1. Introduzione
Nel passaggio dal mythos al logos è un intero polimorfo universo a eclissarsi, popolato da divinità, culti, epifanie, riti, preghiere e canti, che lasciano il posto al muto e silenzioso rigore della ragione, motore di un sapere laico e secolarizzato. Questo passaggio di consegne — con cui il sacro si ritira da un’ampia parte della sfera pubblica sempre più colonizzata da una cultura e da una logica profane — prende avvio in un’epoca e in una regione determinate. Il pensiero razionale, come noto, sorge in Grecia circa due millenni e mezzo fa. Nasce con la filosofia, che scalza l’antica sapienza mitologica, per poi svilupparsi nei secoli attraverso la scienza e la tecnica, sino a diffondersi su scala planetaria. Là dove il logos si fa strada, miti e riti scompaiono oppure sopravvivono nel ristretto ambito della «religione». A cosa è dovuta questa profonda trasformazione culturale che fa tutt’uno con la perdita del sacro?
Per comprendere le ragioni della secolarizzazione, processo che si muove di pari passo con la diffusione e lo sviluppo della logica e della cultura occidentali, conviene prendere le mosse dall’originario senso sacrale che permea la vita e la cultura delle civiltà più arcaiche.
Se risaliamo all’esperienza dei primordi ogni cosa è un’epifania divina, una manifestazione del sacro, e non c’è attività umana che non ne sia coinvolta. Agli albori della civiltà non esiste dunque la «religione», come insieme di precetti, dogmi e credenze, né come sfera del culto distinta da attività profane. Nel mondo dei primordi tutto è originariamente una ierofania, una «rivelazione» dell’ordine cosmologico-sacrale insito nelle cose. Qualche breve esempio può essere utile a rievocare l’esperienza primordiale del sacro, così come era vissuta dall’uomo arcaico.
Il cielo e la terra sono sacri. Sacra, dunque, è anche la città, concepita come punto di contatto tra il mondo celeste degli dèi e quello terreno degli uomini mortali (uno dei tanti nomi dell’antica città di Babilonia significa appunto «legame tra cielo e terra»). La città è una imago mundi, una rappresentazione in piccolo del mondo, un microcosmo che ripete al proprio interno le leggi del macrocosmo. Perciò, fondare una città non consiste semplicemente nell’erigere case e palazzi, ma richiede un insieme di formule e rituali caratteristici, a partire dal sulcus primigenius con cui vengono tracciate le prime fondamenta. Grazie a Plutarco sappiamo che nella fondazione di Roma fu probabilmente tracciato, come modello primitivo, un quadrato iscritto in un cerchio: si tratta di figure concentriche di valore cosmico-sacrale che troviamo non solo alla base delle città dell’Italia antica, ma anche in quelle dell’Africa settentrionale e occidentale e dei monasteri del buddhismo tibetano. Le figure vengono tracciate attraverso un cerimoniale che, nel caso della popolazione africana Mande, ad esempio, prevede il sacrificio di un toro e l’erezione di un altare. Poiché la città è un’immagine del mondo, la sua fondazione richiama la creazione del cosmo e il centro a partire da cui la si erige è simbolicamente il centro dell’universo. Come ha osservato Mircea Eliade, «la cosmogonia è il modello tipologico di tutte le costruzioni, e ogni città, ogni nuova casa che si costruisce, imita ancora una volta, e in un certo senso ripete, la Creazione del Mondo» (Eliade 1948, p. 344). Anche la casa è dunque, in piccolo, una rappresentazione del cosmo, il cui centro è rappresentato simbolicamente dal focolare.
In questa originaria concezione sacrale del mondo, dove ogni costruzione terrena trova il proprio modello nell’ordine divino del cosmo, tutte le attività umane significative sono scandite dai riti e hanno valore cultuale e sacrale. Il lavoro agricolo, ad esempio, non è una semplice tecnica profana per assicurarsi alimenti, ma un’insieme di operazioni rituali che trovano il loro senso in quanto parte del ciclo cosmico che regola la vita celeste e terrena con l’alternarsi dell’anno, delle stagioni, del periodo delle semine e di quello del raccolto. Tutta una serie di gesti cerimoniali accompagna dunque il lavoro dell’agricoltore, in epoche e in regioni del mondo anche molto diverse e distanti tra loro: lavarsi e indossare capi puliti all’inizio della semina e del raccolto; non seminare i primi chicchi di grano ma gettarli fuori dal solco, come offerte votive agli dèi e ai geni; lasciare le prime spighe raccolte all’inizio della mietitura sul campo per gli uccelli o per gli angeli, per le «tre vergini» o per la «dea del grano», ecc. Molto diffusa è anche l’usanza di non falciare le ultime spighe del grano, come avveniva in Finlandia, Estonia, Svezia, Germania. Altri complessi rituali accompagnano ancora la falciatura del primo e dell’ultimo covone di un campo (cfr. ivi, pp. 301-331).
Sacro è poi anche il pasto. L’esperienza vissuta dall’uomo dei primordi nell’atto di cibarsi è cioè di tutt’altro ordine da quella che possono avere le persone, oggi, attorno a una tavola imbandita. Nutrirsi non è la semplice soddisfazione di un bisogno, ma, come tutte le azioni umane dei primordi e le parole che le accompagnano, chiama in gioco il rapporto degli uomini con gli dèi. Il Dio incarna infatti il principio della fecondità della vita e di tutto ciò che è vivente, perciò la terra e ogni cosa che la abita gli appartiene. Sottrarre alla vita un essere vivente per cibarsene, andare a caccia e uccidere la preda, implica allora un vulnus, una ferita inflitta all’ordine divino che governa l’universo. A questo «strappo» si rimedia col sacrificio, consacrando una parte del cibo al Dio come restituzione, così come nel lavoro agricolo si lasciano i primi chicchi di grano o le prime spighe come offerte votive. L’uomo non si sente padrone della terra, ma percepisce la propria condizione come in costante «debito» nei confronti del divino da cui riceve ogni bene e da cui dipende ogni cosa. Ancora oggi, prima di ogni pasto, sopravvive in alcune famiglie l’usanza di «rendere grazie a Dio».
