1. Introduzione
Esattamente un secolo fa Freud pubblica Al di là del principio di piacere: cosa rimane oggi di questo celebre testo? Si potrebbe dire nulla. Ma un nulla con la crosta. Un buco col bordo. O, se si preferisce, un meno contornato da un più. In breve, uno squilibrio instabile tra una mancanza e un eccesso. Squilibrio pericoloso, perché in grado di destabilizzare ogni rigida partizione. E dunque anche la soglia evocata dal titolo, quella che spartisce un al di qua e un al di là del principio di piacere. A incarnare questo squilibrio, nel testo di Freud, è la sessualità. O meglio, la pulsione nella duplice e ambigua veste con cui si presenta in quest’opera: pulsione sessuale e pulsione di morte. Si tratta di una nozione inafferrabile, ingestibile, quasi fastidiosa, che non a caso la psicoanalisi successiva ha provato a seppellire senza mai riuscirci. Più che una nozione, un sintomo: il segno di uno squilibrio irredimibile che attraversa il soggetto sin dalla sua origine e rende la psiche irriducibile a ogni spiegazione di tipo economico. Se si segue la scia di questo squilibrio – rileggendo il testo di Freud e rintracciandone l’eco successiva in Lacan e in Deleuze – risulta necessario ripensare i concetti di sessualità e di pulsione di morte, ricostruendone anzitutto la non facile collocazione nel pensiero freudiano e in quello lacaniano. Più che una collocazione, una inallocabilità. Proprio nel confronto tra i due psicoanalisti – e nell’intreccio tra i loro differenti approcci a questa inallocabilità e allo squilibrio che ne consegue – ciò che a prima vista appare come un negativo iscritto in un positivo assume sempre più le sembianze di un ritmo, di una vibrazione. Eccesso e mancanza, pieno e vuoto, più e meno si delineano allora come il battere e il levare di un’unica pulsazione ritmica, momenti costitutivi di un’oscillazione che attraversa tanto il soggetto quanto il sapere. Da tale oscillazione sorge, infine, una domanda: e se il Reale non fosse un buco nel sapere ma un’onda? Una vibrazione che dà al sapere il suo particolare ritmo? E se il parlessere fosse, prima di tutto, un danzessere?
2. Al di qua
Testo inquieto e destinato a suscitare continua inquietudine, Al di là del principio di piacere pone problemi sin dalle prime tre parole del titolo. Se infatti interroghiamo la soglia che spartisce il dominio del principio di piacere e l’oscuro territorio che si estende al di là, ci imbattiamo subito in un paradosso. Che cosa si colloca oltre la soglia? Un lacaniano, oggi, risponderebbe in automatico: la pulsione di morte. E otterremmo la stessa risposta se rivolgessimo la domanda, oggi, a un filosofo. Per quanto possa sembrare bizzarro, nel testo di Freud, invece, è esattamente il contrario: la pulsione di morte si colloca al di qua della soglia. O, quanto meno, vi sono eloquenti passi nel libro che muovono in questa direzione (nonostante i passi di Freud, in questo libro, si muovano in più direzioni, invertendo sovente il senso di marcia).
Il passo più significativo è in chiusura, una posizione privilegiata perché qui, dopo un lungo peregrinare, Freud approda a una conclusione, che suona così: «Sembra addirittura che il principio di piacere si ponga al servizio delle pulsioni di morte».1 A poche righe dalla fine del libro troviamo dunque due istanze collocate dalla stessa parte, l’una al servizio dell’altra, potendo quest’altra vantare una qualche precedenza o prelazione. Quando fa il suo ingresso in scena, nel bel mezzo del quinto paragrafo, la pulsione di morte è in effetti presentata come originaria. Qui l’altro passo significativo. Freud sta evocando la nascita della vita dalla materia inanimata, raffigurandosela con queste parole: «La tensione che sorse allora in quella che era stata fino a quel momento una sostanza inanimata fece uno sforzo per autoannullarsi; nacque così la prima pulsione, la pulsione a tornare allo stato inanimato».2 La descrizione di questa pulsione verso l’inanimato non è distante da quella del principio di piacere come abbassamento della tensione proposta all’inizio del libro. La «tendenza alla stabilità»3 cui il principio di piacere va ricondotto è infatti perfettamente in linea con la tendenza di tutta la vita a ridurre la tensione, indotta nella materia inanimata dall’emergere della vita stessa. In quest’ottica, l’inanimato non sarebbe che l’ultima figura della stabilità, il suo segreto modello di riferimento, se, come scrive Freud, «la meta di tutto ciò che è vivo è la morte».4 È come se l’architettura aristotelico-benthamiana dell’economia della vita (la concezione edonistico-utilitaristica del bene come principio che regola l’esistenza) venisse curvata dal padre della psicoanalisi verso l’inerzia (una nozione, quella di inerzia, che ispira la metapsicologia freudiana sin dal Progetto di una psicologia del 1895). O è come se Freud portasse in superficie il non detto di quella stessa architettura concettuale, che molti modelli economici ha ispirato (a partire dal marginalismo di William Jevons): il fine dell’economia non è che la sua fine (quanto teorizza, in ultima analisi, la scuola marginalista come punto di equilibrio nello scambio).
Le strade del principio di piacere e della pulsione di morte sarebbero dunque sovrapponibili? A volerne mappare le vie, raccogliendo un suggerimento di Alenka Zupančič, parrebbe di sì.5 Le mappe corrispondono punto per punto: in ambedue sono rintracciabili una strada maestra – che punta all’inerzia, sia pure come meta asintotica – e un certo numero di deviazioni che, disegnando curve laterali, si dirigono verso la stessa destinazione ma lungo un percorso più accidentato. Prendiamo la mappa della pulsione di morte. Se la strada maestra è quella che conduce all’inerzia, le vie laterali sono quelle che Freud introduce poco dopo nel medesimo paragrafo definendole «pulsioni parziali»: si tratta delle pulsioni di «autoconservazione, di potenza e di autoaffermazione».6 In apparenza parrebbero pulsioni vitali, quindi di tutt’altra natura rispetto a quella di morte. In realtà, si affretta a chiarire l’autore, si tratta di semplici deviazioni aventi «la funzione di garantire che l’organismo possa dirigersi verso la morte per la propria via»7 anziché per accidenti esterni. L’organismo, infatti, «vuole morire solo alla propria maniera».8 La vita è dunque un sogno dell’inanimato? No, piuttosto un incubo: un tic, un disturbo, un accidente di cui esso farebbe volentieri a meno. E quelli che appaiono come istinti di autoconservazione? Freud è lapidario: «quelli che appaiono come custodi della vita sono stati in origine guardie del corpo della morte».9 Semplici curve da imboccare quando l’agognata meta non è raggiungibile per la via maestra. Se ora prendiamo la mappa del principio di piacere, abbozzata nel primo paragrafo, vi ritroviamo la stessa strada maestra e le stesse curve. Queste ultime sono disegnate dal principio di realtà, il quale deroga momentaneamente al principio di piacere «sotto l’influenza delle pulsioni di autoconservazione dell’Io»,10 ossia sotto l’influenza di quelle medesime pulsioni vitali più avanti descritte come momentanee deviazioni e «guardie del corpo della morte». Abbiamo dunque le medesime curve ma collocate su un altro piano, quello della psiche, come se il principio di piacere non fosse che l’equivalente psichico della pulsione di morte. Dritte o curve, tutte queste strade si collocano al di qua del confine entro cui vige il principio di piacere: pulsione di morte, istinti vitali, principio di realtà e lo stesso principio di piacere si dirigono, direttamente o indirettamente, con maggiore o minore approssimazione, verso un medesimo punto, quello in cui ogni tensione svanisce nel nulla. Che cosa allora si colloca al di là?
