Provocazioni sul tema della verità nel tomismo

1. Introduzione

Qualche spiegazione sul titolo. Provocazioni, abbiamo scritto, intendendo tale termine in due sensi; anzitutto questo intervento non ha una pretesa di definitività: si tratta di riflessioni che, pur relativamente organiche, sono ancora in fase di maturazione; in secondo luogo il termine provocazione vorrebbe avvertire l’intenzionale accentuazione di certi tratti, presenti nella dottrina tomista, per meglio farne risaltare lo specifico orientamento. Parliamo poi di tomismo, e non di Tommaso, in quanto questo studio vuole essere di carattere essenzialmente teoretico, per cui non ci proponiamo tanto una filologicamente minuziosa ricostruzione del pensiero di Tommaso d’Aquino;1 il nostro obbiettivo è piuttosto quello di enucleare certi tratti essenziali, grossi, del tomismo, in quanto patrimonio e mentalità ispiratrice di generazioni di cattolici, pensatori e uomini d’azione, laici ed ecclesiastici.

Dobbiamo precisare che chi scrive, familiare alla pagina di Tommaso fin dall’adolescenza, è molto meno antitomista di quanto non potrebbe sembrare ad una lettura superficiale del presente contributo: se in esso abbiamo focalizzato soprattutto certe deficienze è perché diamo per scontato che nella dottrina tomistica sia prevalente il condivisibile, che pensiamo però vada assimilato compiendo uno sforzo di integrazione, di non livellante integrazione, con altre significative espressioni del pensiero cristiano e non cristiano.2

2. La forza del concetto

2.1 Presupposti metafisici

A monte della gnoseologia tomista, e dunque della concezione tomista di verità sta una certa metafisica dell’esse e della sostanza.

In generale l’impostazione tomista, rispetto a quella platonico-agostiniana, è più analitica, in quanto conferisce più consistenza alle sostanze, alle essenze sostanziali: il mondo di S. Tommaso è un simposio di sostanze,3 dove l’accento cade sul secondo termine, le molteplici sostanze, ognuna delle quali ha un suo proprio actus essendi, che le viene conferito anzitutto tramite la forma, l’unica forma sostanziale che la struttura. Sia la dottrina dell’actus essendi sia quella della unicità della forma sostanziale concorrono a determinare la forza, la autonoma consistenza, la robusta determinatezza di ogni essenza sostanziale, che si staglia sullo sfondo dell’intero con la nettezza del suo perfezionante actus essendi e afferma, con la sua unità, la sua solida stabilità: indivisa in se e divisa a qualibet alia.

Questo differenzia S. Tommaso da altri indirizzi di pensiero, come la Scuola francescana, che vedono ogni settore del reale più organicamente connesso con il tutto, per cui le sostanze specifiche non godono di quella autonomia loro riconosciuta dall’Angelico. A ciò concorre anche per la tesi della pluralità delle forme sostanziali, che in qualche modo conduce a pensare le sostanze in termini di maggior complessità, e di minor consistenza che in S. Tommaso. Così la concezione agostiniano-francescana di sostanza, internamente sfogliantesi in una pluralità di livelli, stratificata in una complessità di dimensioni, le attribuisce una più accentuata «debolezza», divisa com’è in sé stessa e anche per ciò strutturalmente relazionata a tutto il resto del reale, alla totalità. In rapporto a tale impostazione parliamo della sostanza tomistica come di un «atomo»4 sostanziale, fortemente unitario e strutturalmente indivisibile.

Quello del tomismo è allora un mondo di grumi di intelligibilità, le essenze, di cui è tramata la realtà finita: più che la fluidità avvolgente del tutto, S. Tommaso pare interessato a focalizzare, per così dire, la recisa granularità degli atomi sostanziali, in cui si fissa e si cristallizza la dimensione di (relativa) intelligibilità del reale finito.

