Il problema del nulla nel pensiero di Emil Cioran

1. Introduzione

Descrivere e tratteggiare il carattere precipuo di una genuina esperienza filosofica è un compito sempre arduo. Se poi il discorso filosofico del pensatore che ci si propone di prendere in esame non presenta gli stilemi consueti delle classiche trattazioni filosofiche, l’impresa in questione, da ardua, diviene necessariamente rischiosa. Accostarsi al pensiero e dunque alle opere di Emil M. Cioran1 – il quale è senza ombra di dubbio un pensatore rientrante nella categoria poc’anzi descritta –, provando ad indicarne le coordinate essenziali di riferimento, significa infatti anzitutto assumersi preliminarmente il rischio del fallimento. Parliamo di fallimento perché prendere i frammenti conturbanti ed episodici, a cui il pensatore di Rășinari ha affidato il peso intollerabile delle proprie idiosincrasie esistenziali e metafisiche, e riportarli all’interno di un quadro categorico-concettuale che miri alla sistematicità e allo sviluppo, significa senz’altro distorcere in qualche modo il contenuto e lo scopo dei frammenti medesimi, e quindi fallire. Questo rischio resterebbe in piedi anche qualora si facesse presente che molte opere della produzione cioraniana non si presentano come raccolte di frammenti, di minute, ma come vere e proprie opere filosofico-letterarie compiute. L’insidia resta la stessa, si diceva, perché la forma di tali opere non deve trarre in inganno:2 anche se il pensatore rumeno, in esse, affronta temi e contenuti in modo più organico, più approfondito, mirando pertanto a una sorta di «sviluppo» teoretico-concettuale dei medesimi, tuttavia rimane ben salda alla radice del suo discorrere l’aspirazione audace e parossistica che consiste nell’arrivare a «concepire un solo e unico pensiero […] che mandasse in frantumi l’universo».3 La ricerca del frammento perfetto – potremmo dire – resta quindi l’orizzonte inoltrepassabile all’interno del quale si dipana tutta la vicenda filosofica del pensatore rumeno. E tale frammentarietà rifugge perentoriamente ogni idea di sviluppo e di sistema, per volgersi a contemplare l’impresa di riuscire a fare il più semplicemente e causticamente possibile da specchio alla contraddittorietà del reale. Ecco perché poco sopra parlavamo di fallimento. Perché un qualsiasi studio sistematico, che si prefigga d’imbrigliare concettualmente, teoreticamente, il movimento magmatico e contraddittorio di un pensiero filosofico di una tal sorta, sembra essere destinato al fallimento.

Eppure – e deve senz’altro esserci un «eppure» che in parte giustifichi questo nostro «scrivere» –, riteniamo che il discorso non possa e non debba arrestarsi qui, ovvero all’impossibilità di sistematizzare un pensiero che risulti per tanti e diversi motivi non sistematizzabile. Infatti, seppur consapevoli che in qualche modo non si possa non «tradire» la visione filosofica del Nostro impegnandosi in un lavoro di stampo accademico sul suo pensiero, riteniamo tuttavia che sia proprio «quell’unico pensiero» sopra richiamato, a cui Cioran stesso aspirava, a ribaltare la situazione poc’anzi rappresentata. Diciamo «ribaltare», poiché è proprio di un ribaltamento che si tratta; giacché ogni frammento contenuto nelle opere di Cioran, tendendo idealmente a «quell’unico pensiero», non fa altro che illuminare in diverso modo – e in maniera spesso contraddittoria - il sottosuolo profondamente unitario e coerente nel quale tutta la visione cioraniana si radica. Appare pertanto evidente che la filosofia del frammento, portata avanti dal Nostro, non impedisca in alcun modo di svolgere una riflessione organica su quel fondamento che illumina dal basso, o se si preferisce dall’alto, la molteplicità spesso contraddittoria dei frammenti stessi. Anzi riteniamo che ci si possa spingere anche oltre in tale direzione, affermando che solo una trattazione organica ed adeguata dell’unico tema di fondo, permeante l’intera produzione cioranina, possa giovare a una chiarificazione del lascito filosofico che il pensatore di Rășinari ci ha offerto.

Non potendo qui certo dilungarci sulla totalità delle conseguenze e degli sviluppi teoretici di quanto appena affermato, ci viene nondimeno offerta l’occasione, in questa sede, di accennare al carattere peculiare di quel sottosuolo orientante l’interezza della produzione cioraniana. Volendo riassumere in una battuta, è possibile affermare che il sottosuolo in questione sia rappresentato dalla nientità del tutto. In altri termini; il Niente, il Nulla, il Nihil Absolutum è il (non) fondamento assoluto che incarna l’epicentro intorno a cui ruota tutta la riflessione filosofica di Emil Cioran. Se è vero, come sostiene Martin Heidegger, che «ogni pensatore non pensa che un unico pensiero»,4 allora si può certamente affermare che l’unico pensiero pensato da Cioran sino in fondo, senza compromessi, sia proprio quello intorno al senso del Nulla. Lo scopo del presente articolo è quello di mostrare come il nichilismo compiuto e inaggirabile della meontologia cioraniana, proprio perché pensato nelle sue più estreme e radicali conseguenze, non possa che condurre il pensatore rumeno a degli esiti drammaticamente aporetici.

2. Il diventar nulla nella morte: un’evidenza immediata

Imbattendosi nel pensiero di Emil M. Cioran, subito si viene colti da una vertigine spaventosa e, al medesimo tempo, inebriante. Una vertigine che non è mossa esclusivamente dalle profondità speculative ed esistenziali nelle quali il nostro autore, per mezzo di una prosa sconfinante su un terreno quasi poetico, ci trascina, ma da un dato che è immediatamente tangibile al posarsi dei nostri occhi sulle sue parole così nitide, chiare, taglienti: il dato è la lucidità, condotta fino ad un drammatico disincanto, dello sguardo sul reale e sull’esistente da parte del Nostro.

Il primo pensiero che scaturisce dalla lettura delle pagine del pensatore romeno, infatti, non è propriamente un pensiero riflessivo, non è una riflessione che si compie su quello che si sta leggendo, ma è un colpo che si subisce e si fatica ad incassare. Cioran non vuole dimostrare nulla: non è il suo scopo e, soprattutto, non ne ha bisogno.5 Cioran non riflette sull’esistenza, bensì tenta di riflettere l’esistenza stessa in ogni sua affermazione: egli mostra, non dimostra niente. Tale apparente mancanza di argomentazione delle proprie tesi, per chi si appresta ad uno studio sistematico - come tenta di essere quello qui proposto -, in principio sconcerta, giacché si ha l’impressione di essersi persi in una selva dove tutto sembra essere in contraddizione con tutto, dove ogni sentiero è percorribile e al contempo interrotto, dove la luce stenta a filtrare e ad illuminare il terreno comune sul quale i cespugli, gli alberi e i rovi di quella selva si radicano. Come abbiamo detto poco sopra, il dato che colpisce colui che si imbatte negli scritti di Emil Cioran è la lucidità della visione filosofica dell’autore romeno; tale lucidità, però, è per così dire la forma mediante la quale viene ad essere presentato il contenuto del pensiero, il quale ha il suo avvio e la sua conclusione nella medesima evidenza, poiché tale evidenza è il fondamento, ovvero quel terreno comune di cui sopra, ove vengono a radicarsi tutti i concetti e i temi più cari al nostro pensatore.

Quindi, addentrandosi sempre più a fondo in quella selva piena di rovi e pensieri taglienti, i quali all’inizio appunto sembrano essere poco collegati gli uni con gli altri, ben presto ci si accorge che i piedi calpestano sempre il medesimo suolo e che è proprio da quel suolo che tutte le successive implicazioni della riflessione cioraniana traggono la propria linfa.

L’evidenza - ovvero il contenuto effettivo del suddetto pensiero, nonché il fondamento sul quale l’intero sviluppo del medesimo poggia -, dalla quale tutto parte e a cui tutto ritorna, è che l’essere, nella morte, divenga nulla: l’essere è limitato e dominato dal nulla, e questo dominio assoluto è testimoniato dall’ineludibilità della morte, la quale appunto non è altro che un nome del Nulla.6 La morte, intesa come il diventar nulla da parte dell’ente, non è un risultato al quale si perviene dopo aver riflettuto: essa non è ciò a cui si giunge alla conclusione di un ragionamento o di un sillogismo; essa si dà, si mostra, si impone allo sguardo di chi coglie che «il teschio non diserta mai la maschera che occhieggia, [e che] la vita non è che l’abito a sonagli che il Nulla indossa per tintinnare prima di stracciarselo via di dosso».7

Già nel suo primo libro, Al culmine della disperazione, scritto in Romania all’età di ventidue anni, il concetto del nulla irrompe prepotentemente nelle pagine del giovane Cioran, il quale è tormentato dall’insonnia da lui stesso definita come un «nulla senza tregua».8

Sono due gli elementi cruciali che ci vengono offerti dal nostro pensatore, sin dalle prime pagine di questo suo scritto, circa la sua concezione del nulla. Il primo elemento è l’affermazione, supportata per lui da un’evidenza immediata, della seguente equazione: morte = annullamento dell’essente, ovvero morte = nulla. Il secondo elemento è per così dire la conseguenza che bisogna trarre dal primo: se la morte indica l’annullamento dell’ente, e se tale annullamento è ineludibile in quanto si manifesta continuamente nella processualità del divenire, allora la medesima realtà diveniente (ovvero la vita, l’esistenza) non è altro dal nulla poiché, prima del suo sopraggiungere e dopo il suo dileguare, fa equazione con esso.

In realtà non è corretto parlare di un primo e di un secondo elemento, in quanto per l’appunto entrambi si mostrano simultaneamente, richiamandosi a vicenda. Volendo esplicitare quanto appena affermato, potremmo dire così: la morte (= il nulla) non è altro dalla vita, in quanto tutto ciò che vive, tutto ciò che esiste, è destinato un giorno a perire (= diventare nulla): poiché l’ente diverrà nulla (evidenza immediata), allora l’ente è il nulla.

La caducità è il tratto essenziale che caratterizza l’essente: tutto ciò che esiste, in quanto esiste, è destinato a morire. Il destino della morte non è altro dalla vita stessa, poiché non sopraggiunge dall’esterno bensì è immanente a quest’ultima. E dunque, proprio nel momento in cui colui che esiste coglie l’evidenza della sua futura non-esistenza, allora ecco che quella non-esistenza non può che essere intesa come il definitivo annichilimento (ossia il diventar nulla) dell’essente per mezzo della morte.

«Ogni passo nella vita è un passo nella morte, e il ricordo non è che una traccia del nulla».9 L’addentrarsi nella vita è un progressivo avanzare verso il nulla, venendo dal nulla medesimo. Per comprendere a fondo questa prospettiva, dobbiamo pensare alla vita di ogni istante: ogni secondo che passa è sorto dal nulla e, nel momento stesso in cui stiamo scrivendo o leggendo queste righe, vi si è già rituffato. È impossibile cogliere quell’istante come «un che d’altro» rispetto al nulla dal quale è venuto e nel quale è ripiombato. Il nulla, in questo senso specifico, avvolge e permea l’intero cerchio dell’esperienza, mostrandoci come essa non sia che una mera illusione prospettica.

Chi guarda con occhi disincantati la realtà non può non vedere come essa non sia altro che una maschera del nulla; riuscire a cogliere il paradosso insito dietro al concetto del nulla significa riuscire a comprendere come dietro quella maschera, per l’appunto, non ci sia alcun volto.

3. La necessità dell’illusione per l’esistenza

L’esistenza ha pertanto il suo fondamento nell’illusione: non vi può essere vita senza illusione. Lo sguardo che coglie la verità comprende come dietro il reale, in apparenza ontologicamente consistente e fondato, in realtà vi sia un’infondatezza abissale, ovvero il nulla. Per quanto frughiamo fra le pieghe dell’esistenza, non troveremo mai una sostanzialità, un segreto che stia a fondamento del ridicolo spettacolo nel quale siamo immersi. Tutto ciò che non è morte, che non ha il privilegio di godere dell’immediatezza della sua evidenza, è illusorio e menzognero: ogni cosa, colta come essente, come sussistente, ci illude circa la propria concretezza e stabilità. Ogni cosa, portando in sé la propria morte, è un’apparenza vuota, priva di sostanza; essa reca in sé il principio che l’annichilirà, essa porta con sé il proprio ineludibile nulla.

Il principio dell’illusione risiede nella seguente equazione: tutto ciò che è = non è. Noi guardiamo all’esistenza convinti che essa sia, non rendendoci conto che il nulla alberga in essa. Per rimanere ancorati al piano dell’esistenza, dobbiamo continuare a credere che tale piano sia effettivamente qualcosa e non il nulla. Nel preciso istante in cui il nulla, mediante il fenomeno della morte, si palesa al nostro sguardo, non possiamo non cogliere l’illusorietà di ogni cosa esistente, in quanto essa non è ciò che è, bensì è il nulla.

Tutto quello che compiamo in questa esistenza, dal più semplice respiro all’opera più sublime, è compiuto da noi in virtù di un pregiudizio di fondo. Tale pregiudizio consiste nel ritenere pieno ciò che in realtà è vuoto; il mondo, guardato con gli occhi del nulla, è ontologicamente svuotato di ogni possibile contenuto e, quindi, di ogni possibile senso. Noi agiamo e viviamo in forza di una pienezza che si rivela costantemente illusoria; il semplice respirare ci indica che siamo ancora aggrappati a qualcosa, convinti che quel qualcosa abbia una consistenza e non sia semplicemente il nulla. La nostra esistenza, in questa prospettiva, è in grado di procedere solo nella misura in cui noi saremo capaci di mistificarla, di attribuirle significati che essa non ha mai posseduto.