3. Al di sotto
Come noto, l’esigenza di postulare un al di là sorge in Freud dalla clinica: tutti quei fenomeni che vanno sotto il nome di coazione a ripetere sembrano infatti non poter trovar dimora nell’al di qua. La ripetizione di esperienze dolorose da parte dei pazienti, le nevrosi traumatiche dei reduci di guerra e tutti gli altri esempi elencati nel terzo paragrafo si mostrano irriducibili al principio di piacere così come delineato sin dagli esordi della metapsicologia.11 Ma se tali fenomeni sono solo manifestazioni, quale altro principio ne sarebbe alla base? Inizia a questo punto – siamo in apertura del quarto paragrafo – la lunga gincana con cui Freud conduce il lettore in una selva di ipotesi formulate in totale libertà, discusse, accantonate e continuamente riprese per saggiarne la consistenza. Che cosa lo spinge a tutti questi pensieri ad alta voce? Che cosa va cercando? La preoccupazione di Freud è una sola e la si intuisce nei punti in cui si dice insoddisfatto o disturbato: si tratta di rendere omogeneo il quadro attraverso un unico principio unitario cui ricondurre, direttamente o indirettamente, tutti i moti della psiche. Ogni qualvolta l’autore si trova a dover raddoppiare i principi esplicativi o s’imbatte in un elemento che sfugge al quadro appena abbozzato, traspare dal testo un moto di stizza.12
Per questo motivo, ed essendo la coazione a ripetere incompatibile col principio di piacere, Freud inizia a scavare al di sotto di entrambi sperando di raggiungere un livello underground in cui rintracciare una radice comune e, contemporaneamente, il punto da cui si dipartirebbero le due diverse direzioni. Inizia qui tutta la speculazione mito-bio-logica sulla vescichetta con la corteccia protettiva e, in seguito, quella del trauma che rompe la corteccia con la relativa risposta immunitaria (l’investimento energetico volto a «legare» gli stimoli dolorosi per sbarazzarsene), sino alla descrizione dei sogni traumatici come vaccini (l’angoscia prodotta nei sogni quale fattore di protezione verso un altro eventuale trauma futuro). La coazione a ripetere svolgerebbe dunque la funzione di un vaccino13 essendo però, nello stesso tempo, potenziale causa di «disturbi economici».14 S’intende: disturbi rispetto all’economia guidata dal principio di piacere. Con la descrizione di tale funzione non siamo però al di là, quanto piuttosto al di sotto. Si tratta, scrive infatti Freud, di «una funzione dell’apparato psichico che, senza contraddire al principio di piacere, è però indipendente da esso, e pare più primitiva del proposito di ottenere piacere ed evitare dispiacere».15 Lo strato archeologico più primitivo così raggiunto è il livello underground delle pulsioni (cui è dedicato il quinto paragrafo). La funzione della coazione a ripetere troverebbe qui le proprie radici. Qui anche è da collocarsi il punto in cui le radici si diramano in due direzioni che, se osservate al livello superiore, si mostrano incompatibili in superficie (principio di piacere versus coazione a ripetere). Il punto di diramazione può riassumersi così: se il compito degli strati superiori è legare l’eccitamento libero (scatenato internamente dalle pulsioni), il fallimento di tale compito porta ai già citati «disturbi economici». Laddove invece l’eccitamento libero è legato con successo, il principio di piacere può realizzare indisturbato il proprio dominio. Finché ciò non avviene, l’altro compito dell’apparato psichico, il compito di domare o legare l’eccitamento, ha la precedenza «non diremo in contrasto col principio di piacere, ma indipendentemente da esso».16 Anche qui l’autore ribadisce che non c’è effettivo contrasto col principio di piacere: non siamo al di là, siamo ancora al di qua e, più precisamente, al di sotto.
Ma quale connessione dobbiamo propriamente pensare, si chiede a questo punto Freud, tra la coazione a ripetere e le sue radici, rintracciate nella pulsione?17 Ecco comparire in scena la pulsione di morte: è l’ultimo gradino di questa discesa nel sottosuolo, il livello archeologico più profondo. È la radice della radice. In quanto «proprietà universale delle pulsioni e forse di tutta la vita organica»,18 essa è in grado di rispondere all’esigenza di Freud: riunificare, al di sotto, tutto ciò che in superficie appare contrastante. Infatti, qual è la connessione tra coazione a ripetere e pulsione? La spinta al ritorno, ossia a «ripristinare uno stato precedente».19 E qual è la connessione tra principio di piacere e pulsione? La spinta al ritorno, ossia a «tornare alla quiete del mondo inorganico».20 Le due diverse connessioni a questa radice ultimativa – che sarebbe dunque dell’ordine di un «ritorno» – vengono sottolineate rispettivamente nel quinto paragrafo21 e nuovamente nel sesto,22 nonché all’inizio del settimo paragrafo (laddove si parla del principio di piacere come di «una tendenza che si pone al servizio di una funzione» che «rientrerebbe nell’aspirazione più universale di tutti gli esseri viventi, tornare alla quiete del mondo inorganico»;23 di qui la sovrapponibilità delle mappe, già evidenziata, tra il livello sotterraneo della pulsione di morte e quello superiore del principio di piacere). Tutto sembrerebbe risolto per il meglio, quando irrompe nel ragionamento di Freud un altro elemento che scombina nuovamente il quadro. L’autore è così trascinato, suo malgrado, nel vero al di là, più volte annunciato e sinora sempre rimandato (come osserva Derrida, in questo testo Freud sembra giocare col rocchetto, rilanciando ogni volta la meta un po’ più in là).24 Non vi troveremo né la pulsione di morte né la coazione a ripetere, ma qualcosa di radicalmente diverso.
4. Al di là
Nel tentativo di costruire un quadro omogeneo si apre una nuova breccia quando Freud si accorge che la pulsione di morte non può essere l’unica radice, ultimativa, cui ricondurre tutti i moti della psiche. Vi è almeno un’altra radice che si colloca totalmente al di là di tutto quanto ipotizzato sin qui: le pulsioni sessuali. Queste, infatti, «appaiono in una luce completamente diversa».25 Rispetto alla pulsione di morte e alle sue momentanee deviazioni (quelle pulsioni vitali già definite come «guardie del corpo della morte»), quelle sessuali «sono le pulsioni vitali vere e proprie; operano contro l’intento delle altre pulsioni, che per la loro funzione portano alla morte».26 Finalmente troviamo un «contro»: qui non si tratta più di curve laterali e nemmeno di livelli che reduplicano di sotto le medesime strade che troviamo di sopra dirette verso la stessa meta; si tratta piuttosto di corsie che procedono in direzione contraria. All’inizio del sesto paragrafo le due direzioni opposte sono così definite: «pulsioni dell’Io», che «spingono verso la morte»,27 e «pulsioni sessuali», che spingono «verso la continuazione della vita».28 Abbiamo allora principio di piacere e pulsione di morte riuniti sotto l’insegna dell’eliminazione di ogni tensione e, nella corsia inversa, le pulsioni sessuali quali «perturbatrici della pace psichica» che «producono costantemente delle tensioni».29
Ma, appena individuate queste due corsie, Freud inizia a zoppicare, come infine egli stesso ammette affidando la conclusione del libro a una citazione del poeta Rückert.30 Parte cioè un giro di ipotesi e di false piste che pervadono tutto il sesto paragrafo. Il tentativo è sempre trovare un principio unitario, o almeno un minimo comun denominatore a tutti i moti della psiche. A tal scopo l’autore prima tenta, senza successo, di riportare le pulsioni sessuali alla radice ultima della pulsione di morte, come aveva già fatto col principio di piacere, ammettendo che si sentirebbe sollevato se anche lo scopo delle pulsioni sessuali potesse essere ricondotto a una qualche forma di «ritorno»;31 poi tenta, senza successo, l’altra strada, ovvero confutare l’ipotesi della pulsione di morte con argomenti tratti dalla biologia32 ma fallisce nuovamente («la nostra attesa che la biologia potesse escludere decisamente l’esistenza delle pulsioni di morte non è stata soddisfatta»33).
