Il surplus: dalla pulsione alla moneta. Etica ed economia alla luce di Mauss, Lévi-Strauss, Lacan e Klossowski

Introduzione

L’essere umano si scambia cose (doni, merci, denaro) così come si scambia parole. Secondo il fondatore della scienza economica, Adam Smith, la prima attitudine deriverebbe dalla seconda. C’è insomma un’inclinazione degli esseri umani a scambiarsi segni. Ma la domanda sulle ragioni di questa inclinazione allo scambio ha avuto molteplici risposte. Marcel Mauss e Claude Lévi-Strauss hanno messo in luce la natura originariamente simbolica dello scambio, di cui quello economico è solo una declinazione particolare. Le ragioni economiche per cui si scambia sarebbero dunque uno strato superficiale che ne nasconde uno più profondo. Jacques Lacan e Pierre Klossowski hanno invece puntato il faro su uno strato ancora più profondo di quello simbolico e che potremmo chiamare «strato pulsionale». Nella loro prospettiva, ad animare il gioco simbolico dello scambio di segni è la pulsione. Se infatti, come vuole la psicoanalisi lacaniana, il soggetto è un gingillo della pulsione, il feticcio che le serve per compiere il proprio giro attorno al vuoto,1 l’opera complessiva di Klossowski, e in particolare La moneta vivente, suggerisce che la sfera economica – con la sua produzione di oggetti, i suoi scambi, i suoi criteri di efficienza e misurazione quantitativa – è la giostra grazie a cui la pulsione può girare, trovando in questo giro la propria soddisfazione. L’economia propriamente detta – ossia, la produzione e lo scambio di beni – lungi dal sorgere per soddisfare bisogni materiali, non sarebbe altro che un simulacro dell’economia simbolica, che è a sua volta un riflesso dell’economia pulsionale: il medesimo circuito mostra tre differenti volti. È la conclusione che si può trarre intrecciando la psicoanalisi di Jacques Lacan, gli studi sull’economia del dono di Marcel Mauss e quelli sullo scambio di Claude Lévi-Strauss, riletti alla luce della Moneta vivente di Pierre Klossowski.

L’intreccio di questi autori permette di delineare un quadro complesso ma coerente del fenomeno dello scambio. In questo quadro l’economico, il simbolico e il pulsionale sono tre diversi livelli di uno stesso circuito, da pensare come tre piani assolutamente immanenti l’uno all’altro. Si tratta di un circuito messo in movimento da un surplus. Quel surplus che il linguaggio ha introdotto nella dimensione dell’essere umano facendone un essere in perenne squilibrio. Da allora una sorta di differenza di potenziale abita l’umano prendendo via via forme diverse: il surplus che, sul piano pulsionale, abita l’oggetto del desiderio (il lacaniano oggetto a); l’eccesso che, sul piano simbolico, accompagna ogni dono (lo hau di cui parla Mauss); lo scompenso in termini di debito/credito che, sul piano economico-monetario, la moneta chiude e immediatamente riapre (ogni pagamento chiude una relazione di debito e ne apre un’altra, quella con cui la moneta ottenuta sarà rimessa in circolo); la plusvalenza che, sul piano dell’economia finanziaria, muove i capitali (il plusvalore di Marx). Per mettere in luce il circuito dello scambio messo in moto dal surplus guarderemo prima alla pulsione, così come trattata da Lacan, poi allo scambio di doni, nell’ottica di Mauss e Lévi-Strauss, intrecciando tali temi con le suggestioni provenienti dall’opera di Klossowski.

La danza della pulsione

Da sempre, in tutto il mondo, gli esseri umani danzano. Forse perché la danza, come suggerisce Lacan, è la primitiva forma del sapere umano. Ovvero, la primitiva forma di sublimazione della pulsione. Potrebbe sembrare, questa, una suggestione nietzschiana: il sapere, secondo La nascita della tragedia, nasce dal teatro e il teatro nasce dalla danza, dalla festa dionisiaca. Ma Lacan non cita Nietzsche quando, nel Seminario XI, tesse un filo che lega insieme danza, sapere e pulsione. Fa riferimento, invece, ad alcune antiche danze cinesi, prese a esempio paradigmatico della natura originariamente ritmica della conoscenza.

Siamo in quella parte del Seminario XI che tratta della pulsione. Qui, a un certo punto, viene chiamata in causa la «scienza primitiva». La prima forma di sapere – l’insieme dei miti e dei riti delle più antiche civiltà – va intesa, dice Lacan, come «una sorta di tecnica sessuale».2 E questa tecnica è un’arte del ritmo, è essenzialmente una danza. In due sensi.

