La parabola della coscienza fenomenologica: Rudolf Bernet ed Edmund Husserl

1. La coscienza sofferente. Uno sguardo introduttivo

Vi sono dei saggi della bibliografia fenomenologica, in primo luogo husserliana, che devono essere collocati ai vertici dell’eccellenza, che sono citati frequentemente, insieme ad altri, dagli studiosi più attenti e meno scolastici e che quindi non sembrano richiedere una analisi nuova, un sondaggio rinnovato, una presentazione che ne scopra e ne discuta il senso complessivo. È questo certamente il caso del libro di Rudolf Bernet, Conscience et existence. Perspectives phenoménologigiques, PUF, Paris 2004, per il quale vale tuttavia l’obiezione hegeliana legittimante l’operazione di rilettura che ci proponiamo di fare, che il già noto non sempre è anche pienamente conosciuto. E che valga quindi la pena di ripercorrere, cogliendone l’assoluta originalità, la vera e propria parabola della coscienza fenomenologica (husserliana, ma non solo: si aggiungono i nomi di Sartre, di Lévinas, di Gadamer) che la conduce all’incontro con l’esistenza, che ne muta ma il al tempo stessa ne conferma i’essenziale fisionomia iniziale (il carattere di «dottrina aprioristicamente pura» della coscienza stessa, capace di abbracciare «l’insieme della vita soggettiva concreta»), mentre tuttavia giunge a penetrare, pur senza farne dei «concetti», e non lasciandolo «intatto», l’universo dei suoi «correlati». Il che produce un ritorno all’inizio che, come si comprende, ci consegna una soggettività coscienziale profondamente trasformata. È questa sorta di incompiutezza della parabola della coscienza nella sua formulazione husserliana che si tratta di indagare riempiendo e modificando il suo apriorismo, ben comprendendo che la parabola di cui parliamo e in cui riassumiamo il senso generalissimo della lettura di Bernet, non conduce dall’alto verso il basso, perché è piuttosto un ritorno ellittico arricchito e modificato, allo stesso livello aprioristicamente puro del suo rapporto fenomenologico con la logica, indagato all’inizio. Quando la coscienza entra nell’esistenza alla conclusione della parabola tracciata da Bernet, quel che deve essere mostrato e che Bernet riesce ad esibire sulla scorta soprattutto di Lévinas è il carattere prioritario e anticipato della sua «relazione» con l’esistenza, non annullabile da alcuna coscienza, risolventesi a sua volta in una «modificazione» di tale relazione.1 Che la coscienza si risolva, in quanto entrata nella esistenza e nel confronto con i suoi correlati esistenziali concreti, in una riproposizione del suo apriorismo egologico, in un ‘modo’ della relazione con l’esistenza, è naturalmente molto difficile da tener fermo, ma è chiaro che qui si gioca, di nuovo, il senso complessivo della lettura di Bernet. Qui incontriamo il punto critico di questo libro, rispetto al quale non decideremo di considerarlo come spezzato e bicefalo, con una conclusione che in certa misura dimentica l’inizio apriorico della coscienza, centro della «teoria delle teorie». Sarebbe tuttavia inevitabile, se il rapporto tra la parte coscienziale e la parte esistenziale del libro svelasse non superabile caratteristiche di duplicità, non considerare la parabola in cui riassumo la mia ipotesi di lavoro, come una vera e propria discesa dall’alto del culmine egologico coscienziale al basso di una esistenza della coscienza descrivibile certo fenomenologicamente, ma, almeno nella sua versione levinassiana, ormai fuori dell’orizzonte costituente della fenomenologia husserliana. È accaduto a Bernet, lo vedremo meglio più avanti, di aver voluto farsi trascinare dal telos della passione filosofica per l’immagine di una coscienza o di una soggettività coscienziale, vulnerabili da parte di un trauma, già ferite e eppure resistenti alla propria scomparsa, come se questa immagine che costeggia e talvolta supera il margine della metafisica (la coscienza non torna in questo modo ad essere una sorta di ‘sostanza ferita’ e resistente proprio in virtù della propria sofferenza?) fosse per Bernet il punto di annodamento più profondo delle proprie convinzioni etiche. Ma tali convinzioni non sono forse un evento psicologico, non fenomenologico, perché l’etica husserliana, come è ben noto, non si edifica sulle convinzioni o i gusti soggettivi, contro i quali non per caso Husserl polemizza commentando il primo volume delle Ricerche logiche? E insomma per dirla tutta e in breve, non rischia forse Bernet di ricadere nella psicologia di un’etica metafisica, per salvare, ai danni del pieno razionalismo fenomenologico della etica husserliana, il valore della sua coscienza esistenziale ferita e resistente alla dissoluzione proprio nel suo margine psichico? Non rischia forse Bernet di ‘discendere’ fuori della fenomenologia per salvare la propria convinzione etica della coscienza traumatizzata e resistente, ma priva di difese che non siano la propria stessa sofferenza traumatica i cui colpi provengono dall’interno stesso del trauma e che viene elevata a ‘centro sostanziale’ di una soggettività coscienziale esistente, priva di declinazione fenomenologica, carica di drammaticità psichico-etica (anche se di indubbio fascino per il lettore non dimentico di ciò che è altro dalla fenomenologia, come la psicoanalisi freudiana) ? Questo dicono le ultime quattro righe del libro che riprendono la tematica conclusiva dell’Introduzione iniziale, per cui la coscienza «carnale», ora divenuta «soggetto» si ritrova, e resiste, con la «sensazione della propria sofferenza» (CE, p. 29) capace di tamponare il reiterarsi del trauma. La coscienza «non dispone di alcun’altra protezione contro il suo annullamento da parte del trauma, che non sia tale sensazione della sua sofferenza e della sua vulnerabilità di cui si è visto che non si situavano né dentro né fuori, ma all’interno dei diversi avvenimenti traumatici».2 Trauma e sofferenza e vulnerabilità al trauma, ripetiamo, sono bensì avvenimenti di una storia coscienziale, ma non sono,o non sembrano, proprio per questo, degli avvenimenti fenomenologici. Oppure accade che la fenomenologia abbia, nel corso del libro, mutato la sua fisionomia husserliana?

Il tema centrale dell’Introduzione è quello del «meticciato» (CE, p. 27) che segna la fisionomia della coscienza originariamente ed intimamente fenomenologica, dimostrandosi vera anche per questa via l’ipotesi che Bernet abbia declinato il rapporto tra la parte fenomenologica e la parte esistenziale del suo libro (per esprimerci con qualche semplificazione), nel senso dell’affermarsi di una segreta congruenza che travolge il quadro fenomenologico husserliano, mentre consente che le conseguenze che si possono trarre oltre Husserl stesso lo lascino intatto nei suoi motivi o nella sue intenzioni strutturali, come se la coscienza di Husserl si collocasse di diritto oltre Husserl ma non potesse stare senza di lui. La coscienza «meticcia» costituisce la condizione essenziale propria perché cada ogni unidirezionalità e ogni unidimensionalità nel rapporto della coscienza con l’alterità, concepita come una serie di «figure», e non nella forma dell’alterità radicalmente unica che l’altro dalla coscienza assume ad esempio nella psicoanalisi. Osservando la coscienza dal punto di vista della molteplicità della figure di ciò che le è altro, Bernet descrive la situazione che il suo libro illustra dicendo che «l’essenza segreta della coscienza si rivela nell’incontro con ciò che si sottrae alla sua presa», il che vuol significare, in modo alquanto paradossale, che l’alterità dalla coscienza la conduce all’isolamento da essa nell’atto stesso in cui pure avviene, entro il rapporto con l’alterità, un contatto e un incontro con essa. Niente meglio del concetto di «meticciato» coscienziale potrebbe illustrare il caso – che improvvisamente assegna al paradosso un valore costruttivo lontano dalla contraddizione distruttiva – di un soggetto-coscienza che si rapporta a ciò che non è suo, consentendo che quest’ultimo la contamini a sua volta in uno dei molti modi in cui a sua volta le si rapporta, trasformandone la fisionomia e facendola fuoriuscire dalla gabbia oppositiva coscienza-altro dalla coscienza. Non sarebbe difficile mostrare, ma non è questo il luogo per farlo, che anche nella psicoanalisi freudiana il rapporto tra coscienza e inconscio sfugge alla contrapposizione di una rigida esclusività reciproca. Ma quali caratteristiche ha l’incontro della coscienza con quella alterità che ne plasma la fisionomia meticcia? Si potrebbe rispondere osservando che la coscienza agisce per via negativa e difensiva rispetto all’alterità, e che quindi non ci troviamo di fronte ad un incontro alla pari o simmetrico, dal momento che la coscienza si muove e si posiziona verso l’alterità, con obiettivo di non subirla passivamente, ma di farne un uso che confermi la propria preminenza di soggetto dell’operazione relazionale di «meticciato», allo scopo di salvaguardarsi e di de-finirsi rispetto a ciò che ora appare il «trauma» traumatizzante dell’altro trascendente.

Si tratta di un passaggio per molti aspetti fulminante e profondo, per quanto iniziale e introduttivo che assume l’importanza di quel che riassume, in linea generale ma in termini molto netti, il senso complessivo dell’intera lettura di Bernet. Questi vede bene che nell’atto di rapportarsi all’alterità, la coscienza scopre la natura dinamica del rapportamento, conseguenza del fatto che essa nell’avvicinarsi senza fini di dominio a ciò che le si sottrae, si comporta come ciò che resiste ai colpi di un trauma, autentica essenza dell’alterità. Ciò non accadrebbe se la coscienza- soggetto perdesse l’iniziativa relazionante che essa comunque mantiene, mettendosi in questo modo nella condizione di scontrarsi nell’incontro con la durezza di ciò che, sottraendosi alla presa che per la sua stessa costituzione essa vorrebbe realizzare pur senza dominare e fagocitare, si mostra ostile ed offensivo nei suoi propri confronti. Essa non intende mai «assimilare e digerire ciò che le è estraneo, per meglio dominarlo». Qui dicevamo, si addensa il nucleo della coscienza secondo Bernet e qui si capisce che l’assenza o il rifiuto della declinazione metafisica del rapporto tra coscienza ed esistenza realizza il nucleo propriamente fenomenologico, non più rigorosamente husserliano, ma di una fenomenologia ‘altra’, della sua lettura. «Lungi dal semplicemente subire l’esperienza di un’alterità sia esterna che interna, la coscienza può prendere l’iniziativa o almeno ‘prendere posizione’ nei suoi confronti» (CE, p. 28). Affronta l’alterità per ricavarne la propria stessa salvezza. Come si vede,la coscienza segue un comportamento conflittuale e difensivo. La sua prassi fenomenologica mira a farla restare, contro gli attacchi traumatici, quella che è, una coscienza che va contro il suo altro che, nella forma dell’esperienza dell’esistenza che essa affronta, si presenta ostilmente. Deve mettersi in salvo reagendo e per continuare a reagire. «La sua preoccupazione vitale è di salvarsi resistendo al proprio annientamento da parte di una trascendenza traumatizzante» (CE, p. 28). Ma l’evento traumatico, nonostante la sua ostile violenza contro la coscienza, interagisce con essa, che a sua volta gode di un margine per resistere, non nonostante il trauma, ma grazie ad esso, fino al punto di configurarsi originariamente come una «coscienza ferita» che convive con il suo trauma e così se ne difende. L’alterità è altro da lei, ma al tempo stesso è in lei, come limite ostile che deve contenere e rintuzzare. Così, resistendo alla sua sofferenza grazie alla sofferenza stessa che ne difende l’identità, la coscienza non passa semplicemente il limite che la introduce nell’esistenza, ma si fa essa stessa esistenza: questo processo è fenomenologico, non metaforico, perché ha da sempre sfondato la barriera costituita dal suo rinchiudersi nel nesso con la logica, ossia con la forma in cui originariamente appare.

Come è possibile tuttavia che questa situazione instabile si mantenga e che la coscienza non rovini sotto l’attacco del suo trauma? La risposta è che la coscienza deve scoprirsi come essa stessa sofferenza, modo essenziale della sua identità conquistata nel conflitto con ciò che ne vuole l’annientamento. Come è possibile che l’evento traumatico, il non rappresentabile per eccellenza, possa accompagnarsi a ciò che esso ferisce facendosi suo e dunque lasciarsi convivere con la coscienza a fini della sopravvivenza sua e della coscienza da lui ferita. Esso lascia vivere «una coscienza minimale da cui dipende la sopravvivenza del soggetto», ma tale residualità della coscienza minima è in realtà l’espressione della strutturalità che lega la coscienza al suo trauma, ciò che appunto, invece di portarla a distruzione, instaura un equilibrio drammaticamente dinamico, condizione stessa del suo restare come coscienza, dopo aver superato il rischio dell’annientamento (rischio, si noti, da sempre superato e vinto). Ci si chiede come sia possibile scongiurare tale rischio «se l’evento che ne è la causa si rifiuta ad ogni rappresentazione e il soggetto è già troppo colpito per avere la libertà di situarsi in rapporto a lui [?]. Di quali mezzi il soggetto traumatizzato dispone ancora per affermare la sua esistenza ‘malgrado sé’ e malgrado tutto?» (CE, p. 28). Rudolf Bernet deforma fino a tal punto la coscienza costituente e la soggettività fenomenologica husserliana da ricondurla entro le coordinate della sua stessa sofferenza che ne modificano l’assolutezza trasformandola da soggetto costituente in soggetto «evenemenziale», la cui nuova assolutezza resiste tra i traumi che la assediano senza sosta e che la fanno vivere in quanto essenzialmente, reiteratamente e costantemente ferita. Accade in qualche modo che Bernet racconti la storia fenomenologica, non empirica, di una coscienza vulnerata e vulnerabile. Egli ha in mente una possibile conclusione freudiana di tale storia essenziale.

Sia consentita una citazione lunga della pagina finale dell’Introduzione, una pagina cruciale per la comprensione di quel che della coscienza fenomenologica husserliana accade in questo libro. «Quando la rappresentazione dell’evento e la rappresentazione di sé sono divenuti impossibili, al soggetto non resta che la sensazione della propria sofferenza»: alla coscienza si sostituisce il soggetto, come si vede in questo passaggio così radicalmente fenomenologico-esistenziale, come d’altra parte il soggetto fenomenologico non ha il vissuto della propria sofferenza, ma la «sente», la vive sentendola. La coscienza, si è detto, si è fatta esistenza, restando coscienza: questo suo farsi esistenza coincide con il suo resistere sul terreno della propria sofferenza, ossia su quel terreno residuale, ma essenziale e non eliminabile, su cui accade il darsi della propria esistenza anticartesiana nella forma del proprio soffrire. Il margine del soffrire diventa il tutto della coscienza. «Questa coscienza carnale, fatta di sottomissione e di resistenza è l’ultima e più fondamentale risorsa di un soggetto che può affermare la sua esistenza solo riconoscendosi non solo vulnerabile, ma già ferito». Coscienza «carnale» e per questo vulnerabile e vulnerata, dunque, è la declinazione della coscienza fattasi esistenza: ma coscienza carnale fenomenologica, non soggetto empirico o metafisico. Nella «traduzione» di Bernet, la fenomenologia è la precondizione della sua stessa traducibilità. Dalla fenomenologia non si esce e anche lo scarto infimo tra la sensazione di sofferenza e l’evento traumatico da cui il soggetto ricava la sua forza di resistenza al «trauma» avviene per via fenomenologica, essendo tutti fenomeni tanto la sensazione di sofferenza della coscienza carnale, quanto l’evento traumatico, così come in primo luogo lo «scarto» tra sofferenza e trauma, su cui si appoggia la resistenza della coscienza. Tale «scarto» rappresenta lo spazio fenomenologico in cui si vede accadere che «la resistenza resterà sempre condizionata dall’evento che l’ha resa necessaria» e che quindi inestricabilmente le si collega per formare una soggettività ferita in balia dei traumi che la sommergono e la lasciano riemergere. Qui si entra nell’ambito dell’impossibilità: «se il soggetto traumatizzato può ancora rispondere al trauma che ha subito, la sua risposta porta le stigmate della impossibilità» dovuta al fatto che il trauma costringe la coscienza ad una risposta che non può dare, essendo condizionata ed attivata dal trauma che la assedia, inibendo ciò che pure sollecita. Il solo possibile modo di pensare la risposta della coscienza al trauma, risposta che si radica nella sensazione di sofferenza, è di immaginare una «doppia impossibilità di rispondere e di non rispondere all’evento traumatico» (CE, p. 29), il che conduce all’ipotesi che il «sintomo» freudiano costituisca il «terzo» che, oltre la relazione duale intrinseseca tra sofferenza e trauma, appare capace di presentarsi come «un’autoaffermazione di sofferenza il cui senso non può essere restituito al soggetto che da un terzo» (CE, p. 29) ossia da un altro che è terzo rispetto alla dualità sofferenza-trauma. Ma il terzo (della relaziona analitica, si deve supporre) non guarisce dal trauma e la coscienza che resta vulnerabile completa così la sua parabola ellittica che, mantenendola quella che essa originariamente è, la conduce non oltre la fenomenologia, ma oltre Husserl, nell’esistenza, luogo fenomenologico di conferma della propria identità.