2.2 Conseguenze gnoseologiche

  1. Da questa impostazione metafisica analitica scaturisce un certo primato, in gnoseologia, dell’apprehensio del concetto rispetto al giudizio: i concetti sono in qualche modo il rispecchiamento mentale di essenze extramentali, le rappresentano, le esprimono. Articolato il reale in una molteplicità di atomi essenziali, articolata l’intelligenza in una molteplicità di atomi di intelligibilità. Fondamentale è allora l’attività con cui l’intelletto coglie le essenze universali, ossia l’astrazione: è questa il vero passaggio cruciale, il punto nodale, il fulcro della vita intellettuale specificamente umana. Prima di essa esiste la sensazione, che pur essendo atto, oltre che del corpo, anche dell’anima, resta a un livello inesorabilmente corporeo, particolarizzato, in fondo non qualitativamente diverso dalla conoscenza animale:5 dopo di essa, ecco che l’uomo raggiunge la statura conoscitiva pienamente commisurata alla sua dignità di spirito incarnato, intelligendo, intus-legendo, leggendo-dentro il sensibile, per farne emergere gli aspetti di intrinseca intelligibilità che la materia, nella sensazione, velava, inviscerando nella sua ganga di opacità il diamante luminoso della forma essenziale. Il giudizio viene dopo, in subordine non solo cronologico. Solo nel giudizio, solo nell’intelletto che compone e divide, si trovano verità ed errore, perché solo lì il soggetto ci mette del suo:6 ciò non implica precisamente che, non essendovi falsità nell’astrazione,7 il dato dell’astrazione è sempre vero, essendo un dato, qualcosa di atomicamente consistente? «Intellectus formans quidditates non habet nisi similitudinem rei existentis extra animam», e ancora «in cognoscendo quidditates simplices non potest intellectus esse falsus: sed vel est verus, vel totaliter nihil intelligit», «in rebus simplicibus […] non possumus decipi»:8 del dato costituito dal concetto, astratto dall’intelletto agente, si può solo prendere atto. Così il giudizio può lavorare soltanto sugli elementi che gli vengono forniti, già strutturati nella loro definitiva e irreformabile determinatezza, dall’astrazione, ossia i concetti. Il giudizio non li può modificare: sono un «dato duro», per dirla con Russell, non «tenero», non malleabile. Rispecchiando le essenze intelligibili che esistono nel reale extramentale, l’intelligenza non può che recepirli, in qualche modo passivamente, secondo l’immagine aristotelica dell’intelletto agente come una luce, che non crea gli oggetti, ma semplicemente li rende visibili.

    È questa recettività dell’intelletto di fronte a tale dato cristallizzato e irreformabile uno dei punti che differenziano la gnoseologia tomistica da quella ad esempio di un Duns Scoto; questi infatti assegna alla facoltà razionale un compito attivo, ben oltre la passiva registrazione dei grani di intelligibilità in cui si articola il reale.9 Nella visione scotista, che ci pare in ciò sostanzialmente convergente con quelle agostiniana e blondeliana,[^10] l’intelletto esercita un potere di attivo discernimento su un dato che gli si presenta, non diciamo fluido, ma nemmeno definitivamente cristallizzato, un dato tenero, per restare nella metafora russelliana. Questo rende ragione ad esempio della possibilità che di fronte all’esperienza delle stesse cose/situazioni sensibili si possano formare ventagli di sfumature concettuali diversamente articolati, per quantità e taglio prospettico. L’intelletto, in tale impostazione, conserva un certo stacco critico dal dato: non perché sia indipendente dall’oggettività totale, ma perché lo è dall’oggettualità immediata. Un paragone potrebbe essere quello di un potente zoom, che pur non creando il suo oggetto ne può variare sensibilmente l’apparire. Per Tommaso invece il nostro intelletto è più simile a una focale fissa. Lo è, almeno, nella sua fase primordiale, quella comunque decisiva, ossia l’astrazione: certo anche l’Angelico ammette una certa possibilità di lavorare sui concetti, ma per addizione o sottrazione di elementi primi che sono in sé atomici, «granulari», immodificabili.

    Qui dobbiamo dire che i tomisti contemporanei più avveduti, come Maritain in Francia e la Vanni Rovighi alla Cattolica di Milano, hanno cercato di aggirare le difficoltà teoretiche insite nella posizione che abbiamo appena illustrato. In particolare la Vanni Rovighi interpreta la distinzione tomista tra abstractio totalis e abstractio formalis come distinzione rispettivamente tra intuizione necessaria, spontanea, di concetti originari e irreformabili ed elaborazione volontaria e riflessiva di concetti complessi, a partire dai primi. In tal modo, osserviamo, si tenta di superare una visione un po’ troppo meccanica, o meglio puramente fotografica, dell’intelligenza, come semplice presa d’atto speculare degli atomi di intelligibilità che le sono imposti dall’evidenza oggettuale, recuperando invece il senso del suo attivo dinamismo nei confronti del dato. Dal complesso del discorso della Vanni Rovighi si desume che i concetti ricavati per abstractio totalis sono in numero decisamente ristretto: essi sono infatti definiti come «generalissimi e rozzi».10 Però non viene detto con più precisione qualcosa su quali siano questi concetti (l’esempio portato è il «concetto volgare» di anima,11 da cui Aristotele ricaverebbe, per abstractio formalis, un concetto filosofico di anima): si tratta dei trascendentali oppure delle categorie? Anche tale risposta apparirebbe troppo restrittiva. Si tratta forse delle essenze degli enti sostanziali? Ovviamente no, per dei motivi che riprenderemo oltre. La difficoltà di precisare questo punto è indizio, a nostro avviso, della intrinseca difficoltà della tesi tomista, come spiegheremo poi. In ogni caso resta il fatto che nella gnoseologia tomista è essenziale ammettere che almeno alcuni dati intellettivi, ossia concetti (siano essi pochi o tanti, è secondario), siano concepiti come atomi, essenzialmente irreformabili nella loro cristalizzata solidità.

