1. Umanesimo dell’altro uomo
Per Levinas un quesito rimaneva soltanto accennato nel Sartre di L’esistenzialismo è un umanismo1 e addirittura interdetto nell’Heidegger de la Lettera sull’umanismo:2 quale posto trova Autrui — anzi, il per altri — nel dibattito su umanismo e antiumanismo?
Levinas sembra tutto teso, con la sua paradossale filosofia, a risvegliare il pensiero occidentale da quel letargo «d’immanenza» nel quale sembra essersi adagiato. Il per sé sartriano, da parte sua, pare cullarsi nell’illusione di raggiungere il proprio compimento attraverso la messa in pratica della sua dimensione costitutiva, il potere di nullificarsi. Ma di quale luce si irradia un umanismo, la cui sola sicurezza sta nel porre l’esistenza prima dell’essenza e che, in fondo, rimane irretito nella progettualità in cui il per sé è gettato?
Non promuove, forse, un’idea di uomo, che mettendo al centro l’animal rationale, in virtù della sua libertà, lo imprigiona in una condanna dalla quale non è possibile riscattarsi e non meno gravosa di quella toccata a Sisifo? Sartre non ci consegna, dunque, l’immagine di una soggettività antinomicamente costretta ad essere libera? Non siamo noi — tiene a precisare l’autore de L’esistenzialismo è un umanismo — soli e senza scuse?
Ciò che conta non è il contenuto della scelta dettata dai giudizi saldi e precisi dell’intelletto, ma l’inevitabilità del dover scegliere, prescindendo da qualsiasi criterio. Secondo Sartre, non c’è una morale in generale, ma un unico paradossale imperativo: «tu sei libero, scegli cioè inventa».3 Ma così facendo, l’uomo non resta irretito nelle proprie opere?
Precisa Levinas, proprio ribattendo alle tesi sartriane:
Il soggetto non risalta sull’essere per una libertà che lo renderebbe padrone delle cose ma per una suscettibilità preoriginaria, più antica dell’origine, suscettibilità provocata nel soggetto senza che mai la provocazione si sia fatta presente o logos che si offra alla assunzione o al rifiuto e si ponga nel campo bipolare dei valori. Per tale suscettibilità, il soggetto è responsabile della sua responsabilità e incapace di sottrarsi ad essa senza conservare la traccia della sua diserzione.4
Paradossalmente, per Levinas, la passività pone il soggetto anteriormente alla dicotomia libero/non libero:
L’abbrividire per opera del bene, la passività che è nel subire il bene, è una contrazione più profonda di quella che si richiede nel movimento delle labbra che la imitano, quando articolano il sì. L’etica fa qui il suo ingresso nel discorso filosofico, rigorosamente ontologico da principio, come un’estrema inversione delle sue possibilità. E infatti, proprio muovendo da una passività radicale della soggettività, siamo potuti giungere alla nozione di una responsabilità più vasta della libertà (mentre solo la libertà avrebbe dovuto poter giustificare e limitare le responsabilità), di una ubbidienza anteriore al ricevimento di ordini; movendo da questa concezione an-archica della responsabilità, l’analisi — forse per abuso linguistico — ha nominato il Bene.5
Levinas intende ricondurre il senso alla sua dimensione autentica che è quella pre-originaria: aldilà della contrapposizione tra libertà e non libertà (versus Sartre) e aldilà — versus Heidegger — di una soggettività tale che: «nella sua esistenza, ne va di mezzo questa esistenza stessa» (Sein und Zeit) o che, una volta proclamata la fine della metafisica, abita la luminosa radura dell’essere (Lettera sull’umanismo).