Anzitutto, in senso metaforico. La scienza primitiva, osserva Lacan, è basata su delle opposizioni binarie che ricalcano quella tra maschile e femminile: yin e yang, acqua e fuoco, caldo e freddo, ecc. Sono principi cosmologici che troviamo variamente declinati nei miti e nei riti di molte culture in tutto il mondo. Il sapere, alle sue origini, consiste dunque in una combinatoria, in un gioco ritmico tra questi elementi opposti. Si tratta, potremmo dire, di far danzare gli opposti: accoppiarli, combinarli, distribuirli, coglierne la reciproca implicazione. Un secondo senso è non metaforico o, scrive Lacan, «più che metaforico».3 Il riferimento è a dei riti particolari che si possono trovare in forme differenti, ma sostanzialmente simili nella struttura, presso diverse popolazioni, dalla Cina al Mediterraneo. Si tratta di «riti di danza fondamentalmente motivati dalle ripartizioni sessuali della società».4 In particolare, Lacan cita gli studi sull’astronomia cinese svolti dal sinologo Léopold de Saussure (fratello del più celebre Ferdinand). Ma ha certo in mente anche gli studi di un altro sinologo, Marcel Granet, dato che lo ha citato non più di due anni prima nel Seminario IX.5 Sia de Saussure sia Granet hanno studiato i principi cosmologici che, nell’antica cultura cinese, scandiscono le stagioni, le feste rituali e la vita della comunità. In che senso la conoscenza di questi principi sarebbe una sorta di «tecnica sessuale» e tale tecnica una danza «più che metaforica»?

Non è semplice ricostruire cosa Lacan avesse in mente ma se ci volgiamo agli studi di Granet riusciamo a farci un’idea. Granet analizza in particolare i riti cinesi di iniziazione sessuale dei giovani durante alcune feste stagionali: maschi e femmine si dispongono in due schiere corali che cantano e danzano, fronteggiandosi, sfidandosi e schernendosi. In breve, si corteggiano, avanzando e indietreggiando al ritmo di un tamburo. Anche qui, come nei principi cosmologici prima evocati, abbiamo una combinatoria tra elementi opposti, uno maschile e uno femminile, tra i quali si tesse una fitta dialettica. Tra una schiera di giovani e l’altra si instaura infatti tutto un gioco di scambi a suon di battute, gesti, passi di danza e canti responsoriali. Finché non si formano delle coppie che poi si disperdono nel bosco per unirsi sessualmente. In realtà le coppie non si formano in modo casuale ma, come chiarisce Granet, sono già destinate:6 si tratta di unioni matrimoniali combinate a priori dai vari gruppi familiari per stringere alleanze e legami sociali sulla base del sistema patriarcale vigente. Parliamo della Cina, ma danze simili sono riscontrabili in ogni parte del mondo e ricordano alcuni nostri balli folcloristici, che vedono contrapposti schiere di giovani uomini e di giovani donne tra le quali si instaura una dialettica di scambi non molto dissimile.

Chiaro allora in che senso la «scienza primitiva» è una tecnica sessuale: è una danza che distingue e combina i contrari, favorendo in questo modo l’unione sessuale e la rigenerazione della comunità. Il suo ritmo celeste – rintracciato in cielo, nell’osservazione degli astri – scandisce il ritmo terreno dei riti, dei miti, nonché delle relazioni sessuali e delle combinazioni matrimoniali tra i membri della popolazione. Dunque anche le relazioni di parentela e l’organizzazione sociale della comunità. La «scienza primitiva» cui fa riferimento Lacan è insomma una forma arcaica di biopolitica: un tentativo di gestire la vita (naturale e sociale) e la sua rigenerazione. Sia sul piano celeste sia sul piano terreno. Ovvero, ricavando la legge terrena da quella celeste (dai principi cosmologici che caratterizzerebbero anzitutto il ritmo ciclico degli astri). Infatti, ad articolare la vita di queste antiche popolazioni, dice Lacan, è sempre il medesimo «gioco dei significanti» (yin e yang e simili) i quali, tratti dallo studio dell’astronomia, «si ripercuotono dall’alto in basso nella politica, nella struttura sociale, nell’etica, nella regolazione degli atti più banali».7 Si tratta sempre di far danzare, accoppiare, combinare gli opposti.