Anche il linguaggio non appartiene agli uomini, ma proviene dagli dèi. Nella mentalità arcaica chi parla anzitutto non è l’uomo, ma è la natura. Le parole non sono cioè concepite come strumenti in possesso dell’uomo, ma anzitutto come modalità con cui la natura divina si manifesta all’uomo. Per così dire, non è l’uomo che con le parole va incontro al mondo, riferendosi ad esso coi propri nomi, ma è il mondo che viene incontro all’uomo, rivelandosi ad esso tramite i nomi. Soffermiamoci sul carattere originariamente «rivelativo» della parola primordiale, così come è stato analizzato da Friedrich Creuzer (cfr. Creuzer 1810; Sini 1991). Parole e cose non sono qui distinte, come nell’esperienza che noi abbiamo del linguaggio, ma inscindibilmente legate l’una all’altra, appartenenti a un medesimo orizzonte di senso. Non vi è, in altri termini, distinzione tra ciò che vede l’occhio e ciò che ascolta l’orecchio: azione, voce e visione avvengono in unità sinergica, sono fuse in un unico gesto. Gesto «endeictico» che nominando indica la cosa e indicandola la rende manifesta, la porta all’attenzione degli occhi. Come se, dicendo «albero», staccassi l’albero dallo sfondo (dalla percezione mutevole e confusa di ciò che mi circonda) per portarlo in primo piano. Ecco che allora «compare» l’albero, grazie al fatto di essere stato nominato. La parola originaria, cioè, «staglia» la cosa, la fa apparire sullo sfondo. Di qui l’attribuzione di un potere magico alle parole: gli antichi ritenevano che esse avessero un potere sulle cose. Anche il linguaggio è dunque una ierofania, una manifestazione del sacro: le parole non sono altro che il mostrarsi della natura, ovvero, che è il medesimo, degli dèi. Ogni parola è allora originariamente, come aveva intuito Nietzsche, un nome divino.
Ci bastino questi brevi cenni. L’esperienza originaria della parola e del mondo che essi rievocano va scomparendo con il diffondersi, nell’Antica Grecia, della scrittura alfabetica. Il proliferare di testi in caratteri alfabetici, a partire dall’VIII secolo a. C., è infatti contemporaneo al sorgere del logos, che apre lo spazio a un altro modo di parlare, di pensare e di agire: quello profano e razionale che, da allora, contraddistingue la cultura occidentale, ormai tendenzialmente globale. Qual è il nesso tra questa pratica di scrittura e di lettura dei testi e quel processo di secolarizzazione che determina la scomparsa del mito e del senso originario del sacro? Qual è il legame tra un mutamento avvenuto sul piano della forma (il passaggio dalla parola orale alla sua trascrizione alfabetica) e quello a cui vanno incontro i contenuti (dalla narrazione mitologica al sapere logico-razionale)?
2. Ritmo e formule
Il medium è il messaggio, diceva Marshall McLuhan. Con questo semplice motto lo studioso americano intendeva dire che il medium, il mezzo di comunicazione, non solo dà forma al messaggio, ma ne modifica e ne determina il contenuto. La «forma» del messaggio, per esempio il fatto che esso sia comunicato oralmente, per mezzo della voce, piuttosto che per mezzo di segni scritti, altera la sua stessa «sostanza». Noi qui ci chiediamo allora: in che senso quel medium che è la scrittura influenza e determina i significati che essa veicola e diffonde? E, più specificatamente, in che senso un certo tipo di scrittura, quale quella alfabetica, rispetto ai sistemi logografici e sillabici, incide e trasforma i contenuti, ovvero la cultura e il modo di pensare della civiltà che ne fa uso?
Così domandando chiediamo del modo in cui si è costituita la civiltà occidentale e la nostra profana «visione del mondo» a partire dal nostro tipo di scrittura.
Per comprendere come l’utilizzo della scrittura abbia modificato la forma mentis umana, condizionando il modo di pensare e strutturandone i contenuti secondo determinate direttive, dobbiamo anzitutto rivolgerci alla cosiddetta «oralità primaria», cioè a quelle popolazioni e civiltà che non conoscevano e non facevano uso del linguaggio scritto, ma unicamente di quello orale. Se, come già accennato, l’uomo dell’oralità primaria viveva in un cosmo sacrale dove ogni cosa era una manifestazione del divino, si tratta ora di vedere come egli si esprimeva e comunicava.
Il sapere è da sempre connesso alla memoria. Tutta la nostra cultura e le nostre conoscenze sono «memorizzate» su testi scritti, le cui parole e i cui contenuti sono facilmente recuperabili attraverso l’atto di lettura. Ma in una cultura esclusivamente orale le parole sono deperibili ed evanescenti: in quanto puri suoni, esistono solo nel momento in cui stanno svanendo (se dico «permanenza», quando arrivo a «nenza», «perma» se n’è già andato). Perciò, come potevano le civiltà orali, anzitutto, conservare il proprio patrimonio culturale, in assenza di sistemi di scrittura? Pensando «pensieri memorabili»: questa è la risposta che Walter J. Ong illustra nel saggio Oralità e scrittura. Prima dell’invenzione della scrittura, i pensieri veramente degni di memoria, pubblicamente ripetuti e tramandati per generazioni, avevano la struttura dei motti e dei proverbi. Pensiero ed espressione orali erano cioè vincolati alle «frasi fatte», facili da memorizzare grazie alla loro struttura ritmica: «rosso di sera bel tempo si spera», «divide et impera», «sbagliare è umano, perseverare è diabolico», ecc. L’intonazione musicale e l’andamento ritmico della sintassi (assonanze, antitesi, allitterazioni) aiutano infatti il ricordo e la ripetizione. Tutto il sapere delle antiche civiltà orali aveva perciò una struttura «formulaica», era cioè costruito su formule e moduli standard, creati apposta per un pronto recupero orale (cfr. Ong 1982).
Anche le leggi che governavano la città erano organizzate per proverbi e formule mnemoniche, la cui sintassi ritmica non era una mera decorazione, ma l’unico modo per ricordare i principi etici e giuridici che regolavano la vita sociale. Anche la narrazione epica e mitologica, attraverso cui le popolazioni narravano l’origine della propria stirpe e trasmettevano i propri valori e modelli di riferimento, era organizzata su stereotipi e formule standard (la bella principessa, il soldato coraggioso, l’aiutante dell’eroe, ecc.). Ce lo testimoniano i poemi omerici, per anni tramandati oralmente prima dell’invenzione dell’alfabeto: epiteti ed espressioni fisse (come «Achille piè veloce», «il saggio Nestore», il sorgere dell’Aurora «dalle dita di rosa») e un repertorio di temi standard (l’assemblea, il pasto, il duello e così via) permettevano ad aedi e cantori di riportare alla memoria e raccontare ogni volta daccapo le imprese di Achille e Ulisse, che solo successivamente, ai tempi di Pisistrato, furono trascritte per mezzo dell’alfabeto divenendo ciò che oggi conosciamo come l’Iliade e l’Odissea.
Il pensiero e la cultura delle civiltà orali erano perciò strettamente connessi con quelli che Ong ha definito «moduli mnemonici» e che i linguisti, a partire da Jakobson, chiamano «parallelismi». «Parallelista», come spiega l’antropologo Carlo Severi, «è un modo di raggruppare parole in formule ripetute, facili da trattenere nella memoria, per poi inserire, attraverso la ripetizione delle formule, una serie di varianti significative. Ne nasce una melopea, una musica di parole che imprime all’enunciazione uno stile particolare, fatto di riprese e variazioni» (Severi 2004, p. 19). Sono paralleliste, o formulaiche, tanto le culture orali arcaiche quanto le popolazioni tutt’ora, o sino a poco tempo fa, ignare di scrittura, dal continente americano a quello asiatico.