  2. La «forza» del concetto appare anche dal fatto che i concetti, chiamiamoli così «semplici», in senso in qualche modo affine a quello di Locke, i concetti-base, quelli principali, che alla fine sono poi gli unici concetti nel vero senso del termine, i quali sono compresi nel loro pieno senso senza rapporto ad altri:12 anche questa tesi differenzia la gnoseologia tomista dalla linea agostiniano-francescana e da Blondel, come pure da Platone (Simposio) ed Hegel. Per quest’ultima impostazione un concetto è pienamente intelligibile non nella sua atomicità, nella sua ritagliata e intrinseca determinatezza, ma solo in rapporto ad altri concetti, e ultimamente alla totalità.

    È indubbio che la stessa concezione aristotelico-tomista ammette che per definire un concetto occorre ricorrere al genere prossimo, che a sua volta rimanderà ad un ulteriore genere, a lui superiore, fino ad attingere l’ultima risoluzione nella massima generalità delle categorie, la cui intelligibilità è comunque garantità dall’onniabbracciante concetto trascendentale dell’essere. Nello stesso tomismo quindi c’è una certa consapevolezza che gli elementi atomici, per così dire, del pensiero non sono totalmente autosufficienti. È però altrettanto vero che l’accento, in esso, va più sulla analitica consistenza dei molteplici costitutivi intelligibili che sul loro necessario risolversi in un tutto unitario, per essere pienamente sensati. E più ancora va osservato come non si possa equiparare l’essere di cui parla S. Tommaso («illud quod primo intellectus concipit quasi notissimum … et in quo omnes conceptiones resolvit») con la totalità in senso platonico (o blondeliano, o hegeliano): quest’ultima è densa compresenza di ogni concreto, laddove l’ens tomistico è, non vuota genericità, ma almeno qualcosa di sommamente «aptum praedicari de pluribus».

    La questione appena accennata richiama quella, ben più dibattuta, dell’intenzionalità: forse il tomismo è tra tutti i sistemi filosofici, quello che con più radicalità intende questa dimensione della conoscenza umana. Conoscere secondo verità è «adaequare» il pensiero alla «res», all’essere, è divenire intenzionalmente l’essere, in modo tale che tra i due termini ci sia una reale, seppur imperfetta e inesaustiva, identità. Ed è appunto il concetto, come segno intenzionale, che media tra i due termini, rendendo presente al pensiero la res pensata, e per far ciò esse deve essere non il quod, ma il quo intelligitur, onde permettere al pensiero di intenzionare l’essere stesso, la cosa extramentale, l’oggetto reale.13 Tale concezione, su cui peraltro non tutti i tomisti concordano14 viene a confermare, da un lato, la forza del concetto, che infallibilmente guida il soggetto umano a cogliere la realtà oggettiva stessa, permettendogli di «uscire» dalla, più e meno dorata, gabbia di un pensiero cartesianamente chiuso in sé, d’altro lato, intesa almeno in un certo modo, tende a svalorizzare la trascendenza dello spirito sul mondo materiale, schiacciandone la conoscenza in una forzata adesione, o meglio aderenza, alla datità oggettuale. Il concetto sarebbe, ci si passi il paragone, come un volenteroso boy-scout che trascina sempre e comunque l’inerme vecchietta dello spirito, o come una lente a contatto, che aderisce in modo fisso all’occhio, mentre per l’impostazione scotista-blondeliana è piuttosto paragonabile ad un monocolo, che si può spostare alla distanza giusta.

    Tale rafforzamento del concetto insomma pare sminuire molto dell’attivo potere di orientarsi dello spirito, della sua capacità di guidare gli strumenti analitici di conoscenza di cui è dotato. L’immagine che invece ci parrebbe giusto introdurre, al posto del un cane-lupo per ciechi (il concetto di certo tomismo), che trascina l’ignaro padrone, potremmo pensare ai cani da caccia che obbedendo a un ben consapevole e vigile padrone eseguono i suoi ordini e lo aiutano a cacciare nel bosco della realtà la selvaggina intelligibile. Come dice Scoto infatti non è il concetto che comprende, ma il soggetto, attraverso il concetto.15 Per il Doctor Subtilis, erede della Tradizione, è lo spirito che, immerso sì nel reale sensibile, ma pur sempre non totalmente deteminabile da un ordine ontologico a lui inferiore, oltre che farsi guidare da ciò che è pur sempre ricavato dal sensibile, ossia il concetto, lo guida e ne usa.