2. Logica, coscienza psicologica, coscienza fenomenologica

Come è noto, la critica dello psicologismo nel primo volume delle Ricerche logiche di Husserl è essenziale per definire il rapporto tra la logica e la coscienza fenomenologica, che deve distinguersi dalla coscienza psicologica e abbandonare ogni traccia di psicologismo3. Questo non significa che il rifiuto della psicologismo conduca Husserl verso una forma di logicismo puro o di platonismo ingenuo. È importante rilevarlo a seguito di Bernet, perché la direzione normativa che la logica antipsicologistica prende, mentre tiene fermo il punto della sovranità e assolutezza della logica, priva di debiti verso un qualche soggetto conoscente, chiama in gioco anche il soggetto della conoscenza il cui rapporto alle leggi logiche è tale da non cancellarne l’alterità, ma contribuisce alla loro realizzazione effettiva. Già qui, dunque, sulla linea di separazione tra la coscienza psicologica e la coscienza logico-fenomenologica, e senza che la reciproca irriducibilità venga messa in discussione, si snoda il filo di un contatto dovuto al fatto che le leggi logiche condizionano il soggetto che conosce ed influiscono normativamente sulla legittimità dei suoi atti di conoscenza reali. In un certo senso, tale filo collega la logica pura alla realtà degli atti di conoscenza di un soggetto: la coscienza logica va quindi oltre se stessa, sebbene non sia questa esistenza gnoseologica ciò cui si riferisce Bernet quando parla della movenza verso l’esterno di ciò che si sottrae alla presa della coscienza. Il motivo di fondo del libro (la discesa parabolica della coscienza logica sovrana, contaminata dalla esistenza fino a diventare infine, per questo, una coscienza ferita) si annuncia già qui. Il normativismo della coscienza logica e della sue leggi allarga la propria attenzione al soggetto del sapere. «Adottando una forma normativa, la legge della logica pura si rivolge esplicitamente al soggetto del sapere, e, assicurandosi del concorso della psicologia empirica, la tecnologia pratica derivata dalla logica pura si preoccupa della possibilità reale, per questo soggetto, di rispettare tale legge nei suoi atti di conoscenza».

Abbiamo parlato della coscienza logica o della coscienza della legge logica. Ma sappiamo, e dobbiamo precisare che la logica non deve niente alla coscienza psicologica, il che vuol dire che nella comprensione intuitiva di una legge logica la coscienza si supera, si autotrascende, come accade nella comprensione del principio di contraddizione, «nel quale la coscienza si rapporta a qualcosa che le resta radicalmente estraneo, ossia a qualcosa che non ha la natura della coscienza e le resta irriducibile». Ma quel che ci interessa in quanto conferma la presenza della traccia del rapporto generale della coscienza con la sua alterità sviluppato nell’intero libro, e avanzato in forma di ipotesi in ciò che qui precede, viene detto subito dopo: «Così, ogni vissuto di evidenza che si rapporta agli oggetti ideali della logica è già l’incontro con una alterità assoluta che prefigura in maniera essenziale tutti gli altri incontri della coscienza con delle forme più personali dell’alterità» (c.m.). In linea del tutto generale, la coscienza viene definita e analizzata dal punto di vista della sua modificazione alterante. Questo punto di vista critico precede e guida tutte le analisi di Bernet, sia della prima che della seconda parte del saggio, piuttosto che esserne il risultato, come se Bernet, nel passaggio dalla «ontologia dell’oggetto e fenomenologia della coscienza» della prima parte alla «fenomenologia dell’esistenza e ontologia dell’evento» della seconda, non perdesse mai di vista che «l’alterità rispetto alla coscienza» è il punto nodale della propria analisi e che il suo discorso lo conduce a radicalizzare, ma anche a dislocare fortemente il senso di tale alterità, visto ora nella forma della «ontologia dell’evento» entro l’orizzonte della «fenomenologia dell’esistenza».

L’origine logica o l’intuizione d’essenza dei concetti, che lascia da parte la questione dell’origine psicologica della genesi della rappresentazioni concettuali, subisce una modifica nella seconda edizione delle Ricerche logiche diventando «origine fenomenologica». Pur esitando, Husserl concentra la sua attenzione non tanto o non solo sulla separazione dell’origine psicologica dall’origine logica dei concetti, quanto su ciò che l’origine logica può avere in comune con l’origine fenomenologica di tali concetti, così come con una fondazione fenomenologica delle leggi logiche che regolano il loro utilizzo. Si tratta di un punto sottile ma di grande rilevanza, secondo Bernet e di chi ne condivide la questione specifica: fermo restando il rifiuto dell’origine psicologica dei concetti, che cosa lega l’origine logica dei concetti all’origine fenomenologica, fino quasi a sovrapporvisi, e che cosa determina l’impostazione generale che non può fare a meno di tale legame e di tale sovrapposizione poiché essa impone il passaggio solo ed esclusivamente di ordine fenomenologico attraverso il procedimento di una coscienza pura che la logica letteralmente non può conoscere? In questo modo, trattando del rapporto tra una coscienza pura e una coscienza psicologica o, all’opposto fenomenologica, Husserl mantiene al centro del campo della ricerca il ruolo e la funzione della declinazione fenomenologica della coscienza, sola capace di porre il problema del suo intrinseco condizionamento da parte dell’alterità, se si vuole della sua alterabilità, della sua fisionomia «meticcia», che lo guida fin dall’inizio libro, sia la sua parte coscienziale, sia la sua parte esistenziale. Bernet comprende bene che soltanto il lavoro di analisi e di indagine sulla coscienza pura apre l’orizzonte della fenomenologia, la conduce senza preoccuparsi di giustificare le rotture di continuità rispetto al pensiero husserliano, nella regione della esistenza, per ricondurla infine a se stessa a partire da una esistenza filtrata fenomenologicamente, ed ottenere infine una coscienza segnata dal destino dell’«incontro con ciò che si sottrae alla sua presa».4 Così quello che all’inizio è un programma riassunto nella affermazione appena fatta, diventa il programma realizzato dell’esibizione di una coscienza originariamente husserliana ‘aperta’ alla doppia e opposta declinazione della possibilità e della impossibilità della risposta ad un trauma, forma radicale della alterità che appunto la ‘apre’.

Il problema che abbiamo di fronte consiste nel sapere che cosa possa essere una «origine non psicologica dei concetti» e come da questo punto di vista, evidentemente non sufficiente per Husserl perché il capitolo ha un telos esplicitamente fenomenologico e implica quindi che oltre la psicologia e la logica che se ne distingue si possa giungere alla qualificazione fenomenologica dei concetti, in assenza della quale tutto il senso dell’operazione che si sta compiendo verrebbe a cadere. L’obiettivo è bensì quello di determinare che l’origine logica o fenomenologica (c.m.) deve prendere le mosse da una «intuizione dell’essenza» o «ideazione» che è di tipo apparentemente solo logico (sebbene l’ordine fenomenologico subito si affacci ad indicare il passo successivo del percorso oltre la sola logica). Fermarsi ai procedimento di «intuizione dell’essenza», di ideazione e dunque di «astrazione» dalla empiria naturalistica dello psicologismo significherebbe non vedere che il passaggio husserliano alla fenomenologia comporta una sorta di doppio salto in avanti, quello che respinge le incongruenze logico-argomentative dello psicologismo, e quello che vede affacciarsi ed affermarsi il piano fenomenologico dall’interno stesso dell’orizzonte logico. Vale appena la pena di osservare che l’«astrazione ideatrice» che qui dà vita agli «oggetti ideali», ai «significati» e a quelli che vengono chiamati anche «oggetti categoriali», ci metterebbe nella condizione di vedere anticipata qui la critica della astrazione idealizzante indicata come causa della crisi di senso della scienza nella Crisi delle scienze europee. D’altra parte, sembra proprio che nella «astrazione ideatrice» manchi ogni traccia della soggettività costituente fenomenologica. Se tuttavia non dimentichiamo la concentrazione di Husserl verso l’origine della scienza fenomenologia in quanto tale, e verso l’origine dei concetti fenomenologici, che ‘apre’, come si detto, la coscienza oltre la sua (peraltro intenibile ) chiusura logica, osserviamo che con la revisione, nel 1913, dei Prolegomeni, Husserl vede qualcosa che riguarda la «riflessione fenomenologica», assente in quanto tale dall’origine psicologica della psicologia empirica. «La riflessione fenomenologica, ossia una percezione interna purificata da ogni appercezione empirica dei vissuti della coscienza, gioca un ruolo essenziale nella formazione intuitiva dell’essenza concettuale dei termini fenomenologici che si applicano agli atti della coscienza pura». Dunque è alla formazione dei concetti propri degli atti della coscienza pura, che mira la riflessione fenomenologica sovraempirica dei vissuti della coscienza. Ma Husserl vede altrettanto chiaramente che tale riflessione fenomenologica «è ugualmente implicata nell’origine fenomenologica dei concetti della logica pura», cui in un primo momento sembrava ci si fermasse. Il passaggio è sottile ma è importante per capire l’argomentazione di Bernet secondo cui «l’origine logica di tutti i concetti è fenomenologica». Ciò ci conduce a comprendere che la fenomenologia è presente anche nei Prolegomeni, dove la validità delle leggi logiche, in assenza di ogni altro tipo di fondazione, è opera della logica stessa.

Come avviene l’innesto della fenomenologia in questo ambito? Se un oggetto categoriale implica una relazione («relazione concreta che serve di fondamento all’astrazione ideatrice della categoria logica di ‘relazione’») tale relazione che conduce all’astrazione idealizzante della categoria di relazione e dunque attinge un oggetto categoriale logico formantesi grazie a una astrazione dalla concretezza dell’empiria può essere offerta della «riflessione fenomenologica sull’atto di messa in relazione che si trova alla sua origine». Dunque entro l’atto della messa in relazione che porta all’astrazione logica idealizzate si accende la luce fenomenologica che riflette su tale atto, in certo senso lo autorizza e lo produce come atto di nascita dell’astratto logico, e mostra che tale atto produttore del logico viene formato e diviene visibile grazie a una riflessione sull’atto che non è più logica, ma fenomenologica, capace di dare il senso di quell’atto astraente che segue le leggi logiche e genera il ‘logico’. Il fiorire della fenomenologia avviene, si noti perché si tratta del punto nodale dell’analisi di Bernet che non esita a cogliere questo affacciarsi della fenomenologia là dove essa sembrerebbe esserne esclusa, in quei Prolegomeni che mirano al «chiarimento» dei concetti e non, in alcun modo alla «giustificazione fenomenologica della validità della logica». Ma, come si è appena visto, l’innesto della riflessione fenomenologica su quello che è comunque un atto, l’atto della relazione astraente cambia l’orizzonte teorico e consente a Bernet di considerare come una sequenza fenomenologicamente necessaria quella che conduce, con l’estromissione della coscienza psicologica, dalla logica alla coscienza fenomenologica, attiva, come elemento propriamente soggettivo-fenomenologico nel prodursi della riflessione sull’atto. Ancora all’inizio del libro, il programma di ‘apertura’ della coscienza messo in opera da Bernet, ossia l’operare stesso di condizioni fenomenologiche è già fortemente anticipato, sebbene resti chiaro che il quadro della chiusura logica non viene distrutto, ma solo segnato da una traccia che allude al successivo dipanarsi della traccia coscienziale soggettiva in senso fenomenologico. Qui ha già inizio il processo argomentativo che attraverso una serie complessa e variata di passaggi conduce la coscienza che si fa spazio nella logica dei Prolegomeni alla coscienza traumatizzata ferita e vulnerabile che appare alle fine, tramite le sollecitazioni prevalenti di Emmanuel Lévinas, fenomenologo eterodosso. La giustificazione fenomenologica della validità della logica viene esclusa nei Prolegomeni, osserva Bernet, per il timore di una qualche ricaduta nello psicologismo e per la convinzione che l’evidenza logica antipsicologistica «è sufficiente a se stessa e non ha luogo quanto alle sue condizioni di possibilità. Se la domanda della giustificazione della validità delle leggi logiche doveva avere un senso nel quadro ‘idealistico’ dei Prolegomeni, essa non poteva essere che l’opera della logica stessa(c.m.), perché i Prolegomeni sembrano ignorare ogni forma di fondazione che non faccia appello alle ragioni oggettive della logica pura».

3. Verità detta e coscienza intuitiva

Prima di passare, seguendo il corso dei capitoli del libro di Bernet, all’analisi del rapporto tra la coscienza, le cose e il linguaggio,5 ricordiamo anzitutto che l’autore avverte che fu Husserl stesso a dire che le Ricerche logiche sono state l’opera ella «apertura» della fenomenologia. «È senza dubbio il superamento della psicologismo, cioè tanto il suo rifiuto quanto la realizzazione non contraddittoria delle sue motivazioni legittime, che ha aperto la via di questa fenomenologia nuova»6. Ma proprio l’evocazione di questa tesi ci riconduce per un momento alla conclusione del commento fatto al capitolo precedente, consacrato, come si ricorderà, alla questione del bivio in cui viene a trovarsi la logica, tra il retrocedere e l’’abbassarsi’ alla coscienza psicologica e l’aprirsi all’aprentesi fenomenologia. Husserl parla della logica come «tecnologia logica» ossia come tecnica del pensare logicamente corretto, e Bernet osserva che «il soggetto a cui si rivolge una tecnologia logica non è mai solamente ed esclusivamente il soggetto della psicologia empirica. Esso è sempre ugualmente il ‘soggetto ideale…della logica normativa, così come il soggetto di questa ’coscienza in generale’ per la quale la logica pura definisce le condizioni obiettive della possibilità ideale di una conoscenza della verità sotto forma di un vissuto di evidenza». Dunque la stessa logica normativa, la tecnica del corretto pensare, che più sembra estranea e in certo senso lo è alla ‘apertura’ fenomenologica conduce ad una conoscenza della verità come evidenza della verità stessa, e,lo può fare perché la logica pura fornisce a questo passaggio «le condizioni obiettive di una possibilità ideale». Ma la possibilità ideale, se da un lato si appoggia alle condizioni logiche obiettive, dall’altro chiama in gioco la coscienza che sul fondamento di tali condizioni logiche obiettive conduce a quella verità come evidenza che va oltre e altrove rispetto alla semplice obiettività, appunto perché implica l’intervento della coscienza, fonte di evidenza soggettivo-fenomenologica.

Questo significa che «non è disinteressandosi della coscienza che i Prolegomeni riescono a salvare l’idealità degli oggetti logici dalla contaminazione dai modi erronei dello psicologismo». Nei Prolegomeni, come si è già visto, Husserl non sacrifica la coscienza a vantaggio della dimensione logica degli oggetti per evitare di scivolare nello psicologismo coscienziale. In realtà, Husserl combatte lo psicologismo logico «distinguendo con precisione le differenti forme della coscienza e le differenti concezioni del soggetto della conoscenza implicate nelle diverse formulazioni delle leggi logiche». Bisogna non confondere, dunque, i modi diversi in cui la coscienza, la soggettività e la conoscenza entrano nella formazione delle leggi logiche. Lo psicologismo cade in un errore di unilateralità, nel momento in cui cerca legittimamente o comunque coerentemente con una impostazione fenomenologica, di stabilire che «gli oggetti logici intrattengono rapporti essenziali con i vissuti soggettivi». Non si attesta quindi affatto su una posizione antifenomenologica, pur nell’atto in cui pretende di chiamare la psicologia a fondare le idealità logiche, come sarà attestato anche dai rapporti che nella Crisi non tralascia di indicare tra psicologia e fenomenologia. «La colpa della psicologismo è di aver misconosciuto la diversità e la complessità dei rapporti [con i vissuti soggettivi] e di aver voluto comprenderli tutti a partire dal solo modello di una genesi psicologica delle idealità logiche nella coscienza empirica».

Che cosa è opportuno mettere in rilievo del secondo capitolo che abbiamo iniziato a scorrere con l’obiettivo di una maggiore concisione rispetto al precedente? Esso ruota sull’esame della Sesta Ricerca, mediante «la considerazione degli atti intuitivi e in particolare delle percezioni sensibili e delle intuizioni categoriali…La sua ‘delucidazione fenomenologica della conoscenza’ esamina di primo acchito l’atto intenzionale nella prospettiva del suo intreccio con le cose stesse e i nomi o i concetti». La Sesta Ricerca, nel momento stesso di trattare del rapporto tra sensibilità e intelletto si ricollega ai problemi principali della filosofia tradizionale e, soprattutto «riflette sul carattere propriamente fenomenologico del suo approccio a questi problemi». È di grande rilievo il fatto che essa intraprende, prima della introduzione esplicita della teoria della riduzione trascendentale, questa meditazione sulla «fenomenologia della fenomenologia» che proseguirà lungo tutto il corso dell’opera husserliana. È ben vero che non si dà fenomenologia senza riduzione fenomenologico- trascendentale, ma quel che Bernet mette in rilievo è che quest’ultima compare entro l’orizzonte dell’esame fenomenologico delle condizione del darsi di una fenomenologia, condizioni che sono esse stesse fenomenologiche e che in certo senso anticipano la fenomenologia a se stessa, facendone un luogo a cui si decide di avere accesso, nell’atto stesso di esservi di già impiantati: ciò che si scopre retrospettivamente o après coup. Quel che Bernet intende mettere in rilievo è ciò su cui abbiamo richiamato sopra l’attenzione, ossia quella concezione «dinamica» della coscienza come «desiderio di verità» che, insieme al rilievo che hanno in essa le molteplici forme di ‘assenza’ che attraversano il suo cammino verso la verità, rendono problematica l’identificazione della teoria husserliana della conoscenza con una «metafisica della presenza». Si compie in questo modo un ulteriore passo verso la conferma della nozione autentica della coscienza come di un movimento desiderante aperto nella direzione di un rapporto con ciò che «si sottrae alla sua presa». La forza portante di tale movimento è un «desiderio» di verità piuttosto che il desiderio ci una cosa, il che conferma la sua dinamicità, la sua apertura sull’alterità e la sua irriducibilità ad una forma di intuizionismo.

