La fede tra follia e violenza. Fides et Ratio nell’interpretazione di Emanuele Severino

1. Introduzione

La pubblicazione dell’enciclica Fides et Ratio costituisce senza dubbio un evento nel panorama della cultura teologico-filosofica contemporanea. Fides et Ratio ha tra i suoi intenti quello di stimolare la ricerca filosofica verso il raggiungimento di obiettivi che, secondo l’analisi del pontefice, essa pare aver perso di vista. Se la filosofia non sa più parlare della verità, se rifiuta aprioristicamente la dimensione della trascendenza, può ancora avere il diritto di fregiarsi di quel nome, può cioè dirsi ancora filo-sofia? Non sta forse così preparando la via del proprio declino? Cosa rimane, in definitiva, di quello straordinario intreccio di idee che, nate sotto il sole dell’Attica, fecondarono il mondo intero? Questa presa di posizione è stata una delle principali cause di reazioni critiche (talvolta molto severe) da parte di filosofi che hanno ritenuto inaccettabili le valutazioni dell’enciclica sul pensiero contemporaneo. Un giudizio decisamente critico, ancorché privo di asprezze polemiche, viene formulato da Salvatore Natoli.1 Fides et Ratio, sostiene Natoli, resta lontana dal cuore del pensiero contemporaneo non tanto per cattiva volontà o intolleranza quanto per ragioni di estraneità semantica. Il tentativo compiuto da Giovanni Paolo II di sviluppare un dialogo con la filosofia contemporanea sarebbe destinato, nonostante le buone intenzioni, ad un fallimento, in quanto il quadro teorico all’interno del quale si definisce il discorso di Fides et Ratio è radicalmente estraneo al pensiero contemporaneo. Parole come «verità», «ragione» sono usate nell’enciclica in modo troppo disinvolto, assumendo in maniera non problematica il significato tradizionale e senza tener conto degli slittamenti che su questo terreno la filosofia contemporanea ha prodotto. Lo stesso dicasi per il concetto di «natura» su cui, come è noto, molti filosofi hanno compiuto e compiono un lavoro di continua erosione. È per queste ragioni che un confronto con i temi della filosofia contemporanea è improbabile. Per limiti di vocabolario. In totale rotta di collisione con questo punto di vista — indubbiamente un leit motiv nella ricezione «laica» dell’enciclica — si muove l’interpretazione, che qui intendiamo esaminare, di Emanuele Severino. Il filosofo bresciano assume, in questo dibattito, una posizione del tutto singolare. Il suo giudizio è esattamente antitetico a quello di Natoli. Fides et Ratio, a suo dire, condivide con il pensiero contemporaneo lo stesso impianto semantico, la stessa matrice speculativa. Le differenze sono soltanto un fenomeno superficiale: se gettiamo lo sguardo in profondità ci accorgiamo che il discorso dell’enciclica ha un’anima comune con il pensiero contemporaneo. L’assimilazione dell’enciclica al nucleo profondo della filosofia contemporanea comporta, all’interno della prospettiva di Severino, la formulazione di una tesi generale che si può esprimere in questi termini:

  1. Fides et Ratio ha una struttura profonda identica al pensiero contemporaneo; ciò significa che:

  2. essa è avvolta inestricabilmente nel nichilismo; quindi:

  3. nonostante le buone intenzioni, il tentativo di fuoriuscire dal nichilismo è destinato al fallimento: come può l’enciclica offrire un rimedio al «veleno» del nichilismo se essa stessa è portatrice di quel veleno?

Per comprendere le ragioni che stanno alla base di tale giudizio bisognerà in primo luogo risalire alla prospettiva teoretica generale di Severino e alla sua interpretazione del cristianesimo. Questo sarà l’obiettivo della prima parte del nostro lavoro. Analizzeremo poi gli argomenti dialettici che egli utilizza contro Fides et Ratio e, infine, proporremo delle osservazioni critiche su alcuni presupposti fondamentali del suo sistema speculativo.

2. Essere, nulla, divenire. La proposta filosofica di Severino

2.1. La posizione di Severino nei confronti del cristianesimo in generale

Il pensiero filosofico di Emanuele Severino si è caratterizzato, sin dagli inizi, per un costante e critico riferimento alla cultura cattolica. Non faremo un esame sistematico delle sue critiche al mondo cattolico. Ci limitiamo qui a tracciare, in maniera molto schematica, solo alcune linee generali allo scopo di caratterizzare la sua posizione nei confronti del cristianesimo.2

Il cristianesimo occupa uno spazio centrale all’interno della riflessione di Severino, a tal punto che si ha l’impressione che essa tenda verso la delineazione di un quadro concettuale dentro cui il cristianesimo possa coesistere con alcuni aspetti essenziali della filosofia greca. Tuttavia la sintesi cui Severino sembra anelare è del tutto diversa da quella storicamente realizzatasi. Il cristianesimo ha mutuato dalla filosofia greca quegli aspetti che invece — a suo dire — andavano respinti. Tra questi il più devastante è la fede nel divenire. Credere nel divenire così come esso è stato pensato nella filosofia greca significa, secondo Severino, negare l’essenza stessa delle cose, annullarne la realtà. La fede nel divenire, nell’idea che le cose sorgano dal nulla e al nulla ritornino, è alla base del concetto di nichilismo, cioè dell’idea secondo cui le cose sono nulla: il loro essere si identifica con il nulla. Si tratta di una suprema follia che emerge in tutta la sua drammaticità nel pensiero contemporaneo grazie all’opera di pensatori come Leopardi, Nietzsche, Gentile. Questi pensatori mostrano che la concezione greca del divenire — espressa in modo paradigmatico nel concetto platonico di epamphoterízein (Repubblica, V, 479 c) che Severino, con una notevole esegesi speculativa, interpreta come erízein epì tà amphótera: le cose sono soggette ad un erízein, ad una contesa continua tra l’essere e il niente (tà amphótera)3 — implicando l’identificazione tra essere e nulla conduce necessariamente verso la negazione di qualsiasi legge assoluta, di qualsiasi limite inoltrepassabile. Nessuna verità assoluta può essere affermata se si mantiene la fede nel divenire: ogni Immutabile viene necessariamente oltrepassato e sospinto nel nulla. Queste dinamiche erano già presenti in nuce nella filosofia greca, ma il pensiero contemporaneo, nelle sue vette più alte, le ha condotte al loro pieno compimento. Tutte le posizioni della filosofia contemporanea sono riconducibili ad un atteggiamento di fondo comune, che non implica l’esclusione delle differenze, e che consiste nel deflazionamento del concetto di verità metafisica. La parola «verità» sembra non trovare più spazio nel pensiero contemporaneo. Tale processo è imputabile essenzialmente alla fede nel divenire, ossia in quel travolgimento annientante che in realtà, da un punto di vista strettamente empirico, non è dimostrabile: l’esperienza non ci mostra il divenire come annullamento ma, piuttosto, come apparire e scomparire degli eterni. Il divenire inteso come annullamento è pertanto semplicemente un atto di fede cieca. Sennonché, le risorse per uscire da queste aporie si possono rintracciare nella stessa filosofia greca. È possibile superare questa devastante contraddizione tra essere e divenire, che esplode in tutta la sua potenza drammatica nella filosofia contemporanea, risalendo all’insegnamento di quel filosofo che Severino considera il più grande personaggio della storia: Parmenide di Elea.

Parmenide, affermando l’idea dell’immutabilità dell’Essere, indica la via per uscire dalle difficoltà, ma non dà la soluzione. Anzi, è Parmenide stesso, secondo Severino, a spianare la strada al nichilismo: è lui che mentre da un lato afferma l’immutabilità dell’Essere, dall’altro sostiene che le cose del mondo sono nulla o tutt’al più apparenza ingannevole, specchietto per allodole credule.

Parmenide risulta così essere l’inventore dello schema dialettico realtà/apparenza che sarà presente in maniera ossessiva nella cultura occidentale e che ha trovato forse la sua formulazione più emblematica nel mito platonico della caverna. Ben si comprende dunque come il ritorno a Parmenide propugnato da Severino non debba consistere in una ripresa in toto delle sue idee ma:

  1. nella ripresa del principio fondamentale della sua ontologia che afferma l’immutabilità dell’Essere;

  2. nella declinazione di quel principio a livello degli essenti.

Immutabile, eterno non è l’Essere astratto ma tutti gli essenti nella loro concretezza. L’eternità appartiene al cuore di ogni essente: materiale, spirituale, presente, passato, futuro. Ogni essente è eterno perché, in base al principio eleatico, esso è se stesso e non può essere altro.

Questa legge fondamentale, che corrisponde al principio aristotelico di non contraddizione (la bebaiotáte arché, nella traduzione latina: principium firmissimum; cfr. Aristotele, Metafisica, IV, 3, 1005b 19- 25 e 4, 1007a 20-21) nella sua valenza ontologica, impedisce la trasformazione, il mutamento, l’annullamento degli essenti: in una parola, impedisce il divenire.

Le trasformazioni che interessano la totalità degli essenti e che sono attestate dall’esperienza non vanno intese nel senso dell’annullamento, ma come un entrare e uscire degli eterni dal cerchio dell’apparire. Degli essenti che escono dal cerchio dell’apparire, cioè dalla dimensione dell’esperibilità sensoriale, non è possibile predicare l’annullamento: la sorte dell’essente che esce dal campo dell’esperienza non è osservabile e, dunque, non è possibile parlare di annientamento.

La fede nel divenire consiste nel credere di vedere ciò che l’esperienza non ci mostra; essa quindi è una cattiva lettura dell’esperienza. Su questi, che sono aspetti centrali dell’impianto severiniano, si possono sollevare obiezioni molto significative. Lo faremo in seguito. Qui ci interessa mostrare lo sfondo concettuale all’interno del quale si definisce la sua critica al cristianesimo. Il cristianesimo condivide con tutta la cultura occidentale la fede nel divenire e per tale motivo, pur essendo caratterizzato da una forte tensione verso la verità (e l’enciclica ne è un documento eloquente), non può che approdare al nichilismo.