    È necessario, a nostro parere salvare l’apertura del pensiero all’oggettivo, all’essere, senza per tanto negare la dimensione di attività e di trascendenza che caratterizza, nel bene e nel male, lo spirito umano. La concezione tomista riesce a tenere questi due «capi della catena»? A noi pare che il secondo polo non sia ben considerato. Forse a tale riguardo non si è ancora adeguatamente considerato quanto comporta la tesi, che lo stesso tomismo ammette, di una non esaustività della conoscenza concettuale: il concetto rappresenterà anche un aspetto intelligibile del reale, ne sarà la presenza intenzionale (con il che si salva il carattere realistico dell’umana conoscenza), ma nel momento stesso in cui tale concetto viene colto («astratto») il soggetto intelligente avverte in sé che si tratta solo di un frammento, di un frammento, oltrettutto, all’interno di uno «strato», di uno dei molteplici livelli in cui si articola e si frastaglia il reale, senza che si giunga a possedere pienamente l’intimo nucleo dell’essere. Il paragone potrebbe qui essere quello di uno scavo archeologico: i reperti sono qualcosa di strutturato (anche se possono essere rovinati da un maldestro lavoro di piccone), ma per farli emergere occorre al tempo stesso un lavoro, e dopo aver trovato i resti di una civiltà di epoca più recente, è possibile scavare ancora per trovare, in uno strato più profondo i resti di una più antica.

    Vorremmo anche aggiungere che concepire l’intenzionalità come Maritain e altri grandi tomisti del nostro secolo, negando ogni possibile «stacco» dello spirito da quei suoi strumenti, che sono i concetti, si sposa benissimo con la tesi, chiamiamola così, della «automaticità» dell’astrazione. Secondo questa tesi, che abbiamo richiamato all’inizio di questo contributo, l’intelletto agente non guida il processo astrattivo, ma in qualche modo lo subisce: similmente al modo in cui la vista vede, e non può non vedere, il sensibile, l’intelletto vede l’intelligibile.16

  3. Infine la forza, il primato del concetto appare dal suo essere concepito come comprensione dell’essenza: poco o tanto, il senso del concetto per S. Tommaso e i suoi discepoli è quello di farci capire, cogliere intellettivamente, il tí esti, il che cos’è un certo ente. Il concetto infatti altro non è che la presenza all’intelletto di una essenza: perciò Tommaso afferma che l’oggetto proprio dell’intelletto umano sono le essenze delle cose materiali, è la quidditas degli enti sensibili.17

    Sic dicitur proprie intelligere cum apprehendimus quidditatem rerum, quidditas autem rei est proprie obiectum intellectus; unde sicut sensus sensibilium propriorum semper est verus, ita et intellectus in cognoscendo quod quid est, ut dicitur in De Anima, l. 3, com. 26 (DeVer, q. 1, a. 12, resp.)

    Obiectum intellectus est quod quid est (DeVer, q. 10, a. 4, ob3).

    Hoc est abstrahere universale a particulari, vel speciem intelligibilem a phantasmatibus, considerare scilicet naturam speciei absque consideratione individualium principiorum, quae per phantasmata repraesentantur (STh, I, q. 85, a. 1, ad 1um).

    [L’intelletto ha come oggetto] formam in materia quidem corporali individualiter existentem, non tamen prout est in tali materia (STh, I, q. 85, a. 1).

    Similitudo rei intellectae, quae est species intelligibilis, est forma secundum quam intellectus intelligit (STh, I, q. 85, a. 2).

    Sarebbe troppo facile dire che la concezione tomistica è stata messa in crisi dalla scienza moderna: uno dei maggiori filosofi tomisti contemporanei, Maritain, ha appunto cercato di dimostrare, ne Les dègrés du savoir, che il sapere scientifico è perfettamente compatibile con la gnoseologia dell’Aquinate, anche perché questa non pretenderebbe di afferrare le essenze delle sostanze corporee. La filosofia della natura in effetti, secondo il grande neotomista francese, dovrebbe accontentarsi di una cacciagione tutto sommato modesta. Se per coglimento dell’essenza si deve intendere la comprensione di quel quid (centrale) che in una sostanza rende ragione di tutte le altre sue caratteristiche (periferiche), allora le essenze così colte sarebbero davvero poche: alla comprensione della filosofia della natura resterebbero infatti del tutto precluse le essenze specifiche delle sostanze infraumane,18 e dovrebbe limitarsi a conoscere, dell’infraumano, soltanto alcune essenze generiche (come quelle di materia, forma, spazio, tempo), l’unica essenza essenza specifica comprensibile essendo quella umana. Proprio per tale ragione la filosofia non esaurirebbe il campo del conoscibile, a livello naturale, ma lascerebbe alla scienza il compito di indagare ulteriormente; non certo perché la scienza possa giungere alle essenze, cosa vista impossibile già da Galileo, quanto perché essa possa operare una «intellezione perinoetica». A sua volta la Vanni Rovighi riconosce: «Noi non abbiamo l’intuizione astrattiva delle essenze specifiche».19 Non conosciamo quindi l’essenze delle sostanze, ma solo «un quid, un contenuto che prescinde dall’esistenza qui ed ora».20 Rilievi ancora più radicali si trovano in Sertillanges: «l’astratto non è che un ombra» e non può «rendere la nostra scienza padrona dell’essere».21