L’intreccio tra la coscienza, la cosa e il linguaggio a luce della coscienza intenzionale conduce la fenomenologia della conoscenza a confrontarsi con una sua duplice funzione: come mira soggettiva rivolta ad un oggetto e come «orizzonte dell’apparire dell’intreccio tra soggetto, oggetto e significato». Anche l’orizzonte di tale intreccio quale espressione della funzione della coscienza possiede una connotazione dinamica: esso non chiude in sé l’intreccio stesso, ma gli conferisce le condizione della possibilità di svilupparsi. Husserl definisce «verità» l’apparire di tale intreccio e si apre quindi la questione della funzione della coscienza come orizzonte dell’intreccio (e non semplicemente come suo elemento). In quanto tale, infatti questa «coscienza singolare» si presenta quale «luogo dell’evento della verità». Bernet definisce «singolare» tale coscienza e poi precisa che essa deve essere considerata «seconda» rispetto alla prima (semplice riferimento mirato ad un oggetto), perché appunto «la coscienza intuitiva dell’apparire della cosa stessa non costituisce ancora, da sola, una coscienza della verità». È solo la coscienza «seconda» che «assegna valore di verità a una intuizione», lo fa appunto in quanto orizzonte dell’apparire di un intreccio dinamico tra soggetto, oggetto e significato. La coscienza non può ridursi, si è detto, a intuizione di una cosa, ma deve essere, con la parole di Husserl «coscienza sintetica del riempimento intuitiva di una intenzione». Il ruolo di riempimento intuitivo di una intenzionalità che le appartiene modifica radicalmente il suo essere solo una soggettività mirante ad un oggetto ed al suo apparire intuitivo ed è ciò che autorizza Husserl a pensarla come fornita di una intenzionalità che possiede capacità sintetiche, che oltrepassano la sua ‘fotografia’ intuitiva di una cosa. La coscienza ci appare di nuovo come un processo la cui intenzionalità e la cui sinteticità la portano ad aprirsi in avanti incontrando, anzi costituendo, l’orizzonte della verità. È in virtù di questa premessa essenziale che ne svela il carattere internamente fenomenologico che prima restava occultato, che Bernet ritiene che si debba mostrare che «il desiderio - di verità, piuttosto che di intuizione – vi giochi un ruolo preponderante». Una volta fissato il volto desiderante della coscienza, la riducibilità della teoria husserliana della conoscenza in chiave di coscienza fenomenologica ad una «metafisica della presenza» risulta sconfitta. Il movimento di quella che abbiamo chiamato la «parabola della coscienza» compie un passo ulteriore. Il libro di Bernet viene configurandosi sempre più chiaramente come una teoria di questa coscienza, la cui fisionomia tende a enfatizzare programmaticamente gli aspetti dinamici della coscienza husserliana a vantaggio di altri a carattere intuizionistico. «La distinzione tra il desiderio di una cosa e il desiderio della verità ci permetterà … di mostrare come una interpretazione della fenomenologia husserliana della conoscenza in termini di ‘intuizionismo’ o di ‘metafisica della presenza’ disconosca la natura ‘dinamica’ della coscienza e le molteplici forme di assenza di cui deve tener conto nel suo cammino verso la verità».

Dire che la coscienza ha di mira la verità costituisce, ribadiamo, uno spostamento non poco rilevante rispetto ad una impostazione intuizionistica ‘semplice’ della conoscenza della coscienza,ed induce a chiedersi che cosa comporti l’innesto del fine della verità e del «rispetto» della cosa come si mostra in se stessa che sembra discenderne, quando si dica che il rispetto per la verità della cosa resta «oggetto di un desiderio». La risposta non intende cancellare il desiderio della comprensione, intende piuttosto delineare quel desiderio di comprensione che, mentre assegna al desiderio stesso un ruolo essenziale, lo collega al fine del raggiungimento della verità della cosa - e configura ancor più la conoscenza fenomenologica come un movimento intenzionale mirato e ora per di più guidato da un desiderio. «Il rispetto per la cosa va alla pari con un desiderio di vigilanza e più precisamente di responsabilità dell’affermazione a fronte del proprio dire. Il fine di questo desiderio di riempimento intuitivo è dunque una parola piena che non soltanto si avvicina al massimo alla cosa stessa, ma, soprattutto si sottomette alla sua legge. Il desiderio che mira ad una correttezza del giudizio si cancella davanti al desiderio di una giusta comprensione della cosa per ciò che essa è in se stessa». Dove, come si comprende bene, il punto chiave è dato dal sottomettersi della comprensione della cosa alla «legge» della cosa, in opposizione ad ogni fagocitazione della cosa. D’altra parte che cosa altro determina tale sottomissione alla legge della cosa se non che la cosa stessa possiede una struttura di fenomeno, e che può esserne colta la verità solo da una intenzionalità intuitiva fenomenologica che mira alla sua verità?

Due punti mi interessano ancora, entrambi collegati con quanto siamo venuti osservando fin qui. Da un lato vi è il tema della «metafisica della presenza» e della sua inaccettabile funzione quale mezzo di definizione della conoscenza propria della conoscenza fenomenologica, a causa della sua lacunosità. Se si accettasse la tesi della «metafisica della presenza» quale espressione della posizione husserliana, la dinamicità della coscienza conoscente fenomenologica verrebbe seriamente colpita poichè solo il gioco della presenza e dell’assenza del riempimento intuitivo può supportarla. «Bisogna arrendersi all’evidenza che ogni sintesi di riempimento – sensibile o categoriale – è fatta di un gioco incessante di presenza e di assenza e che ogni presenza si stacca su un fondo di assenza. Se la presenza piena è univoca, l’assenza al contrario è multipla e irriducibile. All’assenza come mancanza della presenza nella intenzione significante corrisponde, il più spesso, una nuova assenza nell’intuizione riempiente stessa, cioè quella di una donazione esaustiva o sufficientemente chiara della cosa». D’altro lato, resta la questione del linguaggio, della parola deputata a dire la verità, quale esito del rapporto tra coscienza, cosa e linguaggio stesso. Tutto cambierebbe nell’impianto fenomenologico, se fosse affidato al linguaggio stesso la sintesi dei tra poli, come se il linguaggio potesse ‘creare’ la verità. Detta, enunciata dal linguaggio, la verità lo trascende quanto alla sua genesi fenomenologica. «Anche se la conoscenza e il desiderio di conoscere rinviano sempre a una mediazione tra la coscienza e la cosa, e anche se è incontestabile che il linguaggio esercita un ruolo primario nel gioco di quel che contribuisca riunire». Nessuna presunta creazione linguistica può sostituire l’apparire fenomenologico della cosa. «Esattamente come la percezione non crea l’apparire della cosa stessa e la cosa non crea la coscienza, il linguaggio non precede l’incontro di cosa e coscienza.» Molto si impara da queste osservazioni: la fenomenologia non è creatrice di qualcosa che venga poi espresso. Essa in virtù dell’operare della coscienza intenzionale costituisce il suo oggetto e attinge la verità della cosa in quanto la costituisce quale fenomeno. Tutte le Ricerche logiche non sono che un unico infaticabile sforzo di pensare l’intreccio originale della cosa, della conoscenza e del linguaggio, così come il loro apporto all’avvento della verità.

4. Gli oggetti fittizi e la coscienza presentificante

Alterità, estraneità e assenza (o presenza-assenza) sono i concetti che costituiscono la trama più o meno visibile del capitolo dedicato agli oggetti di fantasia o in generale agli oggetti immaginari, messi a confronto con gli oggetti del ricordo.7 Non per caso, Bernet fa seguire a questo il capitolo dedicato alla temporalizzazione della coscienza,dove il tema della ritenzione della coscienza impressionale introduce a sua volta una ulteriore declinazione dell’alterità rispetto alla coscienza del presente o dell’ora, che non potrebbe essere separata dalla questione dell’alterità dell’alter ego, a sua volta messa a confronto, più avanti, nella seconda parte del libro con la radicalizzazione-rovesciamento dell’alterità teorizzata da Emmanuel Lévinas. Si conferma così che l’intento principale di Bernet è l’esibizione dei modi di ‘apertura’ della coscienza oltre se stessa, o della sua rottura rispetto al modo della semplice presenza metafisica. Il senso antiderridiano di questo orientamento appare evidente. Se quella che nel titolo viene chiamata «esistenza», nell’accostamento che ne viene fatto alla coscienza, se ciò che via via viene apparendo nel corso del libro è la forma di una modalità del rapportamento quale luogo del darsi dell’alterità alla coscienza che viene tuttavia vista come elemento strutturale della coscienza stessa. il percorso si conclude coerentemente, lo si è detto, con la fenomenologia della coscienza ferita che può rispondere ma anche non rispondere al trauma, e quindi con la psicoanalisi del sintomo e della sua elaborazione nel setting psicoanalitico.

L’immaginazione non è un segno, non è una rappresentazione «impropria» (Brentano), non è un significato. È piuttosto una forma intuitiva e sensibile della coscienza intenzionale. «La separazione radicale tra l’immaginazione intuitiva e gli atti significanti avrà così anche per conseguenza non trascurabile che i momenti di una presenza impropria o vuota dell’oggetto… nel senso della percezione non potranno essere confusi con delle intuizioni signitive». Inoltre, l’immaginazione conduce a scoprire una differenza nuova che concerne solo la coscienza presentificante. Nella elaborazione dell’analisi della fantasia pura (reine Phantasie) Husserl introduce una distinzione radicale fra gli atti d’immaginazione «che presentificano un oggetto assente per mezzo di una immagine (esterna o interna) » e gli atti della fantasia pura, «che implicano, al contrario, un raddoppiamento riproduttivo della stessa coscienza intenzionale». La fantasia è una «presentazione neutralizzante», cioè neutrale rispetto alla sua origine o alla sua origine percettiva, ed è inoltre il raddoppiamento riproduttivo della coscienza intenzionale. Mentre l’immaginazione presentifica in una immagine un oggetto assente, la fantasia prende le mosse dalla coscienza intenzionale, duplica la coscienza intenzionale, ne fa cioè un’altra coscienza che nel raddoppiamento riproduce un altro oggetto non percettivo in senso sensibile. La chiave teorica del passaggio di Bernet, che segue le lezioni husserliane,8 è nell’idea del raddoppiamento della coscienza intenzionale. In tale suo divenire doppia la coscienza intenzionale agisce come fantasia. Essa infatti presentifica ma neutralizzando ogni presa di posizione sulla percettibilità del suo oggetto, come si è detto. Il suo oggetto è assente, essa incontra quindi in lui un’alterità, così come d’atra parte succede per quella forma di presentificazione riproduttiva di un oggetto assente che è il ricordo, ed inoltre per la percezione estetica ove la fantasia compie un atto che prende corpo in un oggetto percettivo, sia pure di una percettività non sensibile-materiale. Ed inoltre, ad indicare l’ampiezza del campo che ospita le alterità della coscienza, ossia i fenomeni in cui essa non precipita intenzionalmente in un oggetto suo, la stessa situazione la incontriamo nell’appresentazione dell’alter-ego, ossia di una «coscienza estranea». La scoperta della coscienza riproduttiva comporta che sia stato compiuto un completo riaggiustamento dell’edificio dell’indagine fenomenologica, dei suoi diversi tipi di oggetti e dei corrispondenti atti o vissuti e che ciò avvenga attraverso l’esplorazione della dimensione del tempo e in particolare della «coscienza interna del compimento degli atti intenzionali».

Bernet fa notare che con la sua analisi dell’immaginazione Husserl «fa la scoperta di una forma di negatività sensibile», ossia di una sensibilità negativa, di una sensibilità non presente, o assente ma anche che si presenta a lui «la possibilità di una nuova concezione del rapporto tra il reale e l’immaginario o tra la percezione e la phantasia che (come ogni conflitto) implicherà una forma di reciprocità o anche di dialettica». Si conferma così che la coscienza d’immagine, nel definirsi, quanto al suo oggetto, lontana dal reale, che le resta estraneo o altro, pure resta in rapporto con esso. Ci si trova a confrontarsi con un singolare rovesciamento. Se «si può tentare di prolungare la concezione husserliana dell’immaginazione come modificazione della percezione» (questo infatti essa è, una percezione modificata), si può anche supporre che, viceversa, «la percezione sia, se non una modificazione della immaginazione, almeno una forma di coscienza già sempre aperta sulla possibilità di una presentificazione immaginante». Ben si comprende che il vero e proprio rovesciamento reciproco e dialettico di percezione e phantasia, comporti per Bernet interprete di Husserl qualcosa che va addirittura oltre la collocazione primaria della immaginazione di cui la percezione sarebbe una modificazione, poiché lascia ipotizzare al di là dell’innesto (da Bernet stesso considerato improbabile, per quanto nominato) della percezione sulla immaginazione segnata dalla alterità percettiva dell’oggetto assente o dalla «sensibilità negativa», la presenza di una percezione aperta alla «presentificazione immaginante», ossia aperta al farsi presente percettivo dell’immaginazione e del suo oggetto assente. Come se si volesse enfatizzare da parte di Bernet la presenza di una faglia apportatrice di alterazione nella struttura della percezione che, presa nella sua apparente fisionomia dottrinale, conosce solo la presenza reale del suo oggetto. Il tema della «parabola della coscienza» che abbiamo fissato come filo rosso del libro e del suo processo di apertura e dislocazione della coscienza fenomenologica husserliana, a partire da Husserl stesso, non si appanna ma prosegue, si direbbe, affacciandosi ad ogni angolo dall’argomentazione.

Se l’immaginazione è una coscienza di immagine, la prima forma della dottrina husserliana la determina come «coscienza intenzionale intuitiva e sensibile che si rapporta ad una oggetto sensibile assente. La presenza intuitiva di una immagine è ciò cui Husserl affida la cura paradossale di rendere intuitivamente presente un oggetto assente in quanto assente». È questo il motivo per cui si parlato al proposito di una «sensibilità negativa». È diverso quindi il modo di presenza dell’immagine e il modo di presenza dell’oggetto immaginato, perché la coscienza che presenta (gegenwärtigend ) l’immagine serve di base ad una coscienza che soltanto presentifica (vergegenwärtigend) l’oggetto immaginario, impossibile a presentificasi come immaginario senza quel fondamento che ci dà l’immagine. Siamo nel centro teorico della teoria husserliana dell’immaginazione, e poi della fantasia, di cui mi limito ad ricordare i termini essenziali, senza ripetere le analisi che Husserl riserva loro, ossia in primo luogo la distinzione fondamentale tra «immagine-cosa», «immagine-oggetto» e «immagine-soggetto», ben nota ai lettori delle lezioni sulla fantasia e la coscienza di immagine. «Fra queste, soltanto l’immagine-cosa, cioè l’immagine fisica (il quadro appeso al muro, la fotografia che cade dal mio libro) è intuitivamente data alla coscienza come un oggetto percettivo. L’immagine–oggetto (la montagna all’alba…) non è né veramente percepita né semplicemente immaginata» (non percepita perché non oggetto di percezione sensibile, non immaginata perché non veramente assente ma figurativamente presente). Ma non c’è alcun dubbio che per colui che contempla queste immagini, l’immagine-soggetto (il Cervino visto da Zermatt…) non è mai percepita, cioè essa è puramente e semplicemente «immaginata». Quel che mi interessa è ciò che leggiamo più avanti. La struttura della immagine esterna, a differenza di quella interna, possiede una struttura relativamente semplice, perché in essa «lo statuto problematico dell’irrealtà dell’immagine-oggetto è solidamente accorpata alla realtà percettiva dell’immagine–cosa e alla realtà assente dell’immagine–soggetto». Si noti il valore cruciale dell’espressione che dice che nella immaginazione che vira alla fantasia, la coscienza possiede e si riferisce a una «immagine assente» (la terminologia è, nei due casi precedenti, ripresa da Husserl stesso). Si apre dunque nella intenzionalità di fantasia della coscienza uno spazio dell’assenza, quello dell’immagine di fantasia che letteralmente non si dà nella realtà e che ‘affetta’ o condiziona negativamente la coscienza per la mancanza di percezione corrispondente all’immagine- cosa, e per la percezione di un’immagine irreale corrispondente all’immagine-oggetto. La coscienza sensibilmente percipiente è dunque segnata dalla presenza di vari modi della assenza – ed è questa ‘alterazione’ della percezione che importa agi occhi di Husserl e del suo interprete.