L’istanza di fondo che muove il progetto di Severino, al di là delle asprezze dialettiche, ci sembra, lo ribadiamo, quasi quella di voler «salvare» il cristianesimo, costruendo una base ontologica in cui i suoi contenuti di verità possano trovare una formulazione adeguata. Altrimenti, avvolto nelle nebbie della metafisica greca, è destinato inevitabilmente al tramonto.

2.2. Un incontro possibile?

Severino è un filosofo che offre numerosi spunti di interesse per una prospettiva cristiana. L’originaria formazione neoscolastica non scompare mai dal suo orizzonte speculativo. Ciò spiega la permanenza, all’interno della sua prospettiva, di numerosi elementi della teologia cattolica.

La singolare commistione di cristianesimo e filosofia, di teologia e metafisica, rende difficile una valutazione univoca del suo pensiero a partire da una prospettiva cristiano-cattolica. Se si valorizza la parte «teologica» del suo pensiero, sembra profilarsi una possibile conciliazione; se, invece, ci si concentra su alcuni assunti filosofici, si vede che gli spazi di un possibile accordo si restringono notevolmente.4

Un luogo importante per valutare la possibilità di un incontro tra le tesi di Severino e il cristianesimo è il bel dialogo che il filosofo intrattiene con il teologo Piero Coda.5 Qui si mostrano in tutta evidenza gli spazi ma anche — e soprattutto — le difficoltà di un accordo. Coda elabora una sofisticata ipotesi ontologica che sembra muoversi nella direzione del neoparmenidismo di Severino, accogliendone alcune istanze centrali. Tuttavia lo scarto rimane. Nella prospettiva severiniana non c’è spazio per un Dio ontologicamente superiore all’uomo, il quale è eterno già da sempre, e non ha bisogno dunque di essere salvato.

Vediamo i punti salienti di questo dialogo.

Il punto di partenza del ragionamento di Severino consiste nel rilevare come il cristianesimo abbia assunto, sin dalle sue origini, la struttura speculativa del pensiero greco. I contenuti della fede cristiana si sono espressi su quella che, con un’ingegnosa metafora, Severino chiama la «scacchiera greca»:

Nel dialogo tra filosofia e teologia sul tema della verità occorre inoltre pensare a fondo l’innestarsi del cristianesimo sul pensiero greco: il cristianesimo infatti cresce e si sviluppa all’interno di questo significato del termine «verità» messo a punto dai Greci. Al riguardo penso possa essere utile e chiarificante utilizzare una metafora che mi è cara. I Greci sono coloro che preparano la scacchiera su cui saranno giocati tutti i giochi dell’Occidente. È chiaro che gli inventori di quella scacchiera non possono certo prevedere tutti i giochi che su di essa verranno giocati. Anche il cristianesimo dunque rimane per i Greci un gioco non previsto. Tuttavia sia il grande gioco cristiano, sia tutti gli altri giochi grandi e piccoli della civiltà occidentale saranno inevitabilmente giocati proprio su quella scacchiera che i Greci hanno inventato e con quelle regole che ancora i Greci hanno elaborato.6

Il modo in cui, ad esempio, il cristianesimo pensa il nulla è essenzialmente incentrato sulla tradizione filosofica dei greci. Sia nell’Antico come anche nel Nuovo Testamento si possono individuare dei passi che rimandano direttamente al significato greco del termine. Pensare il Regno di Dio come totalità, intesa come una dimensione al di fuori della quale non vi è nulla, significa parlare del nulla secondo la modalità indicata dai greci, che lo individuavano come ciò che è assolutamente altro rispetto a qualsiasi positività. Inoltre anche il concetto di creazione è fondato sulla nozione greca del nulla: quando la teologia parla di creatio ex nihilo, esprime un senso del nulla che è molto vicino a quello portato alla luce da Parmenide e, soprattutto, da Platone.

Anche la fede poi, intesa come fides qua creditur, appare modellata sul concetto greco di epistéme, cioè di verità incontrovertibile: il cristiano, nel momento in cui dice sì al contenuto della sua fede, conferisce a questo stesso contenuto il carattere di innegabilità e di incontrovertibilità dell’epistéme greca, ossia di ciò-che-sta e non si lascia in alcun modo rimuovere.

Coda respinge il quadro così disegnato da Severino. Se è vero che il cristianesimo ha assunto molte strutture tipiche del pensiero greco, è anche vero però che il messaggio cristiano presenta dei tratti assolutamente originali, che non si lasciano ridurre alla «scacchiera greca» di cui parla Severino.

Per comprendere bene il senso di questa originalità bisogna fare un passo indietro, e andare ad esplorare il senso autentico dell’esperienza religiosa. Le scienze delle religioni hanno mostrato che l’esperienza religiosa, la quale cronologicamente si situa agli inizi della civiltà dell’Occidente, ha creato l’humus in cui sono nate e si sono sviluppate sia la filosofia greca sia la rivelazione biblica veterotestamentaria. Vista in questa prospettiva, essa appare come una delle più importanti strutture dell’esperienza umana, anzi come la più determinante. Quali sono i tratti più autentici di questa esperienza? Innanzitutto, dice Coda,

quella percezione profonda, precedente l’esplicitatezza argomentativa ed epistemica, che l’uomo ha del senso o, per dirla in termini più forti, della verità dell’essere di ciò che si è, di ciò che si fa, di ciò da cui si viene, di ciò verso cui si va. Questa percezione, caratterizzata in termini di non-rigore e talvolta addirittura di ambiguità, rappresenta già di fatto uno stare nel senso, un essere nel senso e nella verità che, se per un verso si connotano come immanenti all’essere stesso che si è e in cui si è, per l’altro da esso appaiono non forse come separati ma come distinti. L’esperienza religiosa autentica si configura come un abitare nella verità che rende capaci di percepire che la verità non si riduce a ciò che di essa noi siamo in grado di percepire, eppure che senza di essa l’esistere non ha consistenza.7

Se interpretiamo la rivelazione biblica alla luce di queste considerazioni, allora appare evidente che il rapporto con la verità da essa implicato non si configura esclusivamente e riduttivamente in senso intellettualistico, ma piuttosto nel senso di un’esperienza di relazione originaria al cui interno si definiscono anche i tratti della strutture epistemiche ed argomentative. Il concetto greco di verità non è originario, ma è derivato, in quanto esso si definisce all’interno di un orizzonte più ampio che lo comprende. Nel pensiero greco manca la consapevolezza di una dimensione globale della verità, in cui si fondono in una inscindibile unità il momento etico con quello gnoseologico.

Seguendo questa impostazione si può arrivare a mostrare che i contenuti del cristianesimo non possono essere adeguatamente descritti con le parole della filosofia greca, giacché essi presentano un’originalità che non si lascia ridurre a quelle parole. È legittimo dunque parlare di una «scacchiera cristiana», accanto a quella greca. Le contraddizioni che Severino individua nel cristianesimo derivano dal fatto che egli guarda al messaggio cristiano con gli «occhi» della filosofia greca.

Solo in quest’ottica, ad esempio, la creazione può apparire un assurdo, un far passare gli essenti dal nulla all’essere e dall’essere al nulla. In realtà essa è da comprendere, come la teologia contemporanea va mostrando in modo sempre più convincente, secondo la fondamentale struttura dell’alleanza. Dio è da sempre accanto all’uomo. La creazione, sottolinea Coda, è uno dei tratti fondamentali di questa alleanza originaria, un momento nel quale ha luogo la relazione/incontro dell’uomo col mistero; il concetto di creazione, nel contesto della rivelazione biblica,

non è percepito come affermazione di una provenienza dal nulla di qualcosa che è perciò destinato a ritornare al nulla, ma è inteso piuttosto, in un senso che direi positivo, come un riceversi totalmente dall’atto gratuito e libero di Dio e come possibilità di donarsi a propria volta totalmente a Lui.8

Questo discorso trova il suo fondamento in una dimensione ontologica del tutto sconosciuta al pensiero greco. Coda parla a tal proposito di ontologia trinitaria: l’evento cristologico porta alla luce un movimento che, con terminologia astratta, si può definire «divenire eterno»: Gesù, Lógos fatto carne (sárx egéneto), è il Figlio del Padre, colui nel quale da sempre il Padre ha riversato la totalità del proprio essere. L’amore assoluto (agápe) spinge il Padre a donarsi interamente al Figlio in quell’estasi reciproca che è lo Spirito.9

In questo quadro il divenire appare come un movimento agapico che si mantiene all’interno dell’essere. L’incarnazione è sì divenire, ma è un divenire che si muove all’interno dell’orizzonte eterno dell’essere, del Lügos divino. Si capisce bene dunque come la relazione trinitaria debba essere vista come l’archetipo fondamentale dell’alleanza, cioè di quella relazione/incontro che Dio nella sua essenza è.

Ciò nondimeno questa ipotesi, che, tra le altre cose, permette di superare le aporie dell’ontologia greca derivanti dalla contraddizione tra essere e divenire, viene respinta da Severino, che vede insinuarsi in essa il tarlo del nichilismo. In questa prospettiva l’uomo non ha ancora guadagnato quella «autonomia ontologica» alla quale Severino mira: l’uomo è eterno in sé, non «in Dio», la sua consistenza ontologica è indipendente da qualsiasi relazione con Dio.10 Qui si mostra, con estrema chiarezza, l’impossibilità di un incontro tra l’ontologia severiniana e il cristianesimo. Dire che l’uomo è «autonomo» ontologicamente significa, in ultima analisi, affermare che l’uomo non ha bisogno di Dio. Ma ciò comporta la rimozione del nucleo centrale del cristianesimo, che è, nella sua essenza, un messaggio soteriologico.