    Ammettiamo anche la precisazione che non si tratti dell’essenza delle sostanze: non si tratterà pur sempre di concetti che ci fanno capire «che cos’è» (tí esti) una certa caratteristica di una cosa, o una cosa? In ogni caso ci pare innegabile che S. Tommaso costruisca il suo sistema con una netta impostazione sistematico-deduttiva: ovunque lo creda possibile, egli ci offre una spiegazione (di tipo ontologico), cercando di ricondurre ogni fenomeno particolare a pochi elementari concetti (forma, materia, essere, essenza, atto primo, atto secondo e simili), che coglierebbero l’intimo nucleo del reale. Si ha spesso la sensazione che per lui è più ciò che un concetto dice, di ciò che non dice. Si ha talora la sensazione che il concetto, in S. Tommaso, non abbia nostalgia, non avverta fino in fondo il senso della sproporzione tra conoscenza finita e totalità infinita, cui pure l’uomo è chiamato dal profondo del suo essere concreto.

3. La Verità

Da tale «forza» dei concetti deriva una sorta di autosufficienza della verità naturalmente accessibile all’intelletto umano. Parliamo di autosufficienza in senso non assoluto, ma ancora una volta relativo all’indirizzo agostiniano-blondeliano, e la intendiamo sia nei confronti di un intervento di Dio, sia nei confronti della volontà.

  1. Significativamente infatti l’Angelico non parla di illuminazione, almeno non nel senso agostiniano e nemmeno nel senso di S. Bonaventura. È certo, da un lato, che anche l’Angelico si inserisce nel solco tradizionale, con affermazioni come le seguenti:

    Intellectus autem […] hominis est quasi lux illuminata luce divini Verbi (IIIa, q. 5, a. 4).

    Sol corporalis illustrat exterius, sed sol intelligibilis, qui est Deus, illustrat interius. Unde ispum lumen naturale animae inditum est illustratio Dei, qua illustramur ab Ipso ad cognoscendum ea, quae pertinent ad naturalem cognitionem (Ia IIae, q. 109, a. 1, ad 2um).

    Sicut enim lux solis principium est omnis visibilis perceptionis, ita divina lux omnis intelligibilis cognitionis principium est, cum sit in quo primum maxime lumen intelligibile invenitur (Contra Gent., l.1, c. 2).

    In luce primae veritatis omnia intelligimus et iudicamus, inquantum ipsum lumen intellectus nostri, sive naturale sive gratuitum, nihil aliud est quam quaedam impressio veritatis primae (Ia, q. 87, a. 3).22

    Tuttavia la sua impostazione complessiva, rimarcata ad abundatiam dai suoi discepoli moderni, lo porta a porre l’accento piuttosto sul principio che ogni ente creato deve possedere quanto basta per compiere le operazioni a lui naturali, e per un intelletto umano è naturale conoscere con certezza gli aspetti intelligibili della «res materialis»; ne segue che la partecipazione alla Luce increata va intesa non solo come una condizione della conoscenza di oggetti e non come oggetto,23 ma soprattutto come qualcosa di appartenente al soggetto creato, qualcosa che gli si partecipa adeguandosi, per così dire, alla sua finitezza, piuttosto che elevandolo a un livello superiore.24 In altri termini l’intelletto agente è una partecipazione dell’Intelletto divino in modo non qualitativamente diverso da come la vita dei viventi partecipa alla vita divina, e da come l’essere delle realtà finite partecipa dell’Essere divino: si tratta sempre, sia pur a diversi gradi, di una partecipazione naturale.25