Dinnanzi alla verità del nulla - e più avanti comprenderemo meglio che cosa indichi propriamente tale verità - ogni forma di esistenza è irrimediabilmente perduta; la nuda verità delle cose non contiene motivazioni per le quali continuare questa mascherata che Cioran ci mostra. Solo la menzogna può supplire all’assenza di un fondamento ontologico e alla mancanza di senso che deriva implicitamente da tale assenza: vivere significa vivere la menzogna e credere alla menzogna che ci circonda.

Fissando il fondo delle cose, invece, scorgiamo l’abisso dietro di esse, il nulla che le insidia e le avvolge; ma, per vivere, non possiamo conformarci a questa visione. Anzi, volendolo dire ancora meglio, potremmo affermare che lo stesso vivere, lo stesso respirare, equivalga già di per se stesso a una non-conformazione a quella visione così esatta, così nitida, così evidente, qual è la visione del nulla insito in ogni ente. L’unico modo per conformarsi alla visione della nullità di ogni essente è quello che risiede nella possibilità di fare equazione con il proprio nulla in ogni istante. Scorgendo il nulla in se stessi e nelle cose, l’unica cosa che possiamo fare è rispondere all’appello silenzioso che da quel medesimo nulla ci giunge, ovvero quello di obliarci in esso, passando per il nostro annichilimento.

Nel momento in cui diveniamo consapevoli della nostra essenza più profonda, dell’essenza del mondo e delle cose in esso contenute, non possiamo non desiderare di scomparire nello stesso nulla dal quale siamo inspiegabilmente apparsi: il solo respiro è un patto con la follia della vita, con la bugia quotidiana che siamo obbligati a perpetrare.

L’ironia della sorte vuole che, nel momento stesso in cui giungiamo sul fondo dell’esistenza, nel momento in cui cogliamo le radici da cui essa trae la sua linfa, siamo costretti a negare quella medesima esistenza, essendo però ormai consapevoli che negarla significa negarci.10

Solo quando saremo arrivati al suddetto grado di negazione, saremmo giunti ad infrangere quel patto che abbiamo sempre segretamente avuto sia con la vita e sia con la morte, quel patto derivante dal pregiudizio di essere qualcosa piuttosto che nulla.11

4. Tutto è nulla: il nulla come abissale «fondamento ontologico»

Ci sentiamo innanzitutto in dovere di precisare che non è possibile parlare, a proposito del pensatore rumeno, in senso proprio, di metafisica; lo stesso Cioran – riteniamo – inorridirebbe a sentire accostato il suo pensiero a ciò che la filosofia occidentale ha inteso con il termine «metafisica». Eppure, nel senso in cui la metafisica si manifesta come quella peculiare riflessione che tenta di abbracciare la verità dell’intero, ed essendo la «verità del nulla» – per Cioran – coestensiva all’interezza del piano dell’esistenza (anche se non vi è un pensiero sistematicamente esplicito circa tale interezza, ma essa è più volte posta come la totalità delle determinazioni divenienti/annichilentisi), possiamo qui parlare in termini di visione e di piano «metafisico», in quanto tale concezione del nulla trascende le singole determinazioni, rendendo così ragione dell’intero medesimo o, per dirla ancora meglio, mostrando come – in definitiva – quest’ultimo non poggi su alcuna ragione (ovvero affermi la sua infondatezza).

«Tutto è apparenza - ma apparenza di che cosa? Del Niente».12 Questo pensiero esprime e sintetizza il sottosuolo su cui poggia l’intera riflessione del pensatore rumeno.

La realtà, nella sua manifestazione, non possiede un’autentica consistenza; il contenuto «reale» di ciò che appare è lo stesso nulla che alberga in ogni ente. Se da un punto di vista esistenziale il nulla è inteso come l’evidenza che annichilisce tutti i contenuti positivi dell’esistere – la vita, infatti, non sarebbe altro che una farsa portata avanti per sfuggire al ridicolo che tale evidenza comporta13 –, da un punto di vista metafisico il nulla non può che significare l’infondatezza su cui poggia ciò che «apparentemente» esiste:14 ciò che è, è «apparentemente», poiché l’essere delle cose è fondato sul nulla, poiché l’essere è il nulla.

Quello che qui vogliamo sottolineare, però, è che non si deve in alcun modo correre il rischio di interpretare il punto di vista esistenziale e quello metafisico come rimandanti a dei «nulla» tra loro differenti: è ovvio – anche se l’ovvietà qui non rende superfluo ricordarlo – che si tratti sempre del medesimo nulla, osservato da angolazioni e prospettive eterogenee. L’evidenza del nulla, inerente alla prospettiva esistenziale, rivela il «senso metafisico» del medesimo, e dunque permette la riflessione circa l’autentico «essere» degli enti (fermo restando che, per l’appunto, si tratti in entrambe le visioni dello stesso, medesimo nulla).

Ciò che tenteremo di mostrare, in questo paragrafo, è in che modo il nulla venga inteso da Cioran come l’abisso da cui proviene l’essere e, in conclusione, come da questo non possa che derivare la «verità» della contraddizione attestata dal piano dell’esperienza. Dunque procederemo innanzitutto con l’analizzare, passo dopo passo, le principali asserzioni riguardanti il «nulla-fondamento».

«Si ha sempre qualcuno sopra di sé; oltre Dio stesso s’innalza il Nulla»:15 anche se qui, in questo specifico pensiero appuntato nei Quaderni, l’affermazione del nulla può sembrare un artificio retorico teso a stupire il lettore, in realtà la «n» maiuscola del termine indica come a muovere la penna del Nostro sia ben altro che la volontà di meravigliare. L’intento di Cioran, che diviene manifesto nel momento in cui si pone la citazione poc’anzi riportata in relazione con altri pensieri simili, è quello di mostrare come il piano dell’essere sia irrimediabilmente risucchiato e sovrastato da quello del nulla. Il nulla non è pensato come totalmente altro dall’essere, come la «semplice» negazione del piano del positivo: esso è piuttosto quel «principio» annichilente dal quale tutto proviene e al quale tutto ritorna, il «principio» a cui paradossalmente l’essere stesso deve la sua esistenza.

Ecco che allora il senso della precedente citazione viene ad acquisire dei contorni più precisi e delineati: il «Nulla», mostratoci da Cioran, assume in un certo qual modo i lineamenti tratteggiati dalle visioni mistiche (Eckhart o San Giovanni della Croce, per citarne due su tutti) e dalle religioni-filosofie orientali, tenendo però sempre presente che tale Nulla, per il Nostro, non è un «modo» per indicare la totale alterità del divino, ma è il divino stesso, il quale viene dunque a coincidere con una tragica ed assoluta assenza: «mi sono talmente addentrato nel Vuoto che basterebbe pochissimo per trasformarlo in Dio».16

Questa nostra interpretazione è avvalorata da una coerenza sottesa a tutte le affermazioni riguardanti il nulla, poiché quest’ultimo rimane sempre l’estremo limite assolutamente invalicabile al quale ogni cosa è tragicamente destinata.

Appare qui quanto mai chiaro come, sia il sentiero percorso dalla mistica (di matrice cristiana) e sia quello battuto dalle religioni orientali possano essere «accettati» fino alla visione del Nulla - qui sostituito con il termine «Vuoto» -, fino all’annichilazione del mondo; ma, tenute ferme le grandissime differenze intercorrenti fra i due sentieri mistico-religiosi, appare altrettanto manifesto come vadano inesorabilmente abbandonati entrambi non appena compiano il passo di attribuire un’assolutezza divinamente salvifica al Nulla di cui sopra.

Il nichilismo di Cioran è talmente estremo e corrosivo che, sovente, sembra sconfinare in quel tipico ardore mistico-religioso al quale è senz’altro accumunabile nella certezza della vacuità del tutto, di cui però sistematicamente e perentoriamente rifiuta l’istanza centrale, ovvero l’affermazione di Dio.

La contraddizione, di cui organicamente vive e in cui respira il suo pensiero, trova requie solo nella concezione univoca del nulla che abbraccia la totalità dell’esistente: il nulla è il concetto ricorrente in tutta la sua produzione, che è posto a fondamento di ogni riflessione e che dona, all’interezza del pensiero stesso, una coerenza a prima «vista» insospettabile.

Nella visione di Cioran, ovunque si volga lo sguardo, si finisce per imbattersi inesorabilmente nel medesimo nulla dal quale si proviene: «ritrovo il Vuoto dappertutto, perché Esso è tutto».17

5. Il misticismo ateo di Cioran: tra l’impossibilità di Dio e un Dio dell’impossibile

Il nulla, nelle pagine di Cioran, può mutare le sue vesti, ma conserva sempre la sua essenza: essendo «presente» in tutto, esso finisce per somigliare inesorabilmente a un «dio alla rovescia», che tutto abbandona e tutto annienta incessantemente. In tal senso la visione del filosofo romeno assume i tratti di una sorta di «mistica atea» che guarda nella direzione di Dio, attraverso il nulla del mondo, senza però mai arrivare a scorgerlo: il nulla che apre alla possibilità di Dio, infatti, è il medesimo nulla che testimonia la sua assenza.18

Il Nulla, per Cioran, è il «contenuto» di quella «visione metafisica» che annienta ogni possibile metafisica; non serve a niente polemizzare con esso19 se «un solo funerale rappresenta il trionfo e insieme il crollo di qualsiasi metafisica».20

Chi è in grado di guardare le cose così come si presentano, non volendo attribuire significati ulteriori a ciò che semplicemente si manifesta, non potrà non cogliere che non vi sia alcuna traccia di salvezza nel nulla del tutto. In questa direzione, ogni sistema, ogni visione filosofica che cerchi di dar ragione dell’esistenza del mondo, aprendo a una regione trascendente, non può che essere ritenuta illusoria:

I grandi sistemi non sono in fondo che brillanti tautologie. […] Semplice proliferazione di termini, sottili spostamenti di significato. Ciò che è resiste alla presa delle parole e l’esperienza intima non ce ne svela niente al di là dell’istante privilegiato e inesprimibile. D’altronde, l’essere stesso non è che una pretesa del Nulla. Si danno definizioni soltanto per disperazione. Ci vuole una formula; anzi ce ne vogliono molte, non fosse che per fornire una giustificazione allo spirito e una facciata al nulla.21

L’essere è una pretesa del nulla o, come affermerà in un altro pensiero, una deviazione da esso:22 è ridicola ogni formula di salvezza, sia essa metafisica o religiosa, che tenti di eludere la sua assoluta sovranità.

Per quanto sottile sia potuto apparire in precedenza, qui si nota palesemente quanto sia netto il confine che separa Cioran dalle visioni mistiche sia cristiane che orientali, le quali fanno comunque del nulla un contenuto «positivo» a cui riferirsi e nel quale trovare «rifugio».

Il percorso di Cioran può essere accumunato al percorso della mistica, fintanto che quest’ultimo conduca al nulla del mondo e di tutte le cose che lo compongono, come si evince dalla seguente asserzione che potrebbe esser fatta propria da più di un mistico: «gli anni hanno fatto di me un esperto del nulla di ogni cosa».23 Il passo ulteriore compiuto dal mistico in direzione di Dio, invece, resta impossibile per Cioran: il nulla è quell’orizzonte dell’assenza, o meglio quel non-orizzonte inoltrepassabile che non può in alcun modo aprire a Dio o essere convertito in Lui. Volendo riassumere quanto appena affermato in una sola battuta, potremmo dire: nella mistica è il nulla che manifesta Dio (naturalmente in modo illusorio per Cioran); qui è Dio che scompare nel Nulla.

L’evidenza del nulla fonda, da un lato, la verità della visione nichilistica e, dall’altro, rivela l’illusorietà della visione mistica, la quale tenta di oltrepassare quella stessa evidenza con l’illusione «suprema», ovvero con l’affermazione di Dio. I mistici non fanno altro che ricreare Dio, l’essere supremo, ascrivendogli tutti gli attributi del nulla. Muovendo dall’unica certezza, dall’unica evidenza incontrovertibile, essi la «violentano» per far emergere, dal fondo della sua assenza abissale, il volto dell’eterno. E siccome quel nulla possiede tutte le caratteristiche che si vorrebbe appartenessero a Dio, poiché la sua assolutezza e la sua eterna «presenza» avvolgono da sempre e per sempre ogni cosa, i mistici trovano la strada agevole per compiere la loro «folle» trasfigurazione.

D’altronde i mistici hanno veduto la verità, in quanto «hanno compreso l’inconveniente di vedere e lasciare le cose tali e quali»;24 eppure hanno voluto convertire quell’evidenza – implicante l’irrevocabile annientamento e l’assoluta perdizione di tutto ciò che è – nell’illusione salvifica per eccellenza, ovvero in Dio. L’effervescenza della loro follia li ha spinti a tanto poiché la disperazione in cui si viene gettati, dalla visione della verità, è troppa per poter essere accettata e vissuta compiutamente: per vivere, dopo la visione del nulla, è necessario essere accecati dalla falsa luce di un’illusione, piuttosto che restare disperatamente nelle tenebre della verità.25

Ma il punto essenziale, ai fini della nostra trattazione, resta quello dell’assolutezza del nulla: Nulla è. Ecco la sentenza, perentoria e irrefutabile, che deve essere pronunciata dopo le «devastazioni della chiaroveggenza». Il tutto è «governato» da un’unica legge, quella che prescrive il suo totale annientamento.