Nel giro di poche pagine il nostro passa dunque velocemente dal dualismo (pulsioni sessuali versus pulsioni di morte) al monismo («forse non esistono in generale che pulsioni libidiche»34) e di nuovo al dualismo («la nostra concezione è stata dualistica fin dall’inizio, e oggi […] lo è più che mai»35). Per concludere con un monismo irrisolto o scisso al proprio interno («se non vogliamo abbandonare l’ipotesi delle pulsioni di morte, dobbiamo supporre che fin dall’inizio fossero associate alle pulsioni di vita. Ma dobbiamo ammettere che qui lavoriamo con un’equazione a due incognite»36). In breve, comunque si dispongano le tessere, sembra che resti sempre una casella vuota, inafferrabile e irriducibile ai principi economici che Freud via via prova ad abbozzare. Per venire a capo di quello che è ormai diventato un labirinto di strade intrecciate, difficilmente riconducibili a un’unica via d’uscita, bisognerebbe «chiarire l’origine della riproduzione sessuale e la provenienza delle pulsioni sessuali in genere».37 Ma dopo altre false piste, piombiamo nel buio più totale: l’origine della sessualità è «un sito tenebroso dove non è penetrato neanche il raggio di un’ipotesi».38
Questa difficoltà a chiarire la provenienza del sessuale (o l’origine delle pulsioni, posto che tutte le pulsioni siano sessuali, secondo una delle ipotesi messe in campo) va presa molto sul serio: la sessualità è ciò che disturba, è l’elemento che complica il quadro, comunque lo si voglia comporre. È il «vero» al di là. Ma in un senso assai più radicale e problematico di quanto non appaia a prima vista: al di là di ogni partizione, al di là di ogni soglia che distingue e spartisce domini, talmente al di là da non trovare una vera e propria collocazione (né totalmente su un versante, quello del principio di piacere e della sottostante pulsione di morte, né su un versante totalmente altro). In questo peregrinare freudiano la sessualità sembra insomma ricoprire proprio il ruolo che lo strutturalismo assegna alla casella vuota:39 un posto senza occupante che si sposta di continuo e risulta perciò inallocabile nella struttura. Se l’origine della sessualità è un «sito tenebroso» è forse perché, come suggerisce Alenka Zupančič, con essa ci troviamo di fronte a una contraddizione strutturale40 che, per dirla con Lacan, è dell’ordine del Reale: qualcosa di impossibile, di irriducibile al sapere e, in particolare, a quel sapere economico che vorrebbe spiegare il movimento a partire da uno o più principi. Motivo per cui ogni pensiero economico va qui incontro al proprio fallimento.41 Non è allora un caso che qui Freud zoppichi alla ricerca di un principio causale (d’altronde, come osserva Lacan, la ricerca eziologica non può che zoppicare).42 La sessualità è, in ultima analisi, un buco nel sapere (e lo zoppicare, direbbe Badiou, ne è la «supplenza»43). È questo inciampo la vera eredità freudiana del testo del 1920 che Lacan sviluppa a modo suo. Ma che cosa rende la sessualità così problematica e inafferrabile?
5. Ritmo
Se c’è una peculiarità che rende Eros inassimilabile al quadro che Freud tenta di delineare, questa è la ripetizione di un negativo all’interno di un positivo. Eros si mostra cioè scisso al proprio interno tra due poli, un meno e un più, l’uno implicato nell’altro. Qualora si tenti di catturarlo ci s’imbatte dunque – come abbiamo letto – in «un’equazione a due incognite». L’autore vi si sofferma di sfuggita in due occasioni, citando prima Schopenhauer, poi Platone. Nella prima occasione egli osserva che, se la morte è il vero scopo dell’organismo vivente, la riproduzione sessuale ha uno scopo del tutto diverso.44 Essa punta alla vita; ma non ha di mira la vita dell’individuo, del singolo organismo, bensì la vita della specie – o, nei termini di Schopenhauer, la volontà di vivere – la quale passa attraverso la morte dell’individuo. C’è dunque una morte (individuale) all’interno della vita (sovraindividuale), un negativo all’interno di un positivo. Nella seconda occasione, il padre della psicoanalisi sta cercando di ricondurre la pulsione sessuale a una qualche forma di «ritorno», per rintracciare un possibile legame con la coazione a ripetere, e, non senza un certo imbarazzo, avanza un’ipotesi tratta dal mito. Si tratta del racconto di Aristofane nel Simposio di Platone, il quale «postula l’esistenza di una pulsione che deriva dal bisogno di ripristinare uno stato precedente».45 Anche nella pulsione sessuale vi sarebbe dunque una spinta al ritorno, volta a ripristinare quella unione originaria che precedette la vita dell’individuo, secondo il mito platonico dell’androgino che qui Freud tenta timidamente di ritrascrivere su basi biologiche: la pulsione alla riunificazione sarebbe sorta nel momento in cui la sostanza divenuta vivente fu scissa in piccole particelle e, in seguito, la stessa pulsione sarebbe stata demandata alle cellule germinative.46 Troviamo qui nuovamente un negativo (platonicamente, la mancanza o, in termini biologici, la scissione cellulare che genererebbe la spinta alla riunificazione) iscritto entro un positivo (l’unione sessuale come ritorno a un’unione originaria).