3. Argomenti contro Fides et Ratio. Discussione critica

3.1. Il dilemma

L’attacco a Fides et Ratio è sostenuto essenzialmente per mezzo di strumenti logico-retorici. La tecnica utilizzata da Severino per confutare l’intero impianto dell’enciclica è quella del dilemma. Il dilemma è uno schema argomentativo che consiste nel confutare una tesi mostrando che due ipotetiche conseguenze derivanti da essa la smentiscono. La scelta di seguire l’una o l’altra conseguenza è del tutto indifferente. Entrambe conducono allo stesso esito: la confutazione della tesi originaria. È quello che potremmo definire uno «scacco matto» logico.11

Severino rileva che il discorso dell’enciclica non presenta nessuna novità: altro non è che una riproposizione di un tema tradizionale nella cultura cattolica, l’armonia tra fede e ragione teorizzata da Tommaso d’Aquino. Ma, qual è la validità di questa teoria? Quale il suo fondamento?

Sentiamo le sue parole:

Si apre dunque subito il problema di stabilire quale sia lo statuto concettuale di questa teoria (cioè la teoria che afferma l’armonia tra fede e ragione n. d. R.). È essa stessa un contenuto della fede cristiana? Oppure è una teoria vera della ragione? Nel primo caso la ragione, da parte sua, può parlare diversamente dalla fede, cioè può ammettere la possibilità di venire a trovarsi in contrasto con la fede e dunque di mostrare che la fede è errore, alienazione. Nel secondo caso il messaggio di Cristo diventerebbe una verità di ragione; ma la fede cristiana ha sempre sostenuto il carattere «soprannaturale» del proprio contenuto, cioè l’impossibilità, per la ragione, di giungere a scoprirlo con le sole sue forze. Il dilemma non mostra di essere superabile.12

Severino attacca alla radice la tesi dell’armonia tra fede e ragione. Riuscire a mostrarne la contraddittorietà equivale a invalidare l’intero discorso dell’enciclica.

Analizziamo la struttura del dilemma:

  • Tesi originaria: tesi dell’armonia tra fede e ragione (= TA);

  • Prima ipotesi: (TA) deriva dalla fede;

  • Seconda ipotesi: (TA) deriva dalla ragione;

Da questo impianto segue che:

  1. se (TA) deriva dalla fede allora non è vincolante per la ragione, la quale può trovarsi in contrasto con la fede e quindi mostrarne anche la falsità;

  2. se (TA) deriva dalla ragione allora il messaggio cristiano equivarrebbe ad una verità di ragione, perdendo così il proprio carattere «soprannaturale».

L’intento di Severino è quello di mostrare che (TA) è contraddittoria e che nel contesto dell’enciclica svolge il ruolo di una mera petizione di principio. Dietro l’apparente volontà di armonizzare fede e ragione l’enciclica nasconderebbe in realtà la tesi secondo cui è la fede ad avere la supremazia sulla ragione (TS). Il dilemma avrebbe qui una funzione di smascheramento: mostrare cioè che dietro (TA) si nasconde (TS). Se le cose stanno così allora (anche) il discorso di Fides et Ratio implica una negazione dell’autonomia della ragione la quale, se pretende di contrapporsi alla fede, viene squalificata come ragione deviante.

3.2. Aporie logiche

Ma davvéro questo dilemma è insuperabile? Diciamolo subito: ad un’analisi attenta esso appare piuttosto fragile, la sua struttura logica si mostra cedevole e indeterminata. Vediamo perché.

Sorvoliamo momentaneamente sui problemi concernenti la mossa iniziale del discorso di Severino.

Ridurre infatti (TA) alla secca opposizione fede / ragione è ingiustificato, si tratta una semplificazione che trascura aspetti decisivi della questione. Ma avremo modo di soffermarci in seguito su questo punto. Poniamo che la riduzione di (TA) all’aut-aut fede / ragione sia vera.

La prima conseguenza è — dice Severino — che, se (TA) deriva dalla fede, allora la ragione può, in ultima analisi, mostrare la falsità della fede. Qui c’è un salto logico ingiustificato. Mostrare che (TA) è falsa è cosa ben diversa dal mostrare la falsità della fede. Si tratta di due piani logici nettamente distinti. Se anche si riuscisse a dimostrare che (TA) è errata, ciò non implicherebbe necessariamente che la fede è errore. Significherebbe soltanto che tra fede e ragione non c’è armonia, che esse percorrono due sentieri che sono destinati a non incontrarsi mai. Ma non che il sentiero della fede è necessariamente avvolto nell’errore e nell’alienazione. È semplicemente un sentiero diverso da quello della ragione. C’è poi un’ulteriore difficoltà. Poniamo che Severino si limitasse a sostenere che (TA) — e non la fede dunque — è errata. Ci chiediamo: questa conseguenza ha una necessità logica? Se noi fondiamo (TA) sulla fede — cioè crediamo che essa sia il frutto del messaggio cristiano — l’unica obiezione che, dal punto di vista della ragione, si potrebbe sollevare è che il nostro discorso è indimostrabile. Ma, se un’affermazione è indimostrabile in linea di principio — e tale è il carattere di tutte quelle che hanno come loro fondamento unicamente la fede — i concetti di verità e falsità risultano essere inappropriati a descriverla: essa si muove in una dimensione in cui le regole logiche non hanno alcun valore. Dunque, la deduzione che (TA) è falsa è ingiustificata perché priva di senso.

Veniamo ora alla seconda condizione ipotetica del dilemma.

Se (TA) deriva dalla ragione, è cioè un’affermazione razionale, allora — afferma Severino — il messaggio cristiano non potrebbe più rivendicare un carattere «soprannaturale» sarebbe ridotto, in contrasto con il millenario insegnamento della Chiesa, a mera «verità di ragione».

Qui le aporie logiche sono ancora più gravi.

Innanzitutto l’ipotesi — peraltro tutta da provare: su ciò, come si è detto, torneremo in seguito — che (TA) sia una verità di ragione non produce — come vorrebbe la regola del dilemma — la conseguenza che (TA) è falsa ma, paradossalmente, che (TA) è vera. A questo punto appare chiaro che la natura del dilemma in questione è del tutto speciosa, possiamo dirlo tale solo in senso pickwickiano. Ma andiamo avanti nell’analisi. Dire che (TA) è una verità di ragione, significa affermare che la fede e la ragione sono veramente in armonia tra loro. In che senso ciò dovrebbe implicare la riduzione del messaggio cristiano a pura verità razionale? Il fatto che la ragione sia in armonia con la fede non implica lo svuotamento di quest’ultima. Significa piuttosto che, per riprendere l’immagine del sentiero, fede e ragione percorrono vie diverse, le quali però confluiscono in un’unica meta finale. Resta fermo comunque il fatto che il sentiero della fede è distinto da quello della ragione: i contenuti della fede mantengono sempre la loro specifica alterità rispetto alle procedure della ragione.

Del resto tutto questo discorso è insito nel concetto stesso di «armonia»: predicare l’armonicità di due enti significa affermarne la non contraddittorietà, il loro adattarsi per uno scopo comune: non la reciproca identificazione. Dedurre allora, come implicitamente fa Severino, l’identificazione dei due termini (messaggio di Cristo = verità di ragione) dalla loro armonicità, è, ancora una volta, una inferenza non giustificata dal punto di vista logico.

3.3. Obiezioni teologiche

C’è un problema che si può rintracciare nella fase iniziale dell’argomento severiniano. Nel costruire il dilemma Severino non tiene conto di un elemento decisivo per comprendere la dialettica fede/ragione: la rivelazione. Si può obiettare infatti, seguendo Rino Fisichella,13 che il quadro così tracciato, giacché lascia fuori la rivelazione, è incompleto. La rivelazione, sostiene Fisichella (che qui ripropone un’idea di Rosenzweig), è un ponte che permette di connettere fede e ragione. Proprio a partire dalla rivelazione fede e ragione possono incontrarsi. Si tratta di un termine terzo e irriducibile sia alla fede che alla ragione. A dire il vero Severino accenna alla rivelazione, ma ne falsa lo statuto ontologico. Egli sostiene che, in ultima analisi, la rivelazione è un contenuto della fede poiché è Dio che rivela i misteri della fede.14 Si realizza così — secondo Severino — una sorta di circolo vizioso che potremmo così rappresentare: la fede ci porta verso la rivelazione, ci invita a credere nella rivelazione, la quale a sua volta ci spinge nuovamente verso la fede. Se le cose stanno così, la rivelazione non ha nulla da dire alla ragione: essa nasce e si esaurisce all’interno della fede. Questa interpretazione, si diceva, falsa lo statuto ontologico della rivelazione, disconosce la sua irriducibilità agli altri due termini del discorso. La rivelazione, pur avendo un rapporto privilegiato con la fede, è anche capace di parlare alla ragione. Ciò è possibile perché fa parte del suo statuto ontologico l’essere innanzitutto un evento storico (cioè revelatum) che, in quanto tale, si offre alla ragione in tutta la sua portata di senso. Illuminanti sono le parole di Fides et Ratio:

La Rivelazione immette nella storia un punto di riferimento da cui l’uomo non può prescindere, se vuole arrivare a comprendere il mistero della sua esistenza; dall’altra parte, però, questa conoscenza rinvia costantemente al mistero di Dio che la mente non può esaurire, ma solo ricevere e accogliere nella fede. All’interno di questi due momenti, la ragione possiede un suo spazio peculiare che le permette di indagare e comprendere senza essere limitata da null’altro che dalla sua finitezza di fronte al mistero infinito di Dio. La Rivelazione, pertanto, immette nella storia una verità universale che provoca la mente dell’uomo a non fermarsi mai;(corsivi nostri) (§ 14)