Si tratta di pervenire ad un’ulteriore ulteriorità della soggettività, sfondando le barriere dell’ontologia che si sono erette sempre più alte per difendere la centralità di un Moi, il quale sia che lo si pensi nelle vesti cartesiane dell’io penso (dunque io posso), sia in quelle husserliane dell’io trascendentalistico, sia in quelle sartriane del per sé o in quelle heideggeriane del Dasein o del pastore dell’essere non ha mai scoperto la sua vera identità, l’identità — dice Levinas — di un eletto. Le Moi è sempre stato sordo a quest’interrogativo, umile e alto come il volto di altri: «Se non rispondo di me, chi è che risponderà di me? Ma, se rispondo solo di me, sono ancora io?».6 L’Io occidentale, con la sua costante brama di autoaffermarsi, ha continuato il suo ritorno a Itaca, preferendo il conatus essendi all’«Opera», la quale
pensata radicalmente è un movimento del Medesimo verso l’Altro che non ritorna mai al Medesimo. L’opera, pensata fino in fondo, esige una generosità radicale del movimento che nel Medesimo va verso l’Altro. E per conseguenza, esige l’ingratitudine dell’Altro. La gratitudine sarebbe precisamente il ritorno del movimento alla sua origine.7
Levinas non esita ad indicare nella malia autoreferenziale l’essenza stessa della filosofia occidentale e argomenta:
Anche se la vita precede la filosofia, anche se la filosofia contemporanea, che vuole essere antiintellettualistica, insiste sull’anteriorità dell’esistenza rispetto alla essenza, della vita rispetto all’intelligenza, anche se in Heidegger, la gratitudine verso l’essere e l’ubbidienza si sostituiscono alla contemplazione, la filosofia contemporanea si compiace nella molteplicità dei significati culturali; e nel gioco infinito dell’arte, l’essere si libera dal peso dell’alterità. La filosofia sorge come una forma sotto la quale si palesa il rifiuto di impegnarsi nell’Altro, l’attesa preferita all’azione, l’indifferenza verso gli altri, l’allergia universale della prima infanzia dei filosofi.8
L’uomo, dunque, per Levinas, quale traspare dalle immagini che ne dà la filosofia contemporanea, non ex-iste autenticamente. Il suo è uno slancio privo di verticalità: nello sforzo continuo di tematizzare, di farsi, di com-prendere, rimane imbrigliato nell’indeterminato e spettralmente neutro territorio de il y a. Dà per scontato la socialità, ricavandola analogicamente come Husserl (ci si riferisce alla nozione di «appresentazione analogica» contenuta nella Quinta Meditazione cartesiana), percependola luciferinamente come in Sartre, o semplicemente al proprio fianco nel mondo (’l’essere con’) come nell’Heidegger di Sein un Zeit. Ritorna, per Levinas, in questi pensatori lo stesso paradigma, quello del verbo essere: da lì scaturisce, pur declinandosi in varianti umanistiche o antiumanistiche, il senso. È proprio contro questa convinzione che si pone l’intero contributo levinasiano.
L’ontologia è davvero fondamentale? L’egologia e il primato dell’identico schiudono esaurientemente la significatività ultima, oppure, non costituiscono semplicemente il derivato di un evento assolutamente stra-ordinario? La pudica signoria del volto che mi convoca e mi invoca, non stravolge, forse, la coscienza destabilizzandola? Epochizzare la «sincronia» non è forse, secondo Levinas, l’unico modo per virare aldilà dell’essere e per cogliere nel volto che parla, che non si manifesta, ma significa dietro la presenza, la pre- originarietà an-archica? Cogliere nella diaconia l’essere stesso dell’io, nella liturgia la gratuità nei confronti di Altri vuol dire introdurre uno psichismo anteriore e sempre latente in qualsiasi atto intenzionale, benché sussista mio malgrado e, proprio per questo, «declinato all’accusativo».
Umanismo dell’altro uomo rappresenta, per così dire, il punto di approdo dell’antropologia levinasiana: consacrando l’etica come filosofia prima e assegnando al sapere un ruolo secondario e derivato, costituisce altresì il testo in cui si acutizza maggiormente (non dimentichiamoci Alcune riflessioni sull’hitlerismo del ’34: il destinatario critico è il medesimo) il distacco da Heidegger. Pur riconoscendogli il merito indiscusso di aver introdotto la differenza ontologica, gli rimprovera il progressivo abbandono della soggettività che trova il suo acme negli ultimi scritti e le condizioni di possibilità di questa radicalizzazione già in Sein und Zeit.