Questi moduli e queste formule, come gli epiteti, i proverbi e le frasi fatte, sono reperibili talvolta anche in testi scritti, ma in una cultura puramente orale non sono espressioni occasionali, sono la sostanza stessa del pensiero. Nelle civiltà arcaiche costituivano cioè l’essenza stessa della legge e della cultura di un popolo. Gli uomini dell’oralità pensavano per «moduli», il loro modo di narrare, di comunicare, la loro stessa visione del mondo, procedeva cioè necessariamente per cliché, per sottili variazioni e differenti declinazioni di «modelli standard»: era questo l’unico modo di conservare e trasmettere il proprio patrimonio culturale, ovvero i propri miti, i propri principi e le proprie leggi. Il ritmo, dettato dalla composizione poetica e dalla struttura metrica, e l’intonazione musicale assicuravano infine una facile assimilazione e memorizzazione di tali contenuti. Perciò, per riportarli alla memoria, questi uomini non parlavano — come faremmo noi, esponendo concetti e spiegazioni — semmai cantavano.
3. Una sapienza circostanziata
L’uomo dell’oralità non solo cantava la propria antica sapienza (le leggi divine che governavano il cielo e la terra, i racconti mitologici sull’origine del suo popolo e della sua civiltà, ecc.) ma, più propriamente, la riviveva attraverso il rito, la musica e la danza. Questi tre elementi non sono solo mezzi per aiutare la memoria ma sono anche l’unico veicolo attraverso cui la sapienza arcaica può essere rievocata e partecipata dalla comunità. In una cultura orale non c’è infatti diffusione del sapere attraverso testi scritti, non ci sono né libri né biblioteche, ci sono soltanto «eventi»: rappresentazioni «teatrali», rituali e musicali, cui tutta la comunità prende parte (le feste sacre e i riti). È qui, in queste occasioni, che rivivono il mito e la sapienza antica, cioè la memoria collettiva di un popolo (quella che oggi chiameremmo «cultura»).
Si tratta perciò di un tipo di memoria molto differente dal nostro. Quando noi memorizziamo un testo, ad esempio una poesia, abbiamo sotto mano l’originale che ripetiamo parola per parola. Nelle civiltà orali, invece, non c’è alcun originale, non c’è alcun testo o modello di riferimento, l’unica cosa che «c’è» è la rievocazione contingente e circostanziata che si concretizza sul momento, attraverso il rito collettivo. Non si tratta cioè mai di una semplice e asettica ripetizione di contenuti già noti, perché scritti e fissati da qualche parte, ma di una rievocazione, ogni volta «unica», strettamente connessa alla recitazione ritualizzata, all’intonazione musicale, all’azione mimica e alla danza. L’uso dei gesti, dei movimenti corporei, di strumenti musicali e del canto è parte integrante di ciò che si vuole ricordare, è per così dire la «pasta» di cui è fatto il mythos: senza di essi non vi sarebbe alcuna rimemorazione, alcun racconto delle origini, della legge e dell’identità di un popolo. Senza di essi tutto il sapere cadrebbe inevitabilmente nell’oblio, e non vi sarebbe né «cultura» né «civiltà». La sapienza orale vive quindi sempre in contesti determinati, è legata a situazioni concrete ed è caratterizzata da un pensiero empatico, «corporeo», situazionale, vincolato alle circostanze della sua espressione e comunicazione.
4. Le scritture sillabiche
L’invenzione e l’utilizzo della scrittura hanno radicalmente trasformato la cultura umana, ristrutturando i processi mentali di intere popolazioni, poiché hanno anzitutto innescato una diversa modalità di fruizione della parola. La vera rivoluzione avviene però con la scrittura alfabetica. E il senso di questa rivoluzione diviene comprensibile solo se guardiamo alle diverse modalità di fruizione delle scritture sillabiche rispetto a quelle alfabetiche.
Va anzitutto notato che l’alfabeto, in senso stretto, è un’invenzione greca. I sistemi consonantici (fenicio, ebraico, aramaico, ugaritico e arabo) più che dei sistemi alfabetici sono infatti dei veri e propri sillabari, che indicano la sillaba da pronunciare denotando graficamente la consonante (cfr. Gelb 1952). La struttura di questi sistemi, come quelli semitici, richiede dunque al lettore un continuo sforzo di decifrazione: il segno-base b può infatti valere per le sillabe ba, be, bi, ecc. In ebraico, ad esempio, la notazione grafica QTL può leggersi QoTéL («colui che uccide»), QaTaL («ha ucciso»), QaToL («uccidere»), QToL («uccidi!»). Il sistema di notazione sillabico presenta dunque delle ambiguità strutturali: a seconda delle vocali aggiunte nell’atto di lettura, la parola scritta cambia significato. Per questo motivo in alcuni sistemi sillabici troviamo le cosiddette matres lectionis, ovvero segni di consonanti «deboli» utilizzati per indicare il timbro della vocale e suggerire quindi al lettore la pronuncia e il significato corretti. Ma si tratta di uno stratagemma introdotto in epoche recenti rispetto all’originaria diffusione di queste scritture e utilizzato in modo sporadico, non soggetto, almeno in Oriente, ad alcuna sistematizzazione. Ora, in assenza di matres lectionis, in un sistema puramente sillabico, come può il lettore decidere il valore fonetico di un segno in un determinato frangente del testo? Detto altrimenti, come fa a sapere se in quel momento deve leggere QTL come QoTéL piuttosto che come QaTaL? Questa domanda, che per noi lettori alfabetici resta a tutta prima avvolta nel mistero, può utilmente introdurci nella mentalità di un lettore sillabico e nella sua modalità di fruizione della scrittura. Qualcosa di completamente diverso dalla nostra mentalità alfabetica.
5. L’orizzonte sacrale e la memoria corporea
In generale possiamo dire che la decifrazione dei segni sillabici avviene in base al contesto (cfr. Herrenschmidt 1996). Ma a che cosa ci riferiamo concretamente quando parliamo di «contesto»?
Dobbiamo anzitutto notare che la finalità delle scritture logografiche e sillabiche era originariamente assai diversa da quella, per noi familiare, della scrittura alfabetica. Per noi alfabetizzati scrivere è una modalità di comunicazione tra gli uomini. Nell’antichità i pittogrammi e i geroglifici erano invece segni pregni di significati «cosmologici», di-segni che manifestavano la parola del Dio, che era insieme legge celeste e terrena. Le prime pratiche chirografiche non miravano dunque ad una comunicazione puramente convenzionale, ma erano inserite in più ampi orizzonti di senso, legati alla sacralità della vita e del cosmo e al rapporto degli uomini con gli dèi (cfr. Fabbrichesi 2006, pp. 19-26). Lettura e scrittura non erano uno strumento a disposizione di qualsiasi scopo, non erano un semplice mezzo slegato da qualsiasi contesto (come lo è per noi la scrittura alfabetica), ma erano sempre concretamente calate in pratiche cultuali, politico-religiose: quella che veniva registrata (scritta) non era una parola qualunque, ma sempre la parola dotata di autorità, la parola della legge divina e comunitaria (il sacro e la politica, come inizialmente accennato, qui coincidono, costituiscono un unico orizzonte entro cui soltanto cose e parole acquistano un senso e un ordine). Non solo. Abbiamo detto che la parola apparteneva agli dèi. Linguaggio e scrittura non erano dunque mezzi volti alla «comunicazione», bensì modi di esperire e di frequentare il mondo (ossia, modalità di partecipazione all’ordine cosmologico-sacrale in cui si strutturava il mondo).