Da questo passo risulta chiara l’irriducibilità della rivelazione. Rispetto alla fede, giacché la rivelazione è, come abbiamo già detto, un evento storico e, in quanto tale, è disponibile alla ragione, divenendo così oggetto di una possibile prensione noetica. Rispetto alla ragione, giacché è proprio della natura della rivelazione l’essere permanentemente carica di mistero. D’altra parte bisogna però sottolineare che neanche la fede esaurisce il mistero in cui la rivelazione consiste. Tutto questo attiene alla dialettica stessa della rivelazione. Su questo punto si impongono alla nostra attenzione le riflessioni di Bruno Forte:

Dio, comunicandosi, si nasconde, manifestandosi, si cela, dicendosi, si tace, rivelandosi, si vela. Questo è un punto di grande importanza: se le cose stanno così, allora la rivelazione non può mai essere interpretata come una volgare esibizione, dove tutte le risposte siano già pronte o date per scontate. La rivelazione è un accesso al mistero, che esige una sempre più profonda immersione dell’intelligenza e della fede nel mistero stesso di Dio.15

La dimensione misterica della rivelazione è stata messa in ombra — sostiene Forte — dalla traduzione ad opera di Lutero dell’originario revelatio (apocàlypsis, in greco) nel tedesco Offenbarung, che significa, letteralmente, «generare all’aperto» e quindi rendere visibile totalmente.

Questa traduzione elimina l’ambiguità semantica della voce latina così come di quella greca facendo della rivelazione una volgare esibizione, una totale autocomunicazione di Dio.

Dio entra nella storia ma resta velato da un mistero insondabile. Il suo ingresso nel tempo costituisce un appello per l’uomo. È una pro-vocazione: un forte richiamo alla ragione umana, una sollecitazione ad uscir fuori dai suoi territori abituali.

Ma c’è da prendere in considerazione un ulteriore, importante slittamento.

La rivelazione non è un semplice fatto storico, uno come tanti altri. Come osserva finemente Vattimo, il fatto storico dell’incarnazione produce un appello che è

storico innanzitutto non tanto nel senso che si tratta di un fatto «reale», ma in quanto è costitutivo, nella sua Wirkungsgeschichte, della nostra stessa esistenza.16

Il senso autentico della storicità cui Vattimo qui fa riferimento è quello indicato da Nietzsche nella Seconda Inattuale, in cui si stigmatizza l’effetto sterilizzante dei processi di storicizzazione, dell’atteggiamento «scientifico» nei confronti della storia. L’agire, spiega Nietzsche, richiede oblio. Sezionare il passato, trasformarlo in «oggetto» di conoscenza, significa annullare la sua forza vitale, impedire che i suoi effetti — la Wirkungsgeschichte appunto — si riverberino nel presente. L’eccesso di memoria storica finisce, paradossalmente, per imbrigliare l’agire umano. La coscienza storica autentica è quella che sa trovare negli eventi storici le forze che la sostengono, le vie di fuga dagli spettri della necessità. «Articolare storicamente il passato […] significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo», scriveva Benjamin in una delle sue Tesi di filosofia della storia, un testo che esprime una visione poetica della storia e che andrebbe accostato, forse con maggiore convinzione, a quello di Nietzsche.

Solo se siamo capaci di guardare al passato «poeticamente» («poeticamente abita l’uomo su questa terra», affermava Heidegger sulla scia di Hölderlin) possiamo sentire il palpito segreto del divenire storico, e accogliere gli appelli che da esso provengono.

Queste considerazioni valgono per tutti gli eventi storici. Ma valgono ancora di più per la rivelazione, che non è un evento qualsiasi, ma l’Evento: non solo nel senso che essa ha «cambiato» la storia ma, in modo più autentico, in quanto essa ha «prodotto» una storia. È l’Evento a partire dal quale si dischiude una dimensione storica del tutto nuova, un nuovo orizzonte gnoseologico. Il pensatore che meglio ha ricostruito queste dinamiche è stato Wihelm Dilthey. Scrive Vattimo:

Nella seconda parte del grande libro incompiuto dedicato a una Einleitung in die Geisteswissenschaften, Dilthey traccia una storia della metafisica europea che si articola in due stadi: lo stadio metafisico degli antichi e quello dei moderni […] Ora, ciò che distingue la metafisica degli antichi da quella dei moderni è la svolta che si verifica con l’avvento del cristianesimo, che sposta il centro dell’interesse filosofico dal mondo naturale all’interiorità umana.17

Il mondo antico non assegnava centralità al soggetto. Timiótata tà ástra: gli astri sono ciò che vi è di più degno. Questa è la modalità fondamentale con cui i greci guardavano il mondo: al di sopra dell’uomo gli astri.18 Il cristianesimo, introducendo il concetto di persona, innalza l’essere umano ad un livello di assoluta superiorità assiologica rispetto agli enti. La persona diventa così un’entità sacra e inviolabile: tutti gli uomini, schiavi inclusi, hanno la medesima dignità, perché tutti sono persone. L’uomo acquista centralità rispetto al cosmo («Noli foras ire, in te ipsum redi. In interiore homine abitat veritas», ammonisce Agostino), il suo sguardo sulle cose non è più meramente passivo, ma capace di sollevarsi al di sopra degli elementi naturali, non più subordinato ad essi. Il pensiero critico, avviato dai greci, trova qui il suo pieno compimento. Esso deriva dalla piena libertà che Dio ha concesso all’uomo, secondo le grandi parole del Siracide:

Egli ha fatto l’uomo libero dal principio e l’ha lasciato in balìa del suo consiglio (15, 14)

Al fondo di tutto dunque, la rivelazione. La sua Wirkungsgeschischte apre lo spazio della modernità, innalza la ragione umana ad un livello superiore: il kantiano «Sapere aude!» trova qui il suo fondamento. Chi fa giocare la ragione contro la fede dimentica tutto questo.

3.4. Problemi metafisici

Diciamo subito che qui utilizziamo il termine «metafisica» nell’accezione proposta da Peter Strawson nel suo classico studio Individuals. In questo lavoro Strawson sviluppa il concetto di «metafisica descrittiva». Ci sono due modi di fare metafisica: uno è quello di tentare di produrre schemi concettuali che modifichino la nostra immagine del mondo, possibilmente migliorandola: non ci accontentiamo di com’è fatto il mondo, ma ne costruiamo una immagine che possa (cor)rispondere il più possibile alle nostre attese; l’altro è di prendere sul serio gli schemi concettuali che effettivamente usiamo nei nostri commerci con il mondo. La metafisica di primo tipo è revisionista, la seconda descrittiva. I filosofi, sostiene Strawson, hanno per lo più sviluppato metafisiche revisioniste trascurando l’aspetto descrittivo. Ciò è stato un pessimo affare: prima di parlare di come dovremmo pensare è opportuno cercare di capire come effettivamente pensiamo. D’altra parte, non si vede perché si debbano trascurare gli elementi concettuali che abitualmente usiamo e che trovano una configurazione piuttosto stabile nel senso comune.

Ritorniamo ora al nostro discorso.

Tenteremo di mostrare che la posizione di Severino presenta una serie di problemi all’interno di un quadro metafisico di tipo strawsoniano. Vediamo meglio di cosa si tratta.

Il dilemma, che abbiamo sopra schematizzato, ha lo scopo di dimostrare l’impossibilità di una armonica coesistenza tra fede e ragione; e, dimostrando questa impossibilità, di svelare la vacuità della fede: o la fede si riduce a ragione, perdendo così la sua natura, o, se si ipotizza che essa è ontologicamente indipendente, si deve ammettere che la ragione può mostrarne la falsità.

Nella prospettiva di Severino, che, come abbiamo avuto modo di osservare, è incentrata sul principio di non-contraddizione nella sua versione ontologica, tutte le dimensioni della fede (che più avanti esamineremo) sono necessariamente errore, alienazione, assurdità dal punto di vista logico. La fede, secondo Severino, è intrecciata con la volontà. Aver fede, in ultima analisi, significa volere che ciò che è non sia, e che ciò che non è sia. Noi crediamo che la legna, bruciando, diventi cenere: crediamo che qualcosa (la legna) diventi nulla, e che il nulla diventi qualcosa (la cenere), abbiamo cioè fede nel divenire. In realtà, l’annullamento non c’è, afferma Severino. Esso è semplicemente il frutto della nostra volontà interpretante. Noi vogliamo che ci sia l’annullamento perché così si rende possibile il libero arbitrio, che altro non è che la libertà di manipolare degli enti. Solo se gli enti possono uscire dal nulla, per poi farvi ritorno, è possibile la libertà umana, così come è stata pensata nella cultura occidentale: l’uomo ritiene di esser libero di creare (portare all’essere ciò che prima era nel nulla) e di distruggere (immettere nel nulla ciò che prima era essere). Ma questa è l’essenza della violenza.