La spinta al ritorno potrebbe così fungere da minimo comun denominatore di tutti i moti e le pulsioni all’interno dell’organismo. Purtroppo però il tipo di ritorno che l’autore rintraccia in Eros è del tutto peculiare: si tratta di un ritorno selvaggio, indomito, poco incline a conciliarsi con le partizioni e coi principi economici che egli ha messo in campo. La spinta a riprodursi è infatti sì spinta al ritorno (a ricostituire l’intero), ma, nello stesso tempo, è ciò che dà luogo a una nuova ripetizione (a un nuovo individuo che, mosso dalla mancanza, a sua volta sarà spinto a ricostituire l’intero). Non si tratta di un ritorno che chiude i giochi, come nel caso dell’inerzia (ritorno a uno stato inanimato), ma di un ritorno che li riapre costantemente: esso infatti non fa che ripetere il negativo iscritto nel positivo. È un ritorno all’origine che riscrive l’origine e la rilancia. Dunque, un ritorno scisso al proprio interno, poiché è un andare indietro (all’unione originaria) andando avanti (riproducendo la mancanza e, dunque, la spinta). Come un arciere che tende l’arco indietro per scoccare la freccia –per ricorrere a una delle più antiche immagini della sessualità come ritmo di vita e morte, ricorrente in diverse tradizioni.47 D’altronde, nella lingua greca basta spostare l’accento e bíos (vita) diviene biós (arco) come nota Lacan citando il detto di Eraclito: «all’arco è dato il nome della vita e la sua opera è la morte».48
È proprio questa duplicità, o bi-direzionalità, l’elemento di disturbo che impedisce di comporre tanto un semplice monismo quanto un netto dualismo delle pulsioni e rende Eros inallocabile entro un quadro economico come quello aristotelico-benthamiano. Laddove questo postula un principio «trascendentale», ossia esterno al quadro e ai suoi moti (il fine è la fine), il labirinto freudiano è costretto a confrontarsi con un principio mobile immanente alla mobilità del quadro: un principio la cui mobilità coincide coi moti che esso stesso suscita. E non vi è fine a questa spinta (in Pulsioni e loro destini la pulsione è infatti definita come una «forza costante»49), giacché il suo moto, piuttosto che tendere all’inerzia, è dell’ordine del ritmo, della pulsazione, ossia della ripetizione di un meno interno a un più. In parole povere: vi è in Eros – inteso sia come riproduzione sessuale sia come pulsione sessuale – un’apertura all’Altro, o semplicemente ad altro, che scombina ogni quadro economico supposto chiuso e autoconclusivo. E tale apertura è dell’ordine di una pulsazione: ripetizione della morte nella vita, del negativo nel positivo.
Per un caso curioso, questo ritorno/ripetizione che Freud pone sotto l’insegna di Eros è ciò che Kerenyi, in uno dei suoi studi più ponderosi, identifica in Dioniso: si tratta di un ritmo che stringe in un rapporto dialettico il bíos (la vita individuale o «vita finita») e la zoé (la vita sovraindividuale o «vita infinita»). Il primo termine, bíos, non indica semplicemente la vita – chiarisce il filologo ungherese nel volume Dioniso – poiché, se questa vuol essere vita «individuata», ossia vita distinta di un singolo organismo, deve includere anche la morte. Il bíos può anzi essere definito solo per mezzo della morte. E, più precisamente, per mezzo di un certo modo di morire, per il quale Kerenyi ricorre a un’espressione di Diodoro Siculo che suona in sorprendente sintonia con la definizione freudiana della pulsione di morte: «il venir meno della vita con una morte propria».50 Invero, la sintonia non deve sorprendere, poiché, tre capitoli dopo, l’autore di Dioniso scopre le carte dicendosi in debito con Al di là del principio di piacere per l’idea che «la morte e la distruzione della vita sarebbero legate alla vita stessa»51 e traccia la loro relazione dialettica con queste parole: «la zoé è il presupposto della pulsione di morte, mentre la morte è qualcosa soltanto in relazione alla zoé».52 Non c’è infatti bíos (vita finita comprendente la morte) senza zoé poiché questa è il presupposto di quello; ma non c’è zoé senza bíos poiché questo, con la sua finitezza, scandisce il ritmo di quella e, col proprio annientamento, ne permette la perpetuazione. È questo pulsare della morte entro la vita che gli antichi Greci celebravano come Dioniso, arcaico e oscuro dio dell’erotismo e della distruzione, della morte e della rinascita, il cui culto proveniente da Creta è di molto anteriore alla civiltà greca e – suggerisce Kerenyi – forse millenario.
È tale ritmo dionisiaco – che reinscrive e ogni volta rilancia un meno dentro a un più, una morte dentro alla vita – ciò che caratterizza l’al di là del principio di piacere? Se così fosse, tale ritmo non sarebbe allora al di là più di quanto non sia al di qua, giacché esso sembra ripetere ciò che è al di qua (la morte individuale quale meta dell’omonima pulsione) all’interno dell’al di là (la vita sovraindividuale quale meta di Eros). Inizialmente abbiamo infatti collocato sul primo versante la pulsione di morte, sull’altro la pulsione sessuale, come due corsie a direzione inversa, salvo poi osservare che la seconda (al di là) ripete la prima (al di qua) rilanciandola (nell’al di là). Ecco che la soglia volta a spartire i due versanti inizia a farsi porosa: il ritmo dionisiaco insito nella sessualità finisce per far vibrare l’al di qua con l’al di là, mettendo a soqquadro ogni rigida partizione. Come una casella vuota che, continuando a muoversi, finisce per essere ovunque generando non poco scompiglio. È questo ritmo a mandare in tilt le mappe che via via Freud disegna costringendolo a zoppicare su e giù, di qua e di là, tra monismo e dualismo, alla ricerca di una via d’uscita. Proprio questo ritmo è l’elemento di Al di là del principio del piacere che Lacan raccoglie e rilancia, salvo spostarlo dal piano biologico, in cui Freud tenta di radicarlo, al piano storico-linguistico: l’origine di questa pulsazione, di questa ripetizione di un meno interno a un più, è da rintracciarsi per lo psicoanalista francese non nella natura ma nella cultura. Possiamo ora sciogliere il paradosso da cui abbiamo preso le mosse – quello per cui la pulsione di morte, che il lacaniano collocherebbe automaticamente al di là, nel testo di Freud pare debba invece iscriversi nell’al di qua. L’al di qua e l’al di là in Freud alla fine si intrecciano e lo stesso, come vedremo, accade in Lacan.
6. Remix
La ripetizione dell’al di qua (pulsione di morte) all’interno dell’al di là (pulsione sessuale) risuona in questa frase di Lacan: «ogni pulsione è virtualmente una pulsione di morte».53 Che vuole dire «virtualmente»? Vuol dire che la pulsione di morte non è altro dalla pulsione sessuale, ma è un negativo al suo interno. È il meno che abita ogni pulsione, il vuoto attorno a cui circolano le pulsioni parziali: una declinazione o una pulsazione negativa che dà loro un ritmo. Si inizia allora a intuire come la pulsione di morte – che Freud a un certo punto colloca assieme al principio di piacere al di qua della soglia, dove domina l’imperativo ad abbassare la tensione – abbia fatto i bagagli e, nella lettura che ne danno i lacaniani, si sia trasferita nell’al di là (portandosi dietro la coazione a ripetere). Se qualcosa crea tensione, anziché spegnerla, per un lacaniano è certamente la pulsione di morte; ma quando si va a rileggere il testo di Freud i conti non tornano. Come tenere insieme queste due interpretazioni della medesima pulsione? Di fatto, rispetto al testo del 1920, ciò che Lacan compie, più che una cover (il «ritorno a Freud»), è un remix, dove non tutti gli elementi originali sono rimasti al loro posto (d’altronde, quello stesso testo di Freud è già di per sé un remix dei precedenti testi di metapsicologia con alcune audaci innovazioni ed elementi che si spostano di continuo).