Iniziamo allora a comprendere come fosse possibile decifrare i segni sillabici al di là delle loro ambiguità strutturali: quelli scritti non erano infatti discorsi profani e quotidiani, ma «formule» (nel senso prima indicato per la cultura orale) già conosciute e riconosciute in cui si manifestava l’autorità religiosa. Si trattava cioè di espressioni formulaiche di valore rituale e sacrale appartenenti alla tradizione orale. Leggere significava dunque decifrare i segni ripetendo oralmente dei «moduli mnemonici» appresi attraverso il ritmo, la musicalità e la gestualità corporea.
Si pensi alle madrasse, le scuole coraniche dove gli allievi imparano il testo sacro dell’Islam: alcune immagini televisive, circolate al tempo della guerra in Afghanistan, mostravano dei bambini intenti a ripetere i versetti del Corano come una cantilena dondolando la schiena avanti e indietro. Come ha notato Ivan Illich, questi allievi applicano tutte le loro membra a incorporare i versetti: i movimenti del corpo rievocano infatti quelli degli organi della parola a cui si sono accompagnati e il ricordo dei versetti spesso corrisponde all’attivazione di una precisa sequenza di comportamenti muscolari (cfr. Illich 1993). La cantilena e la memoria «corporea», con cui vengono appresi i versetti, torneranno utili quando, di fronte al testo scritto, si dovranno decifrare i segni sillabici e comprenderne il significato. È questa memoria «sinestetica» (basata sulla pagina scritta, ma anche sulla musicalità e sui movimenti corporei e perciò coinvolgente nello stesso tempo la vista, l’udito e i muscoli) a indirizzare il lettore, suggerendogli il giusto valore fonetico di un particolare segno in un particolare frangente, se ad esempio l’insieme di segni QTL vada letto come QoTéL piuttosto che come QaTaL. In altri termini, la notazione sillabica, più che a una «fedele copia» del discorso orale, assomiglia a uno «schema» avente la funzione di riattivare sinesteticamente alcuni percorsi mnemonici. I suoi grafemi sono, per così dire, strumenti mnemotecnici di valore sacrale: lungi dall’essere «segni» nel senso in cui li intendiamo noi, andrebbero piuttosto pensati come «simboli», il cui senso è rievocato musicalmente attraverso il rito (la preghiera, il canto e i gesti che li accompagnano).
Com’è evidente, la fruizione di un testo sillabico non è equivalente alla nostra esperienza di lettura alfabetica, che non richiede né alcuno sforzo mnemonico, né alcuna partecipazione empatica, corporea o musicale. E non li richiede per una semplice ragione: perché nella notazione alfabetica, a differenza di qualsiasi altro sistema di scrittura, ogni segno ha un unico valore fonetico. Questa apparente inezia ha in realtà delle conseguenze di vasta portata, la prima delle quali può riassumersi così: l’alfabeto cancella la corporeità.
6. La cancellazione del corpo
Nell’invenzione del loro sistema di scrittura i Greci adottarono e adattarono i caratteri sillabici fenici ma, per ragioni metriche, avevano la necessità di annotare anche le vocali: il carattere breve o lungo delle sillabe, decisivo per la lettura metrica greca, dipende infatti dalla successione delle vocali (cfr. Robb 1971; Ronchi 1996, pp. 91-93). Per «registrare» il verso omerico, base di tutta la loro cultura, dovettero perciò ricorrere in modo sistematico alle matres lectionis, che i popoli semiti usarono solo in modo irregolare e sporadico. L’utilizzo di consonanti deboli in questa funzione fu inoltre facilitato dal fatto che esse risultavano pressoché «disoccupate» nella lingua greca, meno ricca di suoni consonantici. Questi segni, usati regolarmente, diventarono in pratica le vocali, avendo come effetto quello di ridurre il valore sillabico del segno-base al semplice ruolo di consonante. La consonante si genera perciò da una sorta di «contraccolpo» che l’uso sistematico delle matres lectionis finisce per esercitare sul segno sillabico trasformandone il valore e la funzione. Di fatto, i Greci crearono le vocali e, di conseguenza, le consonanti (ma sarebbe più corretto dire: è la peculiare pratica di lettura della lingua greca a produrre uno spostamento di ruoli e funzioni da cui emergono specularmente vocali e consonanti) dando luogo al primo sistema di trascrizione interamente fonetico, per il quale un segno equivale univocamente a un suono, senza possibili ambiguità.
Questo sistema di scrittura, che fa la sua comparsa nella Grecia del IX-VIII secolo a. C., trasporta il «nastro fonico» sotto il completo dominio della vista (la voce orale è ridotta a un insieme di elementi interamente visibili) ed elimina perciò dall’esperienza della scrittura e della lettura tutta la componente corporea, empatica e sinestetica che sino ad allora aveva caratterizzato la cultura delle civiltà grafiche e, prima ancora, delle civiltà orali. Per leggere un testo alfabetico non c’è bisogno di richiamare alla memoria il significato delle parole dondolandosi, aiutandosi con altri gesti corporei o attraverso una particolare intonazione musicale. Propriamente, non c’è più neppure bisogno di usare la lingua e le corde vocali, cioè di leggere ad alta voce: la riduzione interamente visiva delle parole rende inutile il «parlato» (ma sarebbe meglio dire il «cantato»). E se oggi noi rimaniamo perplessi nel vedere le immagini delle madrasse, dove la lettura è una «danza» corporea, stupore e ilarità suscitava invece nei Greci del V secolo, come ci testimonia una commedia di Aristofane, il fatto di vedere un uomo leggere in modo muto e asettico dei testi alfabetici. La nostra attuale modalità di lettura, caratterizzata dal silenzio e dall’immobilità del corpo, era cioè, quando l’alfabeto ha iniziato a diffondersi nell’Antica Grecia, qualcosa di assolutamente inusuale e decisamente buffo.