Ciò non modifica la tesi che «la coscienza d’immagine, lungi dal poter spiegare la percezione della cosa in se stessa, la presuppone», nel senso che è rispetto alla percezione della cosa che si danno le differenze della coscienza di’immagine. La coscienza si apre all’alterità e continua a muovere, nella ricostruzione di Bernet, verso la conclusione esistenziale di quella che abbiamo definito la sua «parabola». La parola, lo abbiamo rilevato, non è usata a caso, perché indica un vero e proprio processo di trasformazione della coscienza intenzionale, propriamente husserliana, di cui stiamo ripercorrendo con Bernet, le tappe del movimento. Quel che vale per la coscienza di una immagine esterna, vale ugualmente per la coscienza di un’immagine immaginata. Quest’ultima è la presentificazione di un oggetto assente. «Per Husserl, la coscienza dell’irrealtà delle immagini interne è dovuta solo alla coscienza che noi abbiamo del fatto che questa immaginazione interna intuitiva non è una percezione, ma una presentificazione di un oggetto assente, cioè una modifica della coscienza percettiva di un oggetto reale presente». Non v’è differenza infatti tra percezione immaginativa interna che ci presenta delle immagini irreali, e dunque non è una percezione, e la presentificazione che essa realizza, ossia il suo far presenti oggetti assenti. Ne deriva quel che ci interessa ancora sottolineare, ossia che la coscienza percettiva di un oggetto reale presente è stata modificata. Ora, modificazione della coscienza percettiva significa che la presenza dell’oggetto è stata sostituita da quell’altro che è dato da un oggetto assente, solo presentificato. È necessario che si dia un «conflitto» con della percezioni concomitanti, per distinguere una immaginazione da una allucinzazione. Quando, come accade nella immaginazione interna, manca l’immagine percettiva, le «percezioni concomitanti delle cose reali» è il confronto che con esse si instaura che deve informarci sul carattere irreale di ciò che immaginiamo. È con la phantasia che la differenza tra vissuti di percezione e di immaginazione trova la sua giustificazione fenomenologica, perché la fantasia «è la riproduzione neutralizzante di una percezione fittizia», e neutralizzante vuol dire appunto che nella riproduzione di una percezione si resta nel campo del fittizio in quanto la riproduzione della percezione non fa quello che fa la percezione, ossia non trova il suo riempimento sensibile. Nella coscienza interna si manifesta nel modo più chiaro la differenza tra il compimento di un atto di percezione o di immaginazione. Il criterio della distinzione tra mondo reale e mondo immaginario «si interiorizza» perché è ricondotto «in buona logica fenomenologica, alla coscienza interna della differenza tra due modi di vita distinti appartenenti allo stesso soggetto». Non credo che si possa enfatizzare troppo la traccia di pensiero di Wittgenstein presente nella tesi che sono due diversi «modi di vita» dello stesso soggetto a rendere chiara la differenza tra mondo reale e mondo immaginario in Husserl, nella lettura fattane da Bernet. Conta piuttosto l’enfasi che Bernet mette nell’articolare in due modi della vita la pratica fenomenologica del mondo reale e quella del mondo immaginario: siamo infatti, e quasi senza aspettarcelo, di fronte ad una articolazione della vita del soggetto dunque della coscienza, ove una faglia nella e della coscienza immaginante, confrontata con l’immediatezza e compattezza del rapporto con il mondo reale, e segnata dalla presenza dell’assenza del reale, ossia dalla presenza assente del fittizio ci conduce sulla soglia della rivelazione che la coscienza ‘apre’ in sé sul suo altro.

Il confronto con il tema del ricordo ci consente di comprendere un passo ulteriore del percorso in questa direzione che Bernet fa compiere ad Husserl, sullo sfondo della coscienza dell’unità della coscienza interna del tempo. La concezione della coscienza interna come coscienza del tempo fornisce tutti gli elementi «per comprendere il ricordo come presentificazione di un oggetto appartenente alla mia esperienza passata». Come si distingue questa coscienza «che riproduce una percezione effettivamente da me compiuta nel passato…da questi altri atti di presentificazione che sono la phantasia o l’appresentazione della coscienza di un altro soggetto»? «L’oggetto che il ricordo mi rende intuitivamente presente in quanto passato è non soltanto un oggetto reale, ma anche un oggetto la cui esperienza passata appartiene alla mia propria coscienza effettiva». Non è immaginativamente fittizio e non è neanche «l’oggetto della coscienza intenzionale effettiva, ma pur sempre inaccessibile a me, di un altro soggetto». Qui si dà un rispetto della distanza temporale che separa l’atto presente del mio ricordo e la mia esperienza passata che pure si incontrano e si uniscono. La phantasia invece (ed è questo il suo modo di rappresentare meglio del ricordo l’articolazione alterante della coscienza) «fa esplodere l’unità della mia vita in due modi di vita separati, contrariamente a quello che accade nell’incontro con altri che mi mette a confronto con una vita che mi resta fondamentalmente estranea». Il ricordo mi assicura sulla mia identità personale. Ma «la difficoltà di una analisi fenomenologica del ricordo riguardava il fatto che l’oggetto intenzionale di questo atto, pur essendo ben presente, è reso presente in quanto passato». Ora è rilevante vedere come secondo Bernet Husserl risolve il problema della presentificazione di un oggetto passato che non può essere spiegato con la presenza di una immagine presente che si rapporta ad un oggetto passato. Secondo Bernet, Husserl si muove nella direzione che abbiamo più volte indicato, ossia attraverso un raddoppiamento non dell’oggetto intenzionale, ma della coscienza intenzionale stessa. La coscienza intenzionale dunque si articola raddoppiandosi, si altera facendosi due coscienze di una sola coscienza. La coscienza si vede così costretta a rinunciare a una autarchia che ne circoscriverebbe e limiterebbe la possibilità di alterarsi, in primo luogo in un oggetto di phantasia. Essa in quanto percettiva non percepisce tutto, né come coscienza di un oggetto sensibile, né come coscienza di un oggetto categoriale. Essa dunque si dice «in molto modi», aristotelicamente, ma ciò che di tale cambiamento del suo modo conta soprattutto è le fisionomia del suo atto, la forma della intenzionale, prima che la fisionomia del suo oggetto. E questo coincide con il suo essere fenomenologica, non psicologica. La psicologia non conosce «possibilità» d’essere della coscienza, mentre la fenomenologia consiste nella serie delle possibilità che si addensano in lei. Si pensi solo ad un punto husserliano che Bernet si accinge a mettere in rilievo: la differenza nella coscienza interne del tempo, tra ritenzione e ricordo.

Accade dunque come se il filo rosso della differenza della e nella coscienza fosse l’elemento husserliano che Bernet vuole mettere costantemente in rilievo, una differenza che viene declinata come possibilità di essere altro dalla percezione della coscienza, la quale a sua volta si mostra come uno dei suoi modi di essere. Non sarà un caso, allora che l’esito del libro porta la coscienza, infine divenuta coscienza «ferita», oltre il limite della differenza sua propria, del primario divergere da lei dell’inconscio, chiamando in causa, l’altro come terzo che opera nel setting, in base all’analisi del «sintomo» freudiano. La coscienza fenomenologica non conosce sintomi da interpretare, sebbene sia ‘forata’ da assenze della presenza che tuttavia non indicano la via di una coscienza in sé assente; Tutto è sempre coscienza ci dicono le Lezioni sulla sintesi passiva. Il passo, nello stesso capitolo, di Bernet è molto chiaro. Si veda come la coscienza si triplica nei suoi modi intenzionali: «Pretendere che ogni percezione sia, nella sua effettuazione originale, accompagnata da una coscienza implicita della sua possibile ripresa in un ricordo o della sua possibile modificazione di una finzione, non è contestare il carattere originario della percezione per farne (in maniera assurda) la modificazione di un ricordo o di una phantasia». La coscienza può essere ripresa, ma senza che si modifichi il suo carattere originario. Essa quindi non può essere stravolta, la sua alterazione non ne fa il residuo modificato di una ricordo o di una fantasia. Quel che può accadere è che si attacchi «il presupposto di una autonomia autarchica del vissuto percettivo di un oggetto intuitivamente presente», che ci si renda «attenti all’ombra di una assenza (c.m.) che plana sulla presenza luminosa dell’oggetto percettivo per comprendere che ogni percezione apre su delle possibilità che nessuna percezione può realizzare». Che l’ombra di una assenza si depositi sulla superficie piana e luminosa di una percezione accade (la questione non può essere elusa) perchè «ogni phantasia è opera di un atto della libertà soggettiva. Nel caso di una phantasia percettiva, sono io che decido di sospendere la mia fede nell’esistenza di quel che percepisco e di come la percepisco». Ciò significa che è necessario rinviare al darsi di differenti modi della vita della coscienza interna, come differenza oginaria. «La neutralizzazione della posizione dell’oggetto reale ha dunque, nella pura phantasia, come contropartita positiva l’affermazione della sua esistenza fittizia». Il modo di esistenza fittizia dell’oggetto e della coscienza corrispondente richiede un modo di esistenza fittizio. «Questo modo d’essere fittizio è un modo d’essere sui generis, che ricava la sua esistenza irreale dalla libertà di una coscienza presentificante particolare». Un modo di vita della coscienza dunque esige ed attende una spiegazione fenomenologica. Perché nell’operare della phantasia deve essere escluso ogni conflitto esterno tra i suoi oggetti fittizi e immaginari e gli oggetti reali effettivamente esistenti? La questione non è secondaria perché la risposta fornita da Bernet consente di fissare e determinare lo spazio non eliminabile degli oggetti irreali, uno spazio su cui veglia la coscienza interna attenta a tener ferma la distinzione e la vera e propria separazione tra la vita immaginaria e la vita effettiva dello stesso soggetto. Così nessun oggetto irreale di una percezione fittizia può mai irrompere tra gli oggetti reali. Ora, questa separazione su cui veglia la coscienza può prodursi solo a patto che «la neutralizzazione di esistenza degli oggetti fittizi» non sia dovuta al loro apparire irreali (ciò che non spiega la loro irrealtà, ma la presuppone) ma a patto che «inversamente, sia la coscienza della differenza tra la mia vita reale e la mia vita immaginaria, quel che fa che gli oggetti da me immaginati mi appaiano come irreali». È dunque grazie ad un modo della vita (quello che definiamo «reale») che in un diverso ed opposto modo della vita (quello che definiamo «immaginario»), possono farmi apparire come irreali degli oggetti, colti nella loro differenza rispetto all’oggettualità reale: l’irrealtà deve essere fenomenologicamente fondata e dedotta, se non vuole rimanere letteralmente infondata. Ma, appunto questo accade in quanto la vita reale, vero punto di attacco della fondazione fenomenologica dell’irrealtà immaginativa, vieta ad un’altra forma di vita di incunearsi, come immaginaria, nel suo spazio. È un gioco di forme di vita, sulla base della vita reale escludente la immaginaria, quello cui assistiamo. La «neutralizzazione» dell’esistenza degli oggetti fittizi, ne è la conseguenza, e ciò che dà origine allo spazio della «irrealtà». La coscienza così prosegue la sua parabola, raddoppiandosi, in virtù di un passaggio in cui entra in maniera determinante l’operazione neutralizzante dell’esistenza degli oggetti fittizi, una operazione che, commisurandoli alla esistenza reale degli oggetti della coscienza non immaginaria, ne deduce l’irrealtà. Come si vede, la parabola della coscienza che sfocia nella coscienza esistenziale comunque vulnerata, non può fare a meno del richiamo alla realtà dei suoi oggetti prima che quell’esito venga raggiunto, e allo scopo di raggiungerlo.

La coscienza interna offre il fenomeno della phantasia presentificante gli oggetti fittizi ed è per questo motivo che questi ultimi non possono essere attestati, e provati, sulla base della logica e della metafisica. Scrive Bernet interprete di Husserl che i « frammenti o episodi delle molteplici vite immaginarie, dei molteplici soggetti fittizi che ho immaginato restano tutti ancorati nella trama ininterrotta della mia vita effettiva». Un Phantasie-Ich della vita fittizia si sovrappone per un certo tempo al Real-Ich della vita effettiva. Ma, come si è detto, siamo al cospetto di un passaggio fenomenologico, non metafisico: esso è infatti «chiaramente attestato dalla coscienza interna del soggetto». Qui entra in campo la «possibilità», sempre lungo il filo dell’apertura della coscienza perseguito da Bernet. Ogni forma di phantasia implica la possibilità ideale «di una percezione effettiva dell’oggetto immaginato». La phantasia ‘lavora’ per la percezione, nel senso che può far passare, può condurre alla percezione effettiva dell’oggetto immaginato. La fantasia allarga e potenzia la coscienza percettiva, ne attiva le potenzialità, ne sollecita il prodursi, in una parola agisce sulla realtà. L’essenza stessa di una donazione percettiva «avrebbe molto da apprendere da una phantasia pura che si contenta di immaginare una percezione fittizia». Il ruolo che la phantasia svolge rispetto alla percezione è fondamentale: conta infatti di più in tale contesto di ‘sollecitazione fantastica del reale percettivo’ la libera azione della fantasia esistenzialmente neutralizzata, che non la percezione effettivamente compiuta.

Di nuovo, dunque, Bernet sottolinea opportunamente un elemento della sua analisi che si collega all’idea di una coscienza aperta dalla possibilità che le appartiene e dal suo collegamento con la phantasia, quasi voglia far rilevare che è tale possibilità che ci fornisce l’essenza stessa di una percezione non esistenzialmente chiusa nell’attingimento del suo oggetto intenzionale. «L’intuizione della natura essenziale della percezione si realizza, in effetti, più facilmente prendendo le mosse dal caso esemplare di una percezione immaginata». Ciò consente di ridimensionare il ruolo di una riduzione esplicita di tutto ciò che, nella percezione, si riferisce al suo compimento effettivo. La phantasia vale almeno tanto quanto vale la riduzione di quel che si riferisce all’esistenza reale dei suoi oggetti intenzionali. «Ogni intuizione dell’essenza della percezione presuppone in effetti una tale riduzione, realizzata ipso facto da un atto di phantasia pura». La fenomenologia eidetica ha il suo motore nella immaginazione.

Non basta, manca anzi un punto centrale della nostra ripetizione della lettura bernettiana di Husserl: manca il ruolo dell’alterità, che come ben si comprende, si collega con la apertura e con la moltiplicazione della forma della vita di coscienza, ossia con ciò che ci fa avanzare ancora lungo la parabola che stiamo delineando. «La distanza che la phantasia pura stabilisce tra il vissuto impressionale della presentificazione immaginante e la percezione immaginata potrebbe essere la matrice di tutte le altre forme di alterità e anche di esteriorità a cui la coscienza deve far fronte nel corso unitario delle sue diverse esperienze. Non è irragionevole pensare che una tale esposizione della coscienza effettiva a una seconda vita da lei liberamente immaginata sia implicata in ogni altra forma di presa di distanza della coscienza a fronte dei propri atti intenzionali».

5. Individuazione e temporalizzazione

La coscienza interna del tempo continua a guidarci, ora, nell’operazione della distinzione tra gli atti di phantasia e gli atti percettivi non immaginari, insieme ai loro tempi rispettivi. Bernet prosegue con coerenza la linea della demarcazione tra irrealtà e realtà, una linea lungo la quale si attesta la distinzione per il tramite temporale di due diverse forme della coscienza. Se compio degli atti di phantasia, il tempo di tale compimento non può che essere «il tempo reale della mia coscienza effettiva». Ma se agisco in questo modo finisco per produrre «il livellamento della differenza fondamentale tra atti della percezione e atti della phantasia», ciò che lo Husserl di Bernet essenzialmente respinge per lasciare pienamente in vita la differenza tra forme della coscienza e dunque la differenza nella coscienza. Gli atti di phantasia si compiono nello stesso tempo reale delle mie percezioni («e soprtattutto quelle percezioni del mondo reale che hanno luogo simultaneamente ai miei atti di phantasia»), mentre tuttavia viene salvaguardata «la differenza tra la vita fittizia del Phantasie-Ich e la vita reale del Real-Ich»? L’identità del tempo cancella la differenza degli oggetti, immaginari o reali? La phantasia vive ai margini della vita reale di un soggetto e non è destinata a confondersi con, o a sovrapporsi a quest’ultima. Ora, l’unita della vita reale di un soggetto è la coscienza interna, che ha la funzione di essere anche la coscienza del compimento di ogni atto intenzionale, ed inoltre la funzione di «collegare questo atto presente alla trama di tutti i miei atti intenzionali, compiuti o ancora da compiere». Per l’atto di phantasia, le cose si presentano, si questa base, come tali che la phantasia, atto di presentificazione intuitiva, è un atto effettivamente compiuto e quindi vissuto dalla coscienza interna. Se non fosse così, se la coscienza interna non accogliesse, vivendoli, atti di phantasia, questi non potrebbero essere ricordati come eventi di tale coscienza. Non mi limito ad immaginare, ma effettivamente compio un atto di phantasia. Ma la coscienza interna deve indicarmi che si dà una differenza tra l’atto di phantasia e un atto di percezione. È la coscienza interna che, in certo senso riflessivamente, mentre accompagna l’atto stesso, ci dice sia che esso è effettivamente compiuto, sia che lo è come atto di «presentificazione immaginativa e non di percezione». La coscienza interna è una strumento fondamentale di discriminazione perché mentre attribuisce entrambi gli atti a me che li compio, determina l’uno come percezione e l’altro come presentificazione.. Procedendo in tale modo, solo la coscienza interna mi rende capace di capire che posso «effettuare un atto di phantasia, senza perdere la coscienza del mondo reale», che continuo a percepire mentre mi abbandono alle mie immaginazioni. Il punto essenziale è allora quello che mostra il raddoppiamento in atto dei mondi differenti della mia coscienza, la differenza che mi scinde in un io di fantasia e in un io reale.

La coscienza interna svolge un ruolo imprescindibile di «dissociazione» su cui essa stessa vigila, affinchè lungo la corrente di coscienza dell’Io, le mie esperienze del mondo reale e i miei atti di fantasia restino separati. Non si insisterà mai abbastanza sul fatto che, seguendo Bernet interprete di Husserl, è il darsi di una duplicazione, di una alterazione della coscienza ciò che si accampa in primo piano, una duplicazione e un’alterazione che sono tenute insieme, a realizzarne la struttura complessa ed aperta, dalla coscienza interna del tempo, che colloca nel ‘suo tempo’ di coscienza il tempo degli atti di fantasia, marginali bensì rispetto alla coscienza che li contiene, ma tali da non sottrarsi a tale contenimento. Non sfuggirà infatti che la coscienza interna dissocia mentre associa il fittizio e il reale e che proprio in questo doppio ed opposto dissociare l’in sé associato si realizza la sua funzione di unità. Funzione di unità è la coscienza interna del tempo, ma non unità semplice come accadrebbe se mancasse la frattura ritenzionale e protenzionale del presente impressionale, quindi unità di una dissociazione della coscienza in sé, unità della coscienza percettiva reale e della coscienza immaginante. Lo sviluppo ulteriore della parabola della coscienza dovrebbe mostrarci che cosa si insinua nella faglia della dissociazione della coscienza unitaria del tempo.

