Johann Gottlieb Fichte, Die späten wissenschaftlichen Vorlesungen. Studienausgabe vol. III; Hrsg. v. Hans Georg von Manz, Erich Fuchs, Reinhard Lauth u. Ives Radrizzani, Frommann-Holzboog Verlag, Stuttgart 2012.
Il presente volume è il terzo della serie Studientexte, iniziata da alcuni anni dagli editori di Fichte al fine di rendere più accessibili al pubblico degli studiosi le opere composte dal filosofo negli ultimi anni della sua vita. Tale serie quindi riprende e integra con alcune modifiche il pregevole pluridecennale lavoro compiuto nella pubblicazione degli ultimi volumi della II serie della Gesamtausgabe, l’edizione completa delle opere di Fichte che contiene i volumi del Nachlass, le opere non pubblicate in vita dal filosofo di Rammenau.1
L’intento che ha animato i curatori della Studienausgabe non è solo quello di rendere più accessibile la Gesamtausgabe, ma, in linea con lo stile «prospettivista» della scuola di Monaco ispirata da Lauth e portata avanti in Germania da Fuchs, Radrizzani, von Manz (e animata in Italia da Ivaldo), mira ad essere una edizione rivista della edizione completa nella sua prima e più illustre versione, che per questi tre testi in particolare risale ormai a quasi dieci anni fa. Questo alla luce dell’avvenuto completamento dell’edizione completa, connesso con la conclusione della versione completa delle più complete Kollegnachschriften, cioè degli appunti presi dagli allievi di Fichte a lezione. Tale completamento ha completato e integrato la sistematizzazione dell’intero corpus dei testi di Fichte che è stato possibile reperire in Germania, ma anche dagli appunti di suoi allievi la cui influenza e il cui lascito manoscritto si è sparso per il mondo intero, come nel caso di Krause. L’inclusione di un numero ancora maggiore di Kollegnachschriften rende più agevole ricostruire la storia degli effetti dell’insegnamento di Fichte, aiuta ad esempio a comprendere con maggior chiarezza cosa abbia realmente trattato Fichte nelle sue lezioni a Berlino e quale parte del suo insegnamento sia stato invece lasciato manoscritto, senza quindi poter influenzare i suoi contemporanei, siano essi seguaci o critici del sistema della Dottrina della scienza.
In particolare questo volume raccoglie tre densi scritti, due dei quali rappresentano gli scritti su cui si basarono i corsi tenuti presso l’Università di Berlino relativi a due scienze del quintuplice sistema della dottrina della scienza, e precisamente le lezioni sulla dottrina del diritto (Rechtslehre) del 1812 e sulla dottrina morale (Sittenlehre) del 1812. Queste lezioni sono introdotte dalle lezioni sulla destinazione del dotto (Über die Bestimmung des Gelehrten) del 1811; il testo delle lezioni è preceduto dalla introduzione del curatore Radrizzani, che rende chiari i principi editoriali e gli intenti e il metodo di questa edizione, che non ha di mira la riproposizione degli originali degli appunti di Fichte, come nei testi contenuti nel volume II, 13 della edizione maggiore: lo scopo è favorire lo studio della dottrina di Fichte, e la maggior chiarezza viene perseguita attraverso l’alleggerimento dell’apparato critico e l’integrazione dei punti oscuri delle lezioni del 1812 alla luce dei testi del Diritto naturale del 1796 e la Dottrina morale del 1798.
Tutte e tre le serie di lezioni pubblicate in questo volume riprendono tre celebri opere dei primi anni di insegnamento di Fichte nel periodo cosiddetto «jenese», elaborandone e problematizzandone la struttura e i contenuti. Si tratta del Diritto naturale del 1796, La Dottrina morale del 1798 e la Destinazione del dotto del 1794. Questa ultima opera fu ripetuta più volte da Fichte, che vi vedeva una utile concretizzazione della propria dottrina: i corsi di lezioni furono tenuti a Jena e a Berlino, ma anche ad Erlangen istituendo una connessione originaria tra l’essenza del dotto e le sue manifestazioni nel dominio della libertà. Del resto fin dalla prima versione della Destinazione si ha una chiara esplicitazione dell’inscindibile rapporto tra il dotto e la società degli uomini, che gli conferisce la sua dignità intesa sempre come compito: «Quelle conoscenze che egli ha acquisito per la società, il dotto deve ora effettivamente applicarle a vantaggio della società; deve condurre gli uomini alla coscienza dei loro veri bisogni e istruirli sui mezzi adatti per soddisfarli. C’è in tutti gli uomini un sentimento del vero, che certo da solo non basta, ma dev’essere sviluppato, saggiato, raffinato; e far ciò è appunto compito del dotto. » I diversi Io che compongono l’umana società si limitano reciprocamente nella concretezza e interagiscono secondo le strutture della azione reciproca (Wechselwirkung) teorizzata da Kant nella sua tavola delle dodici categorie quale terza categoria di relazione. L’azione reciproca assurge al primo posto nella Dottrina della scienza nova methodo e in questa esposizione del sistema si finalizza e si accompagna a un concetto di scopo: per raggiungere la libertà devono cooperare insieme all’azione, da questa cooperazione nascono tre tipi di comunità: la comunità etica della Chiesa, che ritornerà in tutte le opere successive di Fichte, fino alla Staatslehre (Dottrina dello Stato) del 1813; la comunità politica dello Stato, nella quale i corpi vengono organizzati secondo il Diritto; la comunità dei dotti che platonicamente governa entrambe, nel senso di essere generata dalla prima e di costituire la classe di coloro i quali possono fornire un contenuto al concetto di scopo. La comunità dei dotti è una classe particolare in cui il dotto ha una missione precisa, che è quella di ricercare la perfezione morale e tale missione è possibile solo ai dotti. Di converso (anche qui si ha una relazione di reciprocità) il dotto si costituisce geneticamente e originariamente come tale in relazione alla società in cui vive.