Come suggerisce Zupančič, il punto di incontro tra i due è proprio la sessualità. E la sessualità intesa come ritmo, come ripetizione di un negativo interno a un positivo. Convergono qui due linee di lettura che Lacan dà di Freud. In primo luogo, per Lacan, come per Freud, ogni pulsione è pulsione sessuale (è una delle ipotesi avanzate dal testo del 1920 che lo psicoanalista francese valorizza e mette a frutto). In secondo luogo, per Lacan, come per Freud, la pulsione sessuale – e dunque ogni pulsione – è abitata da un negativo, che nel primo prende appunto il nome di «pulsione di morte». Quale invece il punto di divergenza? È vero che in Pulsioni e loro destini Freud descrive la pulsione come qualcosa di psichico e insieme somatico, ma in Al di là del principio di piacere egli tenta di ricondurre la pulsazione di Eros (la ripetizione di un negativo interno a un positivo) su basi biologiche, sia quando cita Schopenhauer sia quando la ravvisa in Platone. L’ipotesi che egli timidamente avanza a partire dal Simposio – chiamando in causa «piccole particelle», «protisti» e «cellule germinative» che sarebbero volte alla riunificazione –54 è in merito piuttosto eloquente. D’altronde anche nel 1915, laddove distingueva pulsioni di autoconservazione e pulsioni sessuali, si appellava alla biologia per indicare il peculiare ritmo di queste ultime (una volta «mature» e distaccatesi dalle altre), ossia il loro procedere al di là dell’individuo per ripetere la vita (e con essa la morte dell’individuo, il meno interno al più): «La biologia ci insegna che non si deve considerare la sessualità alla pari delle altre funzioni dell’individuo, perché i suoi scopi vanno al di là dell’individuo ed hanno come loro contenuto la produzione di nuovi individui, cioè la conservazione della specie».55 E ancora nel 1937, rintracciando l’implicazione di Eros e Thanatos nel pensiero di Empedocle, ribadisce: «Il nostro interesse si accentra su quella dottrina di Empedocle che si avvicina talmente alla dottrina psicoanalitica delle pulsioni, da indurci nella tentazione di affermare che le due dottrine sarebbero identiche se non fosse per un’unica differenza: quella del filosofo greco è una fantasia cosmica, la nostra aspira più modestamente a una validità biologica».56 Se insomma c’è un ritmo, un’enigmatica implicazione della morte nella vita, il suo pulsare va originariamente rintracciato nel mondo organico.
Per Lacan, invece, tale pulsazione va sradicata dal biologico (tanto da parlare di «creazione ex nihilo»57) e ritrascritta sul piano culturale: essa ha sì effetti sul corpo, ma non ha nel corpo la propria origine, bensì nel linguaggio. Più precisamente: essa ha origine non nel linguaggio inteso come catena significante già istituita, semmai nell’evento del linguaggio inteso come istituirsi della catena significante. Quell’evento che è un trauma e un taglio a partire dal quale emerge un soggetto.58 Troviamo così la celebre definizione della pulsione come «eco nel corpo del fatto che c’è un dire».59 La pulsione è l’eco di un trauma che non finisce di farsi sentire. È cioè un ritmo, la cui origine risiede nel taglio significante: è un effetto del modo in cui il significante marchia il corpo umano trasformandolo in un corpo pulsionale. Laddove il linguaggio e la sua catena simbolica non hanno presa, ossia nel regno della natura, non si trovano pulsioni ma solo istinti.
Solo nell’essere umano vi sono pulsioni e sono tutte pulsioni parziali, polimorfe, ognuna diretta verso il proprio oggetto: ciò che esse hanno in comune – il motivo per cui sono chiamate «sessuali», riunite sotto l’ampio ombrello della sessualità – è l’essere tutte abitate da un negativo quale effetto del taglio significante. Non rispondendo a un bisogno organico, l’oggetto delle pulsioni è tutto sommato indifferente, come già nota Freud. Per Lacan, infatti, le pulsioni non mirano all’oggetto al fine di calmare la tensione suscitata dal bisogno. Producono semmai una soddisfazione in eccesso che sregola la funzione organica rovesciando la causalità (nell’ingordigia, ad esempio, è la soddisfazione in eccesso a spingere verso il cibo e non un bisogno organico). Ma questo eccesso non spiega, da solo, il rovesciamento causale, ossia la relativa autonomia della pulsione rispetto alle funzioni organiche. Se la pulsione ripete la soddisfazione in eccesso, non è per godere ma perché quest’ultima dà corpo al negativo. La pulsione non vuole godere. L’eccesso (il più) è solo un mezzo per replicare il negativo (il meno), che è il vero scopo della ripetizione e l’effettivo motore della dinamica pulsionale. È interessante notare come anche in Lacan, una volta messa a tema la nozione di pulsione e il suo particolare ritmo (cui è dedicato una parte del Seminario XI), la soglia che divide l’al di qua e l’al di là del principio di piacere inizi a danzare, facendosi di seminario in seminario sempre più porosa sino a sbriciolarsi del tutto. Per certi versi, un ulteriore remix. Come se il ritmo pulsionale si espandesse sino a contaminare col proprio battito ogni partitura e partizione (parafrasando lo stesso Lacan: si inizia col ritmo e si finisce remixati).
7. Danza
Lo sgretolarsi della soglia che in Lacan divide l’al di qua e l’al di là del principio di piacere può essere mostrato lungo un tragitto a tappe attraverso i seminari, procedendo in maniera necessariamente schematica e dunque per figure. Negli anni ’50, e segnatamente nel Seminario II (1954-55), la soglia è tracciata da Lacan in modo molto netto: di qua la natura, di là la cultura, per dirla grossolanamente. Di qua troviamo cioè il principio di piacere quale criterio omeostatico volto a regolare la vita dell’organismo, di là troviamo il dominio del simbolico governato dal significante. Se quest’ultimo è collocato oltre la soglia è perché esso introduce la morte – ossia mortifica e significantizza il corpo vivente – e perché oltrepassa l’al di qua – il regno della natura in cui vige il principio di piacere – riscrivendolo nell’ordine della catena significante.60 A scandire tale catena vi è la ripetizione (S~1~ – S~2~) che qui Lacan chiama «coazione a ripetere» collocandola al di là in quanto irriducibile all’istanza omeostatica del principio di piacere.
Nel Seminario VII (1959-60) troviamo invece il simbolico e il principio di piacere dalla stessa parte, a guardia di una barriera che li separa dall’al di là, dove si colloca il Reale. La soglia è qui un confine presidiato e il simbolico prende le sembianze di una rete, sia nel senso di un reticolo di significanti, sia nel senso di una rete protettiva contro la zona morta dell’orrore che si estende al di là: das Ding. Oltre la barriera, che solo eroi come Antigone o Sade hanno il coraggio di varcare,61 sul lato del Reale si trova il fuoco ustionante del godimento legato alla pulsione di morte (anch’essa collocata al di là – come la coazione a ripetere nel Seminario II – in quanto irriducibile all’istanza omeostatica del principio di piacere).
Nel Seminario XI (1964-65) quella stessa barriera inizia a vibrare. È questo infatti il seminario in cui Lacan istituisce una stretta connessione tra significante e godimento, ossia tra ciò che prima stava totalmente al di qua e ciò che stava totalmente al di là secondo la partizione del Seminario VII. La loro connessione sta nel taglio: è infatti l’azione incidente del significante a generare la pulsione, la quale gira attorno a un vuoto (l’oggetto a) e trova la propria soddisfazione in questo ritmo, in questo pulsare attorno a un meno (come mostra il diagramma tratto dal Seminario XI).62
Il meno è allora il segreto motore del più, è ciò che spinge alla ripetizione, a compiere, sempre di nuovo, un altro giro. Ed ecco che il negativo interno a un positivo rende più porosa la soglia che spartisce l’al di qua e l’al di là: il godimento – che nel 1959 era trattenuto al di là, come temibile fonte di ustione – è ora un «godimento normale»,63 frammentato e non completamente estraneo al significante da cui trae origine. Lo stesso inconscio si fa poroso: è questo il seminario in cui Lacan ne parla come di un bordo che si apre e si chiude, come se fosse un orifizio, una bocca o un ano.