La fede dunque, in tutte le sue dimensioni, è un caso particolare di una fede più generale, la fede nel divenire, in quella forma cioè della cultura occidentale che ha reso possibile l’alienazione, l’errore, la follia e la violenza, e dalla quale tutte le forme di fede scaturiscono. Solo la ragione (non nichilistica) ci può portare verso la Verità. Per meglio dire, la ragione stessa è Verità: a rigore infatti, non ci potrebbe essere un cammino verso la Verità, perché, per definizione, questo cammino sarebbe nella non-Verità: ma ciò che è non-Verità non può mai diventare Verità. Pensare che ciò sia possibile è estrema follia, in quanto equivale ad eguagliare il Vero e il non-Vero, l’Essere e il non-Essere. Un’esistenza consapevole, secondo Severino, è in grado di riconoscere che la fede nel divenire (e dunque ogni forma di fede, compresa quella cristiana) è alienazione, follia, e che non può avere alcun ruolo nell’esplicarsi della progettualità umana. L’uomo che raggiunge la visione della Verità non ha più bisogno della fede, può agevolmente farne a meno. (Ciò non implica naturalmente che la fede si annienti, altrimenti si cadrebbe di nuovo nel nichilismo: essa, come tutti gli altri enti, è eternamente conservata e eternamente contemplata nel suo essere errore; ma non ha più alcun ruolo attivo nella dinamica dell’esistenza, che così appare definitivamente liberata da qualsiasi forma di sottomissione. Severino afferma spesso che l’uomo è un re che crede di essere un mendicante; fuor di metafora: l’uomo crede nell’annullamento degli essenti, la qual cosa lo gratifica molto perché apre lo spazio per la sua libertà creativa. Ma l’annullamento minaccia anche la sua stessa esistenza cosicché egli, spaventato, come un mendicante, si rivolge ad un Immutabile, per invocare la salvezza dall’annullamento, cioè per diventare eterno. In realtà, come si è già avuto modo di osservare, non ha bisogno di alcuna salvezza, perché, come tutti gli altri enti, è già eterno).

Nondimeno, la cancellazione della fede dall’orizzonte dell’esperienza si presenta altamente problematica nell’ottica di una metafisica descrittiva. Perché cancellare ciò che, fenomenologicamente, ci appare come un elemento essenziale dell’esistenza?

Ci sembra opportuno qui richiamare le parole di Fides et Ratio:

L’uomo non è fatto per vivere solo. […]Fin dalla sua nascita, quindi, si trova immerso in varie tradizioni, dalle quali riceve non soltanto il linguaggio e la formazione culturale, ma anche molteplici verità a cui, quasi istintivamente, crede. […] Nella vita di un uomo le verità semplicemente credute rimangono molto più numerose di quelle che egli acquisisce mediante la sua personale verifica. […] L’uomo, essere che cerca la verità, è dunque anche colui che vive di credenza. (§ 31)

L’enciclica mostra una notevole sensibilità descrittiva nel mettere in luce la duplicità strutturale dell’esistenza umana. La fede e la ragione sono due componenti distinte e nel contempo costitutive dell’essere umano. Su questo punto si è soffermato, con particolare efficacia, Giovanni Reale. Riferendosi al dilemma severiniano scrive:

In effetti, le affermazioni di ragione e quelle di fede hanno nessi fondativi biunivoci e dinamico-relazionali determinanti e ineliminabili. Non c’è ragione senza fede, e viceversa. Potremmo qui richiamare vari testi di Agostino, in cui egli dimostra che la vita dell’uomo in generale è basata sulla fede nelle varie sue forme: la maggior parte delle cose che affermiamo e che accettiamo sono, in realtà, basate sulla fiducia negli altri e quindi sulla fede. Potremmo anche richiamare testi dell’epistemologo Thomas S. Kuhn che sono, a questo riguardo, paradigmatici, in quanto comprovano che il passaggio da un paradigma scientifico caduto in crisi a uno nuovo non può avvenire se non per una fiducia (per una fede) che il nuovo paradigma riuscirà a risolvere quei problemi che il vecchio paradigma non ha saputo risolvere.19

I richiami ad Agostino e a Kuhn ci inducono a riconoscere che la fede costituisce una componente strutturale ed ineliminabile dello spirito umano.

Seguiamo ancora Reale:

Va anche precisato che la fede […] non è riducibile a mera ragione, e viceversa: si tratta di forze che nella loro essenza sono irriducibili l’una all’altra. Si tratta di forze sinergiche, la cui dinamica circolare ha il suo centro nella persona umana. È l’uomo che «crede» e «pensa», e non già la ragione che come ente in sé in astratto pensa, o la fede che come ente in sé astratto crede; è l’uomo che mette in atto e armonizza le due forze conoscitive di cui dispone, irriducibili l’una all’altra. Un uomo che pretendesse di rinunciare all’una a favore dell’altra o comunque che tentasse di risolvere l’una nell’altra, sarebbe un Homo dimidiatus.20

Un uomo senza fede è, dunque, un uomo dimidiatus.

Sennonché, questo discorso abbisogna di un’analisi ulteriore. Cominciamo col chiederci: di quale fede parliamo? La fede cui alludono il passo dell’enciclica sopra menzionato così come le riflessioni di Reale è una fede essenzialmente di tipo antropologico, che va tenuta distinta dalla fede intesa in senso teologico.

Chiariamo questo punto essenziale.

Si possono individuare tre dimensioni della fede:

  1. interpersonale;

  2. gnoseologica;

  3. teologica

Le prime due rientrano in una sfera puramente antropologica. La dimensione interpersonale della fede si manifesta nella relazione dell’uomo con gli altri. Questa relazione, come giustamente ha posto in evidenza Heidegger (Essere e tempo, § 25-27), è uno dei tratti più tipici dell’esistenza: l’uomo è essenzialmente Mitsein, tale cioè che del suo essere fa costitutivamente parte la relazione con gli altri. La strutturale relazionalità dell’esistenza implica che, nel portare a compimento il suo progetto, l’uomo deve necessariamente affidarsi agli altri, riporre in loro fiducia. Pensare di potersi sottrarre a queste dinamiche relazionali significa imboccare la via dell’autodistruzione.

D’altra parte, la dimensione gnoseologica della fede si fonda sulla consapevolezza che ogni conoscenza di tipo razionale si costruisce sullo sfondo di un orizzonte culturale che ereditiamo, e dal quale non possiamo assolutamente prescindere. Noi ci troviamo, per dirla con Gadamer, nel bel mezzo di un accadere. Ciò significa che l’uomo non può costituire un inizio assoluto. Partiamo da una situazione che non possiamo interamente rischiarare (il mito dell’Aufklärung) con la luce della ragione. Anche perché la ragione, così come noi la intendiamo, è il prodotto di quella tradizione storica che vorremmo interamente illuminare con la ragione stessa. La circolarità qui in atto è fin troppo evidente: la ragione non può spiegare l’orizzonte che la costituisce.

Infine abbiamo la fede nella sua valenza teologica. Qui la situazione presenta elementi di diversità. La fede mantiene il suo legame di biunivocità con la ragione, ma, come abbiamo mostrato sopra, il loro rapporto dialettico è condizionato dalla presenza di un terzo termine irriducibile ad entrambe, la rivelazione. A ben guardare, è la rivelazione che suscita il problema della fede; se non ci fosse la rivelazione, di fede in senso teologico non si potrebbe neppure parlare.

Abbiamo introdotto queste ulteriori specificazioni per sottolineare come il riconoscimento dell’esistenza della fede in senso antropologico non implica, ipso facto, un’adesione ai contenuti della rivelazione, come, almeno implicitamente, sembra assumere Giovanni Reale. Riconoscere che l’uomo è un essere che vive di credenza non porta necessariamente a credere in Dio: questa è la più seria obiezione che si possa avanzare contro il discorso dell’armonia tra fede e ragione. Cercare di mostrare invece, come fa Severino, che la fede, in tutte le sue forme, è errore comporta semplicemente una grave violazione dell’esperienza. Nulla di più.

Ad ogni modo, l’insistenza sugli aspetti antropologici della fede ha comunque una sua ragion d’essere. Mostrare infatti che la fede è una componente antropologica essenziale dell’esistenza umana (come accade in numerosi luoghi di Fides et Ratio) significa rendere più ragionevole il salto nella fede in Dio (giustamente, a questo riguardo, la teologia cattolica parla di rationabile obsequium). Le due fedi, quella intesa in senso antropologico e quella in senso teologico, trovano una comune origine nella persona umana, in quella sua componente essenziale che in termini formali si può definire struttura dell’affidamento. L’uomo vive di fede (dimensione interpersonale) e nella fede (dimensione gnoseologica). Perché non considerare, allora, l’affidarsi a Dio quale forma suprema dell’affidamento, che permette la realizzazione dell’essere umano nella sua più intima essenza?

3.5. L’armonia possibile

C’è un aspetto fondamentale che viene per lo più trascurato da alcuni interpreti dell’enciclica. Tutta la sua struttura si fonda infatti su un presupposto che non può essere disconosciuto, pena l’incomprensione del testo. L’enciclica, già a partire dal titolo, intende sottolineare da un lato l’armonia dei due termini, ma, dall’altro, anche la loro incommensurabilità.

Leggiamo un passo di Fides et Ratio:

La fede, che si fonda sulla testimonianza di Dio e si avvale dell’aiuto soprannaturale della grazia, è effettivamente di ordine diverso da quello della conoscenza filosofica. Questa, infatti, poggia sulla percezione dei sensi, sull’esperienza e si muove alla luce del solo intelletto. La filosofia e le scienze spaziano nell’ordine della ragione naturale, mentre la fede, illuminata e guidata dallo Spirito, riconosce nel messaggio della salvezza la «pienezza di grazia e verità» (Gv, 1, 14). (corsivo nostro) (§ 9)

Fede e ragione non possono annullarsi l’una nell’altra, proprio perché sono tra loro incommensurabili, non hanno una misura comune. Tentare di risolvere la fede nella ragione o, al contrario, di annullare la ragione nella fede è un’operazione illegittima, un errore di categoria che dà luogo ad esiti inaccettabili. Fides et Ratio ha tra i suoi scopi principali quello di allontanare i rischi sempre incombenti di fideismo (cioè svalutazione della ragione nei confronti della fede) e di razionalismo (svuotamento della fede e assolutizzazione della ragione). Ricostruendo alcuni episodi dell’intervento del Magistero della Chiesa in materia filosofica, Giovanni Paolo II rinnova con forza questa esigenza:

A questo punto, diventava obbligatorio per il Magistero della Chiesa vegliare perché queste filosofie non deviassero, a loro volta, in forme erronee e negative. Furono così censurati simmetricamente: da una parte, il fideismo e il tradizionalismo radicale, per la loro sfiducia nelle capacità naturali della ragione; dall’altra parte, il razionalismo e l’ontologismo, perché attribuivano alla ragione naturale ciò che è conoscibile solo alla luce della fede. (§ 52)

L’incommensurabilità dunque è il presupposto necessario perché entrambe possano incontrarsi mantenendo la loro specifica identità, senza ridursi o annullarsi l’una nell’altra, dando origine così al fideismo o al razionalismo.