È singolare come, in poco più di una paginetta, Lacan evochi questo sfondo cosmologico che dà ritmo ai miti e ai riti arcaici mentre sta parlando della pulsione. È questa, non dimentichiamolo, uno dei Quattro concetti fondamentali della psicoanalisi cui è dedicato il Seminario XI così intitolato. L’economia pulsionale, sembra suggerire qui Lacan, si esplica in una danza. Detto altrimenti: gli esseri umani, diversamente dagli animali, non si accoppiano riproducendosi a caso, attraverso «incerti concubiti», come li chiamava Giambattista Vico, bensì attraverso una danza, ossia attraverso un rito (una struttura socio-simbolica). La pulsione è già da sempre incanalata in una struttura sociale. O, per meglio dire, è la pulsione stessa ad animare la struttura sociale anzitutto nella forma di una danza. In questa danza la pulsione trova la propria primigenia articolazione simbolica. E questa articolazione è essenzialmente un’ars combinatoria.8 Un montaggio, suggerisce Lacan.9

Tutto ciò fa pensare a Lévi-Strauss, che forse non a caso è citato da Lacan immediatamente dopo Léopold de Saussure e la «scienza primitiva» dei cinesi. Questa combinatoria – che sancisce le unioni sessuali e matrimoniali e dunque i legami di parentela che ne conseguono – ha infatti al suo centro lo scambio delle donne studiato dagli antropologi e, in particolare, dall’autore delle Strutture elementari della parentela. È da qui che Klossowski, come egli stesso dichiara, trae la sua nozione di moneta vivente. Se la danza è una combinatoria e un gioco di scambi, le donne – mostra Lévi-Strauss – sono le prime e fondamentali pedine di questo gioco.

La scacchiera simbolica

Se ci rivolgiamo a Lévi-Strauss, il quadro delineato da Lacan in merito alla «scienza primitiva» si arricchisce di ulteriori elementi. Nelle Strutture elementari della parentela l’antropologo francese rintraccia la base della cultura umana nella ripartizione sessuale della società. La legge «zero», l’originaria legge di ogni civiltà, sulla cui base si strutturano tutte le altre leggi, è la proibizione dell’incesto. Essa regola la pulsione e ne articola la danza. Si potrebbe dunque dire che non vi è scienza primitiva né danza della pulsione senza quel divieto originario. Il divieto dell’incesto istituisce una partizione fondamentale – l’insieme delle donne a cui l’uomo ha accesso e l’insieme delle donne a cui l’uomo non ha accesso – a partire dalla quale è possibile articolare un’ars combinatoria, ossia il gioco di parentele, di scambi e di potere in cui consiste il sistema patriarcale. Questa proibizione, nota infatti Lévi-Strauss, «non è tanto una regola che vieta di sposare la madre, la sorella o la figlia, quanto invece una regola che obbliga a dare ad altri la madre, la sorella o la figlia. È la regola del dono per eccellenza».10 Alla base dell’arcaica economia del dono (la struttura degli scambi sociali che caratterizza le popolazioni di tutti i continenti, studiata da Marcel Mauss nel Saggio sul dono) vi è uno scambio fondamentale, quello delle figlie. La proibizione dell’incesto è la legge che regola questo scambio. Essa va cioè intesa nel suo duplice funzionamento negativo-positivo (non solo per ciò che proibisce ma anche per ciò che permette): «Il fenomeno fondamentale che risulta dalla proibizione dell’incesto è il medesimo: a partire dal momento in cui io mi vieto l’uso di una donna, che così diviene disponibile per un altro uomo, c’è da qualche parte un uomo che rinuncia ad una donna che, perciò, diviene disponibile per me. Il contenuto della proibizione non si esaurisce nel fatto della proibizione: quest’ultima viene stabilita soltanto per garantire e fondare, direttamente o indirettamente, immediatamente o mediatamente, uno scambio».11

La proibizione dell’incesto, come la intende Lévi-Strauss, non è dunque una regola di contenuto quanto un puro principio formale che permette lo scambio ovvero un’ars combinatoria. È il principio generatore dei legami di parentela istituenti la struttura sociale, che possiamo raffigurare come una scacchiera su cui vengono scambiate una serie di pedine: le regole di condivisione e distribuzione del cibo ricalcano infatti i legami di parentela, ossia la regola di distribuzione delle donne, su cui viene a organizzarsi dunque l’intera rete dei debiti e dei crediti simbolici, ossia il circuito dello scambio di doni studiato da Mauss.12 E la proibizione dell’incesto è l’algoritmo di questa scacchiera, la regola generale a partire da cui si viene decidendo chi scambia con chi e chi danza con chi. Ben conoscendo il Saggio sul dono, nelle Strutture elementari della parentela Lévi-Strauss coglie la portata simbolica dell’economia arcaica che si consuma sulla scacchiera. Gli oggetti scambiati non hanno valore in sé (nel rito del kula studiato da Malinowski, ad esempio, si tratta di banali collanine di conchiglie).13 Essi hanno valore solo in quanto pedine che permettono determinate mosse, a cui gli altri clan familiari rispondono con ulteriori mosse (ogni dono richiede infatti un controdono e questo, a sua volta, un ulteriore controdono).