L’assolutezza del nulla, la sua legge imperitura che regola e determina la caducità del tutto, indica la fondamentale infondatezza dell’essere:

Il Niente come base di tutto, la fondamentale non realtà del mondo […] Che cos’è un essere? come si può chiamare essere una figura inevitabilmente votata alla rovina, totalmente instabile e fragile? No, non c’è niente a cui aggrapparsi, da nessuna parte.26

Analogamente a quanto avviene nel pensiero di Giacomo Leopardi,27 al quale il nostro si sente visceralmente legato, il Niente è qui inteso come il «principio» di tutte le cose; non a caso, infatti, anche nell’aforisma sopracitato, il termine è scritto con la «N» maiuscola. Il nulla è il «fondamento» abissale dell’essere, ovvero è ciò che determina e svela la sua angosciante infondatezza.

Non ci sembra allora una forzatura indebita affermare che, nella visione nichilistica cioraniana, il Nulla acquisisca - nel preciso senso che finora ci siamo sforzati di mostrare - le sembianze dell’assoluto, di Dio; un dio, però, con la «d» minuscola, trattandosi di un dio che non salva, ma annienta: un «dio» impossibile, appunto. A tal proposito Cioran può sostenere quanto segue:

tra la mistica e il «nichilismo» la differenza è puramente verbale, voglio dire che ogni esperienza del nulla è di ordine mistico.28

Ogni esperienza del nulla è di «ordine mistico» giacché ogni «incontro con il nulla», essendo quest’ultimo l’unica «realtà» che soggiace all’apparente fantasmagoria mondana, è un incontro con quell’assoluto da cui ogni cosa proviene e a cui fa irrimediabilmente ritorno.

6. L’essenza della temporalità: la follia del tempo

Il continuo annichilimento dell’ente, cui ci si riferiva alla fine del precedente paragrafo, è il fondamento che determina la natura, l’essenza stessa della temporalità; senza il nulla non vi sarebbe alcuna processione temporale, giacché l’essere sarebbe eterno e incorruttibile: la morte, porta d’accesso al nulla, «ci inizia al vero significato della nostra dimensione temporale, poiché, senza la morte, essere nel tempo non significherebbe nulla per noi o tutt’al più quanto essere nell’eternità».29

Il nulla fonda il tempo e il tempo, dalla prospettiva esistenziale, è rivelatore del nulla; l’evidenza immediata che le cose sorgano, esistano e periscano, l’evidenza immediata di un passato «che non è più» e di un futuro «che non è ancora», ci pone dinnanzi agli occhi - altrettanto immediatamente - il nulla da cui siamo venuti e al quale ineluttabilmente siamo destinati. Eliminando il nulla dal piano dell’esperienza, non vi sarebbe alcun futuro che si faccia presente e divenga passato: il tempo non è altro che questo continuo passaggio dal nulla all’essere e dall’essere al nulla; il tempo è questo affaccio sull’abisso del nulla, il quale ci mostra l’erosione perpetrata incessantemente da quest’ultimo a danno dell’essere.

L’essere del tempo, quindi, non è che un momento del nulla; cogliendo l’essenza (immediatamente evidente) della temporalità, si viene inesorabilmente gettati nel baratro della disperazione, poiché ci si affaccia da quella finestra da cui è contemplabile l’assolutezza della nostra precarietà.

Questa assolutezza ed universalità del nulla, il suo carattere per così dire «metafisico», sono pensati a partire dall’esperienza del fluire perpetuo del tempo, del suo circolo continuo di creazione e dissoluzione. L’ossessione del tempo, quindi, non è altro che l’ossessione del nulla: la prima rimanda inesorabilmente alla seconda, e viceversa. Guardare in faccia il tempo significa guardare in faccia il nulla: quest’ultimo è dappertutto, ogni istante che passa tradisce la sua ineludibile presenza.

Pertanto, secondo Cioran, se il nichilismo assume dei contorni quasi «religiosi» nel suo accedere alla visione della nullità del tutto, guardando bene le cose il misticismo, dal canto suo, non è altro dal nichilismo, se non nella sua pretesa illusoria di scorgere, in quel medesimo nulla del tutto, il volto inesistente, impossibile di Dio. Entrambi, però, partono dalla medesima evidenza, dall’unica verità assoluta ed incontrovertibile: la verità del nulla. E così la verità del nulla, scorta tanto dal nichilismo quanto dalla mistica, fa assurgere il primo all’ambito della seconda – svuotandola però ovviamente del suo termine ultimo di riferimento (Dio) – e, inesorabilmente, relega quest’ultima in un territorio comunque sottoposto al dominio dell’illusione, seppur codesta illusione risulti ammantata dalle sue vesti più pregiate: quelle divine.

È chiaro che Cioran, avendo portato il nichilismo fino alle sue (più) estreme conseguenze, sia riuscito a mostrare come ogni connotazione positiva riferibile al nulla non debba che essere perentoriamente rifiutata. Al contempo la sua posizione, proprio per quel carattere d’assolutezza conferito al nulla, incarna una sorta di «mistica atea», tenendo pur sempre presente però che qui la visione «mistica» del nulla – poiché è stata svuotata del suo contenuto più proprio, ovvero dell’apertura alla totale trascendenza divina – non può che condurre Cioran a quello che egli chiama il negativo dell’estasi: la lucidità. Infatti, ne Il funesto demiurgo, il nostro scrive:

sprovvista di sostanza, essa non offre alcun contenuto che sia possibile rinnegare; è vuota, e il vuoto non lo si rinnega: la lucidità è l’equivalente negativo dell’estasi.30

L’assolutezza del nulla, che s’impone al suo sguardo come l’evidenza suprema, lo porta ad essere un «mistico ateo», il quale risulta inesorabilmente schiacciato dal peso delle contraddizioni che questa peculiare condizione implica; da essa, infatti, scaturisce una lucida disperazione la quale, se da un lato rifiuta ogni salvezza, ogni trascendenza, perché non può che ritenerla illusoria, dall’altro comprende quanto sia assurda e inconcepibile l’esistenza senza un principio capace di donarle un senso, salvandola dalla sua folle precarietà. Cioran esprime più e più volte, in vari punti della sua produzione, questo conflitto ossessivo con Dio - o meglio con la sua inconcepibile assenza - tanto da farne un motivo ricorrente e centrale di tutta la propria opera; in tal senso, però, viene invertita la concezione classica, in quanto è Dio che viene concepito come l’ombra - peraltro impossibile - del nulla. Il paradosso, nel quale Cioran da sempre si sente imprigionato, sta tutto in questo pensiero lacerante: «la mia vecchia teoria: non si può vivere né con Dio né senza Dio».31

Con «la mente sfondata dalla lucidità»,32 Cioran spinge il pensiero fino ai confini della ragione quando scrive: «Il dramma di non poter pregare… Pregare chi? Che cosa? Ah! Mio Dio!».33 La vita, adempiendo «a tutte le condizioni richieste dall’Insolubile»,34 porta Cioran ad affermare perentoriamente: «tutto considerato, è impossibile non perdere la ragione».35 La ragione vacilla dinnanzi all’insensatezza, all’inanità dell’esistenza; quest’ultima, a causa della sovranità del nulla che sempre la insedia, risulta talmente tragica da sembrare irreale.

7. Coscienza del nulla e nullità della coscienza: il nulla dietro la tragedia della conoscenza

La riflessione sul significato ed il valore della conoscenza assume, all’interno del quadro delineato circa il problema del nulla nel pensiero del filosofo romeno, un ruolo di capitale importanza. Per Cioran la conoscenza, che può tradursi in questo contesto nell’«avere piena coscienza di», ha una connotazione assolutamente negativa: essa, nelle sue pagine, non possiede mai un valore, un’accezione, una sfumatura positiva.36

Nella coscienza risiede tutta la tragedia di un’esistenza consapevole delle proprie origini e del proprio destino: attraverso la coscienza infatti va in scena il dramma della conoscenza, la quale consiste nell’acquisizione della consapevolezza da parte dell’uomo circa la precarietà dell’esistenza stessa; acquisizione drammatica quest’ultima giacché l’esistenza viene ad esser conosciuta come inesorabilmente insediata dal nulla.

Coscienza e conoscenza rimandano inesorabilmente l’una all’altra, implicandosi vicendevolmente: mentre esse condannano inesorabilmente all’infelicità, incoscienza ed ignoranza – i loro contrari – sono le uniche condizioni in grado di garantire una vita felice.

L’uomo, avendo il monopolio della coscienza, è considerato da Cioran un animale tragico, in quanto è l’unico animale che sia consapevole della propria misera nullità. Ogni essere è «abbandonato alla morte», ma la tragedia dell’uomo consiste nel sapere di esservi abbandonato. L’uomo, rispetto agli altri esseri, è il condannato per eccellenza; non perché agli altri sia riservato un destino diverso dal suo, ma perché, mentre essi vivono nell’incoscienza della loro sorte, egli sa di dover morire e conosce da sempre il tragico epilogo della propria comparsa nell’orizzonte dell’esistenza.

I «salvati» sono salvati solamente a causa della loro incoscienza, della loro ignoranza circa la verità del nulla, la quale abbraccia l’essere delle cose e l’esistenza umana; essi vivono la vita senza quel distacco drammatico e quella frattura insanabile generati dalla comparsa della coscienza. Conoscere l’esistenza significa aver preso coscienza di essa; aver preso coscienza di essa significa aver riflettuto sull’esistenza e sui suoi contenuti; aver riflettuto sull’esistenza e sui suoi contenuti significa aver fatto da specchio al dramma che sempre la segue e mai la abbandona, in quanto totalità continuamente annichilentesi.

Appare chiaro allora che la conoscenza non può che portare al dramma della lucidità, che consiste nel riflettere, per mezzo della coscienza, ciò che l’esistenza è esattamente, senza alcun tipo di orpello o mistificazione: insomma, una maschera del nulla. Gli uomini maggiormente felici, allora, sono coloro i quali non hanno abbandonato l’originaria ingenuità per intraprendere la disastrosa avventura della conoscenza: essi, per questo motivo, non hanno coscienza di essere sospesi, di essere abbandonati al nulla.

L’ingenuità dinnanzi alla vita è un sentimento positivo che, tuttavia, si innesta su una deficienza sul piano coscienziale e conoscitivo. Non si tratta di «dabbenaggine» o «imbecillità», come Cioran tiene a precisare, ma di una non-scissione, di un’aderenza spontanea al flusso vitale, che risulta impossibile per chi ha mangiato dall’«albero della conoscenza».37 Per coloro che assaporano i frutti di quest’albero, diviene impossibile non sentire il retrogusto del nulla alla fine di ogni morso: ogni esperienza e ogni conoscenza, ogni luogo e ogni tempo, celano la medesima vacuità. La coscienza di quella vacuità si frappone fra il soggetto e la vita, separando sempre più l’uno dall’altra, tanto da impedire al primo di riuscire a rimanere inserito nel flusso della seconda; infatti la vita, oggettivata mediante le analisi della coscienza, rivela il suo niente: essa non deve essere conosciuta, ma vissuta38 ingenuamente.

La conoscenza è nefasta per l’uomo poiché rivela come, al fondo delle cose, riposi sempre il nulla. Voler andare alla polpa dell’esistenza significa trovarsi a scoprire l’inesistenza di quella stessa polpa: la realtà, per colui che la analizza e la indaga, non può che rivelarsi come un guscio vuoto, senza alcun contenuto e alcuna sostanza. Se tutto fosse spiegato, analizzato, compreso, all’uomo non rimarrebbe che un grido di disperazione: la follia sarebbe la sola risposta ad un mondo trasparente, il quale lasciasse apparire - senza alcun filtro - tutto il suo nonsenso e tutta la sua vacuità. Colui che non si ferma alle apparenze, colui che vuole conoscere a fondo, non accontentandosi della «maschera», finisce per scoprire l’assenza del volto – o meglio il volto dell’assenza – sotto di essa.

È ormai palese come la coscienza, nella riflessione di Cioran, invece di venir intesa come quel quid che incarna la superiorità dell’uomo nei confronti degli altri esseri, sia altrimenti concepita come la sciagura per eccellenza, poiché è solo per essa che la morte si fa problema.

Tutta la tragedia dell’esistenza è avvertita come tale soltanto perché vi è una coscienza che sa quale sia il contenuto della verità; l’orrore non proviene dall’andare nel nulla, ma dal sapere di esservi irrimediabilmente destinati. La vera conoscenza lacera perché demolisce ogni realtà, mostrando come il concetto stesso di «realtà» sia privo di contenuto; conoscere è vedere che dietro le apparenze si nasconde il nulla. Quanto più l’uomo è spinto al sapere dalla sua inestinguibile sete di conoscenza, tanto più è condannato all’infelicità e alla tragedia.39

In questo contesto, dunque, il sapere classicamente inteso (così come ogni altra forma dell’agire umano, sia essa pratica o teoretica), ovvero le forme che l’uomo ha generato per nascondere o spiegare la follia dell’esistenza, non è che illusoria sovrastruttura: esso, come la cultura, è un fuoco d’artificio dietro il quale vi è il nulla.40

La prassi umana può realizzarsi solo alla luce dell’ignoranza, che sia essa ingenua o simulata; colui che non sa agisce perché è ingenuamente aderente alla vita, mentre colui che sa agisce in quanto dissimula costantemente, a se stesso prima che agli altri, il contenuto della propria conoscenza per continuare a vivere: «Senza illusioni non c’è niente. È strano trovare nell’irrealtà il segreto della realtà».41 Per vivere non bisogna fissare la verità del nulla, ma bisogna offuscare la propria vista a tal punto da ritenere vero e consistente il terribile spettacolo nel quale ci troviamo. Nell’illusione e nel non-sapere risiede il segreto della vita: se cessassimo di scendere a patti con l’illusione, cesseremmo implicitamente di scendere a patti con la vita, non avendo così altra scelta che adeguarci alla verità del nulla, mostrataci dal sapere vero ed originario. Per agire, quindi, serve cedere all’equivoco del non-sapere, alla sua non-verità, la quale permette all’uomo di continuare a invischiarsi nelle ridicole vicende umane.