Per la prima volta, staccando l’atto della scrittura e della lettura dall’uso della voce, si apre all’uomo la possibilità di tradurre in segni scritti qualsivoglia cosa venga detta, non più e non solo la parola dotata di autorità e legata alla memoria orale. Perchè questa possibilità non è data alle scritture sillabiche? Immaginiamo se gli antichi popoli semitici avessero voluto trascrivere in termini sillabici «qualsiasi cosa», anche discorsi non importanti, frasi occasionali, parole dette di sfuggita: non sarebbero poi stati in grado di leggerli. Senza l’aiuto della memoria orale avrebbero avuto non poche difficoltà a tradurre foneticamente i segni scritti, a far cioè rivivere un discorso mai «sentito», se non occasionalmente, mai «cantato» o mai appreso. Si capisce allora l’immenso campo di possibilità aperto dalla «tecnologia» alfabetica: essa, in quanto esercizio di scrittura sganciato dalla voce, non più subordinato perciò alla memoria e alla tradizione orali, permette di elaborare nuovi pensieri attraverso la prassi scritturale, ovvero di inventare nuovi enunciati scritti (ne è testimonianza l’incredibile prolificità letteraria dei Greci). Non solo. Essa decontestualizza la parola e la libera dalle catene della sua fruizione circostanziata. Vediamo in che senso.
Come abbiamo visto il «contesto» svolge una funzione determinante nella modalità di fruizione della scrittura sillabica: le parole acquisiscono significato solo nel loro habitat effettivo e concreto, cioè nelle situazioni determinate in cui si colloca l’atto della lettura. Questo habitat è caratterizzato dalla memoria corporea, ovvero dalla musicalità, dal rito e dai gesti che scandiscono l’orizzonte sacrale di queste antiche civiltà. La lettura è perciò rievocazione di un fiume ipnotico di parole organizzate in formule mnemoniche come una cantilena. Leggere, in ultima analisi, significa intonare una melopea e ritmarla con il corpo. L’utilizzo della scrittura alfabetica, invece, rendendo di fatto non necessario il ricorso alla corporeità, e cioè alla ritualità e alla gestualità della comunicazione orale, svincola la parola e il pensiero dalle circostanze concrete della loro espressione e fruizione. La parola si sgancia così dalle formule e dai gesti rituali. Questo diverso modo di praticare la lettura e la scrittura, introdotto dall’alfabeto e dovuto a una differente notazione dei segni, permette, grazie alla totale decontestualizzazione della parola, il sorgere di quelle capacità di «analisi» e di «astrazione» che caratterizzeranno tutta la cultura alfabetico-occidentale.
7. Nasce l’atteggiamento critico e analitico
Riassumiamo i passi sin qui compiuti per proseguire poi più speditamente lungo il nostro percorso.
Le scritture sacre, come i sistemi ideografici e i sillabari, sono semplicemente una traccia del discorso «parlato» e sono perciò ampiamente dipendenti dalla cultura orale. I segni sillabici e logografici non sono cioè altro che uno stimolo per la bocca e per l’orecchio aventi il fine di riportare alla memoria un discorso «già fatto», come le formule rituali, o già «organizzato» in una serie di moduli mnemonici, come nel caso della narrazione mitologica. Questo tipo di scritture sono quindi efficienti nella conservazione di testi, di discorsi e di formule già conosciuti a memoria ma non altrettanto nella creazione di nuovi enunciati. Detto altrimenti, esse non permettono di dire e pensare qualsiasi cosa, ma, proprio come nella cultura orale, solo di dire e pensare ciò che è già stato detto e pensato, cioè le parole dotate di autorità, in quanto espressione diretta degli dèi e nelle quali si manifesta l’ordine cosmologico-sacrale del mondo. Questa mentalità ripetitiva e conservatrice non è dovuta al fatto che tali popolazioni fossero «arcaiche» mentre noi saremmo «moderni» e, chissà perché, particolarmente «illuminati» e «creativi», ma è un effetto concreto e una precisa conseguenza dell’utilizzo della comunicazione orale o di un sistema di scrittura che dipende ancora largamente dall’uso della voce e della memoria orale, come il caso delle scritture logografiche e sillabiche. Ben diversa è la situazione per la scrittura alfabetica.
Come abbiamo visto, la notazione alfabetica determina anzitutto una nuova modalità di lettura e di fruizione del testo scritto. Se il lettore di un testo sillabico è totalmente immerso, con la mente e con il corpo, nel flusso elocutivo che va rianimando, il lettore alfabetico si trova invece a una costitutiva distanza dall’oggetto del discorso: il flusso elocutivo non è da lui incarnato nelle proprie membra, ma è interamente oggettivato su un supporto materiale che gli sta di fronte. Interamente, ovvero: lettera per lettera. Mentre il lettore sillabico si trova davanti solo delle «tracce», stimoli utili a riattivare dei percorsi mnemonici, il lettore alfabetico si trova davanti un «oggetto» del tutto autonomo e indipendente dalla memoria e dalla tradizione orale, separato dal proprio corpo, svincolato cioè dalla necessità di una rievocazione acustica e musicale. Si trova insomma di fronte a un muto e semplice «manufatto», che, richiedendo unicamente l’intervento della vista, cancella dall’atto della lettura tutta la componente multisensoriale. Da una lettura sinestetica, empatica e partecipativa, si passa così a una lettura silenziosa, analitica, «distaccata». In pratica, si potrebbe dire, dall’intonazione di un canto si passa alla «presa visione» di un testo.
La distanza che separa il lettore alfabetico dal testo che gli sta di fronte gli permette tutta una serie di operazioni che erano precedentemente impossibili. Il lettore può ora fermare il flusso discorsivo in ogni momento, può rileggere alcune parti del testo e saltare delle righe. Può cioè bloccarsi, tornare indietro e andare avanti, come se avesse tra le mani il telecomando di un videoregistratore. Può insomma meditare su ciò che sta leggendo, ragionare freddamente sul contenuto e prenderne le distanze. Questo tipo di operazioni rendono possibile e, alla lunga, producono un atteggiamento «critico» e «distaccato» nei confronti del testo e del suo contenuto. Tale distacco critico risulta impossibile a chi, come un lettore sillabico, incarna il contenuto e il pensiero di un testo nelle proprie membra, rivivendolo in un fiume ipnotico di parole dall’andamento ritmico e formulaico, finché cioè la sua modalità di espressione e comunicazione, ancora vincolata a un contesto orale, dipende dalla memoria sinestetica e dalle concrete circostanze della sua rievocazione. Con la scrittura alfabetica il «contesto» sinestetico ed empatico, musicale e gestuale, non è invece più necessario e diventa anzi ridondante. Viene così a cadere proprio il rito, con i suoi gesti, le sue formule e la sua coreografia. Stiamo cioè dicendo, come vedremo meglio in seguito, che la cancellazione del corpo, operata dall’alfabeto, produce e, di fatto, coincide con la cancellazione del rito. Con la diffusione della scrittura alfabetica — a causa delle sue modalità di fruizione e del tipo di operazioni che essa innesca — l’uomo esce dalla dimensione sacrale e rituale e si avvia a divenire quell’uomo «logico» e «analitico» che oggi conosciamo, protagonista di una cultura «critica» e «razionale» quale quella che caratterizza la storia dell’Occidente alfabetizzato.