Il tema dell’incommensurabilità è strettamente connesso con quello dell’armonia. Si può parlare di armonicità, come abbiamo già evidenziato (cfr. supra § 3. 2), solo se i due elementi in questione non sono riducibili l’uno nell’altro. Severino, ipotizzando, nel suo dilemma, che i contenuti del messaggio cristiano possono essere interamente espressi dalla ragione, sembra disconoscere l’incommensurabilità. Inoltre, anche quando, al di fuori dell’ipotesi del dilemma, si riferisce a (TA), compie un errore interpretativo. Parlando di (TA) egli afferma che

secondo questa teoria non può esserci contrasto tra fede e ragione, perché entrambe mostrano qualcosa che è verità, e la verità non può essere in contraddizione con se stessa (corsivo nostro).21

Risulta evidente che qui (TA) viene interpretata come una teoria che afferma la necessità dell’armonia tra fede e ragione. La ragione, secondo l’interpretazione di Severino, non può essere in contrasto con la fede; se lo è non è vara ragione (recta ratio). In tal modo la fede viene ad assumere una posizione di dominio sulla ragione. Si comprende allora come la sofisticata elaborazione del dilemma sia finalizzata a mostrare che (TA), in definitiva, afferma la supremazia della fede. Questa conclusione deriva dal fatto che Severino considera (TA) una teoria dell’armonia necessaria tra fede e ragione.

Ma le cose non stanno così.

A leggere con attenzione il testo dell’enciclica, ci si accorge facilmente che l’armonia di cui parla il pontefice non è un’armonia necessaria, ma un’armonia possibile. Fede e ragione possono incontrarsi, rendendo così possibile all’uomo la contemplazione della verità. Ma possono anche perdere l’occasione dell’incontro, rimanendo distanti l’una dall’altra. L’uomo può rifiutare la fede, e mantenersi così all’interno di una prospettiva puramente empirico-sensoriale. Ciò appartiene alla sfera della sua libertà. Questa situazione è espressa in un passo decisivo di Fides et Ratio, e con parole cariche di tensione poetica:

La sapienza della Croce, dunque, supera ogni limite culturale che le si voglia imporre ed obbliga ad aprirsi all’universalità della verità di cui è portatrice. Quale sfida viene posta alla nostra ragione e quale vantaggio essa ne ricava se vi si arrende! La filosofia, che già da sé è in grado di riconoscere l’incessante trascendersi dell’uomo verso la verità, aiutata dalla fede può aprirsi ad accogliere nella «follia» della Croce la genuina critica a quanti si illudono di possedere la verità, imbrigliandola nelle secche di un loro sistema. Il rapporto tra fede e filosofia trova nella predicazione di Cristo crocifisso e risorto lo scoglio contro il quale può naufragare, ma oltre il quale può sfociare nell’oceano sconfinato della verità. Qui si mostra evidente il confine tra la ragione e la fede, ma diventa anche chiaro lo spazio in cui ambedue si possono incontrare. (corsivi nostri) (§ 23)

Si avverte, in questo brano, la dolente consapevolezza del possibile smarrimento della ragione, della rottura possibile della sua alleanza con la fede. Le immagini proposte offrono uno scenario simbolico di grande efficacia comunicativa. L’oceano, lo scoglio, il naufragio: figure che esprimono, tutte, la tensione drammatica tra fede e ragione.

4. Su alcuni nodi problematici nel pensiero di Severino

4.1. Eternità e annullamento degli essenti

Il presupposto fondamentale dell’intero impianto severiniano è il principio di non contraddizione (PNC). Severino tenta di spiegare il quadro dell’esperienza a partire da questo principio.

Il mondo è costituito da un’infinità di essenti; questi essenti sono eterni in virtù del principio di non contraddizione declinato in senso ontologico. Una volta stabilito qual è l’insieme degli essenti, si può, anzi, si deve, predicare di loro l’eternità.

Ci sono qui due difficoltà:

  1. come facciamo a stabilire qual è l’essente che è?

  2. (PNC) giustifica realmente l’affermazione dell’eternità del tutto?

Partiamo dalla seconda.

Severino interpreta (PNC) in senso ontologico. Questa operazione, dal punto di vista filologico, è certamente corretta. È lo stesso Aristotele a suggerirla, in modo inequivocabile, in un passo della Metafisica:

Alla domanda se un tale oggetto è un uomo non si deve mai rispondere aggiungendo che esso è nello stesso tempo anche non-uomo […]; ma, se si fa questo non si può discutere più. Insomma, coloro che ragionano in questo modo sopprimono la sostanza e l’essenza. (IV, 4, 1007 a 17-21; tr. it. di A. Russo)

A dire il vero, nel testo aristotelico, si possono individuare altri luoghi in cui (PNC) viene formulato in senso esclusivamente logico. Ma questo non ci interessa molto. L’interpretazione di Severino mantiene comunque una sua correttezza sul piano filologico. Resta tuttavia il problema di giustificarla dal punto di vista teoretico: trasferire sul piano ontologico dei principi logici appare, motivatamente, un’operazione arbitraria. Su questo punto, si può registrare una importante obiezione che Vattimo solleva in un colloquio con Severino:

Tu puoi dire che siamo mortali pur essendo eterni perché l’eternità che ci conferisci è fondata, come accennavi, sul principio di non contraddizione. È un principio logico trasferito sul piano metafisico con una mossa molto azzardata. Ipotizziamo che lógos […] voglia dire linguaggio. Supponiamo quindi che quando Aristotele parla dell’uomo come animale lógon échon — Aristotele qui sta parlando degli animali e dice che gli uccelli fischiano, cantano, mentre l’uomo ha qualcosa in più, il lógos — non si riferisca alla ragione; che lógos quindi non sia la ragione, ma il linguaggio articolato. Ora, se il principio di non contraddizione è un principio logico, e se, come non è inverosimile, un principio logico è innanzitutto un principio di funzionamento del linguaggio, sarà davvero così ovvio che chi lo nega, neghi anche ogni caratterizzazione positiva dell’essere? O meglio, che tale principio possa effettivamente valere come dimostrazione incontrovertibile che l’essere è e non può non essere?22

Sviluppando questo discorso si può dire: se il lógos è linguaggio, e se il linguaggio è, come ha teorizzato Gadamer, l’orizzonte dentro cui si configura la nostra esperienza sulla base dei processi di invio e di tramandamento, allora quella che, giustamente, Vattimo definisce una «metafisicizzazione di regole logiche» è un’operazione priva di fondamento. (PNC) non può valere in termini ontologici assoluti, perché anch’esso è il frutto di una tradizione culturale ben definita. Si possono trovare delle culture che non hanno conosciuto une vera e propria elaborazione di principi logici. Inoltre, anche all’interno della cultura occidentale, abbiamo assistito e assistiamo ad una presa di consapevolezza sempre crescente della pluralità e, quindi, della relatività dei sistemi logici. Altamente emblematico è il caso di Wittgenstein. Nel Tractatus viene proposta una teoria che ha nella logica il suo riferimento essenziale. Il modello adottato è di tipo iconicista: il linguaggio è lo specchio del mondo, tutto ciò che noi diciamo è anche tutto ciò che esiste; del resto, dobbiamo tacere. Il linguaggio, in questa prospettiva, delimita i confini del mondo. Essere dentro il linguaggio significa essere dentro il mondo. Questa teoria si fonda sull’idea che una logica pervade la struttura del reale, e che questa logica si esprime interamente nel linguaggio.

Sappiamo come sono andate le cose. Wittgenstein ha interamente ribaltato, nelle sue ricerche successive, il quadro del Tractatus. La logica, con i suoi simboli, i suoi teoremi, le sue regole non esprime la totalità dell’esperienza. Essa è in realtà solo uno degli infiniti giochi linguistici che si danno nell’esperienza umana. L’uso referenziale del linguaggio, come ampiamente mostrano le Ricerche Filosofiche, è solo uno dei tanti usi possibili del linguaggio, e non necessariamente il più importante. Il linguaggio diventa così una sorta di gioco linguistico originario, all’interno del quale trova espressione l’infinita varietà delle forme di vita. La nozione di «gioco linguistico» può essere legittimamente, e, a nostro avviso, produttivamente, accostata all’ontologia linguistica elaborata da Gadamer. Dire, come fa Gadamer, che «l’essere, che può venir compreso, è linguaggio» significa affermare la centralità del linguaggio nella nostra esperienza nel e con il mondo. In questo quadro il linguaggio, a differenza di quanto è accaduto nella riflessione filosofica (a partire dal Cratilo fino all’odierna filosofia analitica), non è più un elemento strumentale, un mezzo di cui l’uomo si serve per veicolare i contenuti delle sue esperienze; ma è, invece, un medium reggente, cioè uno spazio senza il quale nessuna forma di esperienza è possibile. Non c’è un’esperienza che viene prima del linguaggio, e che il linguaggio porta semplicemente all’espressione. C’è esperienza perché c’è il linguaggio; l’esperienza è essenzialmente linguistica.

Non possiamo andare molto oltre nello sviluppo di questo tema.