Il nulla, dunque, se sul piano ontologico indica l’infondatezza e l’annichilimento continuo dell’esistenza, sul piano conoscitivo e coscienziale, analogamente, costituisce quell’impedimento irretente ogni movimento umano, tanto pratico che teoretico, poiché lo rivela nullo in partenza.

Il contenuto della conoscenza, che è la verità del nulla, consta di due momenti che appaiono contraddittori: in un primo momento la conoscenza della verità del nulla è intesa come verità, nel senso proprio del termine, in quanto giunge al cuore della legge che regola tutto l’essere, preso nella sua interezza; in un secondo momento, però, lo stesso nulla assoluto, in quanto non-contenuto inoltrepassabile di quella verità, annulla finanche il medesimo atto conoscitivo che ha permesso di determinare la verità come tale.

Al primo momento compete l’annullamento di tutti i contenuti dell’esistenza in quanto irrimediabilmente avvolti dall’errore. La verità del nulla qui mostra tutta la sua assolutezza; ogni contenuto, ogni atto, l’esistenza medesima devono essere negati sulla base dell’evidenza della verità del nulla, in quanto essi appartengono sì alla verità, ma solo come errore. Cioran chiama questa verità, la verità intesa nel suo senso assoluto - riprendendo il termine da una corrente del tardo buddhismo -, «verità vera»: essa formalmente è verità, in quanto mantiene la forma di quel principio unificante la realtà, dal quale quest’ultima dipende ontologicamente. Il contenuto specifico di questa «verità vera» però - e qui ci veniamo a trovare nel cuore del secondo momento -, che è appunto il nulla, oltre a negare ogni «verità d’errore», comporta la negazione dell’idea stessa di verità, essendo esso pura negatività.42 Ecco perché colui che conosce, colui che sa, appare sempre più distaccato dalla vita e dagli atti: la visione della verità non solo gli fa apparire la realtà e i suoi atti privi di un contenuto intrinseco ma, poiché tale verità nel suo contenuto specifico è una verità che annulla se medesima, rende il suo totale adeguamento ad essa impossibile al di fuori della morte.

In altre parole la verità del nulla permea tutto: ogni atto, ogni momento, ogni cosa; eppure, nonostante la sua evidenza e la sua presenza costante, essa non è mai del tutto afferrabile da parte dell’uomo finché egli permane al di qua della morte, confinato nella vita. Colui che accede alla visione della verità, per tale motivo, rassomiglia a un fantasma che si aggira nell’illusione della storia, estromesso per sempre dagli atti.

La verità del nulla è dunque colta e posta come verità dalla coscienza, che riconosce l’inanità e il vuoto sul fondo di ogni cosa, sul fondo dell’essere stesso. Cionondimeno tale verità, nella sua concretezza e nel suo abissale «movimento», ci attesta la vacuità della coscienza stessa che la pone; ecco perché essa, in questo preciso senso, annulla se medesima: poiché essa è verità, solo in quanto è così intesa dalla coscienza. In altre parole possiamo dire che essa è verità, poiché è «guardata» dal lato della coscienza che la pone come tale; ma essa, proprio in quanto tale, è appunto un puro nulla. È la visione dell’assolutezza del nulla, permessa dalla coscienza, che fa del nulla stesso la verità; ma il nulla, «guardato» dalla sua prospettiva, essendo annullamento di ogni visione, è inesorabilmente annullamento della verità. La coscienza, dunque, pone il nulla a fondamento del tutto, facendo di esso il contenuto della verità; il nulla, però, annichilendo e dissolvendo ogni contenuto nella sua assolutezza, rimuove originariamente lo stesso piano della coscienza che fa del nulla il contenuto della verità, rimuovendo insieme con esso anche il piano della verità. Il nulla, infatti, è quel «piano» che annulla ogni altro piano, è quel vedere che annulla il vedere stesso, è quella verità che annulla la verità stessa.

Ecco perché la verità contemplata da Cioran è una verità tragica: lo è, perché la sua essenza è contraddittoria; essa è insomma il luogo della manifestazione della contraddizione. L’uomo deve annullarsi, deve contraddire se stesso – così come l’essere contraddice se stesso nella sovranità del nulla – se vuole accedere al piano della verità (che non può essere, come abbiamo visto, neanche intesa come tale, poiché essa non si identifica con alcun piano).

La conoscenza della verità, che ha per contenuto il nulla, e quindi sul piano esistenziale la morte, rivela quanto la verità stessa sia dolorosa per l’uomo; la conoscenza, come accade nel pensiero tragico, conduce al dolore e il dolore, viceversa, apre alla conoscenza.43 Cioran, infatti, afferma lapidariamente: «soffrire significa produrre conoscenza».44

La sofferenza, il dolore, è quella dimensione in cui balena la follia della verità, in cui l’uomo (ri)conosce quest’ultima come il proprio inesorabile destino. La verità è follia poiché mostra all’uomo la tragica insensatezza di tutto ciò che vive, la drammatica assurdità del dolore stesso, in quanto sia la vita e sia ovviamente il dolore presente in essa sono precompresi dal solito, ineludibile, nulla (che li rende appunto insensati, giacché nulli). Così il dolore – proprio come il piano della verità – da un lato è l’unica realtà degna di esser chiamata tale, in quanto rappresenta l’unica reale apertura sulla verità dell’esistenza, e dall’altro – proprio in virtù di quella verità su cui si affaccia – non può essere diverso dal nulla poiché è a sua volta compreso, come ogni cosa, nel cerchio della vacuità originaria.

8. Alle radici del pensiero tragico

Il dolore, fonte che apre alla conoscenza dell’infondatezza e della caducità del tutto, si rivela anch’esso caduco e infondato;45 l’assurdità della conoscenza sta tutta in questa affermazione: conoscere significa vedere che non c’è una ragione alla base dell’esistenza, non c’è una ragione che sia in grado di spiegare e dunque di «giustificare» il dolore, salvandoci da esso.

In definitiva la vera conoscenza rivela che non vi è niente da conoscere. La conoscenza della verità non aiuta a sopportare il dolore, anzi è essa stessa dolore, in quanto quest’ultimo si rivela come il destino ineluttabile dell’uomo. Il dolore è vero nella misura in cui è presentito in esso l’annullamento dell’esistente: essendo infatti impossibile la salvezza, il dolore non ha alcuna funzione salvifica, ma solamente rivelativa.46 È proprio in virtù della funzione rivelativa dell’assoluto che Cioran può affermare senza mezzi termini: «un solo sospiro vale più di tutto il sapere».47 Il dolore è una traccia e un segno del nulla; il dolore è la coscienza del peso della contraddizione che l’essere reca in sé, per aver tradito senza motivo il nulla dal quale proviene.48

La coscienza, che sa di dover sparire nel baratro rivelatole dal dolore, non può che sapere questo dolorosamente. Ecco perché «il vero sapere si riduce a veglie nelle tenebre».49 La verità, infatti, non salva l’uomo, bensì lo rende consapevole di quanto sia irrevocabile la sua condanna. È impossibile pensare la verità, nell’ottica di Cioran, come un rimedio al dolore, alla morte e alla follia dell’esistenza che da quest’ultima deriva; anzi, è proprio la verità colei che getta l’uomo nell’angoscia, consistente nella consapevolezza della propria finitudine e della tragedia in cui si ritrova a recitare.

In Cioran verità e sofferenza si intrecciano indissolubilmente: e se la prima non salva dalla seconda, ma anzi la acuisce e la genera, è altrettanto vero che fa di essa l’unica condizione esistenziale che possa esser detta «vera» (per quanto questo vocabolo possa ancora aver senso in tale contesto). Gli stati positivi, infatti, non solo non possiedono alcuna realtà intrinseca - così proprio come ogni altro stato e ogni altra cosa-, ma non conducono neanche alla verità dell’esistenza, non aprono alla verità del nulla: essi, insomma, non manifestano all’uomo l’assenza di una verità che sia in grado di salvarlo. In questo preciso senso sono doppiamente nulli, poiché non rappresentano altro che l’illusione dell’illusione. Di contro, ovviamente, ogni stato positivo possiede l’attrattiva di un farmaco obnubilante che è in grado di offuscare la vista, non facendo così giungere lo sguardo all’evidenza della verità, e di far apparire la tragedia come una commedia.

La sofferenza, dunque, è sintomo della follia dell’esistenza e causa della follia dell’uomo, in quanto affaccio sulla tragedia della verità: essa, proprio in virtù della sua capacità rivelatoria, è al centro della riflessione del nostro filosofo.

Sofferenza e conoscenza sono assimilabili, in quanto si implicano vicendevolmente. La sofferenza spalanca l’abisso del nulla dell’esistenza sotto i piedi dell’uomo che vi si imbatte: l’uomo sa così che la sua sofferenza, alla luce tenebrosa di quell’abisso, è priva di significato poiché tutto è privo di esso; e questo sapere genera, a sua volta, una terribile sofferenza. Quindi la sofferenza è conoscenza, poiché rivela come la morte sia il senso ultimo della vita, ovvero rivela come quest’ultima sia fondamentalmente insensata; e la conoscenza è sofferenza, perché pone l’uomo dinnanzi a quella infondatezza.

9. Il vuoto e la positività dell’«assenza» nella tradizione orientale

L’aspetto più delicato del presente lavoro ermeneutico, svolto nei riguardi del pensiero di Emil Cioran, consiste nella chiarificazione dei rapporti del pensatore rumeno con il nulla. Nella trattazione fin qui proposta abbiamo tentato di mostrare come il nulla, posto da Cioran quale assenza di fondamento in relazione al Tutto, costituisca tanto l’abbrivio quanto l’approdo del suo itinerario filosofico. Ci rendiamo conto però che la linea interpretativa finora seguita, proprio perché unitaria e coerente nella descrizione del modo di intendere il significato e il ruolo del nulla da parte di Cioran, possa celare l’insidia di far emergere solo l’aspetto di «negatività» del concetto in questione. Per chiarire ancora meglio: la sezione capitale del presente scritto è interamente orientata dalla concezione tragica – da noi considerata centrale e predominante all’interno del discorso cioraniano – in cui il nulla è pensato come quell’orrido abisso del non essere, dal quale tutto proviene e al quale tutto ritorna; l’essere, in tale contesto, non è che una maschera del nulla.

In tal modo la «verità» del nulla, per Cioran, rende vano e insignificante ogni determinazione di tutto ciò che è. Scrutando l’abisso da cui tutto proviene, egli non può scorgerne il fondale poiché quest’ultimo è inesistente: la manifestazione del nulla è per lui così evidente e totalizzante che il fondo «cercato», ovvero la verità in grado di salvare l’uomo dalla tragedia, è da sempre «risolto» nell’abisso scrutato, ossia nell’assolutezza dell’assenza di fondamento. Colto alla luce tenebrosa dell’assolutezza del nulla, il pensiero di Cioran assume dunque le fattezze di un nichilismo compiuto e inaggirabile.

Tutte le nostre riflessioni intorno ai vari significati del nulla sono state quindi orientate dalla fondamentale concezione appena riassunta. Tuttavia, sebbene quest’ultima costituisca il fulcro della visione filosofica cioraniana e nonostante Cioran ritorni in continuazione su di essa,50 non possiamo non occuparci anche della declinazione «positiva» che il nulla viene, talvolta, ad assumere nelle pagine delle sue opere.

Volendo essere precisi, è necessario comunque ribadire quanto si è affermato in precedenza in merito ai vari significati del «nulla». Pertanto, così come sostenevamo che i vari significati analizzati non rimandassero ovviamente a dei «nulla» tra loro differenti, ma semplicemente alle molteplici prospettive dalle quali poter osservare la medesima cosa, anche ora dobbiamo ribadire come non vi sia effettivamente un lato «negativo» e un lato «positivo» della manifestazione del nulla, ma come la «negatività» e la «positività» del concetto dipendano sempre dall’angolazione prospettica dalla quale lo si considera.

Pertanto, dopo tali necessarie premesse, possiamo sostenere quanto segue; nonostante la prospettiva negativa sia quella fondamentale nella riflessione cioraniana, giacché essa ritrae la verità esattamente così come quest’ultima si presenta alla coscienza che la indaga, cionondimeno la prospettiva positiva non può assolutamente essere lasciata da parte in quanto illumina e completa il quadro dei rapporti del pensatore rumeno con il problema del nulla. Andiamo allora ad analizzare in cosa consista concretamente tale ulteriore prospettiva.