8. Dal mythos al logos
Questo effetto di «sganciamento» dalla cultura orale è ben visibile nella rivoluzione culturale che avviene in Grecia in seguito alla diffusione della scrittura alfabetica: improvvisamente tutta una tradizione di miti, raccontati oralmente, si eclissa. Di più: è proprio il mito, come forma culturale, ad eclissarsi. Il mito era infatti strettamente legato al rito, cioè alle concrete circostanze della sua rievocazione musicale e gestuale. Sono proprio le diverse modalità di fruizione della scrittura, introdotte dall’alfabeto, ad aver modificato le circostanze della comunicazione emancipandola dalla ritualità e dalla gestualità originaria, ma è soltanto in quelle circostanze che il mito poteva vivere. Iniziamo forse ora a vedere in che senso la forma determina il contenuto — in che senso «il medium è il messaggio», per dirla con McLuhan: qui, alle soglie del VI secolo, è un intero orizzonte culturale a inabissarsi o, meglio, a trasformarsi in altro per effetto della diffusione di un diverso medium, quello alfabetico.
Il passaggio dal medium dell’oralità a quello della scrittura alfabetica, infatti, non comporta solo un distacco critico dai contenuti della tradizione, ma una loro radicale trasformazione. L’Iliade e l’Odissea non sono la «trascrizione» dell’epos cantato, ma una cosa del tutto diversa. Anzitutto perché l’«epos cantato» non esiste, come tale, da nessuna parte: come sappiamo, esso è un «evento» che si declina ogni volta in modo differente per svanire subito nel nulla; è la scrittura a fissarlo e a dargli una connotazione definita una volta per tutte. Cioè, a trasformarlo da «evento» in una «cosa», oggetto stabile e sussistente dotato di caratteristiche determinate. Inoltre, il canto epico, come più in generale il discorso orale, richiede un ascolto empatico e partecipativo: l’immedesimazione con la narrazione è l’unico modo per poter «seguire il filo» e «vedere» ciò che di volta in volta la parola evoca. Sicché, bisogna parteggiare per Achille o per Ettore, rivivere le battaglie, le passioni e i drammi narrati: non c’è qui spazio per la «neutralità» e il «distacco critico» tipici di una lettura «estetica» quale quella dell’Occidente alfabetizzato. Una volta trasformato il canto in segni visivi esso diventa invece un oggetto letterario: l’evento empatico, veicolo della paideia antica, è ora un «prodotto culturale». I suoi contenuti, travisati e stravolti, hanno assunto significati «estetici» e «letterari» che nulla hanno a che vedere con la loro precedente natura e fruizione (cfr. Sini 1994, pp. 28-36).
Quelli che Aristotele ha sotto gli occhi, i racconti degli dèi e degli eroi della mitologia greca raccolti intorno all’opera di Omero e di Esiodo, hanno completamente perduto la loro empatia e il loro senso originario. Presi «alla lettera» (cioè, trascritti) iniziano ad apparire del tutto assurdi e insensati. Infatti, avendo fissato nella scrittura le sue diverse versioni, ecco che il mito diventa equivoco e contraddittorio: la sua ricchezza e polisemia, dovute alla ripetizione-reinvenzione orale, diventano indice di confusione e arbitrarietà. Se di una stessa narrazione iniziano a essere registrate versioni differenti, l’uomo della scrittura non può fare a meno di chiedersi quale sia la versione corretta, per così dire «l’originale» di cui le altre costituirebbero una variante. Ma è questo un problema che può sorgere soltanto a partire da esigenze e interessi che non sono quelli che animano aedi e rapsodi nel loro intonare il canto delle Muse. Nel racconto tramandato dalla bocca all’orecchio, nella fruizione orale del mito, non esiste una versione «originale», non è cioè scritto da nessuna parte come dovrebbe essere il «vero» racconto mitologico. I criteri della coerenza e della logica aristotelica, prodotti dalla visualizzazione scritta del discorso orale, criteri con cui il mito nulla aveva a che spartire, ne hanno ormai distorto il senso. La parola pratica e poetica poteva ad esempio narrare che il Dio (Dioniso) è maschio e femmina, che il mendicante è nel contempo Atena, ecc. La scrittura alfabetica opera invece una riduzione dei contenuti in forma stabile: infatti, si potrebbe dire, «quello che hai scritto lo hai scritto, così come l’hai scritto» (Sini 1994, p. 59). Un tale principio non funziona, come abbiamo visto, per le scritture sillabiche e diverrà invece un caposaldo della cultura alfabetico-occidentale con il nome di «principio di non contraddizione». L’univocità del rapporto suono-segno e la sua fissazione «nero su bianco» produce cioè una parola irrevocabile. Così, per mezzo della notazione alfabetica e delle sue particolari caratteristiche tecniche, la parola e il discorso passano attraverso un processo di definizione e distinzione che assegna le cose a classificazioni e suddivisioni categoriali: o è maschio o è femmina, o è un mendicante o è un Dio, ecc. (tertium non datur). Il mondo polimorfo e polisenso dei primordi, il mondo delle pratiche sacrali e delle iniziazioni cultuali, svanisce e al suo posto sorge il mondo della oggettività universale, delle cose concettualmente definite, della verità univoca, omologa e profana. In breve, il mondo della verità logica e scientifica.
Sicché nel giro di breve tempo l’intero pantheon olimpico, da Apollo a Dioniso, un tempo oggetto di timore reverenziale e di culti devozionali, viene sbeffeggiato come frutto di favole ingenue, equivoche e superstiziose. Basti pensare alla critica mordace che nel VI secolo Senofane rivolge alla mitologia, accusandola di «antropomorfismo»: gli uomini, egli dice, hanno pensato gli dèi a loro immagine e somiglianza, ma se i buoi e i cavalli avessero le mani per disegnare raffigurerebbero le divinità gli uni come buoi e gli altri come cavalli. Qui è tutta la tradizione orale ad essere messa in discussione.
Si passa dunque dal mythos al logos, al discorso razionale basato sulla coerenza e l’univocità dello scritto. La stessa parola mythos cambia significato: da «autorevole racconto della tradizione» essa assume, nel vocabolario dei greci, il senso di «favola» e «storiella», accezione che ritroviamo in Platone e Aristotele, uomini ormai del tutto disincantati rispetto al mondo omerico e ai suoi racconti. Questo «disincanto», che viene sempre più diffondendosi nella cultura greca del VI-IV secolo a. C., non è — torniamo a sottolinearlo — frutto di una particolare «illuminazione» dei Greci o di un «progresso» insito nell’evoluzione umana, ma è il prodotto di specifiche operazioni rese possibili dalla «tecnologia» alfabetica. Vediamo più approfonditamente di quali operazioni si tratta.