In una intervista del 1976 — e raccolta in Tra noi — Levinas è molto chiaro in proposito:
In Heidegger la relazione etica, il Miteinandersein, l’essere-con-altri, non è che un momento della nostra presenza del mondo. Non occupa il posto centrale. Mit è sempre essere-accanto-a… non è l’approccio al Volto, è zusammensein, forse zusammenmarschieren è […] non potrei disconoscere la grandezza speculativa di Heidegger. Ma nelle sue analisi gli accenti sono spostati altrove. Ripeto, sono analisi geniali, ma cosa significa nella sua teoria della Befindlichkeit la paura per altri? Secondo me è un momento essenziale: io penso appunto che temere Dio significhi anzitutto avere paura per altri. La paura per altri non rientra nell’analisi heideggeriana della Befindlichkeit perché in questa teoria — molto interessante, della doppia intenzionalità — ogni emozione, ogni paura è in fin dei conti emozione per sé, paura del cane ma angoscia per sé. E il timore per l’altro? […]
Evidentemente può essere interpretato come il timore per sé, con il pretesto che temendo per l’altro io posso temere di trovarmi nella sua situazione. Tuttavia non è la stessa cosa il timore per l’altro: la madre che ha paura per il bambino, o anche ciascuno di noi che ha paura per l’amico, che teme per l’altro. (Ma qualsiasi altro uomo è amico, capisce?). Come, per caso, certi versetti del capitolo 19 del Levitico che terminano con «E tu temerai Dio», riguardano i divieti di cattiva azione relativa all’altro uomo. La teoria della Befindlichkeit non è forse troppo sbrigativa qui?9
Ciò che Levinas rimprovera ad Heidegger è il ruolo di com-prensione dell’essere che riserva al Dasein, in nome di quell’oblio del quale ritiene colpevole l’intera filosofia occidentale. Infatti si tratta di interrogare un chi, il quale, pur godendo del primato ontico, è relegato al compito di interlocutore senza interlocutori nella sua Geworfenheit, ma anche capace di ostentare potenza, triste preludio dell’orrore nazista e dell’adesione del filosofo tedesco al regime — un errore imperdonabile, dirà Levinas.
Ma sarà con la Lettera sull’umanismo del ’46 che, decretando la sudditanza dell’umano all’essere neutro, potrà ritenersi compiuta in Heidegger la pressoché totale rimozione del soggetto, per lasciare il posto all’Ereignis des Seins — all’apertura dell’essere come evento originario.
Ma l’apertura — precisa Levinas —
non è più l’essenza dell’essere che si apre per mostrarsi, non è la coscienza che si apre alla presenza aperta e affidata a lei. L’apertura è il denudamento della pelle esposta alla ferita e all’oltraggio. L’apertura è la vulnerabilità di una pelle offerta, nell’oltraggio e nella ferita, al di là di tutto ciò che si possa mostrare, al di là di tutto ciò che dell’essenza dell’essere possa esporsi alla comprensione e alla celebrazione. Nella sensibilità si pone allo scoperto, si espone un nudo più nudo di quello della pelle che, forma e bellezza, ispira le arti plastiche: nudo di una pelle offerta al contatto alla carezza che sempre — persino equivocabilmente nella voluttà — è sofferenza per la sofferenza dell’altro.10
Si profila, pertanto, una particolare tipologia di umanismo, una nuova immagine della soggettività: essa è mossa dal desiderio dell’assolutamente Altro, il quale ha lasciato una traccia nel volto senza forme dell’orfano, della vedova, dello straniero, eleggendomi ad una responsabilità «che non deve nulla alla mia libertà, è la mia responsabilità per la libertà degli altri».11 È una soggettività che ha avuto il privilegio di essere stata scelta, che ha ricevuto, in dono, un ordine o, se si preferisce dei comandamenti:
Si legge nel Salmo 119, 10: «Sono straniero sulla terra; non mi nascondere i tuoi comandamenti» […] La differenza tra l’io e il mondo, si prosegue come obbligazione verso gli altri. Eco del dire permanente della Bibbia: la condizione o — incondizione — di stranieri e di schiavi nel paese d’Egitto avvicina l’uomo al suo prossimo. La differenza che si apre tra l’io e il sé, la non-coincidenza dell’identico, è una primordiale non-indifferenza riguardo agli uomini.12
L’essenza è squarciata: il soggetto è senza identità, passività che si accresce; l’esistenza non è più un da farsi in itinere, né la possibilizzazione di ogni possibilità, né lo stare estatico nella Lichtung dell’essere.