Per Cioran la «versione positiva» del nulla – o, per meglio dire, del concetto occidentale del nulla – è il principio del Vuoto, centrale nella tradizione filosofico-religiosa orientale, dalla quale il Nostro sarà sempre irresistibilmente attratto; per il pensatore rumeno, infatti, «il vuoto è il nulla privato delle sue qualifiche negative, il nulla trasfigurato».51

Sebbene nel corso della nostra trattazione abbiamo spesso identificato questi due concetti – sia perché alle volte è Cioran stesso a trattarli come termini equivalenti, sia perché, in definitiva, come abbiamo già più volte ricordato, sono due concetti che rinviano alla medesima assolutezza – essi significano in realtà le due diverse prospettive, relative all’assolutezza dell’assenza di fondamento, alle quali sopra ci si riferiva.

Il Vuoto della tradizione orientale, dunque, è per Cioran il corrispettivo «positivo» del «nulla» occidentale:

Niente conta: grande scoperta se mai ve ne furono, dalla quale nessuno ha saputo trarne profitto. A questa scoperta considerata deprimente, soltanto il vuoto di cui è motto può infondere un aspetto esaltante; il vuoto è il solo che si adoperi a convertire il negativo in positivo, l’irreparabile in possibile. Che non vi sia un , questo lo sappiamo, però è un sapere gravato di riserve. Per fortuna c’è il vuoto, e quando il si annienta esso lo sostituisce, sostituisce tutto, soddisfa le nostre attese, ci dona la certezza della nostra non-realtà. Il vuoto è l’abisso senza vertigine.52

Il Vuoto converte in quiete suprema l’angoscia derivante dalla visione dell’abisso dell’assenza. Questo perché il vuoto è un concetto che, al contrario del nulla, rinvia ad una pienezza.53

Ma come è possibile parlare di «pienezza» rispetto al Vuoto costituito dal Nulla, ovvero rispetto a quel principio che indica l’assenza di tutto, finanche l’assenza dell’assenza stessa di fondamento? Si può parlare di pienezza del Vuoto giacché quest’ultimo, essendo inteso da Cioran come quel principio in forza del quale ogni legame, ogni vincolo terreno, viene finalmente sciolto e spezzato, «incarna» la quiete dell’indistinzione, la libertà assoluta dal desiderio, la pace del non-volere. Facendo esperienza del nulla, inteso come nihil absolutum, l’uomo vive il senso della mancanza e rimane folgorato dalla vertigine derivante dall’angosciosa consapevolezza della propria caducità – e della precarietà del tutto –, ed è per questo gettato nella disperazione, giacché l’esistenza gli si rivela tragicamente infondata. Invece, tuffandosi nel nulla inteso come Vuoto, egli avverte un senso di pienezza, poiché esso gli si presenta come la sola realtà che, avendo «consistenza», sia capace di «salvarlo», e come l’unica «condizione»54 da ricercare, in quanto in grado di liberarlo dall’impostura dell’apparenza dell’essere delle cose.

Facendo esperienza del vuoto, l’uomo guarisce e si distacca da tutto e scende, così, fino alla «nulla radice del tutto».55 Questa comprensione è l’unica vera conoscenza da perseguire. Essa costituisce un «risveglio».

Mentre il senso del nulla è carico di tutti quegli stati negativi che rimandano all’insensatezza e alla drammaticità dell’esistenza, il senso del vuoto è, viceversa, assolutamente positivo giacché, in esso, proprio quell’insensatezza e quella drammaticità, rivelandosi vacue, si annullano.

Il balzo che il Vuoto permette di compiere è talmente radicale da far apparire illusoria la tragicità stessa dell’esistenza. Nel Vuoto, ogni conflitto si risolve e si acquieta, si annulla, dal momento che esso è «il nulla privato delle sue qualifiche negative, il nulla trasfigurato».56

L’esperienza filosofica di Cioran può essere vista, così, come una continua oscillazione fra il senso del nulla come nihil absolutum e il senso del nulla come Vuoto, o vacuità delle cose; e, perciò, come un’oscillazione fra la disperazione tragica e il sorriso illuminato del Buddha.

10. Conclusioni

Tutta la filosofia di Cioran è una veglia ininterrotta nella notte dell’esistenza, è un’insonnia interminabile che impedisce di assopirsi nel sogno illusorio della vita. Il vissuto patologico dell’insonnia, caratterizzante l’esistenza dell’individuo-Cioran, può senz’altro divenire il simbolo dell’impossibilità, da parte del filosofo rumeno, di chiudere gli occhi dinnanzi alla «verità» della vita, di sospendere il proprio stato di coscienza circa la «verità» delle cose, impossibilità che lo conduce inevitabilmente ad avvertire come ridicola qualsiasi forma d’adesione alla vita stessa (dal respiro alla rivoluzione), poiché in virtù di quella «verità» – sulla quale mai si serrano le palpebre – ogni cosa si svuota di contenuto. La filosofia cioraniana è dunque espressione di questa lucidità perenne nei confronti dell’esistenza e dei suoi contenuti;57 tale lucidità è drammatica in quanto, essendo «coscienza di coscienza»,58 riflette in continuazione la verità che scorge dietro al velo delle apparenze, rendendo impossibile abbandonarsi ad esse: l’incapacità di ridiscendere dalle cime della lucidità corrisponde proprio a quell’insonnia in cui Cioran si dibatte disperatamente.59

E così egli, avendo sempre davanti agli occhi l’insensatezza e la nullità del tutto, assomiglia ad un vate allucinato che non si identifica con niente e con nessuno, neanche con se stesso,60 e che tenta in continuazione di esprimere la vertigine derivante dall’assurdità di sentirsi esistere,61 non dimenticandosi mai di provocare il suo «interlocutore» su quanto sia folle - seppur dolce - cullarsi nel sonno della vita incosciente, inebriandosi nei suoi vacui sogni.62 Egli è perennemente sveglio e, in questa insonnia infinita, il sogno della vita – filtrato dalla lente della «verità del nulla» – non può che tramutarsi in quell’incubo al quale non si riesce in alcun modo a prendere parte, ma da cui si può uscire solo a patto di svanire con esso. Quell’incubo dal quale ci si può svegliare soltanto attraverso la propria fine; quell’incubo che mai avremmo dovuto cominciare a sognare.

Tutta l’esperienza filosofica cioraniana, consistendo in questa perpetua presa di coscienza circa l’inanità del tutto, è un continuo risveglio dai fenomeni mondani, i quali illudono riguardo la propria consistenza e realtà: una volta che si è divenuti coscienti della loro essenza, della loro nullità, nel momento dunque che essi si mostrano per ciò che realmente sono, ossia mere illusioni, si è drammaticamente impossibilitati ad aderirvi e si è per sempre estromessi dalla vita.

Per vivere, per partecipare alla vita, è dunque necessario che le illusioni da cui quest’ultima è costituita non vengano smascherate, è necessario insomma che i contenuti dell’esistenza restino tali, ossia non vengano intesi come illusori. Cogliere la «verità» dietro ad essi, e dunque smascherarli, è un atto che non aiuta a vivere; anzi, è un atto contrario alla vita stessa.

Dunque per Cioran, per riuscire a vivere, vanno preservate le illusioni e va fuggita la «verità».63 Essa è nefasta in quanto, nel momento in cui s’inizia a contemplarla, impedisce alla coscienza di obliarsi nel sogno delle illusioni mondane e, quindi, impedisce di vivere. Ecco perché l’insonne Cioran, se da un lato con i suoi scritti tenta di svegliare le coscienze assopite, dall’altro rimpiange la dolce beatitudine di coloro i quali aderiscono inconsapevolmente ai contenuti dell’esistenza, arrivando pertanto ad invidiare quegli esseri in cui il dramma della coscienza, che è tale giacché «apre» a quello della «verità», non è proprio apparso.64 E così il filosofo rumeno, essendo ormai condannato a vegliare nella notte dell’esistenza, rimpiange di non poter cadere in modo definitivo nel «sonno beato degli oggetti».65

Seguendo la linea interpretativa tratteggiata dalla metafora appena esposta e riprendendo il discorso sul rapporto del pensatore rumeno con il nulla, per presentare alcune riflessioni conclusive a riguardo, è possibile innanzitutto affermare che, nonostante il pensatore rumeno si rivolga con ammirazione nei suoi scritti alla concezione del vuoto e alle sue virtù terapeutiche, egli è tuttavia consapevole di essere inesorabilmente ancorato – sia in quanto individuo appartenente alla cultura occidentale, sia per la propria inclinazione di pensiero – ad una concezione tragica dell’assenza, ovvero a quella prospettiva di matrice nichilista, che non riesce in alcun modo a scorgere nel nulla un principio «salvifico» al quale potersi abbandonare. Infatti, egli scrive:

È segno di indigenza non potersi aprire al vuoto purificatore, al vuoto acquietante. Siamo così in basso, e così impergolati nelle nostre filosofie, da non poter concepire altro che il nulla, sordida versione del vuoto. Vi abbiamo proiettato tutte le nostre incertezze, tutti i nostri terrori e le nostre miserie; infatti, che cos’è in definitiva il nulla, se non un complemento astratto dell’inferno, un’esibizione di reprobi, il massimo sforzo verso la lucidità che alcuni esseri inadatti alla liberazione possano produrre? Troppo intaccato dalle nostro impurità per consentirci di compiere il balzo verso un concetto vergine com’è per noi quello di vuoto (che da parte sua non eredita dall’inferno, non ne è contaminato), il nulla, a dire il vero, rappresenta un’estremità sterile, una sconcertante via d’uscita vagamente funebre, parente di quei tentativi di rinuncia che, mischiati a troppi rimpianti, inacidiscono.66

Cioran, con queste parole, vuole sottolineare l’impossibilità nella quale l’uomo occidentale viene a trovarsi nel momento in cui tenta di aprirsi al vuoto «purificatore» e «acquietante». Il «nulla occidentale» è una «versione» degradata del «vuoto orientale», giacché è un concetto carico di quegli stati negativi ai quali più volte abbiamo fatto riferimento. Il nulla, infatti, non libera, non salva, non purifica: esso non apre a niente, non conduce a nessuna condizione di pace e beatitudine. Lo sguardo di colui che lo intravede sul fondo dell’esistenza rimane semplicemente attonito dinnanzi alla visione contemplata.

C’è, però, di più. E questo «di più» consente di ritornare su quell’oscillazione sulla quale ci eravamo arrestati alla fine dell’ultimo paragrafo, in quanto Cioran non parla del vuoto solo rimanendo costantemente al di qua della visione tragica dell’esistenza implicata dall’idea del nulla, ma giunge anche a reputare «ingenua», alla luce di quest’ultima, quell’aspirazione alla liberazione tipica della concezione appartenente alle discipline filosofiche e religiose orientali – riferendosi in particolar modo, all’interno dei suoi scritti, al Buddhismo –. Egli, se da un lato guarda con ammirazione verso il cammino che conduce al nirvana, ovvero alla piena liberazione dall’illusorietà del «reale» e dalla prigionia del desiderio, dall’altro è talmente «lucido» da ritenere che quella medesima liberazione sia anch’essa vana e illusoria, poiché da sempre compresa in quel nulla di cui vorrebbe essere il «rimedio».

Colui che aspira alla liberazione è in definitiva un «ingenuo», in quanto non si accorge di essere, in forza del nulla, già da sempre (drammaticamente) «liberato» dal peso inconsistente dell’esistenza; ciò che costituisce il punto d’arrivo del buddhismo, ovvero la liberazione scaturente dalla constatazione dell’irrealtà e dell’infondatezza del tutto, è il tragico punto di partenza – da cui in realtà, però, è impossibile muoversi – di chi come Cioran ha, nel suo sguardo, da «sempre» il riflesso fatale del nulla. La morte definitiva, che nell’ottica buddhista è l’equivalente del paradiso cristiano, il Nirvana appunto, ossia la cessazione della sofferenza e del dolore derivanti dall’esistenza in quanto tale, è per il filosofo «nichilista» Cioran l’unica certezza evidente, assoluta e irrefutabile, della folle tragedia nella quale siamo gettati.

Dinnanzi all’evidenza della vacuità del tutto, per Cioran, possono essere quindi intraprese due strade. Da un lato vi è quella percorsa dal liberato, dall’illuminato, il quale, scorgendo il vuoto al fondo di ogni cosa, vi si immerge e viene per così dire «salvato» da esso, in quanto scopre in quest’ultimo una «pienezza» che rinvia alla «pura anteriorità», alla quiete maestosa della non-esistenza, una «pienezza» che «contiene» la sola rivelazione in grado di liberarlo: la certezza che il dolore e la sofferenza dell’esistenza siano vane illusioni. Dall’altro lato, invece, vi è la strada battuta dal filosofo nichilista il quale è oppresso dalla visione tragica in cui coglie la nascita stessa - ovvero l’uscita dalla beatitudine neutra dell’assenza - come il dramma per eccellenza: egli, sebbene sia pienamente consapevole che lo spettacolo terrificante dell’esistenza sia nullo, poiché in forza del nulla risulta essere privo di consistenza, tuttavia non riesce mai a convertire questa nullità in un principio positivo, giacché ormai si trova al di qua di un’esistenza che assume per lui le fattezze di un assoluto da cui è tragico separarsi (infatti essa è un incubo che, però, si vorrebbe non cessasse mai).