Nel Seminario XVII (1969-70) la barriera è crollata. Il significante è definito «apparecchio di godimento»64 e la loro connessione è chiaramente descritta come primitiva e fondamentale. È il taglio del significante a introdurre un meno e un più, una perdita e un eccesso: esso infatti da una parte cancella un godimento originario (il godimento mitico, innominabile, del castoro, dell’ostrica o dell’albero, per stare agli esempi di Lacan)65 e dall’altra produce come contropartita il plusgodere. Se nel Seminario VII avevamo da una parte una rete (il simbolico) e dall’altra un fuoco (il godimento), ora è come se, venuta meno la barriera che li teneva separati, le fiamme del godimento circolassero lungo gli snodi della rete, nei bordi attorno ai buchi (il sapere, con la sua trama simbolica, diventa «mezzo di godimento»66). L’assenza di un netto confine tra zone separate lascia spazio a un cosmo variegato in cui si hanno una dispersione di godimento ridotto a fettine («entropia») e una correlativa dispersione di significanti invisibili presenti dappertutto («aletosfera»).
In questo seminario il ritmo della pulsione si fa danza, per riprendere l’immagine con cui si apre la postfazione di Miller, una «danza della pulsione di morte».67 Tale ballo, che anima l’intero seminario, vede scambiarsi di posto gli elementi dei celebri «quattro discorsi», qui illustrati da Lacan per mezzo dei rispettivi schemi che rievocano, in Miller, gli scheletri ballerini nell’iconografia della danza macabra. Ad animare il ballo è la ripetizione significante che, diversamente dal Seminario II, ora Lacan mette dalla stessa parte del principio di piacere in quanto entrambi fanno da contrappunto al godimento.68 Invero, non vi sono più «parti», né soglie che spartiscono, ma un unico spazio in cui ripetizione significante e godimento risuonano come i due tempi di uno stesso ritmo, quel battere e quel levare che non hanno di per sé alcuna sussistenza se non nel reciproco rimando e che, nel loro intreccio costitutivo, scandiscono il balletto dei discorsi, del sapere e della scienza. Come se il parlessere fosse, prima di tutto, un danzessere; vale a dire, un essere vivente originariamente mosso dal ritmo (come suggerisce il Seminario XI legando le danze rituali alla pulsione),69 un essere la cui eventuale compostezza è solo una variazione diminuita della danza70 e il cui parlare e il cui sapere sono solo una variazione diminuita del cantare.71 Nella ripetizione si produce e riproduce uno scacco, una perdita, un meno ed è questo negativo impastato di godimento che la ripetizione ha di mira: per indicare tale meno come segreto motore del più, Lacan ricorre all’immagine di un batacchio che «venendo a battere e a risuonare sulle pareti della campana, ha prodotto godimento e godimento da ripetere».72 E tutto – compresa la parola di Lacan, il suo discorso, il suo sapere – danza al ritmo di questa campana.
8. Onda
Il batacchio che colpisce la campana produce un’onda sonora. E, a ben guardare, colta sotto il profilo della danza, la casella vuota perde la forma di un buco e assume quella di un’onda. Dobbiamo pensare così la pulsione in quanto eco del trauma? Un’onda prodotta dal taglio significante? Ma che cos’è un’onda? Si tratta, spiegano i fisici, di un’oscillazione prodotta dallo spostamento di alcune particelle che trasmettono il proprio movimento a quelle adiacenti. L’onda sonora, dunque, non è sempre composta dalle stesse particelle che via via si trasmettono l’oscillazione: non consiste né nelle particelle prese singolarmente, una per una, né nella loro somma complessiva considerata come un insieme statico. Consiste semmai nel movimento oscillatorio che queste si trasmettono, ma tale movimento, di per sé, non è un elemento empirico. Nello stesso tempo, però, neppure sta altrove rispetto alle particelle empiriche grazie a cui prende corpo.
Il medesimo può dirsi del ritmo: ciò che in esso si ripete non è nulla di empirico, pur non essendo altrove che nei battiti empirici, ognuno dei quali rievoca un primo battito che non ha mai avuto luogo se non come «ritorno».73 Il più grande musicologo del Novecento, ricordando Klages, definisce il ritmo come «ripetizione dell’analogo» in cui ciò che è fondamentale e inafferrabile ritorna «con forme sempre nuove».74 Il medesimo, ancora, può dirsi dell’umana parola nella sua forma primigenia, ossia il mito: esso non consiste che nelle sue variazioni, ognuna delle quali ripete, modificandolo, un racconto originario che non ha mai avuto luogo, se non come effetto di ritorno, e il cui senso risiede interamente nelle sue traduzioni-modificazioni. È quanto mostra Lévi-Strauss nei suoi ultimi lavori, traendo ispirazione dalla morfologia goethiana e giungendo alla conclusione che «i miti sono solamente traducibili gli uni negli altri, allo stesso modo in cui una melodia non è traducibile che in un’altra melodia che mantiene con essa dei rapporti di omologia».75
In tutti questi casi, potremmo dire, ciò che ritorna non è mai stato. Infatti, ciò che ritorna – e si ripete come un’onda in ogni ritorno – non sta altrove rispetto agli elementi che lo ripetono ma neppure si riduce a essi. Gli elementi sono un meno rispetto al più – l’oscillazione, l’eccesso vibratorio – che in essi si ripete; d’altra parte, se guardata a rovescio, è l’onda a essere un meno rispetto alla positività degli elementi empirici, in quanto essa non sussiste se non nell’evocazione o vibrazione – si potrebbe dire nella danza – che questi producono. Ritmo, mito e danza sono al centro delle cerimonie dionisiache che, come mostra Kerenyi, celebrano il ripetersi della zoé nel bíos, della vita nella morte e della morte nella vita. Per pensare la complessa relazione tra questi due poli – che egli ricava da Al di là del principio di piacere – l’autore di Dioniso si appella alla dialettica, riferendosi esplicitamente a Hegel.76 Chi invece ha compiuto un notevole sforzo per pensare tale rapporto in termini non dialettici, sempre con riferimento al testo di Freud, è il Deleuze di Differenza e ripetizione. È qui che possiamo leggere l’eredità di Al di là del principio di piacere nei termini di un ritmo o di un’onda come ritorno di ciò che non è mai stato.
Chiariamo: l’onda non è più la casella vuota, se s’intende quest’ultima come un buco nella struttura, un vuoto delimitato da precisi confini accanto a dei pieni, elementi della struttura a loro volta determinati. Laddove vuoto e pieni sono pensati nella loro determinatezza, si ragiona ancora in termini dialettici, come pensa Kerenyi. L’onda è piuttosto una casella vuota estesa a tutta la struttura, immanente ad ogni suo elemento, come se quella casella avesse contaminato con la propria oscillazione l’intero sistema: è il vuoto come nient’altro che il movimento dei pieni.77 La casella vuota in cui s’imbatte Freud in Al di là del principio di piacere quando si confronta con Eros e Thanatos – l’intreccio di pulsione di morte e pulsione sessuale – ha questo statuto paradossale: è inallocabile, ma per di più, come visto, la sua inallocabilità è contagiosa; è principio del movimento ma non sussiste al di fuori dei moti che suscita. Ora, proprio l’onda potrebbe essere una buona immagine sotto cui pensare la pulsione di morte in Deleuze: un «principio trascendentale»78 che non è e non ha una forma – in ogni senso, anzitutto in quello kantiano –, ma che si estende, o si ripete, in ogni forma.