    La conseguenza che ci interessa far risaltare è che per l’Angelico l’intelletto si attua, raggiunge cioè la verità a lui proporzionata, in virtù delle capacità operative di cui è naturalmente dotato, nella cui dinamica peraltro è comunque iscritto un riferimento strutturale a Dio Creatore. Si dirà che ciò è troppo poco per parlare di autosufficienza, anche relativa, e in un certo senso noi ne conveniamo volentieri: nel senso cioè che non ci sentiremmo di criticare l’Aquinate per la sua descrizione di uno stato di conoscenza naturale. Ma il punto è che non si trova in lui, e meno che mai nei suoi maggiori discepoli, una considerazione adeguata della conoscenza della verità in quello che è l’unico effettivo stato di cui noi abbiamo mai avuto esperienza, che non è uno stato di pura natura, ma di natura decaduta e redenta.^[27]

  2. E qui si inserisce l’altra mancanza della gnoseologia tomistica, quella di una organica tematizzazione del concreto dinamismo del rapporto intelletto/volontà, il che significa implicitamente una sopravvalutazione dell’autonomia del conoscitivo rispetto alla soggettività integrale.

    Anche in questo caso non vogliamo ignorare i diversi accenni, che si trovano nelle opere di S. Tommaso, in cui risuona la tradizione agostiniana, come nei seguenti casi:

    • sulla questione della superiorità dell’intelletto,26 com’è noto, la sua risposta è sfumata: simpliciter è superiore l’intelletto, il cui oggetto è «simplicius et magis absolutum», ma secundum quid la volontà può essere superiore (altior), quando si tratta di rapportarsi a Dio, «bonum» «nobilior ipsa anima»;

    • sul tema della precedenza operativa (ci si passi l’espressione) tra le due facoltà, in a. 4, q. 82 della Prima, egli sostiene che non solo il bene è contenuto sotto il vero, ma che anche la reciproca si impone: «et verum continetur sub bono, inquantum est quoddam bonum desideratum» ; ancora in altri passi della Prima Secundae27 riconosce una certa precedenza della volontà;

    • egli poi ammette che la sfera afferttiva influisca sull’operatività dell’intelletto: certe virtù intellettuali (riferite all’ambito pratico) non possono esistere «sine virtute morali»,28 la superbia è di impedimento alla conoscenza della verità,29 così anche l’ira ostacola l’usum rationis;30 si può parlare anche di una caecitas mentis, ossia dell’ombra che il peccato getta sulla conoscenza del vero,31 e si deve riconoscere che la delectatio può «augere» o «impedire» l’usum rationis.32

    Osserviamo peraltro che un pensatore cristiano difficilmente poteva concedere qualcosa di meno, dato che innegabilmente la salvezza che Cristo offre all’uomo dipende non da un esercizio astratto dell’intelletto, ma dalla scelta fondamentale e dalle scelte concrete che uno compie mediante il libero arbitrio, facendo o meno «la volontà del Padre». Il problema è che S. Tommaso sembra distinguere un ambito naturale-filosofico, in cui l’incidenza del fattore volizionale sarebbe quantité négligeable; ancora una volta, dobbiamo dire che il suo approccio si rivela piuttosto analitico che sintetico: di fronte ad un settore parziale, supposto sconesso dal tutto, del reale l’intelletto potrebbe effettivamente attuare una «pura speculatività», un accostamento disinteressato e privo di interferenze volizionali. E tale forse è l’ambito scientifico-tecnico; ma per la filosofia, per il vertice della conoscenza razionale, le cose non vanno così: inevitabilmente ogni parte, ogni frammento viene connesso al tutto,33 e di fronte al tutto il soggetto integrale non può certo essere pura apertura speculativa. Di fronte al tutto viene interpellata la libertà, la suprema scelta della persona.

  3. Per quanto concerne Blondel si veda ad esempio La Pensée, Paris 1934, vol.1, in cui il filosofo di Aix-en-Provence sostiene che il soggetto pensante recepisce il pensato a suo modo, non come la cera riceve lo stampino (p. 225/6): non si può misconoscer «l’idée d’une initiative déjà préexistante et spécifique» (ibi, 227) da parte dello spirito, e niente di più falso del detto di Locke che Dio potrebbe far pensare la materia (ibi, 227): «nul receptivité sans activité».