Seppur riteniamo che la «strada» della visione tragica sia al centro dell’esperienza filosofica cioraniana, non possiamo non rilevare, tuttavia, come Cioran - dal punto di vista «umano» - oscilli in continuazione fra l’una e l’altra via, non cristallizzando mai in maniera definitiva la propria riflessione a riguardo. Nei Quaderni, infatti, il pensatore rumeno scrive: «Davanti alla morte ci sono solo due formule possibili: il nichilismo e il Vedanta. Io passo dall’una all’altra senza riuscire a fare una scelta definitiva».67 Tale oscillazione, però, appartiene appunto all’io empirico, ossia all’uomo-Cioran, all’individuo che comunque e nonostante tutte le evidenze non può fare a meno di ricercare la «soluzione» del problema in cui è gettato, scorgendo questa soluzione nell’esperienza del vuoto, l’unica in grado di recidere il problema stesso alla radice; il filosofo-Cioran, cionondimeno, è pienamente consapevole che la «verità» si trovi in quella visione implacabilmente lucida nella quale la nascita stessa è colta come il principio della tragedia e, in virtù di tale visione, egli avverte quella liberazione in nome del vuoto semplicemente come il miglior palliativo alla malattia di vivere.

Che la «verità» non stia nella concezione orientale, ma si trovi da un’altra parte, emerge chiaramente – ad esempio – in questo pensiero:

Ogni volta che mi imbatto anche solo su una sentenza buddhista, mi prende la voglia di ritornare a quella saggezza che ho tentato di assimilare per un periodo di tempo abbastanza lungo a da cui, inspiegabilmente, mi sono in parte allontanato. In essa risiede non tanto la verità, ma qualcosa di meglio…68

Quel «qualcosa di meglio» a cui allude Cioran sembra proprio indicare una sorta di illusione somma la quale, malgrado non contenga come tutte le altre illusioni la «verità» in quanto tale, è quella che più di ogni altra permette di vivere, illudendoci di rappresentare l’unica formula radicale di salvezza/liberazione, la quale tuttavia, essendo ovviamente compresa nel cerchio dell’esistenza, non può che essere ritenuta da Cioran (come, d’altronde, tutto ciò che è proprio in quanto è) del tutto illusoria, in quanto la vera salvezza/liberazione «è» solo nella non-esistenza, nella quale saremmo dovuti a rimanere: essa, rincorsa e contemplata al di qua dell’essere, fintanto che vi permaniamo, rimane assolutamente irraggiungibile.

Il Cioran-filosofo sa che l’unico modo per fuggire la tragedia dell’esistenza, trovandosi - e rimanendo - al di qua dell’esistenza medesima, è immergersi, inabissarsi nella percezione della sua vacuità; eppure, egli è altrettanto consapevole che tale soluzione rimane in ogni caso un rimedio per un incidente già avvenuto, per una malattia già contratta: in assoluto sarebbe stato meglio non contrarre il male d’esistere, piuttosto che cercare un farmaco per non soffrirne. Il fatto stesso di aspirare alla liberazione, di cercare una cura per l’esistenza (per l’essere, ovvero per quell’«essere incastrati»), indica che quest’ultima è comunque avvertita come il problema: quel problema che, per Cioran, per essere davvero risolto, non doveva nemmeno esser posto.

Addentrarsi nella percezione del Vuoto, la quale è per essenza «anti-tragica»,69 è senza dubbio il miglior modo di stare al mondo, è il miglior modo per non sentire il peso soverchio dell’esistenza. L’esperienza del Vuoto permette di scrollarsi di dosso questo peso, in quanto rivela tutta l’illusorietà delle cose mondane, e dunque rivela vani anche l’angoscia e il dolore che scaturiscono dalla caducità di queste ultime. Ciò non toglie, tuttavia, che codesta percezione resti un «momento» all’interno dell’esistenza e che, sebbene questo momento possa dirsi forse il più positivo nell’orizzonte di quest’ultima, esso è comunque ovviamente inserito all’interno dell’assoluta negatività incarnata dall’esistenza stessa in quanto tale.

Dunque la percezione del Vuoto ha indiscutibilmente un valore positivo, giacché offre quantomeno l’illusione di liberarci – momentaneamente – dalle catene dell’essere; ma – e in questa avversativa è possibile rintracciare tutta la supremazia del sentire tragico in Cioran – tale liberazione presuppone che debba innanzitutto esservi qualcosa di opprimente da cui doversi liberare, e che questo qualcosa, ossia l’essere dell’esistenza, resta in ogni caso la prigione in cui l’atto stesso della liberazione rimane recluso. Ecco perché per Cioran la liberazione, in fondo, non è che un (altro) «vicolo cieco».70 In quanto siamo, siamo imprigionati.

In questa direzione filosofica, Cioran non si ritiene certo un liberato, un illuminato; egli si reputa piuttosto un disingannato.71 E solo intendendo quanto sia profonda la natura del disinganno di cui è cosciente, egli può davvero essere compreso quando afferma: «La mia facoltà di essere deluso oltrepassa l’intendimento. Essa, che mi fa capire il Buddha, è la medesima che mi impedisce di seguirlo».72

Giunti davvero al termine di questo nostro lavoro, stimiamo necessario presentare alcune ulteriori riflessioni, con le quali ci proponiamo di operare una sorta di radiografia circa la questione della Totalità nel pensiero di Cioran. Nonostante infatti il pensatore rumeno si scagli più volte contro l’idea stessa di verità, in particolare di una verità del Tutto, riteniamo – come abbiamo tentato di mostrare durante lo svolgimento della presente trattazione - che la sua posizione filosofica non sia affatto estranea a tale idea e che, anzi, tutte le sue opere non facciano altro che ritornare in vario modo su quella verità «totale» che costituisce il nucleo di fondo del suo pensiero. Siamo del tutto consapevoli della problematicità di una tale asserzione all’interno di un orizzonte di pensiero come quello del Nostro; eppure, siamo nondimeno convinti di aver offerto sufficienti «prove» che avvalorano la nostra tesi. In questa sede, dunque, cercheremo di trarre le conclusioni di quanto è stato affermato sopra circa la verità del nulla come verità totale.

Innanzitutto, per chiarire in che senso è possibile parlare nel contesto del pensiero cioraniano di «Totalità», è necessario distinguere in quest’ultima il suo aspetto formale da quello materiale. Il Nulla, nel quadro filosofico del pensatore rumeno, possedendo quelle medesime caratteristiche formali proprie della «verità metafisica», ossia rivolgendosi al Tutto, pur venendo inteso come il (non) fondamento del tutto, ne acquisisce senza dubbio le sembianze ed è in questo che, formalmente, si rivolge alla Totalità. Anche se certamente può suonare strano, tuttavia è chiaro che, in tale direzione ermeneutica, la forma del Tutto «di Cioran» non differisce dalla forma del Tutto di Parmenide, Platone o Aristotele - abbiamo preso ad esempio questi filosofi proprio perché sono considerati, sia da Cioran stesso che dagli studiosi del suo pensiero, agli antipodi della sua visione filosofica e del suo modo di filosofare -.

Prima di addentrarci nell’analisi dell’aspetto materiale, ovvero di quello che, unito all’aspetto formale, restituisce la concreta determinazione della verità del Tutto «cioraniana», diamo spazio a due considerazioni che sembrano scaturire naturalmente dalla riflessione appena svolta circa l’aspetto formale del Tutto.

In primo luogo osserviamo che Cioran, pur avendo nei confronti della metafisica un atteggiamento assolutamente critico, in quanto in ogni suo scritto non perde occasione per ironizzare sulle assurdità da essa proposte, tuttavia, proprio per l’ampiezza del suo sguardo critico e dunque per la forma di quella «verità» alla luce della quale è possibile muovere tale critica, si assesta inevitabilmente su di una posizione che è anch’essa una posizione metafisica. In altre parole ciò che abbiamo visto in precedenza, rispetto ad esempio al discorso sulla morale, si ripropone qui sul piano della metafisica: la visione cioraniana -solo abbracciando l’interezza di tutto ciò che è ed indicando irrefutabilmente come non vi sia un principio in virtù del quale le cose esistenti sono giustificate, spiegate e salvate - può giungere a negare il valore veridico della visione metafisica; solo, ovvero, facendosi a sua volta metafisica, essa può criticare e negare la metafisica stessa. In questo senso, dunque, tale visione si costituisce come visione metafisica proprio in quanto afferma la necessaria negazione della visione metafisica. Difatti solo osservando a sua volta l’Intero, essa può negare la veridicità dello sguardo della metafisica sull’intero medesimo.

In secondo luogo, proprio per quanto appena detto, è possibile affermare che il pensiero di Cioran si situa a pieno titolo all’interno dell’orizzonte della filosofia, e non al suo esterno come lui stesso vorrebbe. Il rifiuto della filosofia, da parte del pensatore rumeno, poggia (analogamente a quanto abbiamo visto per la metafisica e, pensando al rapporto che le lega, non potrebbe essere altrimenti) su delle ragioni filosofiche e, pertanto, è anch’esso «filosofia». In altri termini: la negazione della verità della filosofia, nel pensiero di Cioran, non avviene certo sulla base di considerazioni o opinioni meramente personali - altrimenti non avrebbe alcun valore neanche per lo stesso Cioran -, ma in forza di una (non)verità che s’impone allo sguardo del disilluso: la filosofia va dunque negata perché tradisce la verità delle cose, la verità dell’essere del Nulla.73 Ma allora è evidente che tale negazione scaturisca da una riflessione la quale, contemplando la «verità» delle cose, è a sua volta ineludibilmente una riflessione filosofica. Affermare che il discorso filosofico sia privo di fondamento, giacché esso non coglie che il Tutto è infondato, significa negare il valore di verità della filosofia mediante un’asserzione filosofica, e dunque, in definitiva, significa filosofare.74 In tale direzione, la negazione della verità della filosofia comporta implicitamente l’affermazione di una filosofia autentica, ossia di un modo autentico di intendere la «realtà»: se così non fosse, non si avrebbero ragioni per negare quella verità. In questo senso, sembra proprio inaggirabile l’ammonimento aristotelico contenuto nel Protreptico, che esprime magistralmente l’ineludibilità del filosofare.

Cioran, affermando che la filosofia, con le sue forme e con i suoi sistemi, è irrimediabilmente lontana dalla verità, afferma implicitamente di essersi imbattuto in quest’ultima e di «possedere» così l’autentica visione filosofica, in forza della quale muove quella critica.

Sebbene il discorso appena svolto illumini il rapporto tra Cioran e la Totalità, addentrandoci nell’analisi del contenuto effettivo di quest’ultima, quel medesimo rapporto si fa altamente problematico. Questo perché – lo diciamo subito – se la verità del Tutto nel pensiero del filosofo rumeno è formalmente tale (e dunque è «verità», ma solo nel senso astratto del termine), quando viene considerata insieme al suo aspetto materiale, ossia nel suo concreto determinarsi, essa si pone come negazione di se medesima.

Il contenuto determinato della verità del Tutto – che sconvolge Cioran – è il seguente: l’essere è il nulla. Questo è evidente, per Cioran, giacché il nulla è l’essenza di tutto ciò che è. L’«essere», nel contesto cioraniano, è solo un concetto vuoto di cui la metafisica ha abusato, concetto privo di un significato concreto.75 L’essere, in realtà, «esiste» solo come essere diveniente, ovvero «esiste» solo come continuo passaggio dal nulla all’essere e dall’essere al nulla:76 ciò significa che esso in definitiva si identifica col nulla e che, in virtù di questo suo essere identico al nulla, sembra essere, ma in realtà non è.

Dunque l’essere diveniente «esiste» solo in quanto continuo annullamento di se medesimo. La qualcosa equivale a dire che esso è solo in quanto non è.77 L’essere di cui parla la metafisica, «l’essere che è» e «non è non-essere», è un termine insignificante, poiché non rimanda a nulla: non esiste «l’essere che è» in senso assoluto, «esiste» qualcosa che sembra essere, ma che, siccome divenendo viene a coincidere col nulla, non è. L’essere del divenire è quindi, al contempo, affermazione e negazione di se stesso: ovvero l’essere dell’esistenza, in quanto essere diveniente, è contraddittorio.

L’essere diveniente (che è il Tutto), quindi, è «fondato» e dominato dal nulla: la verità del nulla è tale proprio perché il nulla è ineludibile per l’essere diveniente, ovvero perché il nulla è quel «principio assoluto» da cui l’essere diveniente proviene e dinnanzi al quale deve necessariamente inchinarsi. Ed eccoci, finalmente, al cuore della questione.

La verità del nulla è una verità palese, evidente e incontrovertibile per Cioran; per essa non esistono eccezioni: ogni contenuto dell’esistenza da lei proviene e a lei ritorna. Eppure questa «verità» Cioran non riesce a scriverla con la «v» maiuscola giacché essa, pur abbracciando tutto ciò che è, non spiega e non risolve nulla.

La contraddizione dell’essere diveniente, infatti, poggia sull’evidenza che l’essere esistente, sebbene coincida in definitiva col nulla, nel suo manifestarsi e nel suo apparire sia senza dubbio «qualcosa». Altrimenti, se così non fosse, non si potrebbe parlare di annullamento e contraddizione dell’essere diveniente, ma di piena ed assoluta identità del nulla con se stesso: assoluta identità evidentemente smentita dalla manifestazione del divenire medesimo (che è appunto innegabile). Ecco allora che la contraddittorietà del divenire attesta la manifestazione della presenza di quel «qualcosa» che eccede il nulla, qualcosa che «è in quanto nulla» ma che, al contempo, «non è il nulla», di quel «qualcosa» che per così dire «fuoriesce» da esso.