Si può provare a ripetere, con Bernet, quel che si è detto, purchè resti chiaro che la ripetizione, come sempre in Husserl, aggiunge ed aggiusta il già detto, qui il «legame sotterraneo» che stringe i differenti Io di fantasia, pur senza superare l’«abisso» che impedisce loro di tenersi insieme nel filo unitario di una stessa vita. «La coscienza interna costituisce il fondamento fenomenologico ultimo della differenza tra la vita reale e la vita immaginaria di un soggetto- differenza di cui discende la differenza tra, da una parte, l’individuazione degli oggetti reali nel tempo universale del mondo reale, e d’altra parte la quasi-individuazione degli oggetti immaginari in un mondo immaginario particolare». Nell’Io reale la coscienza interna ci mostra l’incatenarsi di tutte le esperienze del mondo reale in una coscienza unitaria non frammentabile. L’io reale conosce soltanto un mondo reale, un solo tempo oggettivo e una sola vita effettiva che gli appartengono originariamente. È evidente che nella prospettiva interpretativa di Bernet questo schema è destinato a rompersi grazie all’intervento dell’io di fantasia che si «sovrappone» alla vita reale del Real-Ich. L’io di fantasia gode di una «quasi esistenza» che dura tanto quanto dura una phantasia dalla durata e dalla consistenza coerenti. La fantasia spezza l’unità del Real-Ich, la sua universalità nel senso di onnicomprensività non interrompibile. La rottura di un mondo del Phantasie-Ich genera un altro mondo di fantasia, un altro quasi-mondo in cui, secondo l’esempio di Husserl, la Gretel di un racconto e la Gretel di un altro racconto sono senza relazione alcuna. Tuttavia, come si è detto, i diversi io di fantasia non sono privi di ogni legame, fosse anche soltanto un legame sotterraneo, che tuttavia non produce alcuna unitarietà della vita di fantasia. Solo la coscienza interna può tessere insieme gli episodi forzatamente separati della mia vita immaginaria. Essa compie un’operazione di «integrazione» degli atti intenzionali di fantasia nel «corso effettivo e unificato della mia vita» ma senza confonderli con quest’ultima, con il suo tempo obiettivo e la sua trama unica.

Potremmo dire interpretando Bernet che gli atti del Phantasie-Ich aprono e mantengono aperta la faglia che interrompe, ma senza romperla l’unità temporale della vita reale. In quanto coscienza originaria dell’unità della mia vita effettiva, così come della sua scissione in vita reale e vita immaginaria, «questa coscienza interna si trova, almeno indirettamente, alla fonte della unità del mondo reale e dell’unità dei differenti mondi immaginari, senza cui sarebbe impensabile una individuazione temporale degli oggetti intenzionali degli atti di percezione e di phantasia». Il «processo originario» della coscienza interna del tempo è dunque una funzione dell’unità della coscienza che produce individuazioni e differenze temporali. L’immaginario di fantasia sconvolge l’unità degli atti connessi della vita reale. Questa sua funzione appartiene al ruolo della coscienza interna del tempo ed ha come risultato che questa stessa coscienza interna, in sé unitaria, conosce fratture, e si dispone ad accogliere traumi imprevisti come quelli che la fantasia ‘scarica’ sul reale della coscienza, modificandolo profondamente, o come quelli che essa porta strutturalmente in sé, quale coscienza da sempre ferita. È tale vulnus che la apre e la articola. Grazie al vulnus la coscienza non è più, alla fine della sua parabola, riducibile all’apparato percipiente così come si mostrava all’inizio di essa. Di più: la coscienza è questa stessa parabola, che la conduce in una direzione che, senza dimenticare nulla del procedimento fenomenologico che la struttura, la conduce verso ciò che si dovrebbe definire ‘più che soltanto fenomenologico’, là dove il «sintomo», sconosciuto alla fenomenologia ed espressione estrema della sua alterazione, viene preso in carico dell’altro del setting analitico.

6. L’idealismo di Husserl

Abbiamo di nuovo anticipato il nostro percorso con Bernet per non perdere di vista il movimento della parabola della coscienza. Affrontiamo ora, sempre secondo lo stesso schema di ricerca, l’idealismo fenomenologico di Idee I, la sua phänomenlogische Fundamentalbetrachtung, che porta a termine l’investigazione fenomenologica che riguarda le condizioni di possibilità «di una conoscenza autentica della realtà obiettiva».9 Si richiede dunque di comprendere prioritariamente che l’idealismo di Idee I viene accreditato non della generica capacità di conoscenza, come se si trattasse di un modo generale d’essere del conoscere, ma della sua capacità di conoscere autenticamente la «realtà obiettiva». In questo modo esso viene saldamente ancorato ad un rapporto con la realtà fornita dalla percezione esterna. Il filtro fenomenologico che condiziona tale obiettivo è fornito dalla esclusione di ogni indagine sulla «natura logica della ragione», a vantaggio dell’esame dell’esperienza del modo in cui «la realtà obiettiva si dà intuitivamente alla coscienza». La centralità della percezione «esterna» in tale esperienza corrisponde al darsi alla coscienza intuente della realtà obiettiva, il che chiama in campo esattamente lo snodo fenomenologico del darsi ad una coscienza che la intuisce per via percettiva di quella realtà obiettiva ora arricchita e comunque modificata appunto dal suo darsi ad una coscienza intuente. Non si darebbe alcun cenno di idealismo in assenza del ruolo che una coscienza esercita nell’atto del darsi a lei della realtà obiettiva. La percezione, che «pone» la realtà delle cose mondane nell’atto in cui queste le si danno, e non il giudizio, è chiamata a giustificare la «credenza nell’esistenza del mondo esterno». Se si intende evitare il controsenso psicologistico, si deve ammettere che la coscienza che legittima l’esistenza della realtà obiettiva «non appartiene a questa stessa realtà». Perciò la riduzione fenomenologica sottrae alla coscienza percettiva ogni elemento di appercezione quale realtà empirica (in pratica le sottrae ogni declinabilità psicologica) affinchè possa legittimamente costituire l’esistenza della realtà trascendente. Dunque: la percezione «pone» la realtà delle cose e del mondo, in questo modo compie l’esperienza della donazione della cosa stessa leibhaft, in carne ed ossa, ma solo a patto che tale coscienza non sia empirica, non sia essa stessa cosa del mondo, e possa quindi «costituire» la realtà empirica trascendente. Qual è la caratteristica essenziale di tale coscienza,se non quella di essere altro dal mondo della realtà empirica, nell’atto stesso in cui quest’ultima viene «posta» percettivamente in quanto le si dona ed essa coscienza è quindi ciò che la costituisce come trascendente, ossia a sua volta come l’altro da lei «costituito» nell’atto della conoscenza? Non abbiamo qui a che fare con la prima, radicale differenza della coscienza, altro costituente rispetto all’altro trascendente costituito a partire da una immanenza purificata dalla riduzione fenomenologica?

L’esistenza del mondo dipende dalla coscienza trascendentale, poiché legittima è l’esistenza di una realtà obiettiva, quando e se quest’ultima vien testimoniata da una coscienza pura e purificata nella forma immanente di un «fenomeno intuitivo», non di una cosa obiettiva collocata fuori della coscienza. Si veda bene come anche in questo punto risalta la differenza tra coscienza e mondo e insieme la differenza della coscienza per dire così in sé. L’idealismo fenomenologico, che ci fornisce retrospettivamente la base di tutto quello che fin qui è stato osservato sul rapporto tra coscienza ed esistenza, proprio in quanto l’esistenza non è una cosa ma un fenomeno intuitivo, «non è altro che la proclamazione solenne di una tale dipendenza del valore di verità della posizione dell’esistenza del mondo a fronte della coscienza intenzionale, percettiva e pura di questo mondo. Questo idealismo non ha da pronunciarsi su quella che potrebbe essere la realtà del mondo indipendentemente da quella che potrebbe essere la sua posizione o conoscenza da parte di un soggetto trascendentale, ossia al di fuori della pretesa di un soggetto alla conoscenza di un oggetto reale e della giustificazione di tale pretesa soggettiva da parte di una percezione effettiva che è un fatto della coscienza pura». Il segnale che qui domina la differenza è fornito dalla affermazione ben chiara di Bernet circa la «dipendenza» della verità dell’esistenza del mondo dalla coscienza intenzionale e pura di questo mondo. Nessuna pronuncia sul mondo in quanto tale è richiesta alla coscienza, ma solo l’attestazione del valore di verità di tale conoscenza quale atto di una percezione appartenente ala coscienza pura. Il nesso immanente della coscienza intenzionale pura con il suo oggetto percettivo è bensì, appunto, immanente, ma l’immanenza presuppone la differenza della pretesa del soggetto alla conoscenza frutto di una coscienza pura, rispetto alla realtà del mondo.

Ma c’è un testo, il rifacimento della Sesta ricerca logica nel 1913, che modifica il modello dell’idealismo fenomenologico, facendolo discendere «da una analisi fenomenologica nuova della coscienza intenzionale di una possibilità».Così sembra realizzabile la risposta all’obiezione che investe il modello che abbiamo descritto, per cui «la sola cosa di cui la fenomenologia possa essere apoditticamente certa è l’esistenza della coscienza quale è data adeguatamente in una percezione interna» e che si configura nella maniera classicamente metafisica di un ente che «nulla ‘re’ indiget ad existendum». In realtà, tutto quello che Bernet dice conduce nella direzione di una coscienza indigente, carente di un suo altro, ‘aperta’ come si è detto. È a questa obiezione che si deve una qualche elaborazione, una qualche risposta. La nuova meditazione sul senso dell’idealismo fenomenologico «raggiunge il suo culmine nell’esame di ciò che separa e lega allo stesso tempo una coscienza intuitiva che ci assicura fenomenologicamente dell’esistenza soltanto possibile di un oggetto empirico, e la coscienza che ci assicura della sua realtà effettiva». Con il passaggio dalla coscienza intuitiva di una esistenza possibile (che pure, si è detto, potenzia slargandola la coscienza solo percettiva) alla coscienza di una esistenza effettiva, si compie la svolta che Bernet riassume nella distinzione tra un idealismo fenomenologico «in senso largo» e un idealismo fenomenologico «in senso stretto». E con l’entrata in campa dell’idealismo in senso stretto (non limitato all’alone di possibilità che circonda la coscienza percettiva) la parabola della coscienza si dirige verso il suo telos. La realtà effettiva del mondo «deve essere una coscienza allo stesso tempo carnale e intersoggettiva». Il passaggio all’effettività della coscienza intuitiva di un oggetto empirico ci viene garantita da una coscienza carnale e intersoggettiva, ossia non separabile dal corpo su cui si abbatte il trauma e insieme non isolabile del rapporto intersoggettivo con gli altri. Perché la parabola della coscienza si concluda, dobbiamo passare alla coscienza di una possibilità reale.

Sia nel caso dell’oggetto empirico idealmente immaginabile, come un centauro, sia nel caso della possibilità ideali non empiriche concernenti le essenze ed ottenute per via di «ideazione», occupa una posizione fondamentale la phantasia, ossia «un atto di presentificazione (Vergegenwärtigung) dell’oggetto che si distingue da una percezione (sensibile o categoriale) corrispondente grazie al suo modo di donazione intuitivo e alla neutralizzazione della posizione (Setzung) dell’esistenza effettiva dell’oggetto intenzionale». La possibilità ideale, sappiamo, richiede l’intervento della libertà della fantasia e la fenomenologia si presenta come, con le parole di Husserl, «scienza eidetica che si rapporta alla ‘coscienza in generale’». La situazione muta quando si ha a che fare con una possibilità reale, che comporta una limitazione della libertà della phantasia. Ciò che si immagina non è realmente possibile, anche se all’opposto tutto ciò che è realmente possibile è anche e a maggior ragione anche idealmente possibile. Che cosa manca o, meglio, che cosa si deve aggiungere perché una possibilità ideale divenga una possibilità reale? Bernet introduce, per rispondere, un elemento di grande rilevanza per la funzione che svolge nel contesto argomentativo che stiamo seguendo, di ampliamento e slargamento della coscienza, della rottura dei suoi argini che la chiudono entro la mera percezione autorizzandola soltanto ad una possibilità di ampliamento. Si tratta di qualcosa che ha a che fare con l’inserimento delle possibilità della coscienza nel contesto armonico della nostra esperienza complessiva, ciò che richiede appunto una fisionomia della coscienza non chiusa nel solo possibile, che pure già in parte la apre e la avvia alla dimensione della realtà. È qui, infatti, in tale dimensione della coscienza reale che quest’ultima incontra il suo destino finale che, ferendola, vulnerandola, ne completa la fisionomia e definisce l’oggetto della sua attività costituente.

L’oggetto possibile deve potersi «integrare nel campo della realtà». In questo caso l’oggetto plasmato dalla «possibilità reale» non manifesta una semplice possibilità, ma è una possibilità perorata o propugnata da qualche cosa in maniera più o meno rigorosa. La possibilità reale ci parla di qualcosa che viene sostenuta, rafforzata, spinta. Ma tale rafforzamento, tale spinta, tale sostegno opera nella possibilità reale in favore di che cosa? La risposta è netta e va appunto nella direzione del dispiegamento della realtà che la possibilità reale incontra e in cui si integra. Siamo al cospetto di una sorta di ‘realizzazione’ della possibilità reale, che è appunto reale esattamente nella misura in cui incontra il «campo della realtà» e vi si innesta. «La posta in gioco di chi perora a favore [della possibilità reale] è chiaramente che l’oggetto possibile possa integrarsi nel campo della realtà». La possibilità è chiamata a incontrare, accogliere ed essere accolta dalla realtà: così e solo così noi abbiamo attinto il fenomeno di una coscienza che (ora si comprende bene, o meglio, l’intenzione interpretativa di Bernet) non si isola dal reale, ma vi si integra e dà vita a un reale di coscienza autentico. È lì che può incontrare dolore, sofferenza, trauma, non rimanendo stretta nel limite della sua funzione percettiva, sia pure virtualmente dischiusa su un possibile che a sua volta attende di entrare nell’orizzonte del reale. La realtà per la fenomenologia è,infatti, «l’insieme degli oggetti di cui il corso precedente della nostra esperienza comune a stabilito l’esistenza, cioè ha giustificato la fiducia che abbiamo in questa esistenza». E si tratta, notiamo, di un reale che riempie il corso della esperienza che abbiamo fatto in comune, non cioè come singoli. «L’oggetto realmente possibile» (possibile e reale, potremmo dire) «è un oggetto di cui noi possiamo assumere che, se fosse effettivamente dato, si integrerebbe armoniosamente nel campo della nostra esperienza comune». Non è ancora un oggetto effettivo, ma è già più che immaginario, di cui possiamo ragionevolmente non porre ma supporre l’esistenza probabile sulla base della nostra esperienza effettiva precedente. Abbiamo percepito nel passato una oggettualità la cui certezza ora «motiva» la possibilità di esistenza dell’oggetto realmente possibile.

Tutto quello che può fornire il senso della risposta alla questione circa l’idealismo di Husserl, si svolge sul terreno di un reale che la coscienza possibile deve attingere, come se Bernet (più di Husserl) avesse chiaro che il dispiegamento del reale e la sua donazione alla coscienza fossero determinanti al dispiegamento reale di una coscienza segnata da fratture, la prima della quali è quella che ne fa qualcosa «la cui essenza segreta si rivela nel suo incontro con qualcosa che si sottrae alla sua presa», come abbiamo letto nell’Introduzione. Che cosa altro è, dunque, la realtà se non lo spazio di gioco o di movimento dell’impossibile incontro della coscienza con ciò che essa vuole ma non può incontrare? Non si spalanca qui lo spazio della alterità che vulnera la coscienza al suo interno, come trauma, perché essa è già vulnerata all’esterno dalla sua impossibilità a realizzare l’incontro «con ciò che si sottrae alla sua presa»? Non ci si presenta qui il paradosso di un incontro reale che la coscienza vive nell’atto stesso in cui ciò che viene incontrato non può essere fatto suo, ed essa non si configura forse come una mancanza che perde ciò che pure essa intende prendere per se, fare suo? Non è forse questa la realtà che Bernet costruisce per delineare il fenomeno della coscienza come possibilità reale che si fa e insieme non si fa realtà?