Una linea interpretativa ormai superata fino agli anni ’60 del XX secolo tendeva a dividere la produzione fichtiana in due fasi, utilizzando come momento decisivo del mutamento di orizzonte l’Atheismusstreit. Il «primo» Fichte avrebbe focalizzato la sua attenzione sulla riflessione ed elaborato un sistema dell’autocoscienza, mentre il «secondo» Fichte, a partire dalla Bestimmung des Menschen (1800), sposterebbe la sua attenzione sulla filosofia dell’assoluto, sul rapporto tra la finitezza e la divinità. Già Pareyson poteva affermare che questo paradigma andava superato.2 L’opera della Gesamtausgabe condotta per cinquanta anni con acribia da Reinhard Lauth ha portato a un rovesciamento di tale paradigma, condiviso dai collaboratori dell’edizione critica, gli stessi che hanno curato questa versione rivista e semplificata dell’edizione dei testi degli anni 1811-1812. Uno dei cardini che hanno guidato la nuova Fichte-Forschung nel mutare il paradigma esegetico è proprio la nozione di riflesso. Al riguardo afferma Ivaldo: «Fichte realizza l’impresa di elaborare una dottrina delle determinazioni trascendentali di un mondo della «natura» e degli esseri razionali attraverso uno svolgimento radicale delle potenzialità del «riflesso», ovvero della tendenza autoformativa della ragione, (ciò che indica subito la differenza qualitativa del punto di vista trascendentale del «riflesso» dal punto di vista della «riflessione» come facoltà soggettiva, cui i sistemi dell’idealismo credono a torto appartenga la Wissenschaftslehre) ».3 È il riflesso a consentire la riflessione, e quindi l’autocoscienza muove dal riflesso.
L’assoluto per la prima dottrina della scienza è un assoluto pratico, che forma attraverso l’invito l’agire moralmente qualificato del singolo, il quale tramite il proprio agire si relaziona alla comunità. La prospettiva della dottrina della scienza successiva muta, in quanto l’assoluto si presenta come manifestatesi in quanto conoscibile, e in questa sua manifestazione dà forma agli schemi della conoscenza dell’io. L’io nelle esposizioni della dottrina della scienza successive a quella del 1801/2 compare sempre in una posizione successiva negli schemi deduttivi, e la problematica della manifestazione dell’assoluto ha una posizione sempre anteriore nell’esposizione del sistema. La nostra tesi non è naturalmente quella di una cesura tra l’esposizione jenese e quelle successive, ma l’affermazione di una elevazione dell’analisi che trasforma l’assoluto da semplicemente pratico (l’assoluto invita all’agire determinato ma la relazione conoscitiva tra l’io e il non io è costruita dal soggetto) ad assoluto che si fa conoscere (tramite gli schemi della sua manifestazione). L’insieme degli schemi della manifestazione, questa è la nostra tesi, costituisce l’invito al sapere assoluto che l’assoluto rivolge al soggetto.