Letta in termini simbolici, l’economia del dono può intendersi così: scambiandosi segni le parti rievocano il tutto (la communitas) di cui sono parti e grazie a cui sono parti. Ma questo «tutto», visto alla luce della psicoanalisi lacaniana, è un fantasma: non si dà se non nel ritmo dello scambio, nella danza delle parti, nel movimento delle pedine sulla scacchiera. Non vi è totalità (l’Uno), vi sono semmai effetti di totalità («c’è dell’Uno», direbbe Lacan) che riverberano nel ritmo, ovvero: nella prassi, nel rito dello scambio di doni, nella danza dell’ars combinatoria e nei circuiti che essa via via disegna. Come osservato da Viveiros de Castro, «ciò che si scambia nel potlatch o nel kula sono dei debiti».14 Si tratta di un debito simbolico (segno di appartenenza al tutto), non un debito economico. Ma – si badi bene – questo debito simbolico non è altro da quello che poi diverrà debito economico. Se vogliamo, ne è la tappa evolutiva immediatamente precedente. Il primo infatti, una volta misurato (quando sarà introdotta l’unità di misura), diverrà il secondo. Appena farà la sua comparsa, il denaro – le cui due funzioni essenziali sono unità di misura e mezzo di pagamento – servirà proprio a misurare i debiti simbolici della società del dono (quantificandoli e riducendoli a debiti economici) e a pagarli. Non per nulla nel suo Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, tracciando l’etimologia dei lemmi relativi al dono, Benveniste s’imbatte continuamente in questo intreccio di termini economici, prestazioni relative al dono e pratiche rituali.15 I doni diverranno dunque merci e allo scambio di doni si sostituirà un altro scambio, quello di merci con denaro. Ma quest’altro tipo di scambio (l’economia monetaria) solcherà inizialmente gli stessi circuiti del primo (l’economia del dono) salvo trasformare nel tempo l’«economia generale», per dirla con Bataille, nell’«economia ristretta».16

Economico, simbolico, pulsionale

Come osserva Lévi-Strauss, le pedine scambiate sulla scacchiera sociale, anche quando sono beni economici, hanno sempre e comunque un valore simbolico: sono veicoli e strumenti di potere. Il circuito economico (in senso stretto) non è altro che un involucro del circuito simbolico o una sua particolare declinazione. Nella parole dell’antropologo: «I beni scambiati non sono soltanto dei valori economici, ma veicoli e strumenti di realtà di un altro ordine: potenze, potere, simpatia, condizione, emozione; ed il sapiente gioco degli scambi (nei quali spesso il trasferimento reale non è maggiore di quello del gioco degli scacchi, in cui i giocatori non si danno l’un l’altro i pezzi che muovono alternativamente sulla scacchiera, ma cercano soltanto di provocare una risposta) consiste in un complicato insieme di manovre consapevoli o inconsapevoli dirette a guadagnare garanzie ed a prevenire rischi, sul duplice terreno delle alleanze e delle rivalità».17

Sotto l’involucro dell’economia monetaria (merci scambiate con denaro) prosegue imperterrita l’economia simbolica (segni di potere e di potenza, segni della reciproca appartenenza a un tutto ritmico: «c’è dell’Uno») che si struttura a partire dall’economia pulsionale (il giro di giostra che la pulsione compie attorno a un vuoto). La danza della pulsione è diventata una scacchiera e anima il circuito delle pedine che su di essa vengono scambiate; una volta quantificate, quelle stesse pedine diverranno monete e la scacchiera simbolica diverrà una rete economica, sempre animata, nel suo fondo, dalla pulsione. Nel sottolineare il vero valore delle pedine oggetto di uno scambio economico-monetario sulla scacchiera, Lévi-Strauss parla di una «realtà di altro ordine», chiamando in causa «potenze» ed «emozioni»: sembra così anticipare Klossowski quando, nella Moneta vivente, questi scrive che «le norme economiche non formano che una substruttura degli affetti e non la finale infrastruttura».18 La vera infrastruttura, come chiarisce l’autore subito dopo, è il circuito degli affetti e delle pulsioni: «le norme economiche sono, allo stesso titolo delle arti e delle istituzioni morali o religiose, allo stesso titolo delle forme della conoscenza, un modo d’espressione e di rappresentazione delle forze impulsionali».19