L’innesto della coscienza come possibilità reale nella realtà della esperienza precedente «non è solo quel che giustifica la nostra fede nella possibilità reale di una donazione percettiva di un oggetto,ma anche quel che suscita tale fede». La realtà coincide con l’«esperienza anteriore» che giustifica e suscita la nostra certezza fiduciosa che si dia la possibilità reale della donazione percettiva di un oggetto. Tra passato e futuro si stabilisce una linea di continuità che riguarda l’«esistenza effettiva probabile» di un oggetto, anzi si può dire che l’oggetto possibilmente esistente coincide in termini temporali con il darsi di questa linea di continuità. Sembra evidente che l’anticipazione della possibilità reale di un oggetto opera nel senso di allargare il campo dell’esperienza dell’oggetto stesso, sottraendolo alla mera virtualità di completamento dell’esperienza anteriore. La coscienza ne ricava una potenza di fondazione fenomenologica orientata nel senso della realtà che le consente infine di accogliere in sé la realtà stessa del trauma che la vulnera confermando la mancanza e il vulnus che la connotano. La «supposizione (Vermutung) concernente l’esistenza effettiva probabile di un oggetto è già la risposta ad un invito (Anmutung ) offertoci dalla esperienza anteriore». La possibilità reale di un oggetto e la coscienza intenzionale che le corrisponde non si risolvono, d’altra parte, né nella attimalità del presente, né nel suo inserimento nell’orizzonte dell’esperienza che precede. «Un oggetto è dunque realmente possibile nella misura in cui la sua donazione non solamente si integrerà armoniosamente nel campo della nostra esperienza effettiva, ma nella misura in cui questa donazione verrà a completare ed arricchire la nostra esperienza anteriore. È dunque chiaro – anche se Husserl non insiste su questo punto – che la possibilità reale, in quanto è motivata dalla esperienza passata, va di pari passo con l’anticipazione di una esperienza futura» e dunque copre l’intero arco temporale dell’azione di una coscienza del tempo completa, la cui vulnerabilità coincide con la sua stessa struttura. Non vi è dunque che un piccolo passo da compiere perché una possibilità reale divenga una realtà effettiva, e q uesto passo che conduce una possibilità alla sua realizzazione è, secondo Husserl, un atto di «riempimento».

In realtà, dobbiamo correggere e precisare quel che abbiamo appena detto al seguito di Bernet. Il corso dell’esperienza della realtà di una cosa, non è in condizioni di darmi la totalità della cosa e questo non solo perché la cosa reale si presente sempre per «adombramenti», ma perché, aggiungo, se avessimo a disposizione la totalità della cosa non si vede ove si collocherebbe il vulnus che la ferisce e la conduce ad un incontro con ciò che «sfugge alla sua presa», come ci è stato detto fin dall’Introduzione. È necessario ottenere una «migliore conoscenza dell’oggetto reale», se vogliamo ottenere la realizzazione di una possibilità reale. È necessaria la conoscenza «adeguata» di questa cosa. La norma che guida la realizzazione di tale adeguatezza è del tutto interna al processo della conoscenza, e, aggiungiamo, sia al «corso effettivo ed armonioso dell’esperienza», sia alla coscienza intenzionale corrispondente. Ma, ci chiediamo, come l’idea di una donazione adeguata della cosa, per un verso irrealizzabile, ma per altro verso contraria al suo presentarsi per «adombramenti», può «governare il corso effettivo dell’esperienza della cosa»? Ossia, «come l’irrealizzabile può sorreggere la realizzazione di una possibilità reale?». Il corso dell’esperienza ci può fornire la realtà della cosa, ma questa stessa esperienza non ci offre «la totalità della cosa». Il punto è di rilevante importanza perché, a parte la questione del presentarsi della cosa per adombramenti, alla irrealizzabile totalità della cosa, corrisponde la mancata totalizzazione della coscienza, il suo essere incapace della realizzazione totale di una possibilità, essendo essa stessa segnata da una totalità mancata, vulnerata e fratturata.

Husserl ricorre al concetto di infinito, per elaborare la questione. Scrive nel rifacimento del quarto capitolo della Sesta ricerca logica che «la realtà effettiva di una cosa è un’’Idea’ in senso kantiano e che questa Idea è il correlato dell’’idea’ di un certo corso della percezione –corso che non è mai totalmente predeterminata, ma che è, al contrario, suscettibile di prendere delle direzioni infinitamente differenti e di arricchirsi all’infinito». La cosa reale, commenta Bernet è quella cosa che sarebbe data in una «intuizione effettiva ed adeguata», il che richiede il «passaggio all’infinito». Il punto importante non è solo che «il corso armonioso dell’esperienza» può «scontrarsi con un conflitto insormontabile, che metterebbe in questione la realtà effettiva della cosa. Se contro tutto quello che ci si può attendere, questa possibilità puramente ideale venisse a realizzazione, ciò cancellerebbe e la realtà anteriore e le possibilità reali ad essa afferenti». Il punto importante, dicevamo, non è solo questo, ma ciò che ne deriva, ossia che si dà una idealità della coscienza arricchentesi all’infinito nel corso dell’esperienza perché nel suo procedere all’infinito può incontrare un ostacolo con cui si scontra, mutando realtà e possibilità anteriori, ossia aprendosi in direzioni impreviste che spezzano traumaticamente la continuità. L’idealità di tipo kantiano della coscienza può indurre all’infinito, niente affatto paradossalmente, il darsi di cose reali incontrate nel corso di una esperienza dirigentesi in direzioni infinitamente diverse, dove la traumaticità o l’interruzione che cancella realtà e possibilità anteriori si correla ad una molteplicità di traumi reali della coscienza.

Quale «concezione nuova dell’idealismo fenomenologico» ne emerge? Nessuna traccia di neokantismo è presente in Husserl. La realtà della «cosa in se» non ci offre la giustificazione apodittica quale intuizione effettiva adeguata della cosa, ma «non è una finzione, ossia una semplice possibilità ideale. In ogni percezione effettiva, nonostante il suo carattere parziale, la cosa stessa si dà ‘in carne ed ossa’ (leibhaft). Ogni nuova percezione effettiva e concordante ci consegna una evidenza supplementare della realtà effettiva di questa cosa, essa avvicina di più alla donazione totale della cosa in sé. Non bisogna dunque confondere l’ideale della donazione totale della cosa in sé, così come funziona in senso alla donazione parziale, con una finzione». La realtà della cosa, così come il modo del suo darsi ad una coscienza al tempo stesso pura ed empirica, entra nell’argomentazione husserliana di Bernet in un modo ancora una volta determinante. È essa che ci conduce alla scoperta del fatto che incontriamo infine quel che ci interessa soprattutto, ossia una coscienza che è pura e insieme «carnale». *Non si dà un essere reale empirico di un oggetto del mondo «senza che vi sia una coscienza pura e “empirica” che si rapporta intenzionalmente a questa realtà effettiva». «Pura» vuol dire «denaturalizzata, purificata di ogni appercezione empirica», ma essa deve essere empirica, in quanto anche pura, in un senso che «non contraddice la sua purezza». Devo poter concepire una coscienza pura ed empirica di una realtà empirica nello stesse senso «fattuale» della realtà stessa: l’esistenza attuale di una cosa deve essere percepita effettivamente e attualmente. Ciò significa che la percezione effettiva attuale di un percezione soltanto possibile è il fatto che essa si compia nello «hic et nunc*», ossia aggiungo, che la coscienza percipiente effettivamente e non solo virtualmente deve essere collocata in un centro di orientamento tempora e spaziale. Ciò le fornisce il suo «qui ed ora», e insieme il suo rapportamento alla realtà effettiva ed attuale di una cosa empirica. La coscienza deve essere «ora» e insieme e soprattutto «qui». Che cosa significa per la coscienza essere in un «qui»? La sua «carnalità» torna a presentarsi come essenziale.

Nel testo del rifacimento del quinto capitolo della Sesta ricerca, Husserl citato da Bernet scrive: «L’essere della realtà trascendente effettiva è un’Idea in senso kantiano (…). Non è pensabile che esista una cosa senza che essa sia determinata dalla sua relazione all’hic et nunc (i centri di orientazione ) di colui che la determina attualmente». Attingiamo la realtà effettiva ed attuale di una cosa se l’atto di percezione si compie ora e qui. Ma, abbiamo chiesto, che cosa vuol dire il «qui» della coscienza? «Come questa coscienza percettiva potrebbe avere un “qui” se non avesse carne (Leib)? …Bisogna ammettere che questa coscienza pura, da cui dipende la realtà effettiva delle cose e del mondo, sia una coscienza carnale. Affermando che l’esistenza della realtà empirica dipende da una coscienza pura e fattuale, l’idealismo fenomenologico è dunque costretto ad assumere che questa coscienza pura sia di natura carnale». È esattamente questo che ci conduce nelle vicinanze della coscienza vulnerata da un trauma, presentandocela come un fenomeno puro ma carnale, ossia come ridotta a quella sua dimensione fenomenologica che la sottrae alla pura empiria del darsi, per lei, di una ferita. Non si dà un «qui» della coscienza senza la carnalità della coscienza, ciò che rende la sua strutturale e sovratemporale vulnerazione un fenomeno della coscienza estraneo alla casuale contingenza della sua vita. Ecco la funzione centrale del «hic» della coscienza nella nuova formulazione dell’idealismo husserliano.

Proviamo a riassumere con Bernet prima di passare all’esame della seconda parte del libro, Fenomenologia dell’esistenza e ontologia dell’evento. Vediamo se stiamo cogliendo il senso del libro. «Il programma di Husserl consiste nel domandarsi quale tipo di coscienza corrisponde a quale tipo di oggetto (c.m.). Considera stabilito che tutti i modi di essere sono delle caratteristiche d’oggetto, e che essi sono i correlati intenzionali di una presa di posizione che è affare di una coscienza soggettiva… Affermando che il senso d’essere dell’oggetto dipende dalla sua donazione intuitiva, e che questa è il fatto della sola coscienza intenzionale, [la fenomenologia della Sesta ricerca logica ] promuove la coscienza al ruolo di giudice supremo per tutto ciò che concerne le questioni riguardanti l’essere». La coscienza non è, per Husserl, indipendente dai suoi oggetti intenzionali, ma è invece fuori dubbio che si dà una dipendenza della natura degli oggetti e dei loro modi d’essere a fronte degli atti della coscienza. È questa dipendenza l’espressione dell’idealismo huserliano, idealismo della coscienza costituente, non di una coscienza astratta dall’oggetto, priva di intenzionalità. Deriva quindi, secondo Bernet «dal programma di una teoria fenomenologica (c.m.) della conoscenza», che a sua volta, osserviamo, è già in sé e pienamente la stessa fenomenologia in cui si afferma che tale teoria sfoci. E soprattutto, si può uscire da tale idealismo soltanto se si esce dalla fenomenologia, « sia che se ne esca in quanto tale, sia che si esca dal solido fondamento fenomenologico (c.m.) dei presupposti della teoria della conoscenza husserliana». Come è evidente, e come sostengo in un volume dedicato alla teoria husserliana della conoscenza e al tema dell’antepredicativo, di prossima pubblicazione,10 fenomenologia e teoria della conoscenza si rinviano reciprocamente, sono tenute insieme dal comune idealismo fenomenologico ed è difficile sostenere la tesi che una teoria della conoscenza offra l’accesso alle fenomenologia. Si ricadrebbe in questo caso in una posizione di tipo kantiano e si uscirebbe dalla fenomenologia husserliana.

7. L’esistenza interrotta e il suo tempo

Mi è ben chiaro che il passaggio al quarto capitolo della seconda parte del libro11 comporta di trascurare i capitoli su Sartre (La coscienza negativa come pulsione e come desiderio), su Gadamer (L’esistenza culturale e storica come partecipazione al gioco della verità), su Lévinas, ancora Sartre, Merleau-Ponty e Lacan (L’esistenza corporea e il potere dello sguardo), a tutti gli effetti importanti per la fisionomia complessiva del libro, comporta qualche legittima perplessità. D’altra parte il desiderio di tenere entro certi limiti quello che ai miei stessi occhi di autore si configura come una sorta di commento più illustrativo che non critico del libro, mirante al raggiungimento del capitolo che mi interessa più degli altri (il quinto, Il soggetto traumatizzato) può autorizzarmi forse a compiere questo taglio della lettura.

Bernet si riferisce essenzialmente alla sua introduzione ai testi husserliani sulla Fenomenologia interna del tempo e al suo, ben noto La vita del soggetto.12 Non si trascuri il fatto che il titolo della seconda parte del libro, Fenomenologia dell’esistenza e ontologia dell’evento allude a quella sorta di rovesciamento dell’argomento della prima parte, che ci conduce a cogliere l’esistenza attraverso il filtro fenomenologico (per cui otteniamo una serie di condizioni fenomenologiche miranti a cogliere, nel quarto capitolo Il tempo di una esistenza interrotta, leggendo tale interruzione come un esito della temporalità che, appunto, spezza ed apre la continuità compatta della coscienza) e, insieme a definire il senso d’essere dell’evento che in quella interrotta temporalità della coscienza si iscrive. Siamo allora giustificati ad ipotizzare con Bernet che « le condizioni husserliane dell’esperienza contenessero in se stesse i germi di un superamento del quadro filosofico in cui Husserl le aveva inserite». Ci si volge, allora, verso un dimensione ontologica ospitata entro quelle condizioni. «Ci si trova dunque davanti al paradosso che un’analisi del tempo, che doveva servire di fondamento a una fenomenologia della coscienza trascendentale egoica costituente oggetti tramite la giustificazione della loro validità epistemologica, conserva una buona parte del suo valore in una fenomenologica ontologica del Dasein» ossia in una fenomenologia dell’esistenza dell’esserci umano «o in una fenomenologia etica di un altro uomo che si manifesta nella forma del “viso” o dell’“appello”». È il caso di Lévinas, come prima era quello di Heidegger. Ci avviciniamo al «soggetto traumatizzato»: ciò accade attraverso l’intervento massiccio nella critica antihusserliana di Lévinas del tema dell’alterità. Non è casuale che il capitolo si chiuda con una domanda sul tempo e sulla richiesta di determinazione, che in Lévinas manca del luogo del tempo della giustizia, né totalmente mio, né totalmente altrui. La giustizia è una nuova forma di mediazione tra l’altro e me stesso. La giustizia risulta incomprensibile, d’altra parte senza che un terzo faccia di «altrui» l’altro di una altro. In questo modo,, io non sono al riparo della responsabilità infinita par «altrui», ma «questa responsabilità io la condivido con gli altri. Se questa nuova forma di responsabilità mi viene sempre da altrui, essa tuttavia non mi rinvia direttamente a lui». L’alterità entra, come suo essere interamente composta di altri di altri, entro una «comunità di giusti», altra in sè, che mi sottrae alla sguardo e all’appello rivolto a me dal volto altrui. Ma in quale tempo si svolge l’opera della giustizia? Noi sappiamo che l’esistenza si interrompe temporalmente consentendo l’ingresso di altrui. Ma dove si colloca e quale senso possiede tale interruzione. Il tempo sembra sospeso a fronte dell’ingresso nel regno della giustizia, ma esso è mio o altrui. «A quale “tempo” e a quali “cose” pensava Anassimandro quando proclamava: “Esse si rendono reciprocamente giustizia e riparano le loro ingiustizie secondo l’ordine del tempo”?» Non è forse questo il momento in cui il «soggetto traumatizzato», o i soggetti traumatizzati rivendicano per sé di essere il luogo in cui ci si rende giustizia, ossia si riconosce il trauma «altro» di ciascuno e lo si fa secondo l’orine del tempo, ossia secondo l’ordine del tempo «altro» di ciascuno e di tutti?

È la debole o incerta o totalmente assente collocazione del momento della alterità quel che Lévinas rimprovera ad Husserl, ed è chiaro che, tornando al punto in cui ci eravamo interrotti per osservare il modo in cui il quarto capitolo si conclude aprendosi al quinto e finale, è la reazione di Lévinas alla fenomenologia di Husserl e alla sua fuoriuscita ontologica ciò che ci interessa, piuttosto che un esame diretto di Lévinas, già svolto prima da Bernet, accoppiando con Lévinas «lo sguardo invisibile dell’altro». Una differenza di principio separa, come è dimostrato dalla corrispondenza tra Husserl e Natorp, il neokantismo dalla fenomenologia. Si potrebbe già ora osservare che un principio della differenza e dunque uno spazio dell’alterità tra i soggetti e nei soggetti attraversa comunque la fenomenologia, interessata alla «vita effettiva del soggetto trascendentale e al modo in cui gli oggetti (scientifici e naturalI) vi si ‘donano’ o vi si presentano come ‘fenomeni’». Il riferimento alla vita effettiva del soggetto trascendentale non può lasciare indifferenti perché indica che la attenzione di Husserl è concentrata su ciò che in quella vita (trascendentale, ridotta) accade in quanto in essa la coscienza si rivolga ad oggetti che sono «fenomeni». Vi si incontrano vite effettive di soggetti trascendentali, di cui si scopre la vulnerabilità, perchè, messa a confronto con il neokantismo, la fenomenologia non si appoggia sulla validità degli oggetti scientifici per risalire, sotto forma di una ‘ricostruzione’ allo spirito soggettivo alla loro «condizione di possibilità formale». L’esistenza non sfuma nella sua condizione formale di possibilità e l’evento come fenomeno conquista il suo spessore ontologico. Lo spirito oggettivo neokantiano diventa «vita effettiva» di un soggetto trascendentale cui accade di trovarsi ferito e di non poter valere come condizione di possibilità formale degli oggetti scientifici. L’epistemologia del soggetto cede all’ontologia della sua vita. Che la coscienza sia «trascendentale» nella scienza che fonda non vuol dire dunque che essa garantisca validità formale o logica degli oggetti empirici. Trascendentali non sono i principi dell’intelletto. La validità degli oggetti non ha la sua «fonte» nei «principi» dell’intelletto, poiché invece essa risiede nella vita effettiva di una coscienza intenzionale pura nella quale gli oggetti si danno e si costituiscono come unità trascendenti. È la vita effettiva della coscienza intenzionale quella in cui incontriamo gli oggetti che ci si donano come unità trascendenti. Ribadisco che tale vita non può essere sostituita dai principi dell’intelletto. È la vita effettiva della coscienza intenzionale che ci offre come donazione oggetti trascendenti rispetto alla coscienza che li investe con la sua intenzionalità. Sempre più nettamente di qui alla fine del libro avremo a che fare con la vita della coscienza e non con principi formali della esperienza, in cui la coscienza non gioca alcun ruolo. «La fenomenologia trascendentale porta così all’apparire (sotto forma di un apparire puro, non empirico), una forma di vita trascendentale effettiva che sottende, quale suo fondamento nascosto, la vita empirica». Se quest’ultima ha il suo fondamento nascosto nella vita trascendentale non empirica, il trascendentale è «un modo di vita specifico che ha il suo modo di apparire proprio e in cui la sensibilità gioca una ruolo privilegiato». Il trascendentale come modo di vita della coscienza e non come principio dell’esperienza, quindi. Lo abbiamo più volte osservato: entro questo orizzonte, la coscienza diventa infine lungo il percorso di Bernet, nella sua effettività vita trascendentale, un «soggetto traumatizzato».