  1. Certamente comunque cercheremo di fondarci sui testi dello stesso Tommaso, dove il loro significato sia univoco, e sulle tesi comunemente sostenute dai tomisti contemporanei, con particolare riferimento al Gilson, a Maritain, alla Vanni Rovighi, e, in misura minore al p. Garrigou-Lagrange. ↩︎

  2. Pensiamo soprattutto all’indirizzo agostiniano-francescano, a Blondel, a certa fenomenologia, alla filosofia dialogica. ↩︎

  3. Cfr. Maritain, Les degrés du savoir, in vol. IV Oevr.Compl., Fribourg-Paris 1983, p. 462 (tr. It. I gradi del sapere, Morcelliana, p. 140). ↩︎

  4. Riprendiamo questo termine dal Blondel (in particolare ne Le point de départ de la recherche philosophique, Annales de Philosophie chrétienne, 1906). Tale termine, assolutamente preso, è evidentemente troppo forte: è chiaro che S. Tommaso non è Democrito, e che la sostanza da lui concepita, a differenza dell’atomo dei materialisti, ha una certa complessità; solo che questa è decisamente minore che nell’indirizzo agostiniano-francescano, con cui soprattutto qui stiamo istituendo un confronto. ↩︎

  5. Ci è stato obiettato che anche per S. Tommaso la sensazione umana è qualcosa di strutturalmente differente da quella degli animali, e nella misura in cui questa affermazione dice qualcosa di generico, non possiamo che osservare che non potrebbe essere altrimenti. Ma noi cerchiamo, in tutto questo contributo, di definire il tomismo in rapporto non ad Aristotele o alla filosofia greca, ma ad S.Agostino e all’indirizzo che a lui si può richiamare. E da questo punto di vista la concezione della sensazione pone una prima importante differenza tra il tomismo e quell’indirizzo, che invece considera la stessa sensazione umana permeata di intelligenza, atto fondamentalmente dell’anima, più che del composto. Del resto l’obiezione che mi veniva fatta verteva significativamente sulla differenza tra la cogitativa e l’aestimativa, per documentare il dislivello tra sensazione umana e animale: ma si tratta di un senso interno, che lascia impregiudicata la questione dei sensi esterni. Di differenza tra l’uomo e gli animali S. Tommaso parla solo a proposito dei sensi interni, mentre «quantum ad formas sensibiles non est differentia inter hominem et alia animalia: similiter enim immutantur a sensibilibus exterioribus» (Ia, 78, 4). ↩︎

  6. Ver, q. 1, aa. 3 e 12; cfr. STh, I, q. 16, a. 2. Cfr. Th, 290, e EF1, 162. ↩︎

  7. Secondo il noto adagio abstrahentium non est mendacium↩︎

  8. Ver, q. 1, a. 3, ISTh, q. 17, a. 3, e q. 85, a. 6. ↩︎

  9. Cfr. ad esempio Oxon, l. I, d. 3, q. 7, nn. 5, 14, 20; «videtur quod pars intellectiva habeat principaliorem causalitatem respectu intellectionum modo nobis naturaliter convenientium» (ibi, q. 3; 2; 559); De Anima, q. 12, n. 7; Quodlib, q. 15, n. 6. Si veda anche E. Gilson, Jean Duns Scot, Vrin, Paris 1952, cap. VIII, pp. 512 sgg., E.Bettoni, Duns Scoto, Brescia 1946, pp. 147/55. ↩︎

  10. EF1, p. 147. ↩︎

  11. EF1, p. 147. ↩︎

  12. Uno dei due modi con cui si può astrarre, dice il Dottore Angelico, è quello di considerare una certa caratteristica prescindendo completamente da tutto il resto, «nihil considerando de alio», come accade nel caso del colore di una mela, astratto dalla mela stessa, «si consideremus colorem et proprietates eius, nihil considerando de pomo colorato»STh, Ia, q. 85, a. 1, ad 1um.È evidente peraltro che non si tratta di una assoluta indipendenza del singolo concetto, come sotto diciamo: ancora una volta ricordiamo che stiamo istituendo un paragone con un altro indirizzo di pensiero, in rapporto al quale ci sentiamo autorizzati ad accentuare quella che è di per sé una tendenza, un orientamento di S. Tommaso. ↩︎

  13. Una puntualizzazione particolarmente autorevole della questione del concetto come segno lo troviamo in Maritain, Les Degrés du savoir, annexe I, «À propos du concept» (DS, 955 sgg.). Maritain vi polemizza col padre Roland-Gosselin, che in una recensione del suo Réflexions sur l’intelligence aveva criticato la tesi che in S. Tommaso il concetto fosse al contempo segno della cosa conosciuta e presenza della stessa cosa allo spirito. ↩︎

  14. I tomisti più fedeli alle posizioni del Maestro, ad esempio la Vanni Rovighi, hanno definito «mediato» il realismo dei tomisti che, più sensibili alla mentalità moderna e contemporanea, hanno negato l’immediatezza dell’intuizione intellettuale dell’essere, ponendo anzitutto una originaria percezione della coscienza. Tra questi autori ricordiamo il card. Mercier, Giuseppe Zamboni, Maréchal e in qualche modo lo stesso Roland-Gosselin; per una panoramica su questo tema è ancora utile Gnoseologia della Vanni Rovighi (Morcelliana Brescia). ↩︎