Soffermiamoci allora sulle analogie e differenze tra il modo in cui Lévi-Strauss e Klossowski leggono il fenomeno tutto umano dello scambio segnico. Quando accosta economia, arte, morale e religione, Klossowski sembra avere in mente la nozione di «sistema simbolico» elaborata da Lévi-Strauss, poi ripresa da Lacan, dandole però una particolare curvatura. Di «sistemi simbolici» Lévi-Strauss parla, ad esempio, nell’Introduzione all’opera di Marcel Mauss, fornendo alcuni significativi esempi: «il linguaggio, le regole matrimoniali, i rapporti economici, l’arte, la scienza, la religione».20 Che cos’hanno in comune ambiti così disparati, che saranno poi richiamati in termini non dissimili da Klossowski nella Moneta vivente? Sono tutti sistemi in cui ci si scambia segni. Siano tali segni cose o parole. Guardati nel loro funzionamento strutturale tali sistemi sono comparabili e persino traducibili l’uno nell’altro. È questo il perno del grande progetto strutturalista di Lévi-Strauss, come leggiamo in Antropologia strutturale II: «la proprietà di un sistema di segni è di essere trasformabile, o, in altri termini, traducibile nel linguaggio di un altro sistema, con l’aiuto di permute».21 E tra un gruppo di regole (la struttura) che configura un determinato sistema simbolico (sia esso arte, religione, economia o linguaggio) e un gruppo di regole che ne configura un altro è possibile trovare «correlazioni»22 tali che il loro studio porterà forse le rispettive discipline a unificarsi in futuro in una sola scienza dei segni, secondo un auspicio che Lévi-Strauss formula così: «Se è permesso sperare che l’antropologia sociale, la scienza economica e la linguistica si associno un giorno, per fondare una disciplina comune che sarà la scienza della comunicazione, riconosciamo però che questa scienza consisterà soprattutto in regole».23

Dello strutturalismo lévi-straussiano Klossowski eredita lo sguardo sintetico, volto a osservare gli elementi del sistema nelle loro relazioni strutturali, anziché nel loro contenuto specifico. Come nota Jacques-Alain Miller, «lo strutturalismo è un anti-sostanzialismo»:24 non ci sono cose (sostanze in senso aristotelico) che avrebbero proprietà intrinseche, ci sono anzitutto relazioni e sono le relazioni a determinare le cose (il loro valore). Nella prospettiva strutturalista le pedine che circolano sulla scacchiera, prese nel loro contenuto specifico (collanine, cibo, donne, monete o quant’altro) sono indifferenti – così come, secondo la psicoanalisi, gli oggetti sono indifferenti per la pulsione –, sono soltanto segni il cui valore è posizionale, è cioè determinato dal rapporto differenziale con tutti gli altri segni di quel sistema simbolico.

Ma, diversamente da Lévi-Strauss, l’attenzione di Klossowski non è volta a individuare le regole che determinano il sistema simbolico (l’algoritmo della scacchiera e l’algebra degli scambi). Il suo interesse è semmai rivolto a uno strato più profondo. Dunque, da una parte l’antropologia dello scambio, con Mauss e Lévi-Strauss, ha mostrato il fondo simbolico dell’economico (non si scambia né per bisogno né per interesse individuale, ma per questioni irriducibili a motivazioni economicistiche: rievocare il tutto di cui ciascuno è parte, far riverberare il «c’è dell’Uno»25). Dall’altra l’autore della Moneta vivente accende invece un faro su un ulteriore strato, quello pulsionale. Ogni sistema simbolico (economia, arti, istituzioni morali e religiose, per citare le sue parole) è cioè letto come un modo d’espressione e di rappresentazione delle pulsioni. L’emozione voluttuosa circola infatti grazie ai segni e al loro scambio, per quanto tali segni vengano scambiati in base a ragioni apparentemente di altro ordine. Se, nell’approccio sistemico (o strutturale) di Mauss e Lévi-Strauss i singoli scambi vanno visti come momentanee tappe di un complessivo circuito che ha un proprio funzionamento irriducibile alle ragioni dell’«utilità ristretta», Klossowski rilegge questo stesso circuito in termini energetici. Sono le pulsioni a dare una particolare curvatura al simbolico così come è inteso da Klossowski. Nella sua riflessione è cioè in gioco una lettura intensionale dello strutturalismo e delle sue nozioni chiave (segno, sistema simbolico, struttura, ecc.), poi ripresa e messa a frutto da Deleuze e Guattari. I segni e i loro sistemi vanno letti in termini energetici o intensivi. Lo strato pulsionale non risiede dunque in una dimensione altra e ulteriore rispetto al simbolico, ma lo attraversa trasversalmente e in modo immanente, servendosene come di un circuito a disposizione: assieme e attraverso le pedine che vengono scambiate sulla scacchiera sociale circola sottotraccia energia libidinale. Sotto e attraverso i riti che si celebrano sulla scacchiera, la danza della pulsione continua a battere il proprio ritmo.