L’Infinito non è più posto tra parentesi, passibile di tematizzazione o da raggiungersi, una volta pervenuti alla verità dell’essere. Che lo si chiami Dio o Bene — ma già nominandolo lo si tradisce, costretti per abuso linguistico a farlo «entrare nel Detto» — sta in un’anteriorità pre-originaria e pre-logica aldilà o al di qua dell’essere.
Umanesimo dell’altro uomo è uno scritto in cui Levinas invita a intraprendere un rinnovamento radicale del pensiero, a partire dalla messa in discussione del primato dell’identico — abbia esso la forma del «per sé» sartriano o della Differenza heideggeriana.
Forse proprio in questo, osserva Levinas, errò la filosofia di Atene: audace sì, ma non così coraggiosa da mettere in discussione, quella che è divenuta una questione incontestabile: la convergenza tra pensiero ed essere, ovvero il primato dell’ontologia, il misconoscimento dell’altro.
Pertanto l’usurpazione di un posto al sole — l’autoaffermazione già stigmatizzata da Pascal13 del conatus essendi — è divenuta una prassi e la contestazione di questa teoria decisamente respinta e messa «all’indice». In opposizione a questa sorta di a-priori, Levinas scrive:
Essere o non essere — è proprio questo il problema? È questa la prima e ultima questione? L’essere umano consiste davvero nello sforzarsi d’essere e la comprensione del senso dell’essere — la semantica del verbo essere — è davvero la prima filosofia che si impone ad una coscienza?, la quale sarebbe dall’inizio sapere e rappresentazione, e manterrebbe la propria baldanza nell’essere-per-la-morte?, si affermerebbe come lucidità di un pensiero che pensa fino alla fine, sino alla morte e perfino nella sua finitudine — già o ancora buona e sana coscienza che non si interroga nel suo diritto d’essere — sarebbe o angosciata o eroica nella precarietà della sua finitudine? Forse che invece la prima questione non è sollevata dalla cattiva coscienza? La cattiva coscienza — instabilità diversa da quella con cui mi minacciano la mia morte e la mia sofferenza — pone la questione del mio diritto all’essere che è già la mia responsabilità per la morte di altri, interrompendo la spontaneità, senza circospezione, della mia ingenua perseveranza.
Il diritto all’essere e la legittimità di questo diritto non si riferiscono in fin dei conti all’astrattezza delle regole universali della legge, ma in ultima analisi, alla stregua di questa stessa legge e della giustizia, al per l’altro della mia non-indifferenza alla morte alla quale — oltre la mia fine — s’espone nella sua stessa dirittura il volto altrui.14
L’interrogativo sul perché l’essere e non il nulla, — che soggiace tanto all’umanismo sartriano quanto all’antiumanismo heideggeriano — viene in Levinas sostituito dal seguente: come si giustifica l’essere? L’etica è la sola risposta — e l’umanismo dell’altro uomo la sua deontologia. Ma questa soggezione della soggettività, la quale nella sua opera si approssima ad altri — traccia enigmatica o kenosi divina — fino a farsi ostaggio e infinizione dell’infinito nella sua insostituibilità e difficile libertà, non ci prospetta, forse, un’etica della santità? L’inevitabile ritorno al detto, alla sincronia, al diritto non rischia di violare la purezza del Dire anarchico, riservandogli la disillusa qualifica di situazione utopica oppure è davvero possibile e pensabile una socialità all’insegna della saggezza dell’amore? E ancora la risposta che Levinas offre in merito al dibattito tra umanismo e antiumanismo non ci prospetta, toccando il tema della giustificazione del rapporto ultimo tra etica e metafisica, la necessità di indagare il rapporto di Levinas con Kant?