Nelle prime pagine di Differenza e ripetizione la pulsione di morte compare come un meno ma con una funzione eminentemente positiva: il meno quale segreto motore del più, ciò che batte al cuore della ripetizione. La ripetizione si dà dunque a vedere sotto due profili – l’uno empirico e l’altro trascendentale – che potremmo chiamare il ripetente e il ripetuto. Da una parte c’è il ripetente, ossia l’elemento empirico, ogni volta diverso, in cui la ripetizione si concretizza: i vari «travestimenti» – scrive Deleuze alludendo alle analisi di Freud – nel lavoro del sogno o del sintomo. Si tratta di varianti o di maschere che non si limitano a ricoprire una ripetizione bruta e nuda, «ma sono al contrario gli elementi genetici interni della stessa ripetizione, le sue parti integranti e costitutive».79 Dall’altra c’è il ripetuto, il quale non è un avvenimento reale dell’infanzia o un’esperienza originale traumatica (e quindi rimossa). Come nel caso del mito, non c’è un evento iniziale o un qualche racconto originario che verrebbe poi riportato e modificato nelle sue varianti. Ciò che ritorna non è mai stato, ossia non è nulla di empirico. Ciò che viene ripetuto è semmai dell’ordine del trascendentale: Lacan lo chiamerebbe il taglio significante, qui Deleuze lo chiama pura differenza. Tale taglio è fuori dall’esperienza individuale80 essendone piuttosto l’evento (lacanianamente, ciò che istituisce il soggetto come tale). Ma mediante il travestimento esso è compreso nella ripetizione81 come pulsione di morte: è il vuoto che abita il pieno, qualcosa come una vibrazione che scandisce i vari travestimenti, il ritmo delle maschere nel loro succedersi. È, potremmo ancora aggiungere, l’eco del taglio, se s’intende un taglio che non è mai stato (nell’esperienza) e la cui eco altro non è se non il continuo tagliarsi del taglio stesso. Per dirla con Nancy, «c’è una pulsione primordiale che tuttavia non preesiste rispetto all’esistere, ma in esso forza e forma il suo getto».82
Da una parte il ripetente, dall’altra il ripetuto, abbiamo detto. Invero, non vi è per Deleuze alcuna reale partizione. Non vi sono parti da pensare in una relazione dialettica. Non a Hegel ma a Spinoza è qui necessario appellarsi. C’è solo la ripetizione, che è contemporaneamente pura differenza (pulsione di morte) e i suoi diversi travestimenti. Non si può infatti estrarre e isolare questi ultimi dalla ripetizione poiché essi, scrive Deleuze, sono «meccanismi differenziali appartenenti all’essenza e alla genesi di ciò che si ripete».83 Né si può estrarre e isolare la pura differenza «dalla ripetizione in cui si forma, ma anche dove si nasconde».84 Il pensiero in cui si cimenta Differenza e ripetizione potremmo dunque riassumerlo così: il trascendentale e l’empirico sono il medesimo visto sotto due diversi profili, come i due lati di un nastro di Moebius – dunque, un solo lato che, se guardato a tratti anziché nella sua totalità, dà l’impressione di esser due. Nelle parole di Deleuze: «la stessa cosa traveste ed è travestita».85 La stessa cosa traveste – potremmo anche dire: accade – ed è travestita – potremmo anche dire: è accaduta. La stessa cosa è il movimento attraverso cui essa si istituisce ed è, insieme, la cosa istituita. Come per Lacan, anche per Deleuze Thanatos non è dunque altro da Eros: la pulsione di morte non è che un risvolto di ogni pulsione, un’onda. Ovvero, l’oscillazione che le pulsioni parziali hanno in comune e per la quale sono definite «sessuali»: «Eros e Thanatos si distinguono in questo, che Eros deve essere ripetuto, può essere vissuto solo nella ripetizione, mentre Thanatos (come principio trascendentale) è ciò che dà la ripetizione a Eros».86
Un’ultima osservazione sulle implicazioni di questo pensare per onde. Deleuze non si limita a un’analisi teoretica della ripetizione – nei suoi risvolti empirico-trascendentali – nell’opera di Freud; vi vede anche un potenziale terapeutico e liberatorio: «Se la ripetizione ci rende malati, è anche in grado di guarirci».87 Infatti, l’operazione con cui si guarisce in psicoanalisi, il transfert, «fa ancora parte della ripetizione, più che mai della ripetizione».88 Si tratta di ripetere nella variazione, di dare alla ripetizione una diversa piega. A nulla servirebbe una teoria del nuoto, nella forma di una «spiegazione» da ripetere alla lettera, perché non si impara a nuotare se non a diretto contatto con le onde, esemplifica Deleuze: quando il corpo combina alcuni suoi punti con i moti principali dell’onda, esso sperimenta una ripetizione che non è più mera ripetizione dello Stesso, ma ripetizione che implica differenza, da un’onda all’altra, trasportando tale differenza nello spazio ripetitivo così costituito.89 Questa suggestione deleuziana – che ritorna come un’onda, e proprio nella forma dell’ondeggiare, in Critica e clinica –90 suona in singolare sintonia con l’idea dell’ultimo Lacan per cui «la fine di un’analisi coincide con il saperci fare con il sintomo».91 Saperci fare: ossia, non semplicemente eliminarlo – impresa destinata al fallimento – ma ripeterlo nella variazione. Per così dire, far ondeggiare il sintomo, manipolarlo immettendolo in un’onda. Per questo – suggerisce Lacan in altra occasione – l’interpretazione del sintomo da parte dell’analista non dev’essere teorica, non deve avere la forma di una «spiegazione». L’interpretazione «non è fatta per essere compresa, è fatta per produrre onde».92
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S. Freud, Jenseits des Lustprinzips (1920), trad. it. di A.M. Marietti e E. Colorni, Al di là del principio di piacere, in id., Tre saggi sulla sessualità. Al di là del principio di piacere, Bollati Boringhieri, Torino 2012, p. 227. ↩︎
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Ivi, p. 189. ↩︎
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Ivi, p. 146. ↩︎
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Ivi, p. 189 (corsivo dell’autore). ↩︎
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Cfr. A. Zupančič, What IS Sex? (2017), trad. it di P. Bianchi, Che cosa È il sesso?, Adriano Salani, Milano 2018. ↩︎
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S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 190. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 191. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 147. ↩︎
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Cfr. S. Freud, Entwurf einer Psychologie (ed. 1950), trad. it. Progetto di una psicologia, in id., Opere, vol. II, Bollati Boringhieri, Torino 1969. ↩︎
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Cfr. id., Al di là del principio di piacere, cit., p. 197 e p. 216. ↩︎
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Cfr. ivi, pp. 178-82. ↩︎
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Ivi, p. 182. ↩︎
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Ivi, p. 180 (corsivo mio). ↩︎
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Ivi, p. 184. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 186. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 225. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 186. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 197. ↩︎
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Ivi, p. 225. ↩︎
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Cfr. J. Derrida, La carte postale. De Socrate à Freud et au-delà (1980), trad. it. La cartolina. Da Socrate a Freud e al di là, Mimesis, Milano 2017. ↩︎
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S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 191. ↩︎
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Ivi, p. 193 (corsivo mio). ↩︎
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Ivi, p. 197. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 227. ↩︎
-
Cfr. ivi, p. 228. ↩︎
-
Cfr. ivi, p. 197. ↩︎