È chiaro, allora, perché la verità del nulla non spieghi e non risolva alcunché: essa non è in grado di tenersi ferma come verità, in quanto risulta essere «ontologicamente» insufficiente per ricoprire la funzione che le spetta; tale «verità», infatti, non può render conto della presenza di quell’eccedenza che consiste nella manifestazione dell’essere diveniente.

Tutto il problema della filosofia cioraniana si trova nel fatto che il pensatore rumeno, da un lato, comprende quanto sia assurdo scorgere nel nulla la risposta alla Grundfrage leibniziana78 - «perché esiste qualcosa piuttosto che il nulla?» - (il «nulla», infatti, non può fondare alcunché), e però, dall’altro, ravvisa in quello stesso nulla la verità innegabile del divenire - ovvero, per lui, del Tutto -. Dunque, in Cioran, da una parte c’è l’assoluta convinzione che non vi sia niente oltre alla verità del nulla; dall’altra, però, sussiste quello stupore79 continuo che deriva dall’esser consapevoli di ritrovarsi «al di qua di quell’oltre», ossia al di qua di quell’essere diveniente che, se è posto e pensato come infondato, incarna l’assurdo.80

La filosofia cioraniana si trova costretta in questa impasse: affermare la «verità» del nulla e insieme annotare che, alla luce di quella «verità», la manifestazione della presenza è inspiegabile. In tale direzione, è chiaro perché Cioran non possa in alcun modo scrivere la parola «verità» con la lettera inziale maiuscola: giacché la «sua» «verità», abbandonando e annientando ogni cosa, non rende ragione del Tutto, e dunque non lo salva e non lo custodisce.81

La «verità» del nulla, in definitiva, non spiega nulla: ben si comprende allora perché Cioran si dibatta in continuazione nel carcere impossibile dell’essere diveniente, perché vaghi in esso attonito, sconcertato dalla follia di esistere;82 poiché tale «verità», la quale s’impone al suo sguardo, sebbene appaia come l’Incontrovertibile, fa assumere allo spettacolo dell’esistenza le sembianze dell’Insolubile.83

Alla luce di quanto appena detto, la posizione filosofica di Cioran assume i lineamenti di una «non-posizione» rispetto all’assurdità dell’esistenza: egli nega tutto in nome della «verità» del nulla, ma è conscio dell’assoluta impossibilità di elevarla a «Verità». Anzi, la «verità» del nulla, per Cioran, non solo non può in alcun modo essere intesa come «Verità» in senso proprio, ma inoltre, in virtù del suo valore negativo intrascendibile, nega l’apertura alla possibilità stessa della «Verità». La «verità» del nulla è così totalizzante da impedire di riuscire a pensare ad una «Verità» ulteriore in grado di oltrepassarla e «vincerla».84

L’orizzonte del pensiero di Cioran è quindi inesorabilmente serrato dalla «verità» del nulla, al chiarore tenebroso della quale appare impossibile scorgere il «perché» dell’esistenza; la sua filosofia però, proprio per questo motivo, sembra avere un carattere drammaticamente «aperto», non risolutivo:85 il suo orizzonte è chiuso dal nulla,86 ma il suo domandare circa quell’orizzonte resta senza risposta.87

Il filosofo rumeno, con le sue pagine, pone e solleva il problema, per risvegliare ad esso, ma non ha soluzioni da offrire in merito.88 Egli contempla stupefatto e al contempo rassegnato lo spettacolo impossibile della vita, essendo convinto che non esista una Verità assoluta la quale sia in grado di svelarne il mistero.89

Il nichilismo di Cioran è talmente assoluto e coerente90 che, osservato per così dire dal traguardo del suo percorso, sembra «aprire» alla negazione di se stesso. Il filosofo rumeno, da un lato, tiene perentoriamente ferma la sua visione nichilistica in quanto affermazione necessaria di un’evidenza incontrovertibile,91 e però, dall’altro, rileva come l’assolutizzazione di quella stessa visione contenga un implicito intimamente contraddittorio che conduce all’impensabile: egli, infatti, è teoreticamente consapevole del fatto che la verità della Negazione, nella manifestazione del divenire, neghi se stessa, «positivizzandosi» inspiegabilmente nell’apparire stesso di tale manifestazione. Ecco allora che questa «positivizzazione», questo «essere» che eccede il nulla – considerato nel modo in cui quella stessa evidenza del nulla obbliga a considerarlo, ovvero come il risultato di un nihil absolutum che eccede se stesso nell’altro da sé – gli appare del tutto inconcepibile.

Per il filosofo rumeno è evidente che (il) Tutto è nulla; eppure è per lui altrettanto evidente che ciò non spieghi affatto come il nulla possa essere. L’essere del nulla, alla luce della verità del nulla, è l’impossibile. Ecco perché egli, allora, può dire di «sentirsi esattamente come un epitaffio scettico, che dal dogmatismo del cimitero sia evaso nel mondo…»;92 ecco perché egli, in fondo, sembra proprio «vacillare» dinnanzi all’Insolubile93 quando ammette: «Il gusto dell’irrimediabile mi tiene legato alla terra; quello dell’impossibilità al cielo».94


  1. La «M.» è stata aggiunta da Cioran stesso al proprio nome, dopo il suo arrivo in Francia. Seguiamo la ricostruzione, riguardo alle «vicende» del nome, proposta da Fabio Ciaralli nella sua monografia su Cioran: «Si chiamava in realtà - lo attestano tutti i documenti della sua vita a Răşinari, a Sibiu e a Bucarest - semplicemente Emil Cioran; giunto poi in Francia, paese notoriamente etnocentrico sul piano linguistico, viene rinominato Émile, forma che però gli è odiosa. Quando scopre il romanziere inglese E.M. Foster, decide di aggiungere una M. al suo nome, in una sorta di affettuoso e ironico omaggio allo scrittore che apprezza, e di utilizzare solo la forma abbreviata E.M. Cioran, alla quale rimarrà fedele. In una lettera dell’8 agosto 1986, indirizzata all’amico, scrittore e traduttore spagnolo Fernando Savater che gli ha appena mandato la traduzione di un suo libro in spagnolo, protesta: «Perché, invece di E.M. Cioran, è stato utilizzato questo ignobile Émile Michel?»» (F. Ciaralli, Emil Cioran. Odissea della lucidità, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2017, p. 14). Nella nostra trattazione dunque, in special modo nei riferimenti bibliografici, lasceremo la «M.» in tutte le opere ove quest’ultima compare, per rispetto di quella che crediamo essere la volontà del Nostro in merito. ↩︎

  2. «Credo che la filosofia non sia più possibile se non come frammento. Sotto forma di esplosione. Ormai non è più possibile mettersi a elaborare un capitolo dopo l’altro in forma di trattato. […] Oggi siamo tutti frammentisti, anche quando scriviamo libri apparentemente coordinati» (corsivo nostro). E.M. Cioran, Un apolide metafisico. Conversazioni, traduzione di T. Turolla, Adelphi, Milano 2004, p. 27. ↩︎

  3. E.M. Cioran, Il funesto demiurgo, traduzione di D. Grange Fiori, Adelphi, Milano 1986, p. 121. ↩︎

  4. M. Heidegger, Che cosa significa pensare?, Sugarco Edizioni, Milano, 1996, p. 63. ↩︎

  5. «Non si discute l’universo; lo si esprime». E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, p. 68. ↩︎

  6. A tal proposito, Renzo Rubinelli scrive: «Il Tempo per l’Occidente è il passaggio dal Niente all’Essere e dall’Essere al Niente. Cioran coglie l’assurdità e il carattere disumano di questo passaggio, ma sull’evidenza dello stesso, fonda il suo pensiero. Non vi è distinzione fra il cosmo e l’io, tutto partecipa di questo destino di contingenza, di corruttibilità, di decomposizione, di nascita e di morte, soprattutto di morte. […] La presenza della morte è totalizzante nel pensiero di Cioran. Egli vede la morte anche laddove c’è la vita, perché coglie l’identità di vita e morte, di nascere e morire, di essere e nulla. Gli opposti si identificano e tutto si appiattisce sul secondo termine dell’opposizione: la morte, il nulla. Il suo pensiero produce quest’inaccettabile paradosso, poiché coglie - ed è qui che la sua lucidità mostra tutta la sua forza - la premessa inespressa di tutto il pensiero occidentale e della sua concezione nichilista del tempo. Non vi è dialettica, non vi è creatività dionisiaca, se si muove dalla concezione occidentale del Tempo come passaggio dall’essere al Nulla; portando tali presupposti alle loro logiche conseguenze, si scopre che la morte, il Nulla, prevalgono sulla vita, sull’Essere. La morte è universale poiché il Nulla è universale, in quanto tutto è temporale, mentre invece la vita è in preda alla corruzione del tempo, all’erosione dell’Essere da parte del nulla. […] L’abisso del Nulla, che sta prima della nostra nascita e dopo la nostra morte, avvolge il breve spazio della nostra esistenza e gli dà un senso legato alla morte, al Nulla, cioè gli impedisce di avere alcun senso. È un pensiero limpido e lucido, il suo, che se ne accorge, se ne avvede, poiché non è smarrito fra le mille ragioni umane, forgiate per dimenticare la nostra precaria collocazione, avvolta nel nulla. Cioran coglie solo il lato lugubre dell’esistenza, perché respinge tutte le ragioni umane storiche, nate per elevare il breve spazio dell’esistenza a legge in grado di stabilire un senso anche per il Nulla che lo avvolge. Cioran restituisce al Nulla il suo assoluto primato e nega all’uomo, alla vita e all’essere qualsiasi consistenza» (R. Rubinelli, Tempo e Destino nel pensiero di E.M. Cioran, pp. 117-119). ↩︎

  7. «Il teschio non diserta mai la maschera che occhieggia, la vita non è che l’abito a sonagli che il Nulla indossa per tintinnare prima di stracciarselo via di dosso. Che cos’è il Tutto? Nient’altro che il Nulla: esso si strozza da sé, e giù s’ingoia voracemente: ecco a che si riduce la perfida ciarlataneria secondo la quale esisterebbe qualcosa! Se infatti una sola volta lo strozzamento sostasse, il Nulla balzerebbe evidente agli occhi degli uomini da farli inorridire; i folli chiamano eternità questo fermarsi! - ma no, è proprio il Nulla, invece, la morte assoluta - poiché la vita consiste solamente in un interrotto morire». Anonimo, Notturni di Bonaventura, traduzione di F. Filippini, Rizzoli, Milano 1984, pp. 77-78. ↩︎

  8. E.M. Cioran, Al culmine della disperazione, p. 11. ↩︎

  9. Ivi, p. 35. ↩︎

  10. «L’eccesso di interiorità e il parossismo degli stati d’animo conducono in una regione estremamente pericolosa, perché un’esistenza troppo consapevole delle sue radici non può che negare se stessa». E.M. Cioran, Al culmine della disperazione, p 21. ↩︎

  11. «Non voglio più collaborare con la luce né adoperare il gergo della vita. E non dirò più: «Io sono» senza arrossire. L’impudenza del fiato, lo scandalo del respiro sono legati all’abuso di un verbo ausiliare. È passato il tempo in cui l’uomo pensava a se stesso in termini di aurora; giacendo su una materia divenuta anemica, ora è disposto a compiere il suo vero dovere, quello di studiare la propria perdita e di correrle incontro; […] Invano egli scruta gli orizzonti: migliaia e migliaia di salvatori vi si profilano, salvatori da farsa, anche loro sconsolati. Egli se ne allontana per prepararsi, nella sua anima sfatta, alla dolcezza di marcire… Giunto nel più profondo del suo autunno, egli oscilla tra l’Apparenza e il Nulla, tra la forma ingannevole dell’essere e la sua assenza: vibrazione tra due irrealtà». E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, p. 122. ↩︎

  12. E.M. Cioran, Quaderni, p. 27. ↩︎

  13. «Più penso alla vita come fenomeno distinto dalla materia, più mi spaventa: non si regge su niente, è un’improvvisazione, un tentativo, un’avventura, e mi sembra così fragile, così inconsistente, così priva di realtà che non posso riflettere su di essa e sulle sue condizioni senza provare un brivido di terrore. Non è che uno spettacolo, una fantasia della materia. Smetteremmo di esistere se sapessimo quanto siamo irreali. Se si vuol vivere, bisogna fare a meno di pensare alla vita…». Ivi, p. 69-70. ↩︎

  14. Come abbiamo avuto modo di vedere nel precedente paragrafo, l’essenza di ogni ente è costituita dal nulla che quest’ultimo reca in sé. Muovendo da tale assunto è comprensibile perché si parli di «esistenza apparente»; ogni determinazione, infatti, non è che una diversa manifestazione del medesimo nulla, dunque è «un qualcosa» ma solo nella misura in cui il suo essere «questo qualcosa» è un momento del nulla, una «maschera» e «una pretesa» di quest’ultimo: in realtà, appunto, non è altro che «l’essere del nulla». ↩︎

  15. E.M. Cioran, Quaderni, p. 43. ↩︎

  16. E.M. Cioran, Quaderni, p. 198. ↩︎

  17. E.M. Cioran, Quaderni, p. 189. ↩︎

  18. «Quando il nulla mi invade e giungo, secondo una formula orientale, alla «vacuità del tutto», mi accade, affranto da un tale eccesso, di ripiegare su Dio, non fosse che per desiderio di calpestare i miei dubbi, di contraddirmi, e di cercarvi uno stimolo moltiplicando i miei fremiti. L’esperienza del vuoto è la tentazione mistica del non credente, la sua possibilità di preghiera, il suo momento di pienezza. Ai nostri confini un dio sorge, o qualcosa che lo sostituisce». E.M. Cioran, La Tentazione di Esistere, p. 106. ↩︎