In questa sede ci interessava soltanto segnalare la debolezza di tutte quelle posizioni — e quella di Severino è certamente tra queste — che si appellano in modo esclusivo alla logica nella elaborazione delle loro prospettive, così come avviene nel celebre trattato wittgensteiniano.[^23]

4.2. Fenomenologia dell’«altro». Il problema dell’intersoggettività

Ci tocca ora riprendere l’interrogativo che abbiamo lasciato in sospeso nel precedente paragrafo.

Mettiamo momentaneamente da parte la critica all’uso ontologico di (PNC). Anzi, supponiamo che la critica manchi il bersaglio, e che l’uso di (PNC) in senso ontologico sia giustificato.

Resterebbe comunque sul campo l’altro problema: qual è l’essente che è?

Dobbiamo cioè stabilire quali sono gli essenti di cui poi dovremo predicare l’eternità.

Il progetto di Severino presenta, a nostro parere, difficoltà piuttosto gravi.

Per accertare l’esistenza degli essenti Severino utilizza il criterio dell’esperibiltà sensoriale: possiamo affermare l’esistenza solo di ciò che è esperibile. Questo criterio conduce a conclusioni difficilmente accettabili. Molte cose sfuggono alla dimensione dell’esperienza sensoriale.

Tra queste ad esempio, vi è la coscienza, in particolare, la coscienza altrui. Nell’ottica severiniana l’«altro» è un problema. Il senso comune ci dice che «gli altri» esistono, ma si tratta di una persuasione illusoria. Noi non vediamo mai «gli altri».

Scrive Severino:

La fenomenologia husserliana, che intende porre l’apparire dell’essente come fondamento unico e indubitabile della totalità del conoscere (in questa posizione consiste il «principio di tutti i princìpi», Idee per una fenomenologia pura, par. 24), intende anche pervenire, appoggiandosi a questo fondamento, all’affermazione dell’esistenza degli «altri ego». […] Ma anche per Husserl l’«altro ego» è qualcosa che non appare, ossia qualcosa che «il mio ego» non può «per principio cogliere originaliter» (par. 55); sì che alla fenomenologia, e non solo husserliana, è per principio esclusa la possibilità di affermare con necessità l’esistenza degli «altri ego».23

Nella quinta delle Meditazioni cartesiane questo punto, secondo Severino, è sviluppato con maggiore finezza:

Al termine della quinta Meditazione Husserl scrive che «in nessun momento della ricerca si è mai abbandonato l’atteggiamento trascendentale, l’epoché trascendentale»: «la nostra teoria dell’esperienza dell’estraneità, o dell’esperienza degli altri, non volle né poté essere altro che l’esplicazione del senso di “alterità” di quest’esperienza stessa», perché «l’ego trascendentale» coglie sì in sé gli «altri ego trascendentali» (ossia pensa gli altri ego come trascendentali) ma essi «non sono dati in modo originale e in evidenza assolutamente apodittica» (ibid., par. 62) — sì che l’affermazione della loro esistenza non può che rimanere problematica.24

La fenomenologia raggiunge un risultato assai importante, che però non riesce ad elaborare secondo una prospettiva metafisica generale perché anch’essa coinvolta nelle dinamiche del nichilismo.

Uno sviluppo lungo tale direzione,

ha la propria sorte segnata dalla dimensione nichilistica in cui anche la fenomenologia si colloca: anche Husserl, come Heidegger, intende l’essente come ciò che oscilla tra l’essere e il niente ed è pertanto disponibile alle forze che determinano questa oscillazione — quali sono, innanzitutto, le forze dell’«io personale che domina sul mio corpo unico e che in maniera immediata esercita anche un’azione sul mondo primordiale» (ibid., par. 50).25

In un quadro siffatto è chiaro che non vi è spazio alcuno per l’intersoggettività che, dal suo punto di vista, Severino considera una semplice fede. Infatti

che appaia il nostro modo di interpretare il mondo come un mondo intersoggettivo è vero in quanto appare la nostra fede nell’intersoggettività, vale a dire che appare la nostra fede nel Mit-Dasein, ma che l’essere-mondo e che l’essere-nel mondo siano un Mit-Dasein è qualcosa che non coincide con l’aver fede nell’intersoggettività; altro è l’apparire della fede nell’intersoggettività dall’apparire dell’intersoggettività.26

Noi crediamo nell’intersoggettività, ma, fenomenologicamente, appare solo il nostro credere in essa, non l’intersoggettività in quanto tale.

Questo discorso presenta notevoli difficoltà, così schematizzabili:

  1. respinge, senza valide ragioni, le acquisizioni del senso comune;

  2. sfugge il confronto con quelle correnti del pensiero contemporaneo che hanno tematizzato a fondo l’intersoggettività.27

Inoltre, il tema dell’alterità è stato sviluppato con grande rigore, e con una notevole ricchezza di risultati, anche nelle scienze umane, alle quali però Severino non sembra voler prestare attenzione.

Ad ogni modo, anche a voler seguire Severino nella sua proposta di mettere in discussione la fondazione dell’altro come evidenza fenomenologica, resteremmo comunque fermi al punto di partenza, giacché lo stesso Severino, sino ad ora, non ha discusso questa fondazione:

Purtroppo anche un filosofo come Levinas, pur essendo così tanto interessato al tema dell’altro, in realtà lo considera come evidenza fenomenologica, questo significa venire meno a uno dei compiti principali della filosofia. Ma, in realtà, nemmeno nei miei scritti fino a qui apparsi è discussa questa fondazione.28

4.3. La morte

Strettamente connesso al discorso dell’altro e dell’intersoggettività è il tema della morte. La morte, così come è stata pensata all’interno della cultura occidentale, è, certamente, l’evento più drammatico di tutta l’esistenza. Nella morte, o meglio, nell’interpretazione della morte, si dispiega pienamente il senso nichilistico della civiltà occidentale, in quanto la morte, in questa cornice, è il fenomeno per eccellenza dell’annientamento, e quindi l’attestazione più sicura del divenire.

Severino rigetta questo quadro. La morte smentirebbe l’affermazione dell’eternità del tutto se essa fosse innanzitutto l’apparire dell’annientamento degli essenti. Ma ciò fa parte di quell’insieme di «evidenze» fenomenologiche che in realtà non si danno. Anche qui possiamo dire che, fenomenologicamente, appare solo il nostro credere nell’annientamento, non l’annientamento in quanto tale. Severino costruisce la seguente metafora:

se equipariamo l’apparire del cielo noi vediamo che il sole attraversa la volta del cielo e poi esce dalla volta del cielo con il tramonto; allora, l’uscita è il corrispettivo del non apparire più di qualche cosa. Se quando il sole tramonta uno dicesse al cielo: «dove è andato a finire il sole? Dimmelo tu cielo in quanto sei cielo!» Cioè intendo dire che se uno volesse sapere dalla volta del cielo che ne è del sole che è uscito, il cielo non potrebbe rispondere che in questo modo: «Non posso saperlo. Perché io volta del cielo ti mostro quello che c’è in me, ma non posso mostrarti quello che è uscito da me». Allora, l’apparire di ciò che chiamiamo morte, se la morte viene intesa come annientamento e se siamo d’accordo che l’annientantesi non può rimanere nell’apparire nella misura in cui esso s’annienta, questo vuol dire che non ci può essere apparire dell’annientamento; non ci può essere esperienza dell’annientamento.29

Si potrebbe qui ribattere, per restare sul piano della logica, che è vero il contrario: l’essente si annienta proprio perché esce dall’esperienza. L’uscita dall’esperienza è annientamento. Se diciamo di un essente che si annienta, in realtà intendiamo dire che quell’essente non lo vediamo più; cioè: la definizione del concetto di annientamento ha, come suo contenuto, il discorso dell’uscita dall’esperienza. L’operazione di Severino è dunque alquanto singolare: egli tenta di mettere in contrasto il nome (cioè l’annientamento) con la sua definizione (l’uscita dall’esperienza).

Tuttavia il discorso di Severino potrebbe sfuggire a questa obiezione. Bisogna infatti tener presente che Severino distingue l’orizzonte umano dell’apparire dal cerchio del destino, in cui tutte le cose appaiono già da sempre, eternamente. Egli potrebbe concordare con noi sulla definizione del concetto di annientamento, ma, nondimeno, potrebbe ribadire la sua posizione: se è vero che annientamento significa uscire dall’esperienza, allora potremmo parlare di vero annientamento qualora gli essenti uscissero non solo dall’orizzonte dell’esperienza umana, ma anche dalla cornice dell’apparire trascendentale. La qual cosa non accade, giacché, secondo Severino, ciò che esce dal campo dell’esperienza umana continua ad apparire nello sfondo trascendentale del destino. Questo tra le altre cose, è il modo corretto in cui si dovrebbe intendere il divenire: un movimento di essenti eterni, la cui consistenza ontologica non viene mai meno.

A questo punto il problema più serio che si pone è quello di giustificare l’esistenza di questo sfondo trascendentale. La fondazione della nozione di apparire trascendentale, di cerchio del destino, è il frutto di una metafisicizzazione di principi logici la cui legittimità, come abbiamo mostrato, è piuttosto dubbia. Se però non è fondata logicamente, allora quella del cerchio del destino è una mera ipotesi speculativa, suggestiva per quanto si voglia, ma semplicemente un’ipotesi, che come tale non ci può impegnare in modo vincolante. Possiamo anche immaginare che le cose stiano così. Ma non possiamo esserne sicuri. Ciò di cui siamo sicuri, invece, è la nostra esperienza, ed è, soprattutto, l’esperienza del dolore e della morte. Di fronte a ciò a poco ci servono le ipotesi speculative: nessun principio eleatico può liberarci dall’angoscia della finitezza.