2. Un’ascendenza kantiana?
Dio, la morte e il tempo è un testo che raccoglie gli ultimi due corsi ufficiali tenuti da Levinas alla Sorbona nell’anno accademico 1975-1976. Sono due cicli di lezioni in cui Levinas affronta temi classici della storia della filosofia: La morte e il tempo, Dio e l’ontoteologia. Un confronto — o meglio, un corpo a corpo teoretico — innanzitutto con Heidegger e Bloch, ma non esentandosi dal dialogare anche Aristotele, Descartes, Kant, Hegel, Husserl e Fink.15
Il nostro interesse per questo libro nasce dal fatto che nelle sue pagine — in cui risuona il fascino della lezione orale — ci pare si possa sorprendere il senso ultimo della riabilitazione levinasiana della metafisica in quanto etica — al di là della stessa lettera del testo, ove apparentemente compare il concetto di filosofia prima ma non la parola metafisica.
Entriamo in medias res. I passi che più ci interessano sono dove il confronto con Heidegger diventa una discussione con la sua lettura di Kant, canonizzata nel celebre Kant e il problema della metafisica.16 Un testo, scrive Levinas, ove l’intera filosofia kantiana è ridotta «alla prima esposizione radicale della finitezza dell’essere».17
Ma davvero la filosofia kantiana si lascia ridurre in questa sfera d’immanenza? Una domanda ove si cela una domanda ancor più radicale: la questione dell’essere è davvero, come crede Heidegger e con lui l’intera tradizione filosofica che pure lui critica, la domanda per eccellenza metafisica? Un interrogativo che mostra come in Levinas la riabilitazione della metafisica faccia tutt’uno con la riformulazione della stessa Grundfrage:
E se l’umanità non si esaurisce nel servizio dell’essere, allora dietro all’interrogativo: che cos’è l’essere?, dietro all’angoscia per la mia morte, non sorge forse la mia responsabilità per l’altro (nella sua enfasi: la mia responsabilità per la morte dell’altro, la mia responsabilità in quanto sopravvissuto)?18
Come dire: non la questione dell’essere è alla base dello stupore filosofico, ma la questione che cos’è l’uomo, che cosa posso fare per lui, nella sua anteriorità ontologica ed etica? E Levinas compie questo spostamento appellandosi proprio a Kant, versus Heidegger:
Ma dei quattro interrogativi che, ad avviso di Kant, si pongono in filosofia (Cosa posso sapere? Cosa debbo fare? Cosa ho il diritto di sperare? Che cos’è l’uomo), il secondo sembra superare il primo di tutta l’ampiezza dei due seguenti. L’interrogativo cosa posso conoscere? porta alla finitezza, ma cosa debbo fare? e cosa ho il diritto di sperare? si spingono oltre e in ogni caso non verso la finitezza. Tali interrogativi non si riducono alla comprensione dell’essere, ma riguardano il dovere e la salvezza dell’uomo.19
Come è possibile un senso senza ancorarsi all’idolo rassicurante dell’essere? Anzi, il senso non ha la sua radice nel comandamento etico? Con un’audacia ermeneutica tutta rabbinica,20 Levinas giunge a ritrovare un fondamento per questo suo azzardo teoretico addirittura nella Dialettica trascendentale kantiana:
Nel secondo interrogativo [Cosa debbo fare?], se lo si comprende formalmente, non vi è alcun riferimento all’essere. Che il senso possa significare in assenza di un riferimento all’essere, senza far ricorso all’essere, senza comprensione di un dato essere, è proprio questo, il grande contributo della Dialettica trascendentale della Kritik der reinen Vernunft.21
Ma questo Kant letto da Levinas non ha una tonalità affatto giudaica? Quasi che per Levinas il primato del pratico kantiano fosse una variante della dottrina rabbinica del primato dell’ortoprassi, dei mizwot:22
Kant rimette in questione la finitezza passando al piano pratico. C’è una modalità della significazione pratica che resta — a lato dell’accesso teorico all’essere — accesso a un senso irrifiutabile, accesso ad una significazione in cui il dopo-morte ha le sue proprie motivazioni. Vi è indipendenza totale del pratico rispetto all’accesso cognitivo all’essere […] Tratteniamo dal kantismo l’idea di un senso che non è dettato da una relazione con l’essere. Non a caso questo riferimento viene da una morale — che certamente si dice razionale in ragione dell’universalità della massima —, non a caso questo modo di pensare un senso al di là dell’essere è il corollario di un’etica.23
Ma non è paradossale che Levinas sembri legittimare la sua riabilitazione della metafisica in quanto etica — in quanto antropologia, essendo la Grundfrage divenuta: Che cos’è l’uomo?, Cosa debbo fare? — appoggiandosi alla morale kantiana che, nel suo rivendicare innanzitutto l’autonomia è sideralmente distante dall’eteronomia dell’etica levinasiana?24 Un paradosso, ci sembra, apparente. Infatti, l’imperativo kantiano non è una radicalizzazione della Regola d’oro giudaica? «Non fare al tuo prossimo ciò che detesteresti ti fosse fatto».25 Ma allora: l’eteronomia dell’etica levinasiana — il suo fondarsi sul primato dell’Altro: la vedova, l’orfano, il povero — non è un compimento di quel che di implicitamente giudaico v’è nella stessa etica kantiana?