Quali forme delle temporalità spettano alla fenomenologia trascendentale della coscienza costituente? La risposta è che la coscienza temporalizza se stessa e che ogni momento della temporalizzazione introduce un sempre nuovo presente che assegna alla coscienza stessa una presenza sempre rinnovata. L’autotemporalizzazione articola e separa, differenzia nel tempo i tempi della coscienza. «Per Husserl il tempo, prima di rapportarsi agli oggetti, caratterizza la coscienza trascendentale stessa nel suo compimento effettivo. L’essere della vita trascendentale consiste nel movimento incessante della sua autotemporalizzazione…Questo processo di autotemporalizzazione della coscienza è scandito dall’emergenza indefinitamente rinnovata di una nuova presenza o di un presente nuovo». La nuova presenza o il presente nuovo che si innesta nella temporalizzazione della coscienza non sono eventi analizzabile e spiegabili su base teoretica. Nel tempo autotemporalizzato della coscienza si innestano eventi ontologico-trascendentali, non empirici. È importante comprendere il senso delle critiche dedicate da Lévinas alla analisi husserliana della temporalità. Esse ci fanno compiere un altro passo nella direzione conclusiva di quella che abbiamo chiamato «la parabola della coscienza» ferita, elaborata da Bernet. Per Lévinas infatti il primo difetto delle teoria husserliana della coscienza autotemporalizzata consiste nel suo carattere «esclusivamente teoretico»: si tratta di un punto essenziale perché mostra come in Husserl manchi l’analisi di una dimensione del tempo della coscienza che si collochi al di fuori della dimensione teoretica, in cui infatti è assente il rimando alla sensibilità dove soltanto può accadere di rilevare che la coscienza incontra (e insieme: non incontra) «quel che si sottrae alla sua presa» ed esce ferita da questa situazione di mancato incontro nell’incontro. Lévinas riprende la critica di Heidegger, ma non sottoscrive la concezione heideggeriana del pratico come «cura». «Per Lévinas la trascendenza della cura non è meno egocentrica dell’intenzionalità della coscienza rappresentativa». Manca ogni traccia di alterità, ossia ogni possibilità di cogliere la frattura della coscienza. «La coscienza intenzionale che si contrappone un oggetto per meglio dominarlo e appropriarselo, e il Dasein, che si preoccupa delle cose servendosene per i propri progetti, sono affette, per lui, dalla medesima incapacità di concedere diritto all’alterità di ciò cui si rapportano» (c.m.). «Esse si inscrivono entrambe nella stessa logica del potere, di assimilazione e di godimento che finisce per privare le cose della loro autonomia e dunque della loro realtà. Il senso temporale della coscienza intenzionale husserliana e della cura heideggeriana consisterebbe dunque nello svolgere intorno a sé l’orizzonte delle possibilità della propria vita al quale le cose sono pregate di conformarsi» se vogliono acquisire il diritto di apparire e di acquisire un significato. Anche per l’alterità di «altrui» vale lo stesso rilievo «quando lo si incontra nel modo della coscienza intenzionale o della cura: esso diviene sia una altro costituito da me, sia un altro cui mi associo in vista di una compito comune».

Un secondo rilievo di Lévinas, forse ancora più importante e comunque collocato sulla stessa linea interpretativa che allontana Bernet da Husserl, è rivolto all’autotemporalizzazione della coscienza husserliana. Esso riguarda Husserl, ma anche Heidegger,e consiste nella constatazione critica che la loro «comprensione della temporalità non assegna sufficientemente diritto alla novità, all’imprevisto, all’impossibile». In Husserl infatti domina l’anticipazione dell’emergenza: l’evento o l’avvenimento di una emergenza subita da un presente nuovo è compreso come il riempimento di una intenzione anticipativa che lo precedeva, e «il nuovo non è mai veramente nuovo». In Heidegger, secondo Lévinas la morte è sempre e comunque la possibilità di una impossibilità e non «l’impossibilità di ogni possibilità propria». Nel primo caso, il tempo non conosce il nuovo e l’impossibile, nel secondo caso l’impossibile non è, come non lo è nel primo, l’ultima parola del possibile. Il tempo dunque non conosce la novità del presente e la morte. La nostra potenza di possibilizzazione ci viene tolta, perché cade «l’alterità di un evento che ci colpisce all’improvviso e a fronte del quale ci troviamo in una passività impotente». Novità e morte mi vengono dall’esterno, la temporalizzazione della coscienza agisce da fuori senza che io ne sia l’autore o l’attore e l’autotemporalizzaione della coscienza ne viene colpita in maniera irrimediabile. Tale autotemporalizzazione della coscienza non conosce l’alterità, ma una coscienza senza interna, propria alterità è una coscienza che o si innalza alla propria rigidezza logica, oppure sprofonda nell’impotenza. Ma noi cerchiamo nel tempo autotemporalizzantesi la condizione dell’alterità e della (traumatica ) alterazione della coscienza, e in Husserl non la troviamo. La coscienza non si apre, il flusso unitario della coscienza intenzionale viene mantenuto, la coscienza viene salvaguardata nella compattezza unitaria del suo flusso. È questo l’ulteriore rilievo rivolto da Bernet, sulla scorta di Lévinas, al disconoscimento husserliano dell’alterità. In Husserl il passato è «presentificato» nel ricordo, ma Lévinas ritiene che l’analisi del ricordo «si preoccupa soprattutto di assicurare la continuità tra il presente e il passato».

Il passato è fatto dello scivolare via dei miei vissuti intenzionali, vissuti che sono «ritenuti» dalla mia coscienza presente e possono quindi di nuovo essere resi presenti grazie al ricordo. Il passato è ‘solo’ un presente «sfasato», spinto dal sopraggiungere del nuovo alla periferia della coscienza. Così si perde l’alterità del passato, la sua differenza che ha a che fare con «la distanza temporale, la rottura, la perdita». Husserl non disconosce la differenza tra presente e passato, ma la concezione della ritenzione e della presentificazione del ricordo coincide con il «“recupero” del passato, che ristabilisce o salvaguarda la continuità del flusso intenzionale». Così, ancora si perde la dimensione dell’altro inteso come «altrui», e insieme cade «l’anteriorità dell’altro rispetto alla presenza a sé». Solo una alterità irriducibile e irrecuperabile del mio passato conduce al riconoscimento di «altrui» come costitutivo del mio passato. Il passato si raddoppia e si disloca, in quanto costituito da «altrui»: è bensì nel mio passato, ma più originariamente esso è il passato dell’altro, l’altro come passato, il passato mio raddoppiato nella autenticità dell’altro come passato. Pensato così, il passato è per Lévinas così radicalmente altro, che «non è mai stato presente». Ma un passato ‘altro’ al punto radicale di non essere mai stato presente è un passato in cui il flusso unitario della coscienza interna del tempo viene a cadere, a vantaggio delle rotture della coscienza tenacemente perseguite da Bernet sulla scorta di Lévinas.La coscienza husserliana è ormai, vista da questa prospettiva alterante, altra cosa, si avvia alla conclusione della sua corsa, con il tempo e la temporalizzazione su cui ha gravato tutto il peso di una temporalizzazione che mira alla riconduzione rammemorante della coscienza nel presente. E, d’altra parte, quale ferita è ferita, quale trauma è trauma, se una temporalizzazione ‘della rottura’ non ha infranto la compattezza di una coscienza declinata in senso teoretico? Speranza e promessa, erotismo e fecondità, perdono. Questi divengono ora gli snodi mobili di una coscienza determinata dalla «possibilità del tempo del mio passato da parte di altrui»: e tutto è, ovviamente, segnato dalla dimensione etica. Con ciò Bernet coglie il punto, o uno dei punti essenziali della sua delineazione della parabola della coscienza, trascorrente simultaneamente verso quell’ontologico in sé etico che trova espresso in un Lévinas vicino ad Hannah Arendt.

Torna, ed è sempre più centrale, lo snodo dell’alterità nella configurazione della coscienza. L’operazione compiuta da Lévinas consiste nella sottrazione alla coscienza del «tempo dell’autoaffezione», quindi in una dislocazione dell’autotemporalizzazione che ora viene vista come non più capace, essa sola, di assegnarsi un tempo della scansione dei suoi tempi tra il presente dell’ora, la ritenzione e la protenzione. Scandita nel suo tempo, la coscienza si dirompe in una articolazione del tempo che non conosce alterità. Lévinas pensa infatti, dopo aver preparato l’ingresso dell’alterità nel flusso del tempo e in particolare nel suo momento passato, che il tempo dell’«auto-affezione» temporale della coscienza debba essere sostituito dal tempo dell’«etero-affezione». Ciò accade perché Lévinas sostituisce il tempo della passività al tempo della rappresentazione intenzionale ed ha di mira «un rifacimento del soggetto trascendentale egoico in un soggetto etico, che, lungi dall’essere caratterizzato dal suo potere spontaneo e libero, è responsabile per l’altro e viene dall’altro». Questo significa che l’altro è talmente importante per l’eticità di tale soggetto non più spontaneamente libero, da essere ‘etero-affetto’ dall’altro che propriamente gli consegna la (non) sua connotazione etica, che lo rende responsabile per l’altro, che lascia che l’altro risponda per lui, che gli affida la sua intera potenzialità etica. La passività di cui si fa carico è l’attività etica dell’altro che si trasferisce su di lui, appunto venendo dall’altro. Il suo essere vulnerabile da parte dell’altro coincide con il (non suo, ma insieme suo) essere etico. Responsabilità per l’altro significa per il soggetto di essere da sempre «marcato» dall’altro che gli sottrae l’iniziativa etica e piuttosto gliela assegna come cosa sua-non sua.

«Questa responsabilità [per l’altro] accade a un soggetto che è marcato, nel più profondo del suo vissuto, dalla sua sensibilità che lo avvicina all’altro o dalla sua vulnerabilità riguardo all’altro. Questa sensibilità vulnerabile, che è l’esperienza di una prossimità dell’altro nella passività, è dunque una affettività già sempre abitata dall’altro, rimessa all’altro. La sensibilità etica è di conseguenza un’affettività che mi giunge interamente dall’altro, è il risultato di una affezione da parte di una domanda imperativa e traumatizzante dell’altro». Che cosa dunque può fare la temporalità husserliana «per un pensiero etico dell’alterità dell’altro»? La radicalità della risposta di Lévinas consiste nel mettere in discussione la coscienza stessa. Come si è osservato seguendo Bernet, l’alterità temporale, questa funzione delle differenza alterante si mantiene «nel quadro di una fenomenologia della coscienza». Ora diviene chiaro che una fenomenologia della coscienza può segnare la fine dello spazio per l’alterità, che coscienza può voler dire fine dell’alterità radicale. Osserva Bernet che tale coscienza può ben essere sensibile e non obiettivante, divisa e separata da se stessa: essa tuttavia «cercherà sempre di riunirsi a sé per preservare la propria identità» (c.m.). Il suo volere essere per sé esclude quello che le si chiede e su cui Lévinas insiste, l’essere «per l’altro». Se anche si suppone che l’alterità a sé della coscienza consenta di pensare l’altro sotto forma di una «affezione traumatica», di nuovo essa non consente di pensare quella forma estrema e irreversibili dell’alterità per l’altro che consiste nel «sacrificare se stessa per l’altro», essendone come abbiamo visto l’ostaggio. Può accogliere lo straniero, dividendosi da se stessa ed aprendo allo straniero uno spazio al proprio interno, facendo dell’estraneo il suo stesso soggetto: quello che la coscienza, la coscienza in quanto tale, non può fare è di «esiliarsi fuori di se stessa o lasciarsi completamente annichilire dall’altro». Se in questo contesto di contrapposizione lasciamo intervenire il concetto di «giustizia», «inconcepibile senza l’intervento di un terzo che fa di altrui l’altro di un altro», ciò ci mette al riparo di una responsabilità infinita per altrui, «ma questa responsabilità io la condivido ormai con gli altri». Gli altri sono responsabili di altrui, come lo sono io, altro tra gli altri, rispetto ai quali altrui è l’altro di tutti e di ciascuno, che a sua volta ha in lui la sua identità alterata. «Se questa nuova forma di responsabilità mi viene sempre da altrui, essa tuttavia non mi rinvia direttamente a lui. L’alterità di altrui come estraneo si coordina con l’alterità a sé di una comunità di giusti».

8. Il soggetto e il trauma

ll programma dell’ultimo, fondamentale capitolo del libro di Bernet,13 libro di tendenziale fuoriuscita dalla fenomenologia husserliana nell’incontro con l’ontologico dell’esistenza, si riassume nel passaggio attraverso Lévinas, Freud e Lacan, alla ricerca della determinazione di ciò che è un evento traumatico, di ciò che è un soggetto traumatizzato o traumatizzabile e, infine, di che cosa vuol dire il «fare fronte al traumatismo». In Freud l’evento traumatico è lo choc dell’incontro con qualcosa «di talmente estraneo e di talmente inconcepibile da mettere il soggetto fuori gioco». Il soggetto soccombe di fronte alla estraneità del trauma e cade nella sofferenza muta e impotente che quello gli infligge. La storia di Emma14 mostra bene che il trauma deve essere raddoppiato, deve essere ripetuto in un tempo che è originariamente secondo (l’après coup) se deve installarsi nella storia di un soggetto, prendendo il posto della prima traccia fantomatica. Il tempo del trauma è essenziale perchè si dia un trauma, se non si deve addirittura dire che il trauma è il suo stesso tempo ritardato e che, soprattutto il soggetto entra in scena come traumatizzato in una originarietà successiva. Si noti bene – Bernet per conto suo lo fa già egregiamente intendere – la rilevanza filosofica di questo passaggio. Il soggetto traumatizzato non è l’esito di un evento della storia di una vita, esito contingente ed empirico, perché il suo tempo ove l’originario è, in quanto, tale successivo, impone di riconoscere come sua struttura (pur esposta da Freud nella forma della ‘normale’ successività narrativa, al di fuori di ogni sua valorizzazione filosofica ) che «è solo nel momento in cui in cui il primo evento – choc senza significato per il soggetto – si associa al secondo – significato senza choc – che il soggetto entra in scena». Non si dà soggetto traumatizzato al di fuori di questo orizzonte teorico temporale. Ma qui «teorico» significa, al di fuori della stessa consapevolezza di Freud, fenomenologico, perché solo una concezione non ordinaria del tempo, capace dell’inversione ospitante l’originariamente successivo dell’après coup può letteralmente ‘mettere in scena’ un soggetto del tempo e del trauma nel tempo. «È dunque l’associazione a-soggettiva tra due eventi, associazione che risale il corso del tempo, che fa sì che lo choc primitivo finisca per presentarsi tardivamente al soggetto». Il soggetto appare solo come esito del raddoppiamento del trauma, quando cioè il trauma stesso presentandosi al soggetto in una originarietà successiva, porta il soggetto stesso a mostrarsi. È così che il soggetto, manifestandosi nel suo ritardo, ed in connessione con un trauma privo del senso che acquisisce solo dopo, è un soggetto originariamente traumatizzato. Questo soggetto è ciò che fino a questo punto Bernet ha analizzato nelle forme della sua alterazione, quando lo chiamava «coscienza» e che ora diviene appunto un soggetto originariamente ferito da un vulnus fenomenologico, non empirico, come si è detto. Ora si vede bene la trasformazione nella continuità di una coscienza alterata in un soggetto vulnerato. Il soggetto non è ancora apparso, ma al suo posto, quale precondizione di un suo trauma riconosciuto e disconosciuto, agisce l’anonimia di una associazione tra il trauma reale rimasto nascosto e il suo significato successivamente emerso. Il trauma sorge dalla forza anonima che collega il successivo all’originario, facendo di quest’ultimo un non ulterioriormente risalibile originario successivo. Ciò fa del vulnus l’esito della «forza di una associazione anonima e della temporalità di un après coup imprevedibile, che costituiscono il soggetto, mentre lo espongono ad una esperienza che non può riconoscere come sua se non disconoscendola».

