noi sopprimiamo il nostro soggetto, o anche soltanto la costituzione soggettiva dei sensi in generale, in tal caso tutta quanta la costituzione e tutti i rapporti degli oggetti nello spazio e nel tempo, anzi persino lo spazio e il tempo, sono destinati a svanire. Tutte queste cose, in quanto apparenze, non possono esistere in sé stesse, ma esistono soltanto in noi. Di che cosa mai possa trattarsi, rigua.rdo agli oggetti in sé stessi, separati da tutta questa recettività della nostra sensibilità, ci rimane perfettamente ignoto. Noi non conosciamo altro che il nostro modo di percepire gli oggetti» (B 65). Per questi aspetti del pensiero di Kant rimane ancora molto stimolante la lettura di Martin Heidegger, Kant und das Problem der Metaphysik, Klostermann, Frankfurt a.M. 1983 (trad. it. di Maria Elena Reina, Kant e il problema della metafisica, Laterza, Roma-Bari 1981). ↩︎
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Vedi soprattutto Martin Buber, Das dialogische Prinzip, Schneider, Heidelberg 19845, «Nachwort» (trad. it. di Anna Maria Pastore, Il principio dialogico e altri saggi, San Paolo, Cinisello Balsamo 1993, «Postfazione», pp. 319-332). Il riconoscimento di Buber non manca tuttavia di forti elementi critici: «Evidentemente sommerso da una di quelle onde d’entusiasmo geniale che vanno e vengono, Feuerbach scrive quella frase sul “mistero della necessità del tu per l’io”, che ha evidentemente per lui il carattere della definitività e a cui è sempre rimasto fermo, senza neppure avere cercato di andare oltre: “l’uomo preso per sé è uomo (nel senso usuale del termine); l’uomo insieme all’uomo — l’unità di io e tu — è dio”. Qui ha trovato terreno solido il punto di partenza del nuovo modo di pensare, ma nello stesso istante è passato nell’indeterminatezza di una cattiva mistica, dove il filosofo non può più aspettarsi di trovare un terreno capace di sorreggerlo. … Egli introduce una costruzione pseudomistica, da cui né egli stesso né qualsiasi altro dopo di lui ha potuto ricavare un vero contenuto» (p. 320). Tali critiche si situano tuttavia in un ambito concettuale che resterà fuori dalle nostre riflessioni. ↩︎
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La trasmissione veniva per esattezza attribuita al solo padre: la madre era pensata infatti in quanto semplice fornitrice di «materia» (vedi De gen. anim. I, 20 729 a 10; II, 4 738 b 23). Per avere un’idea del contesto ideologico di questa affermazione, si può leggere sulla sua scìa Tommaso d’Aquino, S. Th. II/2, q. 26, a. 10: «Utrum homo magis debeat diligere matrem quam patrem»: «Parlando di per sé, il padre dev’essere amato più della madre. Infatti padre e madre sono amati come principi dell’origine naturale. Ma il padre ha carattere di principio più eccellente della madre: perché il padre è principio a modo di agente, mentre la madre più che altro a modo di paziente e materia». Tale concezione conduceva del resto a problemi pressoché insolubili riguardo all’ipotesi di una vita umana perfetta e immune dal peccato (quindi «maschile»!). Come sarebbe potuta avvenire la generazione di donne e dunque la perpetuazione della specie? ↩︎
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Tali risvolti sono del resto evidentemente preterintenzionali: Aristotele non poteva certo contestare Darwin quando affermava che le specie viventi sono eterne, o più esattamente «perpetue» (aídia). Quest’ovvietà va tenuta presente per individuare il contenuto positivo di questa nozione, che continua ad essere valida in quell’ambito che è l’attuale esperienza storica dell’uomo, e che mantiene un suo senso (cioè la continuità del vincolo generativo) anche nella più ortodossa visione evoluzionistica. ↩︎
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La prospettiva che abbiamo tentato di abbozzare si presta anche ad interpretare molti elementi della tradizione ebraico-cristiana. Per limitarci ad alcuni elementi biblici: l’uomo è creato da «polvere» (’aphar), anzi «polvere è e in polvere tornerà» (non esiste un’anima preesistente al corpo); l’uomo come collettività (’adam) è pensato nella continuità delle generazioni (toledot), nelle quali si genera a propria «immagine e somiglianza»; il destino dell’uomo, e dunque la piena realizzazione del télos della persona, è pensato come resurrezione corporea (vedi Tommaso, S. Th. I/II, q. 4, a. 5-6); l’incontro definitivo tra Dio e l’umanità è pensata come assunzione della corporeità umana («ho lógos sárx egéneto», Ioh. 1,14), che proprio per questo è piena assunzione di umanità (contro il docetismo); la manifestazione della verità dell’uomo e (in essa) della verità di Dio avviene nella oikonomía storica. La difficoltà più grande è certamente nei confronti del concetto di anima immortale, una difficoltà che viene semplicemente elusa quando è indebitamente relegata al problema dell’inculturazione ellenistica. Se la persona umana è «corpo che vive una vita razionale», è possibile pensare una sopravvivenza oltre la dissoluzione organica? Ma d’altro canto: non è possibile una comprensione passiva dell’anima, che la intenda cioè come l’essere-plasmata, voluta e amata della polvere che è il corpo umano, una passività che proprio a causa del télos della resurrezione corporea non è interrotta dalla dissoluzione corporea? In altre parole: l’immortalità dell’anima come presupposto ovvero (in ordine cognoscendi) conseguenza della resurrezione dei corpi. ↩︎