Il credente e il non credente si trovano accomunati da quest’angoscia, che ha trovato nella voce autorevole di Norberto Bobbio un’alta espressione filosofica:

Ho cominciato a prendere sul serio la morte vedendo morire dei giovani amici, senza illudermi delle promesse della religione che fossero ancora vivi. Qualche volta, pensando alla morte di una persona cara — mio padre ad esempio — so che quella persona che ho amato ora non c’è più. E che ci sia qualche cosa di lui in un altro luogo — che non so dove sia — a me non importa assolutamente nulla. La persona che ho amato era quel particolare modo di sorridere, di farci giocare, di raggiungerci in campagna alla fine della settimana quando eravamo in vacanza, la nostra attesa sul cancello della casa per aspettarlo e poi salutarlo festosamente: questo so per certo che non c’è più.30

5. Conclusioni

Concludiamo questo nostro percorso. Abbiamo cercato di mostrare la debolezza degli argomenti utilizzati da Severino contro Fides et Ratio. Il discorso, com’era peraltro inevitabile, ci ha condotti ad esaminare la sua prospettiva generale, dalla quale discendono, in modo più o meno diretto, le critiche all’enciclica. La fede, interpretata come figura del nichilismo, non può che essere avvolta nell’errore, oscillare drammaticamente tra follia e violenza. A questa dinamica non può sottrarsi nemmeno il discorso di Fides et Ratio. Fronteggiare una struttura speculativa così complessa e — lo ammettiamo — per certi versi affascinante, è stata un’impresa piuttosto ardua, che ci ha costretti ad impiegare tutti i mezzi di cui disponevamo, dei quali, almeno in parte, siamo debitori nei confronti dello stesso Severino. Sulla bontà e l’efficacia dei nostri argomenti non spetta a noi giudicare. Quel che più auspichiamo comunque, è l’essere riusciti a costruire un dialogo fecondo con un pensiero che, in netto contrasto con la filosofia del nostro tempo, dischiude vertiginosi universi speculativi, disegna scenari di senso del tutto inesplorati. Un pensiero che dunque merita ascolto giacché, al di là di tutto, costituisce un’alta testimonianza della grandezza dell’uomo che cerca la verità.

  1. Potrebbe sembrare, a prima vista, un po’ bizzarro l’accostamento tra Severino e il primo Wittgenstein. In realtà, si tratta di un’operazione meno illogica di quanto si possa credere. Severino, come il Wittgenstein del Tractatus, interpreta il linguaggio in senso esclusivamente referenziale-designativo: il linguaggio raffigura la struttura ontologica del reale.

    Può essere utile forse, a questo proposito, ricordare che Severino è stato il traduttore del Logische Aufbau der Welt di Carnap (un’opera pesantemente influenzata dal Tractatus ), oltre che (insieme a Luigi Lentini) del Manifesto del Circolo di Vienna. Se volessimo, in definitiva, abbracciare con una formula il pensiero di Severino potremmo dire che si tratta di una forma di empirismo logico innestata all’interno di un contesto tipicamente neoscolastico.


  1. S. Natoli, «Su Fides et Ratio», Humanitas, anno LIV, n. 3, Giugno 1999, pp. 364-367. ↩︎

  2. Per un approfondimento di questi temi si vedano i seguenti, fondamentali, testi di Severino: Destino della necessità, Adelphi, Milano, 1980; Studi di filosofia della prassi, Adelphi, Milano, 1984; Pensieri sul cristianesimo, Rizzoli, Milano, 1995; La Gloria, Adephi, Milano, 2001. ↩︎

  3. E. Severino, Destino della necessità, cit. p. 21. ↩︎

  4. La Chiesa cattolica in via ufficiale ha giudicato il pensiero di Severino incompatibile con il cristianesimo (sono note le vicende che portarono all’allontanamento del pensatore bresciano dall’Università Cattolica; a questo riguardo cfr. E. Severino, Il mio scontro con la Chiesa, Rizzoli, Milano, 2001). Pur tuttavia, in ambito teologico, si registrano, in relazione al pensiero di Severino, posizioni nettamente contrastanti, ora di significativa ed entusiastica apertura (si vedano in particolare i seguenti studi di Giuseppe Barzaghi: Soliloqui sul divino, Ed. Studio Domenicano, Bologna, 1997 e Oltre Dio, G. Barghigiani Editore, Bologna, 2000) ora di netto e polemico rifiuto (cfr. E. Salmann, Contro Severino, Piemme, Casale Monferrato, 1996). ↩︎

  5. P. Coda, E. Severino, La verità e il nulla, San Paolo, Cinisello Balsamo, 2000. Più recentemente, si è svolta sulle pagine del Corriere della Sera, tra Severino e due importanti teologi, un’interessante discussione che può offrire ulteriori elementi di riflessione. L’occasione è data dalla pubblicazione di un articolo di Severino («La risurrezione non è prova di Dio», 30 Luglio 2002), cui fanno seguito le repliche di P. Sequeri («L’azzardo della fede oltre la prassi», 3 Agosto 2002) e di M. Gronchi («L’invincibile bisogno di non morire mai», 7 Agosto, 2002). Il dibattito si chiude con la controreplica di Severino («Ma la pura fede non può esistere», 14 Agosto, 2002). ↩︎

  6. P. Coda, E. Severino, cit., p. 28. ↩︎

  7. Op. cit., pp. 34-35. ↩︎

  8. Op. cit., p. 39. ↩︎

  9. Op. cit., p. 47. ↩︎

  10. Op. cit., p 61. ↩︎

  11. Un dilemma storicamente celebre è quello utilizzato dal filosofo giusnaturalista Ugo Grozio per dimostrare l’inutilità della tortura. Grozio costruisce il seguente dilemma: o il condannato è talmente forte da resistere alla tortura, e quindi non dirà la verità, o è così debole che, pur di far cessare il dolore, dirà quello che egli crede che il suo aguzzino vuole sentirsi dire, magari addossandosi colpe che non ha; ma, anche in questo caso, non dirà la verità. Come si vede, le due conseguenze confutano la tesi originaria secondo cui la tortura è uno strumento per l’ottenimento della verità. Per una trattazione del dilemma nel contesto della retorica classica si veda: B.M. Garavelli, Manuale di Retorica, Bompiani. Milano, 1991, p. 90. ↩︎

  12. E. Severino, La legna e la cenere, Rizzoli, Milano, 2000, p. 213. ↩︎

  13. R. Fisichella, Introduzione a Fides et Ratio, Piemme, Casale Monferrato, 1998, p. 42. ↩︎

  14. E. Severino, La legna e la cenere, cit. p. 213. ↩︎

  15. B. Forte, «O Dio o il nulla?», MicroMega, 2/2000, p. 91 È appena il caso di ricordare che l’interpretazione della rivelazione mediante la dialettica velamento/svelamento è tra gli esiti più significativi della riflessione teologica di H.U. von Balthasar. ↩︎

  16. G. Vattimo, «Cristianesimo contro metafisica», MicroMega, 2/2000, p. 139. ↩︎

  17. Op. cit., p. 134. ↩︎

  18. «E non importa per nulla che l’uomo sia il migliore degli essere viventi; infatti vi sono altre cose molto più divine dell’uomo per natura, come le splendidissime luci di cui si compone l’universo». Questo è quanto afferma Aristotele (Etica Nicomachea, VI 7, 1141 a 34 — b 2, traduzione di Armando Plebe). ↩︎

  19. G. Reale, D. Antiseri, Quale ragione?, Cortina, Milano, 2001, p. 202. ↩︎

  20. Ibidem↩︎

  21. E. Severino, La legna e la cenere, cit. alla nota 12, p. 213. ↩︎

  22. G. Vattimo, Filosofia al presente, Garzanti, Milano, 1990, pp. 35-36. Questo libro raccoglie una serie di conversazioni televisive tra Gianni Vattimo e alcuni tra i più importanti protagonisti della scena filosofica italiana. ↩︎

  23. E. Severino, La Gloria, cit. alla nota 2, pp. 209-210. ↩︎

  24. Op. cit. 211-212. ↩︎

  25. Op. cit. p. 212. ↩︎

  26. E. Severino, Oltre l’uomo e oltre Dio, Il Melangolo, Genova, 2002, p. 85. ↩︎

  27. Il tema dell’intersoggettività ha attraversato tutto il pensiero contemporaneo, nelle sue espressioni continentali così come in quelle analitiche. Per una prima introduzione a questo problema in ambito continentale si può utilmente consultare il denso saggio di Emilio Baccarini, «La persona come struttura dialogica», Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia, 6 Ottobre, 1999, disponibile su World Wide Web all’indirizzo: <https://mondodomani.org/dialegesthai/emilio-baccarini-04> Baccarini affronta la questione della struttura intrinsecamente dialogica della persona ripercorrendo alcuni tra i più significativi luoghi della filosofia continentale (Husserl, Scheler, Heidegger, Ebner, Rosenzweig, Gadamer, Pareyson). Segnaliamo inoltre, sempre sul versante continentale, il ponderoso studio di Paul Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano, 1993, un’opera che si fa apprezzare, oltre che per la ricchezza di analisi proposte, per la straordinaria sottigliezza logica di alcune sue pagine. In ambito analitico invece, ci si può riferire ad autori come Quine, Putnam, Davidson e, soprattutto, ai celebri argomenti di Wittgenstein sull’impossibilità del linguaggio privato (cfr. Ricerche Filosofiche, § 243 ss. ), che, a nostro parere, sono quanto di più alto, a tutt’oggi, la filosofia analitica contemporanea abbia prodotto. ↩︎

  28. E. Severino, Oltre l’uomo e oltre Dio, cit. p. 86. ↩︎

  29. Op. cit. p. 83. ↩︎

  30. N. Bobbio, «Religione e religiosità», MicroMega, 2/2000, p. 10. ↩︎