In fondo, l’affermazione della metafisica in quanto etica non è un’interpretazione del «non detto» della stessa Dialettica trascendentale — nel suo riaffermare l’esigenza dell’oltre metafisico dopo la distruzione fattane nell’Analitica?26 Appunto, in termini levinasiani, un senso che non s’appoggi sull’essere ma sul dover essere — in termini rabbinici: sul fare comandato dai mizwot (i precetti). Scrive Levinas, nella lezione significativamente intitolata Kant e l’ideale trascendentale:
Ciò che Kant scopre nella Kritik der reinen Vernunft, e in particolare nella «Dialettica trascendentale», è il fatto che il pensiero, senza per questo cadere nell’arbitrio, ma al contrario proprio per soddisfare i bisogni della ragione, può non concludere nell’essere. Si tratta delle idee trascendentali che si occupano «dell’incondizionato (che) rende possibile la totalità delle condizioni» e mirano a «l’unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale» […] Non si tratta qui di dilatare la nozione di essere al di là delle cose, ma di porre un interrogativo radicale: L’umano non è forse altrimenti che essere? L’essere è forse ciò che interessa di più l’uomo?27
Non appare quindi casuale che il seguito di Dio, la morte e il tempo rappresenti una ricapitolazione delle categorie di Altrimenti che essere, ovvero del testo, dove Levinas ha giustificato le categorie non ontologiche di una soggettività costitutivamente etica: «La significazione del Dire», «La soggettività etica», «La soggettività come an-archia», «Libertà e responsabilità», «Lo stra-ordinario della responsabilità», «La sincerità del Dire», «Gloria dell’Infinito e testimonianza», «Testimonianza ed etica», «Dalla coscienza al profetismo», «Fuori dall’esperienza: l’idea cartesiana dell’Infinito», «Un Dio “trascendente fino all’assenza”».
Non sta qui la meta del tentativo levinasiano di partire da Atene per ritrovare le condizioni stesse della filosofia — della meta-fisica — a Gerusalemme? Un cammino che è giunto a ridefinire l’oggetto stesso dell’interrogazione filosofica: non più «Che cos’è l’essere?», ma «Cosa è l’altro uomo?». Una ridefinizione che si ripercuote sull’identità stessa della metà tà physikà: è sì ancora un sapere dell’Oltre, ma in quanto ora l’Oltre è nel volto dell’Altro — epifania del divino in quanto sguardo di colui che mi interpella nella sua anteriorità e indeducibilità. In questo senso ci pare che l’impresa levinasiana metta capo ad un chiasmo — meglio: ad un circolo rabbinicamente ermeneutico — tra etica, filosofia prima e antropologia. Ma non ne va qui dello stesso giudaismo di Levinas? La cosa stessa del suo pensiero non tocca l’essenza stessa del suo ebraismo?