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Cfr. ivi, pp. 198-206. ↩︎
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Ivi, p. 206. ↩︎
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Ivi, p. 211. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
-
Ivi, p. 218. ↩︎
-
Ivi, p. 216. ↩︎
-
Ivi, p. 218. ↩︎
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Cfr. G. Deleuze, À quoi reconnaît-on le structuralisme? (1976), trad. it. Lo strutturalismo, SE, Milano 2004, p. 45 e ss. ↩︎
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Cfr. A. Zupančič, Che cosa È il sesso?, cit. ↩︎
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Sul nesso tra sessualità e fallimento del pensiero, cfr. J. Lacan, Le séminaire. Livre XXIII. Le sinthome (2005), trad. it. di A. Di Ciaccia Il seminario. Libro XXIII. Il sinthomo (1975-1976), Astrolabio, Roma 2006 e il commento di Miller in J.-A. Miller, Pièces detachées (2006), trad. it. di L. Ceccherelli Pezzi staccati. Introduzione al Seminario XIII “Il sinthomo”, Ubaldini, Roma 2006, p. 34 e ss. ↩︎
-
Cfr. J. Lacan, Le séminaire. Livre XI. Les quatre concepts fondamentaux de la psychanalyse (1973), trad. it. di A. Succetti Il seminario. Libro XI. I quattro concetti fondamentali della psicoanalisi (1964), Einaudi, Torino 2003, p. 23. ↩︎
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Cfr. A. Badiou, Che cosa deve significare “rapporto sessuale” per poter affermare che non c’è?, trad. it. di E. Redaelli, in id., Il sesso, l’amore, a cura di F. Leoni e S. Lippi, Mimesis, Milano 2019, p. 23. ↩︎
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Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 206. ↩︎
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Ivi, p. 218. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 220. ↩︎
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Cfr. M. Schneider, Il significato della musica (1970), trad. it. di A. Audisio, A. Sanfratello, B. Trevisano, SE, Milano 2007, p. 28. ↩︎
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J. Lacan, Il seminario. Libro XI, cit., p. 172. ↩︎
-
S. Freud, Triebe und Triebschicksale (1915), trad. it. Pulsioni e loro vicissitudini, in Opere 1905/1921, Newton Compton, Milano 1995, p. 817. ↩︎
-
K. Kerenyi, Dionysos (1976), trad. it. Dioniso, Adelphi, Milano 1992, p. 19. ↩︎
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Ivi, p. 197. ↩︎
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Ivi, pp. 197-8. ↩︎
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J. Lacan, «Position de l’incoscient», in id., Écrits (1966), trad. it. di G. B. Contri «Posizione dell’inconscio», in Scritti, Einaudi, Torino 2002, p. 852. ↩︎
-
Cfr. S. Freud, Al di là del principio di piacere, cit., p. 220. ↩︎
-
Id., Pulsioni e loro vicissitudini, cit., p. 820. ↩︎
-
Id., Die endliche und die unendliche Analyse (1937), trad. it. Analisi terminabile e interminabile, in Opere. 1930-1938. L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti, Boringhieri, Torino 1979, p. 528. ↩︎
-
J. Lacan, Le séminaire. Livre VII. L’éthique de la psychanalyse (1959-1960) (1986), trad. it. di M.D. Contri, Il seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi, Einaudi, Torino 2008, p. 137 e ss. ↩︎
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Cfr. A. Pagliardini, Jacques Lacan e il trauma del linguaggio, Galaad, Giulianova 2011. ↩︎
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J. Lacan, Il seminario. Libro XXIII, cit., p. 16. ↩︎
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Cfr. M. Recalcati, Jacques Lacan. Desiderio, godimento e soggettivazione, Cortina, Milano 2012, pp. 292-3 in nota. ↩︎
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Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro VII, cit. ↩︎
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Cfr. id., Il seminario. Libro XI, cit., p. 173. ↩︎
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J.-A. Miller, Le six paradigmes de la jouissance (1999), trad. it. «I sei paradigmi del godimento» in id., I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma 2001, p. 19. ↩︎
-
J. Lacan, Le séminaire. Livre XVII. L’enverse de la psychanalyse (1991), trad. it. di A. Di Ciaccia, Il seminario. Libro XVII. Il rovescio della psicoanalisi (1969-1970), Einaudi, Torino 2001, p. 54. ↩︎
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Cfr. id., Il seminario. Libro XVII, cit., p. 222. ↩︎
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Ivi, p. 41. ↩︎
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J.-A. Miller, La psicoanalisi messa a nudo dal suo celibe (1991), postfazione a J. Lacan, Il seminario. Libro XVII, cit., p. 269. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 283. ↩︎
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Cfr. J. Lacan, Il seminario. Libro XI, cit., p. 147. ↩︎
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Cfr. C. Sachs, Eine Weltgeschichte des Tanzes (1933), trad. it. Storia della danza, Net, Milano 1966; U. Artioli, Il ritmo e la voce: alle sorgenti del teatro della crudeltà, Laterza, Bari 1984; A. Attisani, L’arte e il sapere dell’attore. Idee e figure, Accademia University Press, Torino 2015. ↩︎
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Cfr. M. Schneider, Il significato della musica, cit. ↩︎
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J. Lacan, Il seminario. Libro XVII, cit., p. 56. ↩︎
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Cfr. C. Sini, Opere, vol. V: Transito Verità. Figure dell’enciclopedia filosofica, Jaca book, Milano 2012. ↩︎
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M. Schneider, Il significato della musica, cit., p. 112. ↩︎
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Cfr. C. Lévi-Strauss, Histoire de Lynx (1991), trad. it. Storia di lince, Einaudi, Torino 1993, p. 34; cfr. E. Redaelli, «La struttura immanente. Simultaneità del tutto e delle parti in Lévi-Strauss», in Nóema, 10, 2019, pp. 17-39. ↩︎
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Cfr. K. Kerenyi, Dioniso, cit., p. 197. ↩︎
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Cfr. F. Leoni, «Mana, gesto, struttura», in id., Jacques Lacan, una scienza di fantasmi, Orthotes, Napoli-Salerno 2019, pp. 55-73. Sull’oscillazione cfr. anche G. Solla, «Zero o dell’impossibile», in id., Il debito assoluto, l’economia della vita, ETS, Pisa 2018, p. 149 e ss. ↩︎
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G. Deleuze, Différence et répétition (1968), trad. it. Differenza e ripetizione, Cortina, Milano 1997, p. 27. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. anche R. Brassier, Nihil Unbound, Palgrave Macmillan, New York 2007, p. 236 e ss. ↩︎
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Cfr. G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 28. ↩︎
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J.-L. Nancy, Sexistence (2017), trad. it. di F.R. Recchia Luciani, Sessistenza, Il Melangolo, Genova 2019, p. 45. ↩︎
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G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 28. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ivi, p. 29. ↩︎
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Ivi, p. 30. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Cfr. ivi, p. 35. ↩︎
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Cfr. id., Critique et clinique (1993), trad. it. Critica e clinica. Cortina, Milano 1996, in particolare p. 18 e pp. 76-77. ↩︎
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J. Lacan, Le séminaire. Livre XXIV. L’insu que sait de l’une-bévue s’aile a mourre (1977), lezione del 16 novembre 1976, «Ornicar?», n.12/13, p. 7. ↩︎
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J. Lacan, «Conférences et entretiens dans des universités nord-américaines» (1976), in Scilicet, 6/7, p. 35. ↩︎