  15. Oxon., l.I, d. 3, pars 3, q. 2 (ed. Vaticana 1954, pp. 245 sgg.) «non species, sed intellectus intelligit». ↩︎

  16. Tant’è che per Tommaso la simplex apprehensio non può gradatamente approssimarsi alla cosa, non potendo essere solo approssimativamente vera, ma o è tutto (quello che dovrebbe essere), o non è niente, cfr. STh, Ia, q. 17, a. 3: «circa quod quid est intellectus non decipitur»; «in cognoscendo quidditates simplices non potest intellectus esse falsus: sed vel est verus, vel totaliter nihil intelligit». ↩︎

  17. Cfr. anche STh, I, q. 84, a. 7; q. 88, a. 3. ↩︎

  18. DS cap 5º, §. 3. ↩︎

  19. EF1, p. 31. Cfr ibi, p. 136, n. 4. ↩︎

  20. Ibidem. Tuttavia dalla stessa autrice altrove questo contenuto è definito (EF1, p. 137) come essenza, e l’essenza, osserviamo noi, è «ciò per cui una cosa è così». ↩︎

  21. La filosofia di S. Tommaso, tr. It. Paoline 1966, p. 45/6. ↩︎

  22. Si potrebbero vedera anche le se guenti: «Omnia congoscentia cognoscunt implicte Deum in quolibet cognito» (DeVer, q. 22, a. 2, ad 1um); «Deus autem dupliciter aliquid homini manifestavit. Uno modo infundendo lumen interius, per quod homo cognoscit (Psal 42, 3: emitte lucem tuam et veritatem tuam). Alio modo proponendo suae sapientiae signa exteriora, scilicet sensibiles creaturas (Eccl, 1, 8: effundit illam, scilicet sapientiam, super omnia opera sua). Sic ergo Deus illis manifestavit, vel interius infundendo lumen, vel exterius proponendo visibiles creaturas in quibus, sicut in quodam libro, Dei cognitio legeretur (In epistula Pauli ad Romanos, c.1, lectio 6)». ↩︎

  23. Certo «propter Deum autem alia cognoscuntur» -ma- «non sicut propter primum cognitum, sed sicut primam cognoscitivae virtutis causam» (Ia, q. 87, a. 3, ad 2um).Si veda in particolare Ia, q. 84, a. 5, per cui conosciamo mediante la partecipazione alla Luce divina «sicut in cognitionis principio, sicut si dicamus quod in sole videntur ea quae videntur per solem. Et sic necesse est dicere quod anima humana omnia cognoscat in rationibus aeternis, per quarum partecipationem omnia cognoscimus. Ipsum enim lumen intellectuale quod est in nobis, nihil aliud est quam partecipata similitudo luminis increati, in quo continentur rationes aeternae». ↩︎

  24. «Oportet ponere in ipsa anima humana (nostra sottolineatura) aliquam virtutem ab illo intellectu superiori participatam, per quam anima humana facit intelligibilia in actu» (Ia, q. 79, a. 4). ↩︎

  25. Si veda ad esempio lo stesso articolo 4 della q. 79, qui sopra citato («sicut et in aliis rebus naturalibus perfectis […] sunt propriae virtutes inditae singulis rebus perfectis, ab universalibus agentibus derivatae»). ↩︎

  26. In particolare Ia, q. 82, a. 3, ma anche IIa IIae, q. 23, a. 6; 2Sent, d. 25, a. 2, ad 4um, 3CGent, c.26). ↩︎

  27. q. 19, a. 3, ad 3um («voluntas quodammodo movet rationem») e q. 83, a. 3 («alio modo voluntas praecedit intellectum, secundum ordinem motionis ad actum»). ↩︎

  28. Ia IIae, q. 58, a. 5. ↩︎

  29. In modo diretto, quando si tratta di verità pratica-affettiva, in modo indiretto quando si tratta di verità «pure speculativa», IIaIIae, q. 162, a. 3, ad 1um. ↩︎

  30. Ia IIae, q. 48, a. 3. ↩︎

  31. IIaIIae, q. 15, a. 1 e 3: il peccato infatti priva l’uomo del pieno uso del lumen naturalis rationis↩︎

  32. Ia IIae, q. 33, a. 3: le «delectationes corporales impediunt usum rationis», mentre una «delectatio» spirituale («cum aliquis delectatur in contemplando vel ratiocinando») può aiutare a ben conoscere, in quanto favorisce l’attenzione verso l’oggetto da considerare. ↩︎

  33. È pensabile una filosofia che non sia tentativo di rapportare ogni questione ad una unità suprema? A nostro avviso no, perchè la stessa essenza del filosofare è nella ricerca del senso unitario della realtà. ↩︎