Se la pulsione si serve della scacchiera (nonché dei suoi soggetti, i giocatori, e dei suoi oggetti, le pedine) per compiere il proprio giro e trovare soddisfazione in questa danza (gli scambi di segni), anche la scacchiera, nel suo funzionamento simbolico, ha bisogno della pulsione per animarsi e rigenerarsi. Nel caso della scacchiera patriarcale studiata nelle Strutture elementari della parentela, la pulsione è incanalata nell’unione sessuale, sapientemente combinata dai clan sulla base delle gerarchie di potere, e da tale unione si generano figli contribuendo così al rigenerarsi complessivo della scacchiera sociale e dei suoi scambi segnici. In termini nietzschiani, se la forza dionisiaca ai articola nella forma apollinea, la forma apollinea si rigenera grazie alla forza dionisiaca. Il dionisiaco ha bisogno dell’apollineo per compiere la propria danza pulsionale tanto quanto l’apollineo ha bisogno del dionisiaco per nutrire i propri scambi segnici. Tra scacchiera e vita, forma apollinea e forza dionisiaca, regola simbolica e pulsione, c’è reciproca e immanente implicazione. Di più: per Klossowski il primo termine non è che una momentanea coagulazione del secondo.

Il potere e la sua organizzazione gerarchica non sono esterni a questa dinamica, ne sono semmai la sclerotizzazione. La traduzione del pulsionale nel simbolico, la sua articolazione in questa o quella configurazione della scacchiera è intrinsecamente conflittuale (come è evidente nel potlatch, ma anche nella sottomissione della donna alla biopolitica patriarcale insita nello scambio delle figlie). La traduzione del pulsionale nel simbolico può cioè sclerotizzarsi in una configurazione inerte ogni volta che, nietzschianamente, prevale l’apollineo sul dionisiaco (ogni volta che la coagulazione ostruisce il flusso): il potere e la sua organizzazione gerarchica divengono sterili e oppressivi quando mirano a trattenere i segni anziché lasciarli circolare, bloccando il loro movimento in forme rigide e inerti e uccidendone la danza. È questo il problema di fondo a cui guarda Klossowski e per il quale egli elabora l’idea di una moneta vivente. Ovvero, l’idea di un segno non mortifero, non inerte, che non smetta mai di danzare.

Il ritmo della potenza

Perché danzare? La scienza primitiva dell’essere umano è una danza, come suggerisce Lacan, perché si tratta di ricostituire l’intero (quell’intero che nell’esperienza non c’è e non c’è mai stato: la Cosa) rimettendo in movimento le parti che il linguaggio ha ritagliato, quelle cose che la parola ha isolato e delineato come se fossero autonome le une dalle altre (come se fossero partes extra partes).26 Di qui il rito della festa con canti, balli e scambi di doni. Si tratta di rimettere insieme ciò che il taglio significante ha separato, ma che non è mai stato insieme essendo sorto da questa stessa separazione, da questo taglio ex nihilo.27 Si tratta di ridare movimento a ciò che la parola ha reso inerte, ridare vita ai segni che sarebbero altrimenti mortiferi facendoli danzare, scambiandoli, mettendoli in circolo: questo è il fulcro di ogni arte e di ogni rito. Ciò che da sempre anima la scacchiera.

Se il taglio introduce delle parti (i Molti), si tratta di far vibrare queste parti perché rievochino il tutto (l’Uno) da cui esse provengono e da cui sono state staccate attraverso la parola. Si tratta del «c’è dell’Uno»: quel tutto che è un non-tutto (in senso lacaniano), quell’Uno che si dà soltanto nella vibrazione delle parti e che sul piano sacrale è il dio, sul piano politico è il cum della communitas, sul piano della comunicazione è l’incomunicabile, sul piano dell’alienazione è l’inalienabile.28 Ciò che Lacan chiama anche «sostanza godente» (contrapposta alle partes extra partes della sostanza estesa).29 Nelle feste rituali si tratta dunque, anzitutto, di far vibrare le parole attraverso il canto, far vibrare gli utensili d’uso quotidiano (trasformati in strumenti musicali) attraverso la loro percussione ritmica, far vibrare i corpi attraverso la danza, far vibrare i doni attraverso lo scambio. Nella festa tutti i segni (soggetti, oggetti e parole) entrano cioè in fibrillazione e si fanno perciò simulacri, veicoli dell’Uno (modi della sostanza, per dirla con Spinoza, i quali fanno risuonare la sostanza stessa). Da sempre, nel rito, si tratta di evocare in presenza ciò che è costitutivamente assente facendolo accadere.