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J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, tr. di G. Re Mursia, Mursia, Milano 1990. Su Sartre cfr. S. Moravia, Introduzione a Sartre, Laterza, Bari 1982. ↩︎
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M. Heidegger, Segnavia, a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, pp. 267-315. Su Heidegger, G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Bari 1980. ↩︎
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J.-P. Sartre, L’esistenzialismo è un umanismo, cit., p. 49. Sulla morale sartriana cfr. le belle pagine di M. Meletti Bertolini, La conversione all’autenticità. Saggio sulla morale di J.-P. Sartre, Franco Angeli, Milano 2000. ↩︎
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E. Levinas, L’umanesimo dell’altro uomo, a cura di Alberto Moscato, il Melangolo, Genova 1985, p. 105. ↩︎
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Ivi, p. 107. ↩︎
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Ivi, p. 117. ↩︎
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Ivi, p. 63. ↩︎
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Ivi, pp. 61-62. ↩︎
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E. Levinas, Tra noi. Saggi sul pensare-all’altro, a cura di E. Baccarini, Jaca Book, Milano 1998, «Filosofia, giustizia e amore», pp. 137-156, qui pp. 151-152. ↩︎
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Umanesimo dell’altro uomo, cit., pp. 126-127. ↩︎
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Ivi, p. 110. ↩︎
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Ivi, p. 132. ↩︎
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Cfr. l’esergo di Altrimenti che essere o al di là dell’essenza, a cura di Silvano Petrosino e Maria Teresa Aiello, con una introduzione di Silvano Petrosino, Jaka Book, Milano 1998. ↩︎
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E. Levinas — A. Paperzak , Etica come filosofia prima, a cura di F. Ciaramelli, Guerini e associati, Milano 1989, p. 59. ↩︎
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Per una presentazione analitica dei due corsi, cfr. le penetranti osservazioni contenute nella Introduzione di S. Petrosino all’ed. citata del testo: pp. 9-37, nonché la Postfazione di Jaques Rolland, pp. 301-315. L’indagine più analitica sul tema della temporalità in Levinas è contenuta nel breve ma chiarificante saggio di G. Sansonetti, L’altro e il tempo. La temporalità nel pensiero di Emmanuel Levinas, Cappelli, Bologna 1985. ↩︎
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M. Heidegger, Kant e il problema della metafisica, ed. it. a cura di V. Verra, Bari, Laterza 1987. Cfr. G. Sansonetti, Heidegger e Levinas, Morcelliana, Brescia 1998. ↩︎
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Dio, la morte e il tempo, cit., p. 103. ↩︎
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Ivi, pp. 102-103. ↩︎
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Ivi, p. 103. ↩︎
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Sulla particolare ermeneutica levinasiana, nella quale si intrecciano fino a con-fondersi istanze talmudiche e imperativi più propriamente filosofici, ha scritto pagine molto perspicue Franco Camera, L’ermeneutica tra Heidegger e Levinas, Morceliana, Brescia 2001. ↩︎
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Ivi, p. 104. Cfr. E Levinas, «Notes sur le sens», in Id., De Dieu qui vient à l’idée, Vrin Paris 1992, pp. 231-257; Id., «Sulla significatività del senso», in Fuori dal Soggetto, ed. it. a cura di F.P. Ciglia, Marietti, Genova 1992. pp. 93-99, ove si ha una stringente deduzione di come il «volto sia significatività dell’al di là». Quasi che, potremmo dire, il Volto in Levinas prenda il posto dell’Idea kantiana nell’alludere alla Trascendenza. ↩︎
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Cfr., P. De Benedetti, Introduzione al giudaismo, cit., pp. 64 ss. ↩︎
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Dio, la morte e il tempo, cit., pp. 104-110. ↩︎
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Pagine molto belle sull’etica levinasiana tra autonomia ed eteronomia si possono trovare in E. Baccarini, Levinas. Soggettività e Infinito, cit., pp. 156 ss. ↩︎
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Cfr. P. Ricœur, Tra filosofia e teologia: la Regola d’oro in questione, in «Humanitas» 2 (1995), pp. 269-276. Sull’etica kantiana in rapporto al giudaismo è da ricordare il classico libro di H. Cohen, Religione della ragione dalle fonti dell’ebraismo, ed. it. a cura di A. Poma, San Paolo, Cinisello Balsamo (Mi) 1994. G. Penati, in una nota alla sua edizione commentata di Difficile libertà (cit., p. 83, n. 15) parla di una stretta vicinanza tra l’interpretazione levinasiana dell’ebraismo come «etica» e quella di Cohen. ↩︎
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Per i problemi connessi al rapporto tra Analitica e Dialettica trascendentale: G. Riconda, Invito al pensiero di Kant, Mursia, Milano 1996. ↩︎
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Ivi, pp. 214- 216. ↩︎