9. Logica greca e logica indiana
Tra VI e IV secolo, abbiamo detto, la Grecia assiste a una logicizzazione della propria cultura che modifica lo statuto del mito: agli occhi dei greci alfabetizzati esso appare ora del tutto illogico. Sicché il mito, e l’orizzonte sacrale entro cui esso germogliava, non risultano più accessibili, nel loro senso originario, a coloro che hanno assunto i criteri dell’univocità e della coerenza propri del logos. Ma come nasce la logica?
Nella logica greca, che ha fornito le basi al pensiero occidentale e al metodo scientifico, sono sedimentate due diverse operazioni: una teorizzazione del linguaggio (grammatica, retorica, teoria dell’argomentazione) e una formalizzazione del linguaggio (cfr. Zhok 1996, pp. 164-177). Cosa debba intendersi per formalizzazione è presto detto: il classico sillogismo «Se Socrate è un uomo e tutti gli uomini sono mortali, allora Socrate è mortale» si può ad esempio formalizzare nel più generale asserto «Se A implica B e B implica C, allora A implica C», dove A, B e C sono termini puramente formali validi per qualsiasi contenuto concreto (e non più soltanto per «Socrate», «uomo» e «mortale»). Si tratta quindi di una salto di astrazione in cui soggetti e predicati perdono le loro caratteristiche empiriche e materiali e diventano meri indici (A, B, C) di una funzione logico-grammaticale.
Ora, un’analisi logica del linguaggio, delle sue componenti (soggetto, verbo, predicato, ecc.) e delle loro relazioni formali può sorgere soltanto una volta che il linguaggio sia oggettivato. Sappiamo già che in una cultura puramente orale il linguaggio non può essere oggetto di analisi, per almeno due ordini di ragioni. Anzitutto perché il linguaggio orale, come già osservato, è più un «evento» che un «oggetto»: la sua natura puramente sonora lo rende del tutto evanescente. Ed è impossibile analizzare qualcosa che non ha sussistenza e che svanisce immediatamente nel nulla. Inoltre, in quanto incarnato nelle proprie membra (dalla fonazione all’accompagnamento gestuale necessario alla rievocazione mnemonica) il linguaggio vocale non è separato dal corpo, non è qualcosa che il soggetto può porsi di fronte per osservarlo in modo distaccato ed esaminarlo nel suo funzionamento. In una cultura puramente orale il linguaggio è come il respiro: qualcosa che non si può «vedere», tanto meno analizzare, ma solo «vivere» in maniera immediata.
Perché qualcosa come una logica possa venire alla luce è allora necessaria proprio la scrittura, la quale oggettiva il linguaggio su un supporto materiale svincolato dalla corporeità del soggetto. Abbiamo visto però che soltanto una scrittura indipendente dalla memoria orale (non subordinata cioè alla rievocazione sinestetica dei contenuti per poter leggere i segni scritti) è davvero affrancata dalla corporeità (dalla fonazione e dalla gestualità corporea). Solo una scrittura sottomessa unicamente e interamente al dominio della vista consente di trasformare il linguaggio in una «cosa», in un’unità percettiva stabile, permanente, ripetibile, e di renderlo perciò oggetto di una riflessione e di un’attenzione specifica.
Oltre alla scrittura alfabetica greca, ve n’è almeno un’altra che risponde a questi requisiti: il sistema sillabico indiano, anch’esso di origine semitica. La scrittura bràhmì ha 4 segni per le vocali a inizio parola e 32 segni sillabici che indicano una consonante seguita dalla vocale a (molto frequente nella lingua). Per indicare le sillabe con vocali diverse dalla a vengono utilizzati gli stessi 32 segni sillabici corretti con un’appendice diversa a seconda della vocale, mentre per indicare il suono consonantico isolato (non accompagnato da vocali, ma seguito da un’ulteriore sillaba) viene utilizzato un segno grafico che lega la sillaba a quella immediatamente successiva. Si tratta di un procedimento di scrittura non molto dissimile dal sistema greco di trascrizione fonetica poiché l’uso di appendici per vocalizzare correttamente la sillaba è sistematico quanto, nell’alfabeto greco, l’uso delle matres lectionis con la stessa funzione. Con la differenza che tali appendici non arrivano mai ad assumere il ruolo autonomo di vocale (modificando di conseguenza il ruolo del segno sillabico in funzione di consonante pura) poiché, nella percezione del lettore indiano, esse tendono a fondersi, dal punto di vista ottico, con il segno sillabico che accompagnano, creando una sorta di nuovo grafema (indicante una sillaba con la stessa consonante ma con diversa vocale).
Per queste caratteristiche, il sillabario indiano è, come l’alfabeto greco, praticamente scevro da ambiguità. Perciò esso oggettiva interamente il linguaggio sonoro su un supporto visivo. Interamente, cioè senza dover ricorrere alla memoria orale (all’uso della voce e dei gesti che l’accompagnano). In questa scrittura ciò che si vede, il segno grafico, è per così dire «autonomo», gode di una propria indipendenza, non necessita del ricorso di altri sensi che non siano quello della vista. Così il linguaggio e il suo funzionamento sono, potremmo dire, interamente «sott’occhio». Il passaggio del «nastro fonico» sotto l’esclusivo dominio della vista, come abbiamo già notato, permette quelle capacità di «distacco» e di analisi dei contenuti linguistici che risulta impossibile a chi, per poter rievocare quei contenuti, deve invece intonarli in forma di melopea incarnandone il ritmo nelle proprie membra.
Grazie a queste capacità di distacco e di analisi del linguaggio sorgono in India una grammatica, una retorica e una teoria dell’argomentazione. Nel Nyaya-sutra, risalente al II secolo a. C., troviamo anche una teoria del sillogismo. Nella logica indiana, il sillogismo è composto da cinque termini che potrebbero così essere semplificati (cfr. Galsenapp 1962, p. 216):
- asserzione: sulla montagna c’è fuoco
- motivazione: perché lassù c’è del fumo
- esempio: infatti dove c’è il fumo c’è il fuoco, come in cucina
- applicazione: ora, la montagna ha tale fumo
- conclusione: dunque c’è del fuoco su di essa
Siamo qui di fronte a una teoria dell’argomentazione, le cui differenze rispetto a quella greca ci permettono di comprendere il balzo ulteriore che compie la logica dei greci grazie alle caratteristiche del loro alfabeto.