Da questo punto di vista gli strumenti musicali sono ciò che Klossowski chiamerebbe un simulacro giacché nella festa essi vibrano rievocando l’Uno, facendo cioè risuonare il «c’è dell’Uno». Come spiega uno dei più grandi musicologi del Novecento, Marius Schneider, in origine «lo strumento musicale, come il canto, è un’arma mistica».30 Esso è in principio uno strumento di lavoro, un arnese di uso quotidiano.31 Ossia, nei termini di Klossowski, uno stereotipo: un utensile utilizzato ripetutamente nello stesso modo, ingabbiato entro una predeterminata funzione. Nelle feste primitive, che costituiscono una sospensione del tempo mondano e lavorativo, tali strumenti di lavoro vengono sospesi dalla loro funzione mondana e diventano strumenti musicali. Ossia dei simulacri. In questa sospensione è come se gli stessi strumenti fossero riportati alla loro potenza (a quel tutto non-tutto, privo di parti, non diviso in partes extra partes, e dunque anche privo di funzioni, da cui provengono). Quanto ora detto per gli strumenti musicali si potrebbe ugualmente dire per i soggetti. Anch’essi nella loro quotidianità lavorativa sono stereotipi mentre in occasione della festa tornano a essere simulacri. Quando suonano, cantano, e danzano a ritmo, rievocando il tutto non-tutto da cui dipendono in quanto soggetti, si spogliano delle loro maschere simboliche, sospendendo i loro ruoli, le loro identità stereotipate, per ritrovare la potenza che li abita.

Il medesimo si potrebbe dire, ancora, per i doni. Anch’essi sono originariamente stereotipi, ossia oggetti di uso comune, con una loro specifica funzione, ma stereotipi che nello scambio festivo diventano simulacri, venendo sospesi nel loro uso quotidiano e nel loro stesso valore d’uso divenendo pedine scambiate sulla scacchiera. Sollevati dalla loro funzione prestabilita – come gli oggetti nel ready made di Duchamp e, più in generale, come ogni opera d’arte –, gli oggetti scambiati fanno riverberare nel loro movimento sulla scacchiera il surplus che li attraversa, rievocando la potenza, suggerendo che altre configurazioni – altri usi, direbbe Agamben –32 sono possibili. C’è sempre qualcosa che non si esaurisce nell’ordine simbolico istituito e questo qualcosa è la forza pulsionale che lo anima. Dietro (o, meglio, attraverso) una determinata configurazione simbolica, la pulsione fa il suo giro, mostrando sovrana indifferenza nei confronti degli oggetti e dei soggetti, ossia della loro identità o conformazione: ciò cui essa mira è soltanto compiere la propria danza attorno al vuoto, qualsiasi siano gli strumenti (soggetti e oggetti) a disposizione.

La sospensione festiva è, nell’ottica klossowskiana, il vero e segreto scopo dello strumento (la «domanda impronunciabile»33). È lo scopo «generale» (nel senso della batailliana «economia generale»), ovvero «musicale», artistico, del tutto inutile («derisorio»34) rispetto all’uso quotidiano dello strumento e alla logica dell’utilitarismo. Del tutto inutile, cioè, rispetto all’«economia ristretta», rispetto all’utilità dal punto di vista delle parti, commisurata alla loro parzialità e ai loro particolarissimi scopi (quelli che Klossowski chiama «bisogni limitati»35). È questo un tema che attraversa tutta la Moneta vivente: il segreto dell’utile (lo strumento di lavoro) risiede nell’inutile (nella sua potenza festiva come strumento musicale o opera d’arte o dono, al servizio della pulsione e della sua danza). Ma questo segreto è occultato dalla logica utilitaristica, dal modo «ristretto» in cui essa concepisce la produzione e il lavoro: «l’emozione, divenuta "fattore di produzione", si trova disseminata in molteplici oggetti fabbricati che, a causa dei bisogni limitati che essi definiscono, fanno deviare la domanda impronunciabile, rendendola derisoria nei riguardi di tutta la "serietà" delle condizioni di lavoro».36