  19. «A che serve polemizzare con il nulla?». E.M. Cioran, La Tentazione di Esistere, p. 46. ↩︎

  20. E.M. Cioran, Quaderni, p. 165 (corsivo nostro). ↩︎

  21. E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, p. 69. ↩︎

  22. «Ogni forma di progresso è una deviazione, nel senso in cui l’essere è una deviazione dal nulla». E.M. Cioran, Quaderni, p. 544. ↩︎

  23. E.M. Cioran, Quaderni, p. 313. ↩︎

  24. Ibidem↩︎

  25. «“… ma Elohim sa che il giorno in cui ne mangerete, vi si apriranno gli occhi…”. Vi si apriranno gli occhi! È tutto il dramma della conoscenza. Il paradiso: guardare senza capire. L’unica condizione alla quale la vita sarebbe tollerabile». E.M. Cioran, Quaderni, p. 49. ↩︎

  26. Ivi, p. 477. ↩︎

  27. Cfr. L. Messinese, Il paradiso della verità. Incontro con il pensiero di Emanuele Severino, Edizioni ETS, Pisa 2010, pp. 173-176. ↩︎

  28. E.M. Cioran, Quaderni, p. 445. ↩︎

  29. E.M. Cioran, La tentazione di esistere, p. 205. ↩︎

  30. E.M. Cioran, Il funesto demiurgo, p. 23. ↩︎

  31. E.M. Cioran, Quaderni, p. 160. ↩︎

  32. Ivi, p. 257. ↩︎

  33. Ivi, p. 504. ↩︎

  34. Ivi, p. 165. ↩︎

  35. Ivi, p. 181. ↩︎

  36. «Tutto è nulla, anche la coscienza del nulla». E.M. Cioran, Squartamento, traduzione di M.A. Rigoni, Adelphi, Milano 1981, p. 147. ↩︎

  37. Cfr. E.M. Cioran, La caduta nel tempo, pp. 12-13. ↩︎

  38. Ivi, p. 126. ↩︎

  39. «Che il mondo sia irreale è vero, e, oltretutto, evidente. Ma questa evidenza non è una risposta, non aiuta a vivere. … Da quando in qua una verità deve aiutare a vivere? Non appena si approfondisce una cosa, ci si accorge che non può essere d’aiuto a nessuno». E.M. Cioran, Quaderni, p. 117. ↩︎

  40. Cfr. E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, p. 35. ↩︎

  41. E.M. Cioran, Quaderni, p. 240. ↩︎

  42. Cfr. E.M. Cioran, Squartamento, pp. 26-27. ↩︎

  43. Cfr. S. Givone, Storia del nulla, pp. 9-24. ↩︎

  44. E.M. Cioran, Quaderni, p. 413. ↩︎

  45. «Il solo modo di affrontare le tribolazioni senza morirne è pensare che in fondo tutto ciò che ci capita quaggiù è irreale, e che tutto svanisce senza lasciare traccia, perfino i nostri dolori». Ivi, p. 94. ↩︎

  46. «Niente è più estraneo alla tragedia dell’idea di redenzione, di salvezza e di immortalità. L’eroe soccombe sotto i propri atti senza che gli sia dato di evitare la morte in virtù di una grazia soprannaturale; egli non si prolunga - in quanto esistenza - in nessun modo, rimane distinto nella memoria degli uomini come uno spettacolo di sofferenza…». Ivi, p. 112. ↩︎

  47. E.M. Cioran, Quaderni, p 261. ↩︎

  48. «In virtù di quale stratagemma ciò che sembra essere si sottrasse al controllo di ciò che non è? Un momento di disattenzione, di debolezza in seno al Nulla: le larve ne approfittarono; una lacuna nella sua vigilanza ed eccoci qua. […] In tal modo l’esistenza si avventurò in un ciclo di eresie che minarono l’ortodossia del nulla». E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, p. 186. ↩︎

  49. Ivi, p. 184. ↩︎

  50. Giacché in essa, in quanto fondamento, principio e fine coincidono. ↩︎

  51. E.M. Cioran, Il funesto demiurgo, p. 107. ↩︎

  52. Ivi, p. 104. ↩︎

  53. Cioran, infatti, continua così il passo sopra riportato: «Per istinto, noi incliniamo al sé; tutto in noi lo reclama: soddisfa le nostre esigenze di continuità, di solidità, ci conferisce contro l’evidenza una dimensione atemporale: niente di più normale che aggrapparvisi, anche quando lo contestiamo e ne divulghiamo l’impostura: il sé è il riflesso di ogni vivente… Eppure, non appena lo consideriamo freddamente, ci appare inconcepibile: si sbriciola, svanisce, non è più che il simbolo d’una finzione. Il nostro empito immediato ci porta verso l’ebbrezza dell’identità, verso il sogno dell’indistinzione, verso l’ātman, che risponde ai nostri richiami più profondi e più segreti. Non appena, snebbiati, ricuperiamo un certo distacco, abbandoniamo il fondo supposto del nostro essere, per volgerci verso la distruttibilità fondamentale, la cui conoscenza ed esperienza, il cui disciplinato assillo, ci guidano al nirvana, alla pienezza del vuoto». Ivi, pp. 104-105. ↩︎

  54. O meglio, «non-condizione». ↩︎

  55. E.M. Cioran, Il funesto demiurgo, p. 62. ↩︎

  56. Ivi, p. 107. ↩︎

  57. Mario Andrea Rigoni, a tal riguardo, scrive: «Cioran […] si consacra al compito di scrivere ciò che potremmo chiamare un’epopea della lucidità» (M.A. Rigoni, Intorno al «Précis de décomposition», nota a E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, pp. 226-227). ↩︎

  58. E.M. Cioran, La caduta nel tempo, p. 89. ↩︎

  59. Cfr. G. Rotiroti, Il demone della lucidità. Il «caso Cioran» tra psicanalisi e filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli 2005, pp. 71-72. ↩︎

  60. Cfr. E.M. Cioran, La caduta nel tempo, pp. 11-12. ↩︎

  61. Cfr. Ivi, p. 11. ↩︎

  62. Interessante, a tal proposito, quanto Cioran sostiene alla fine di quell’intervista con Savater a cui più volte sopra si è fatto riferimento: «Non dimentichi di dire che io sono soltanto un marginale, uno che scrive per svegliare. Lo riferisca: i miei libri aspirano a svegliare» (E.M. Cioran, Un apolide metafisico, p. 36. Corsivi nostri). ↩︎

  63. «Siamo nati per esistere, non per conoscere…». E.M. Cioran, Storia e Utopia, p. 57. ↩︎

  64. «Vi è qualcosa di sacro in ogni essere che non sa di esistere, in ogni forma di vita indenne da coscienza. Colui che non ha mai invidiato il vegetale ha solo sfiorato il dramma umano». E.M. Cioran, La caduta nel tempo, p. 127. ↩︎

  65. Ivi, p. 11. ↩︎

  66. E.M. Cioran, Il funesto demiurgo, pp. 106-107. ↩︎

  67. E.M. Cioran, Quaderni, p. 117. ↩︎

  68. E.M. Cioran, Confessioni e anatemi, traduzione di M. Bortolotto, Adelphi, Milano 2007, pp. 102-103. ↩︎

  69. Cfr. E.M. Cioran, Il funesto demiurgo, p. 102. ↩︎

  70. E.M. Cioran, Confessioni e anatemi, p. 112. ↩︎

  71. «Chi è Lei? Sono il Disingannato». E.M. Cioran, Quaderni, p. 313. ↩︎

  72. E.M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, p.13. ↩︎

  73. Cfr. E.M. Cioran, Sommario di decomposizione, p. 68. ↩︎

  74. «… Cioran è un filosofo, in quanto la Totalità è sempre l’orizzonte del suo pensiero […] e l’orizzonte della Totalità è la condizione preliminare di ogni filosofia. Non si vuole qui disconoscere la pesante condanna verso la Filosofia, riscontrabile in tutta la sua opera, ma si ritiene che il motivo dell’antifilosofia sia segno di autentico filosofare». R. Rubinelli, Tempo e Destino nel pensiero di E.M. Cioran, p. 51. ↩︎

  75. «Che esca dalla bocca di un droghiere o di un filosofo, la parola essere, così ricca, così allettante, in apparenza così carica di senso, non significa in realtà assolutamente niente. In qualsivoglia occasione, è incredibile che uno spirito sensato possa servirsene». E.M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, p. 176. ↩︎

  76. Cfr. A. Di Gennaro, Metafisica dell’addio, p. 44. ↩︎

  77. «Tutto è nulla, dunque tutto in certo qual modo è, tutto esiste in quanto nulla». E.M. Cioran, Quaderni, p. 965. ↩︎

  78. Cfr. I.M. Chelariu, La domanda metafisica secondo Emil Cioran, in F. Meroi - M.L. Pozzi - P. Vanini (a cura di), Cioran e l’Occidente. Utopia, esilio, caduta, Mimesis, Milano - Udine 2017, pp. 191-192. ↩︎

  79. «La vita mi è sempre parsa enigmatica e insignificante, profonda e irreale; un nulla che invita allo stupore». E.M. Cioran, Quaderni, p. 102. ↩︎

  80. «Straordinario e nullo – questi due aggettivi si applicano a un certo atto, e di conseguenza a tutto quello che ne deriva, in primo luogo la vita». E.M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, p. 18. ↩︎

  81. «Per credere, bisogna essere tutti d’un pezzo, bisogna anche amare la stabilità, giacché Dio in primo luogo è questo. E poi bisogna poter scrivere verità con la maiuscola, che è quello a cui non mi rassegnerò mai. Tutto è capitolazione, tranne l’inquietudine, tranne la sete inestinguibile di verità». E.M. Cioran, Quaderni, p. 983 (corsivo nostro). ↩︎

  82. «Esistere è uno stato inconcepibile quanto il suo contrario – che dico? Più inconcepibile ancora» (E.M. Cioran, L’inconveniente di essere nati, p. 98). «Esistere è un fenomeno colossale – che non ha nessun senso. È così che definirei lo sbalordimento nel quale vivo giorno dopo giorno» (E.M. Cioran, Squartamento, p. 96). ↩︎

  83. «La vita adempie a tutte le condizioni richieste dall’Insolubile». E.M. Cioran, Quaderni, p. 165. ↩︎

  84. «Più nulla da cercare, se non la ricerca del nulla. La Verità? Un incaponirsi da adolescenti o un sintono di senilità». E.M. Cioran, La Tentazione di Esistere, p. 103. ↩︎

  85. Cioran, infatti, sempre riferendosi alla Verità, prosegue in questo modo il passaggio riportato nella citazione precedente: «Eppure, […] ancora la cerco, inconsapevolmente, stupidamente» (Ibidem). ↩︎

  86. Il poeta italiano Guido Ceronetti esprime e sintetizza con una «battuta» allegorica illuminante - qui estrapolata da un suo breve scritto su Cioran - la «chiusura» che caratterizza l’orizzonte filosofico del pensatore rumeno: «La muraglia appare senza finestre, addirittura senza crepe» (G. Ceronetti, Cioran, lo squartatore misericordioso, nota introduttiva a E.M. Cioran, Squartamento, p. 13). ↩︎

  87. La sua filosofia, in tal senso, non è che «un interrogativo rimuginato all’infinito…» (E.M. Cioran, Quaderni, p. 244). In tale direzione si comprende bene cosa voglia dire quando scrive: «Si interroga Dio. Perché non ci salverebbe per sempre? Egli tace. Tace… Le distese non hanno risposto all’uomo che per fare riecheggiare a lungo il suo gemito» (E. Cioran, Breviario dei vinti II. 70 frammenti inediti, traduzione di C. Fantechi, Voland, Roma 2016, p. 19). ↩︎

  88. «Il mio compito è quello di strappare la gente al suo sonno di sempre, pur sapendo che commetto un crimine, e che sarebbe mille volte meglio lasciarla dormire, visto che, se pure si svegliasse, non avrei niente da proporle». E.M. Cioran, Quaderni, p. 753. ↩︎

  89. «Se proprio si vuol parlare di «mistero», la nascita lo è, e assai più grande di quello della morte» (Ivi, p. 833). Questo aforisma racchiude l’intero senso di questa nostra riflessione conclusiva: la morte, nell’orizzonte della verità del nulla, non è una sorpresa, bensì l’unica certezza irrefutabile; la nascita piuttosto, sempre alla luce di quella verità, rappresenta l’Imprevisto privo di spiegazione. ↩︎

  90. Cfr. R. Rubinelli, Tempo e Destino nel pensiero di E.M. Cioran, p. 172. ↩︎

  91. «Tutto ciò che non è pura visione del nulla è un castello in aria». E. Cioran, Divagazioni, a cura di H.C. Cicortas, Lindau, Torino 2016, p. 65. ↩︎

  92. E. Cioran, Divagazioni, p. 65. ↩︎

  93. «Il regno dell’insolubile si estende a perdita d’occhio». E.M. Cioran, Confessioni e anatemi, p. 133. ↩︎

  94. E. Cioran, Breviario dei vinti II. 70 frammenti inediti, p. 43. ↩︎