Bernet osserva opportunamente che in Freud il soggetto decide di rimuovere la rappresentazione che emerge dall’associazione fortuita di due eventi, ciò che propriamente lo rende soggetto, perché non può sopportare il significato del suo vissuto primitivo. Ma questo lo conduce al nuovo evento, diverso dal primo ed tuttavia ad esso collegato, del sintomo nevrotico. Il trauma è talmente potente e insopportabile per il soggetto, che si trasforma per lui in un sintomo e in certo senso muta il significato del vulnus: meglio, lo nasconde come trauma e lo fa vivere come sintomo, che è pur sempre un segnale della differenza alterante che lo attraversa. Il trauma divenuto sintomo resta pur sempre un trauma, il sintomo che rinvia ad un trauma che rompe l’unitarietà della coscienza. «Appena il soggetto viene messo in presenza del trauma come suo, egli si nega come soggetto traumatizzato e scambia l’esperienza del trauma in un sintomo». Ma come vive il soggetto la propria traumaticità? O si deve dire che esso non la vive come soggetto, se non sotto la forma sintomatica che ne occulta la soggettività, la cui vita psichica richiede, per questo, di essere interpretata, decodificata? La domanda è fondamentale, perché insiste sulla trasformazione nella continuità della coscienza alterata nel soggetto traumatizzato, cioè rivolge la sua attenzione al punto finale della parabola (là dove la parabola si rivela una struttura). «A parte questo corto istante di attività e di lucidità che è nondimeno inseparabile dall’istante della rimozione e del disconoscimento, il soggetto traumatizzato si trova dunque passivamente consegnato a una alterità estranea che la concerne nel grado più alto e che si impadronisce di tutta la sua vita: dapprima sotto la forma della traccia muta e insistente del primo choc e poi sotto la forma dell’inibizione della sua vita adulta da parte di un sintomo nevrotico incomprensibile».

Due confronti possono essere istruiti. Il primo è tra Freud e Lacan. Entrambi si trovano di fronte allo stesso problema fenomenologico. Se il trauma è inconcepibile, «come può un soggetto apprendere l’apparire di qualcosa di totalmente inconcepibile, che tuttavia lo riguarda in maniera inevitabile?» Il soggetto non conosce il trauma che lo riguarda come sua caratteristica essenziale. Freud risponde che esso è disconosciuto nella rimozione. Lacan dice che il soggetto svanisce di fronte alla «manifestazione mostruosa di un significato senza significante, cioè di un fenomeno totalmente isolato, privo di ogni contesto o orizzonte». Il soggetto freudiano sostituisce una rappresentazione possibile ad una rappresentazione impossibile (non sa del trauma che gli accade e lo trasforma in ciò che come sintomo non lo rappresenta), mentre il soggetto lacaniano è affetto da un non senso totale. In entrambi i casi, il soggetto e il suo trauma restano separati, il soggetto vulnerato resta occultato, sebbene sia esso il centro del problema. «In Freud il soggetto sembra giocare d’astuzia con l’apparizione del trauma, riconoscendolo nel misconoscimento, mentre in Lacan il fenomeno trionfa sul soggetto» e la negazione di un fenomeno da parte del soggetto diviene la negazione del soggetto da parte del fenomeno. Il soggetto traumatizzato resta introvabile, e con esso il grado estremo della sua alterazione.

Un secondo confronto si può fare tra Freud e Lévinas, con la sua concezione del soggetto «comandato traumaticamente». Prima di riconoscere l’insopportabile miseria dell’altro per rispondere, l’altro mi si presenta, come si legge in Altrimenti che essere, quale portatore di un «comando che viene da un passato immemoriale, che non è mai stato presente». C’è qui una forte somiglianza con la concezione freudiana della temporalità del trauma: il ritardo originale ricorda l’après coup freudiano, ma anche la nozione levinassiana di un «passato immemoriale» somiglia al «primo momento del trauma» in Freud, di cui si è detto che il soggetto non può «né ricordarlo né obliarlo». Ora, un trauma è, evidentemente, per entrambi l’espressione di quella faglia aperta dalla rottura dell’unità del soggetto, di quella differenza interna definibile fenomenologicamente originariamente ritardata (diversa dunque nel suo darsi, rispetto alla sua origine non saputa, come collocata nel suo ‘dopo’, sua autentica origine). Ma il trauma è anche l’immemoriale, non ciò che non si ricorda ma ciò che oscilla nella differenza tra il ricordare e l’obliare, ciò che sottrae alla memoria il ricordo del suo primo momento traumatico, ricordo che esso possiede ed insieme, differenziandosene occulta e dimentica e lo dimentica proprio perché suoi sono tanto il ricordo quanto la dimenticanza: la differenza vista nell’atto stesso del suo aprirsi traumaticamente riprendendo nel modo del rapportarsi al trauma, il modo stesso del trauma. In Lacan, il trauma si indirizza a un soggetto, e dunque si dà un soggetto del trauma, nonostante che trauma e soggetto si collochino in un altro spazio e in un altro tempo, esclusa ogni reciprocità e ogni scambio. Questo esibisce il perché del darsi di un trauma per il soggetto, «precisamente perché esso è al tempo stesso proprio ed improprio, perché tocca il soggetto nella sua più singola intimità, pur restando per lui un corpo estraneo». Questa è l’essenza della differenza vivente che rende traumatico il trauma, ciò che sottopone il soggetto traumatizzato alla estrema tensione della differenza, in quanto squarciato tra due imperativi contraddittori: «quello di appropriarsi dell’estraneo e quello di respingerlo per salvare ciò che gli è proprio». L’appropriazione è al tempo stesso esclusione o «forclusione», sebbene Lévinas abbia capito che deve esserci nell’Io, «una faglia che permetta alla voce dell’altro di farsi udire senza essere privata della sua alterità e del suo potere di alterazione».

Si tratta di ciò che permette al soggetto levinassinano che risponde al trauma di essere un soggetto «malgrado se stesso», un soggetto che si avvia a «rispondere» e a «reagire al trauma», un soggetto «squarciato» che pure resiste, alterato, con la sua alterità e con il suo potere alterante. La «strana simultaneità» tra soggetto e trauma consegna al traumatismo la sua estrema, radicale fisionomia, quella che lo consegna all’inarrestabile movimento alternato di lasciare in primo piano sulla scena, volta a volta, l’altro e il sé, il sé che concede a se stesso di lasciare, in sé, lo spazio dell’altro, proveniente dall’altro. Non si dà una «stabilità» del soggetto traumatizzato. Il soggetto reagisce in quanto venga investito e travolto nel suo stadio anteriore. Nel trauma, nella sua trama interna, il sé e l’altro occupano alternativamente il primo piano, l’estraneità non è la sua unica declinazione rispetto al soggetto, essa è a tutti gli effetti una estraneità nel soggetto e del soggetto, ciò che lascia spazio, nel soggetto, tanto al sé quanto all’altro. Donde, altrimenti la frattura interna che chiede una risposta? «Il trauma non è solo l’evento di una alterità estranea che concerne il soggetto nella sua più intima singolarità, ma è anche un evento ove, alternativamente, il sé e l’altro occupano il centro della scena…il soggetto che risponde al trauma», dato il ritardo originario del sé sull’altro, «non risponde a partire da se stesso, la sua risposta proviene dal trauma (c.m.) e resta dunque tributaria del trauma».

La simultaneità tra soggetto e trauma mostra che nessun soggetto è al riparo dal sopraggiungere di una evento traumatico. Il suo «godimento» è vulnerabile. Nulla lo protegge da un traumatismo futuro. Il trauma, abbiano notato, è strutturale per il soggetto. Esso «è dunque comparabile a questa ‘traccia’ di cui parlava Freud e che si situa tra due affezioni traumatiche». Ma come reagisce il soggetto al suo traumatismo presente. Egli deve affrontarlo, sebbene non si sappia ancora ‘come’ può farlo. La risposta arriva comunque tardi, quando «il male era già fatto». Trauma e soggetto sono simultanei ma al tempo stesso troppo dissimili e troppo intrecciati per potersi incontrare su un terreno comune, o rispettivamente, ignorarsi. Rispondendo al trauma che lo riguarda, il soggetto si appropria del suo trauma, ma può farlo, ancora una volta a causa della estraneità del trauma, nella forma del disconoscimento, dell’espulsione. Una doppia impossibilità lo stringe, quella di rispondere e quella opposta di non rispondere. Anche in Freud lo sforzo di appropriazione del trauma coincide con un atto di ripulsa o di rimozione. La risposta è sempre duplice perché «nega immediatamente quel che afferma». Perciò la risposta al trauma sarà sempre nella forma del sintomo: perché è una risposta che «nega immediatamente quel che afferma». Producendo un sintomo, il soggetto traumatizzato risponde al trauma rimettendosi alla risposta di un altro. Questo altro non risponde per lui, ma trasmette al soggetto «il messaggio della sua propria risposta sintomatica». Il sintomo è di un altro che lo trasmette al soggetto, fattosi così soggetto traumatizzato e sintomatico. Ma io devo rispondere all’appello traumatico dell’altro e questo può avvenire se riconosco l’altro attraverso il trauma che mi infligge. Come ciò può avvenire, si chiede Lévinas? «Come riconoscere nell’evento traumatico di un confronto con l’incomprensibie sofferenza dell’altro, un messaggio personale che si rivolge a me (c.m.) nella mia più intima singolarità? Altrimenti che essere non è forse che una lunga meditazione su tali questioni». La risposta possibile, se si vuole evitare che la risposta coincida con un nuovo traumatismo proveniente dall’altro, può essere che si dà un «intreccio» che lega altrui e me, appello e risposta dell’uno all’altro. La proposta ‘positiva’ di Lévinas, oltre la catastrofe traumatica, suona così: «Essere in contatto. Né investire altrui per annullare la sua alterità, né sopprimermi nell’altro». Devono, infine, essere chiamate in causa di nuovo la «carnalità» e la «sofferenza». È possibile che io non mi sopprima nell’altro, se «mi consegno all’appello traumatico dell’altro malgrado me stesso». Devo rinunciare al mio egoismo, dato che la risposta all’appello dell’altro è «tributaria dell’altro». Essa tuttavia contiene una «resistenza» all’appello grazie a cui io non mi sopprimo nella’altro. Con la resistenza del sé, il «prezzo» del dovere di riposta cresce.

Rinunciando al mio egoismo in quanto la mia risposta la devo all’altro che me la chiede, introduco un «malgrado me stesso» che rende preziosa la rinuncia al mio egoismo e il dovere di risposta. Mi metto così nella condizione che Bernet, sulla scorta di Lévinas, potrebbe definire di equilibrio etico e insieme di delineazione di un soggetto colpito dal trauma ma non sottomesso senza resistere, in cui né mi abbandono al trauma passivamente, né all’opposto mi preservo da esso. Il dovere di risposta avviene per me in modo tale da costituirmi come soggetto traumatizzato in senso pieno, in equilibrio tra trauma subito e trauma evitato. Questo è allora il soggetto esistenziale alla conclusione della sua parabola, e la sua resistenza è elemento essenziale del suo essere, nel trauma che lo colpisce, ancora soggetto (ma non, come in Husserl, coscienza costitutiva intenzionale): di essere soggetto perché sofferente di un dolore cui non può sottrarsi. E infatti, se ci chiediamo: «Lasciarsi traumatizzare senza farsi annichilire, darsi senza sopprimersi, raccogliersi e concentrarsi tra periodi di totale assenza di sé» (e dunque riprendersi) «quale vissuto soggettivo testimoniano?», la domanda sullo stato del soggetto colto alla fine della sua traumatizzaione, è schiettamente esistenziale, sebbene si tratti di una esistenzialità fenomenologica che rinvia al vissuto. La risposta è molto chiara. Essa si fonda sul margine minimo che la coscienza incarnata e ferita ricava per sé fornendo al soggetto traumatizzato anche la base ridotta, la non pienezza che è espressione del trauma stesso. Quel che viene testimoniato è l’«umile sensazione di sofferenza…la coscienza incarnata della prova subita che introduce questo scarto minimo su cui può appoggiarsi la sopravvivenza del soggetto». Che cosa resiste al trauma dunque, se non la sensazione del soggetto traumatizzato, che sa del suo trauma e fa del suo sentirlo e provarlo, la condizione stessa del sua sopravvivere esistenziale. Esso sopravvive come traumatizzato «sentendosi» violentato e vulnerabile, «malgrado se stesso», mettendo in atto un certo grado di resistenza. «Esso non dispone di alcun altra protezione contro la sua annichilazione da parte del trauma, eccetto questa sensazione della sua sofferenza e della sua vulnerabilità», che non coincide nè con la sequenza ininterrotta dei traumi, né con i traumi singoli, ma con il filo che lega i traumi e sta tra un trauma e l’altro.


  1. Commento i passi di Coscience et existence (CE), cominciando ovviamente dalla prima parte, Ontologia dell’oggetto e fenomenologia della coscienza in Husserl, nella traduzione italiana dall’originale che ne faccio volta per volta. Mi limito all’indicazione delle pagine dell’originale del capitolo o del paragrafo in esame, senza dettagliare in nota le singole citazioni tradotte. I riferimenti in esergo cui mi richiamo all’inizio sono tratti dalla trattazione husserliana della «psicologia fenomenologica», il primo, e da Altrimenti che essere di Emmanuel Lévinas, il secondo (cfr. CE, p. 7). Mi preme ribadire che tento di dar vita ad una vera e propria ‘ripetizione’ del libro di Bernet, allo scopo di seguirne e di esibirne il percorso che chiamo parabolico, poiché ritengo che una lettura analitica consenta di cogliere quello che rischia di sfuggire di una lettura fortemente guidata da un telos fenomenologico-esistenziale non di rado espresso in una scrittura complessa dai passaggi ‘coraggiosi’. Al centro dell’attenzione dovrebbe essere messo e mantenuto in forma implicita o esplicita il passaggio dalla prima parte (Ontologia dell’oggetto e fenomenologia della coscienza in Husserl) alla seconda parte (Fenomenologia dell’esistenza e ontologia dell’evento). La questione di fondo, che lasciamo aperta dopo averla enunciata come estensione completa dal campo problematico, è se la riflessione iniziale sul rapporto tra coscienza e logica, tra coscienza e datità, tra coscienza e gli oggetti fittizi, tra la coscienza e la sua temporalizzazione, e infine sul senso «nuovo» da attribuirsi all’idealismo trascendentale husserliano, sia la preparazione e come l’anticipazione dei temi della «fenomenologia dell’esistenza» trattati nella seconda parte, o se invece quest’ultima contenga e realizzi una vera e propria svolta che impone un ripensamento profondo della coscienza fenomenologica e quindi delinea una vera e propria fuoriuscita dalla fenomenologia husserliana, presentita ed accennata, ma lasciata del tutta implicita nella prima parte. Che la coscienza husserliana riveli la propria essenza nell’«incontro con ciò che sfugge alla sua presa», come si legge nell’Introduzione (CE, p. 28) sembra una indicazione chiara che l’intenzione teoretica di Bernet va nella seconda e insieme inestricabilmente nella prima delle direzioni indicate, sebbene rimanga aperta la domanda se e come l’operazione di tenere insieme due sguardi sulla fenomenologia riesca convincente e se il suo telos non costringa ad un ripensamento radicale del pensiero husserliano della coscienza. Ritengo che questa iniziale avvertenza spieghi a sufficienza le ragioni per cui l’operazione condotta sulla lettura di Bernet debba essere compiuta su un solo, ma essenziale, libro, evitando deviazioni e concentrando l’attenzione sulla tematica della coscienza che ne costituisce il contenuto essenziale e mettendo da parte ogni tentazione di ricostruzione complessiva della sua interpretazione di Husserl e di ciò che è stato pensato oltre Husserl. ↩︎

  2. CE, p. 293. ↩︎

  3. Confermo quel che ho accennato nella nota 1. Il commento del libro di Bernet segue i singoli capitoli, o blocchi di capitoli, di cui fornisco all’inizio le pagine, senza dettagliare le pagine delle citazioni tratte dalla mia traduzione italiana dell’originale, cui esse rinviano. Diversamente da quel che ho fatto per l’Introduzione, le note sono collocate non nel testo, ma a piè di pagina. Il lettore è comunque invitato a controllare la correttezza della mia traduzione dal francese dei brani citati, che chiudo tra virgolette, sebbene essa non rinvii ad un qualche testo interamente tradotto e pubblicato. In quel che segue, il riferimento del commento è al capitolo primo della prima parte (Ontologia dell’oggetto e fenomenologia della coscienza in Husserl, I La logica e il suo rapporto a una coscienza psicologica o fenomenologica, CE, pp. 33-54), dalle quali cito. ↩︎

  4. CE, p. 28, citata già sopra. ↩︎

  5. Cfr CE, pp. 55-74. ↩︎

  6. CE, p. 55. Inizio da qui il commento del secondo capitolo, La verità delle cose dette e la coscienza intuitiva. Come fatto in precedenza, non fornisco in nota il dettaglio delle singole citazioni. ↩︎

  7. Cfr, CE, pp. 75-117 da cui cito. ↩︎

  8. Cfr. E. Husserl, Phantasie, Bildbewusstsein, Erinnerung. Texte aus dem Nachlass (1898-1925), Husserliana XXIII, hrg. von E. Marbach, Nijhoff 1980. Cfr. F.S. Trincia, Fenomenologia e poesia. Edmund Husserl e John Keats, «Dialegesthai», 18, 2016. ↩︎

  9. Cfr. CE, pp. 143-168, da cui cito seguendo il criterio già sopra indicato. ↩︎

  10. Il libro uscirà nelle edizioni Shibboleth. Mi risparmio l’indicazione del titolo che potrebbe subire mutamenti. ↩︎

  11. Cfr. CE, pp. 247-267, citate secondo il criterio ulteriormente semplificante rispetto a quello già indicato. ↩︎

  12. Cfr. l’Introduzione di R. Bernet a E. Husserl, Texte zur Phänomenologie des inneren Zeitbewusstsein, Hamburg, Meiner, 1985 e R. Bernet, La vie du sujet. Recherches sur l’Interpretation de Husserl dans la Phänomenologie, Paris PUf, 1994. ↩︎

  13. Cfr. CE, pp. 269-293, da cui cito secondo il criterio già indicato. ↩︎

  14. Cfr, S.Freud, Entwurf einer Psychologie (1895), in Aus den Anfängen der Psychoanalyse, Frankfurt a M., Fischer 1950. ↩︎