Si tratta per Klossowski di cogliere questo segreto rompendo il quotidiano con ciò che il quotidiano mette a disposizione, rintracciando nello strumento quotidiano, nel mero utensile, quella che potremmo chiamare la sua «potenza festiva», trovando nuovi usi dei corpi, secondo la direttiva perversa che egli riprende da Sade (trasgredire la legge con la legge). Come ha scritto Jean Baudrillard, il valore d’uso «non è, in fondo, che un’astuzia del valore di scambio»:37 si lavora per la festa, si produce per scambiare, si forgiano strumenti per far risuonare il «c’è dell’Uno». O, come suggerisce Viveiros de Castro, produrre è già da sempre scambiare, la produzione è un modo particolare dello scambio.38 Il lavoro è un modo particolare della festa. La poiesis è già da sempre praxis. Dunque, non c’è altro che scambio: continua metamorfosi di una cosa in un’altra, suggerisce Viveiros de Castro. Non c’è altro che praxis, non c’è altro che sostanza godente: continua metamorfosi dei suoi modi.


  1. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003, p. 173. ↩︎

  2. Ivi, p. 147. ↩︎

  3. Ibidem↩︎

  4. Ibidem↩︎

  5. Cfr. Id., Le seminaire. Livre IX. L’identification (1961-62), Éd. du Piranha, Paris 1981. ↩︎

  6. Cfr. M. Granet, Feste e canzoni dell’antica Cina, Adelphi, Milano 1990, p. 203. ↩︎

  7. J. Lacan, Il seminario. Libro XI, cit., p. 147. ↩︎

  8. Una «combinatoria per via della discontinuità», come osserva Green in una domanda a Lacan (Ivi, p. 166). ↩︎

  9. Cfr. Ivi, p. 165. ↩︎

  10. C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari della parentela, Feltrinelli, Milano 2010, p. 617. ↩︎

  11. Ivi, p. 99. ↩︎

  12. Cfr. il capitolo «I fondamenti dello scambio» (Ivi, p. 71 e sgg). ↩︎

  13. Cfr. B. Malinowski, Argonauti del Pacifico occidentale, Boringhieri, Torino 2004. ↩︎

  14. E. Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali, Ombre corte, Verona 2017, p. 107. ↩︎

  15. Cfr. E. Benveniste, Vocabolario delle istituzioni indoeuropee, Einaudi, Torino 1976. ↩︎

  16. Cfr. G. Bataille, La parte maledetta preceduto da La nozione di dépense, Bollati Boringhieri, Torino 2015. ↩︎

  17. C. Lévi-Strauss, Le strutture elementari, cit., p. 103. ↩︎

  18. P. Klossowski, La moneta vivente, Mimesis, Milano 2008, p. 53. ↩︎

  19. Ibidem↩︎

  20. C. Lévi-Strauss, Introduzione all’opera di Marcel Mauss, in M. Mauss, Teoria generale della magia, cit., p. XXIV. ↩︎

  21. C. Lévi-Strauss, Antropologia strutturale II, Il Saggiatore, Milano 2018, p. 28. ↩︎

  22. Id., Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 2015, p. 75. ↩︎

  23. Id., Antropologia strutturale II, cit., p. 253. ↩︎

  24. J.-A. Miller, I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001. ↩︎

  25. Cfr. E. Redaelli, Soggetto al debito, in F. Leoni (a cura di), Re Mida a Wall Street, Mimesis, Milano 2015. ↩︎

  26. Sulla critica di Lacan alla concezione delle cose come partes extra partes, cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XX. Ancora. 1972-1973, Einaudi, Torino 2011, p. 22 e sgg. ↩︎

  27. Sul taglio come «creazione ex nihilo» cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2008, p. 137 e sgg. ↩︎

  28. R. Ronchi, L’esperienza interiore, “Ágalma”, n. 45, aprile 2023. ↩︎

  29. Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XX, cit., p. 23. Sulla sostanza godente in Lacan, cfr. F. Leoni, Jacques Lacan. L’economia dell’assoluto, Orthotes, Napoli-Salerno 2016, in particolare pp. 9-34. ↩︎

  30. M. Schneider, Il significato della musica, SE, Milano 2007, p. 23. ↩︎

  31. Cfr. Ivi, p. 52. ↩︎

  32. Cfr. G. Agamben, L’uso dei corpi, Neri Pozza, Vicenza 2014. ↩︎

  33. P. Klossowski, La moneta vivente, cit., p. 94. ↩︎

  34. Ibidem↩︎

  35. Ibidem↩︎

  36. Ibidem↩︎

  37. J. Baudrillard, Per una critica dell’economia politica del segno, Mimesis, Milano 2010, pp. 207-208. ↩︎

  38. Cfr. E. Viveiros de Castro, Metafisiche cannibali, cit., pp. 44-45. ↩︎