Nel plesso Dottrina della scienza nova methodo 1796/99 — Esposizione della dottrina della scienza 1801/2 si compie una ulteriore rivoluzione nella filosofia trascendentale della dottrina della scienza, che ne conferma la continuità nel radicalizzarsi dell’analisi. La considerazione dell’assoluto è diventata praticoteoretica in quanto l’assoluto si fa conoscere attraverso l’invito ad un agire pratico e attraverso un invito al sapere. Consideriamo un plesso unico queste due esposizioni, pensate entrambe per una pubblicazione mai effettuata, che ruotano sull’asse dell’Atheismusstreit e che si stendono su un arco di sei anni: le consideriamo un plesso unitario perché le parti di cui sono composte singolarmente ricevono il loro senso da una visione d’insieme delle due opere, un senso che si può cogliere compiutamente avendole presenti entrambe, e che si perde se le si considerano in maniera scissa. In questo plesso si illumina in particolare la visibilità parergonale4 propria dell’opera di Fichte, cioè il considerare un sapere o un’azione dalla pluralità dei punti di vista possibili, nel continuo che si estende dalla monade soggettiva fino al punto di vista dell’assoluto inteso come Dio.5
Il volere morale si coniuga con il simbolo e l’analisi di tale relazione dinamica occupa tutta l’ultima parte dell’Etica 1812. L’umanità organizzata in comunità, attorno a un simbolo, viene indagata nella sezione conclusiva del testo dell’Etica. Le determinazioni storiche dell’umanità sono invece trattate parzialmente nella Dottrina dello Stato del 1813, che muove dalla constatazione della situazione storica quale si era già ormai irrimediabilmente determinata, e che quindi si indirizza solo alla comunità della quale tratta, cioè alla Germania. La dottrina morale invece può riferirsi ed indirizzarsi ad ogni comunità, si può anzi affermare che in essa viene ripreso da un punto di vista filosofico più elevato l’intento programmatico dello Stato commerciale chiuso (1800). La comunità umana è quindi governabile dalla filosofia, che può contenere ogni conoscenza morale, ogni simbolo, ogni rivelazione, ovvero ognuna delle cause dell’agire dei singoli nella comunità, che agiscono in modo conseguente al volere del concetto. Il concetto si mostra quindi come il fondamento del mondo conoscibile e, unitamente, come l’unica facoltà di pensare consequenzialmente l’umanità come uno strumento, cioè come strumento della moralità. Il singolo può quindi sapersi concettualmente, cioè determinarsi, solo se agisce moralmente: è questo il principio che già nella prima dottrina della scienza era chiaro per il soggetto medesimo, ma che ora si mostra nella sua conseguenza dal punto di vista della comunità, cioè della filosofia che ormai si sa praticoteoretica, cioè dottrina della scienza. Per connotare la dottrina della scienza si devono infatti congiungere i due aggettivi di pratico e teoretico,6 che tradizionalmente connotano le due principali ripartizioni della filosofia trascendentale, fin dalle Critiche kantiane. Questo termine composto è un tentativo di esprimere verbalmente il fatto che le due componenti del sistema della dottrina della scienza sono inseparabili, esprimono due punti di vista filosofici sulla stessa attività. A partire dalla Dottrina della scienza nova methodo 1796/99 l’attività viene infatti conosciuta nell’intuizione intellettuale come ritornante in se stessa e non ancora distinta in capacità di agire moralmente giudicabile e in ragione che costituisce il reale tramite la determinazione teorica delle sue strutture. Nel passaggio al punto di vista superiore dell’esame delle manifestazioni dell’assoluto la connotazione di praticoteoretica si applica in primo luogo alla dottrina della scienza che si conosce in quanto tale, come Fichte aveva iniziato a fare nella sua ultima esposizione del 1814, in cui cominciava la trattazione della dottrina dallo schema supremo, l’autocomprensione della dottrina della scienza in quanto tale.
La silloge di testi qui presentati dà conto della complessa e coerente evoluzione del pensiero di Fichte, costituendo un accessibile testo di riferimento per ulteriori auspicabili ricerche da parte della comunità accademica internazionale e da parte di tutti gli studiosi dell’autore e della filosofia trascendentale in genere.
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In particolare Band II, 12: Nachgelassene Schriften 1810-1812. Hrsg. von Reinhard Lauth, Erich Fuchs, Peter K. Schneider und Ives Radrizzani. 1999; Band II, 13: Nachgelassene Schriften 1812. Hrsg. von Reinhard Lauth, Erich Fuchs, Peter K. Schneider, Hans Georg von Manz, Ives Radrizzani und Günter Zöller. 2002. ↩︎
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L. Pareyson, Fichte. Il sistema della libertà, cit.. L’autore mostra come la questione del passaggio sia di notevole complessità, sicuramente non riducibile a una cesura netta o a una Kehre religiosa: come la questione relativa al «primo» e «secondo» Heidegger o al «primo» e «secondo» Wittgenstein la ricerca approfondita mostra come queste siano solo sistemazioni manualistiche. ↩︎
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M. Ivaldo, I principi del sapere. La visione trascendentale di Fichte, Bibliopolis, Napoli 1987, pp. 299-300. ↩︎
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Il termine è utilizzato, in modo più limitato e comunque riferito solo alla filosofia tarda di Fichte ed in particolare alle Tatsachen des Bewusstsein, in J. Wurzer, Fichte’s parergonal visibility; in Brezeale-Rockmore (a cura di), Fichte, Humanities Press, New Jersey 1994, pp. 211-21. ↩︎
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Per questa scala ascensionale (o discensionale) presente nell’opera fichtiana e in particolare nella dottrina della scienza 1801/2 si veda la seconda parte di M. Ivaldo, Fichte e Leibniz. La comprensione trascendentale della monadologia, Guerini e Associati, Milano 2000; essa è dedicata al problema della costituzione di una concreta monadologia trascendentale. ↩︎
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I due termini sono utilizzati da Lauth in connessione nel suo scritto L’idea globale di filosofia in J. G. Fichte, in Lauth, La filosofia trascendentale di J. G. Fichte, Guida, Napoli 1986, pp. 23-68. In questo scritto la dottrina di Fichte è indicata come «teoretico-pratica». Si è scelto di congiungere i termini e di invertirne l’ordine per sottolineare ulteriormente il primato del pratico nel costituirsi del reale. ↩︎