Nel sillogismo indiano non vi è una netta separazione tra unità formali e unità di contenuto: non è cioè possibile sostituire i suoi termini con vuote lettere (dal tipo «se A implica B e B implica C, allora A implica C»). Questo la rende, dal punto di vista occidentale, una logica zoppa, non completamente universale, poiché essa necessita, per poter funzionare, del rinvio a situazioni o a termini concreti. Commenta, in merito, Zhok: «Dire “dove c’è A c’è B, come in cucina” non ha un grande valore argomentativo» (Zhok 1998, p. 172). La logica greca è invece costituita da una teoria del linguaggio, come in India, più una formalizzazione del linguaggio, che in India risulta del tutto assente. Alla logica indiana manca cioè l’uso di unità astratte puramente formali (tipo A, B, C) che le permettano quel balzo d’astrazione che ne rende i contenuti interamente universali (validi a prescindere da ogni contesto e referente concreto). Questo perché il sillabario indiano, sebbene sia una riduzione interamente visibile del discorso parlato, e permetta quindi un’analisi del linguaggio nel suo funzionamento grammaticale, retorico e argomentativo, è privo di effettive unità astratte che, vuote di ogni contenuto empirico, possano funzionare da meri indici generali. Tali unità sono invece in dote alla scrittura greca: sono le lettere alfabetiche, vocali e consonanti. A, B, C, appunto. Ma in che senso esse sono unità astratte puramente formali? E in che senso i segni sillabici, compresi quelli indiani, non lo sono?
10. La natura «ottica» della consonante
Le vocali e le consonanti greche sono delle pure astrazioni prive di qualsiasi natura empirica. Non solo esse sono del tutto a-significanti, a differenza dei segni sillabici che serbano memoria della loro origine logogrammatica (cfr. infra, § 11). Ma, prese di per sé, sono anche del tutto inesistenti in natura. Osserva in merito Havelock: «Sebbene i termini “vocale” e “consonante” sembrino descrivere suoni, essi furono coniati solo dopo che l’alfabeto greco rese questi suoni “visualmente” riconoscibili in quanto “lettere”» (Havelock 1987, p. 33).
La consonante, in particolare, non rinvia ad alcuna pratica fonatoria. Lo stesso nome di «consonante» lo ribadisce: essa è con-sonante, per natura suona con; da sola non suona. Infatti, «se pronunciamo, per dire, “t” o “v” da sole possiamo avere l’impressione di averle pronunciate senza una vocalizzazione d’accompagnamento, e questo perché generalmente le pronunciamo insieme ad un suono medio, che nella nostra lingua non è riconosciuto tra le cinque vocali ufficiali, ma che compare come suono con valore espressivo in altre lingue o in altri dialetti della nostra stessa lingua» (Zhok 1998, p. 166 in nota; cfr. anche Di Martino 1998, pp. 59-111).
Dunque, prima di venir scritta la consonante non esisteva; dopo essere stata scritta, essa continua a non esistere se non in senso grafico, cioè da un punto di vista esclusivamente ottico: è lì sotto gli occhi, ma non rimanda ad alcun suono reale. Il che significa: ciò che si vede nello scritto, la lettera consonantica pura, è frutto di un processo di astrazione con cui il discorso parlato viene artificialmente suddiviso dall’occhio (ma non dall’orecchio). In questo senso le lettere alfabetiche sono unità atomiche artificiali a disposizione della vista, la quale, combinando tali elementi, giunge infine a comporre dei suoni pronunciabili dalla bocca. L’operazione di scomposizione e riassemblamento di tali unità atomiche (“t” + “a” + “v” = “tav”), avvenendo unicamente sul piano visivo, è del tutto astratta, sganciata cioè da ogni concreta pratica linguistica e da ogni articolazione fonatoria. Da quest’operazione la voce e l’udito sono esclusi (“t” e “v” sono solo segni grafici che non rimandano ad alcun suono pronunciabile), possono subentrare solo nel momento finale, quando la vista ha riaggregato i suoi componenti atomici in sillabe e parole pronunciabili. Ma, come sappiamo, a quel punto l’intervento della voce e dell’udito è del tutto inutile (non è necessario leggere ad alta voce).
Si noti però che il processo di astrazione non è la causa della suddivisione della lingua parlata in vocali e consonanti, ma ne è viceversa il prodotto. Stiamo cioè dicendo: la «tecnologia» alfabetica produce una visualizzazione del discorso sganciata («astratta») dalla pratica fonatoria; questo sganciamento fa sì che si rendano visibili delle unità atomiche (vocali e consonanti) che non hanno un corrispettivo fonatorio-uditivo; tali unità atomiche sono indici puramente «formali» che permettono alla mente del lettore greco un balzo di astrazione verso la formalizzazione del linguaggio parlato, condizione necessaria per la nascita della logica.
Mentre i grafemi sillabici sono segni di un’emissione sonora, il lettore greco si trova di fronte dei segni «vuoti», quali sono le lettere alfabetiche, privi di qualsiasi riferimento concreto, che possono funzionare come pure «forme» (A, B, C). La nascita di pure forme astratte è infatti una caratteristica della cultura greca alfabetizzata: si pensi all’invenzione degli «atomi», unità prive di natura empirica e di qualsiasi riferimento concreto (almeno a quel tempo). Ma si pensi anche alla riforma compiuta da Clistene, che sostituì la suddivisione tribale del territorio ateniese (basata sul sangue e sull’appartenenza familistica) con una suddivisione in dieci circoscrizioni territoriali puramente astratte (prive di qualsiasi referente concreto). Come avrebbero mai potuto Democrito e Clistene concepire simili unità astratte se non perché le avevano viste già in opera nell’alfabeto? Le lettere alfabetiche costituiscono infatti il «prototipo» per la concezione di unità di per sé a-significanti (prive di riscontro nell’esperienza pratica, come gli atomi o le circoscrizioni territoriali) che, combinate tra loro, realizzano un insieme significante. Non è un caso che gli «atomisti» indicassero gli atomi appunto con le lettere alfabetiche (A, B, C). Non avendo referente concreto, le lettere alfabetiche sono disponibili per qualsiasi utilizzo, per indicare cioè unità formali puramente «logiche». O meglio: unità formali puramente logiche si rendono visibili (e dunque pensabili) a partire dalla pratica alfabetica. Per il lettore indiano sarebbe invece stato assai arduo concepire i segni sillabici come pure forme (ovvero, concepire pure forme tout court), essendo essi segni di un’emissione sonora, essendo cioè già legate a un contenuto empirico.
L’alfabeto è dunque uno schema astratto, una tavolozza di unità puramente formali con cui costruire cose mai prima pensate e che rende possibili una serie di operazioni logiche e di astrazioni letteralmente «inaudite» (cioè, mai udite nei racconti del mythos; ma anche mai udibili, perché frutto non della voce ma unicamente della vista).
E ciò significa: la razionalità logica non è un prodotto della «mente umana» o di una qualche supposta «facoltà mentale», ma una conseguenza dell’uso della pratica alfabetica (cfr. Sini 1992). Non è un caso che la logica nasca proprio in Grecia dopo la diffusione dell’alfabeto: una «mente logica» (che ragiona cioè per unità formali puramente astratte ed è dunque in grado di creare sillogismi e tutto ciò che ne è conseguito per la storia della cultura occidentale) non può sorgere in una civiltà orale e nemmeno in una cultura sillabica, ma soltanto in una cultura che, grazie al suo sistema di notazione grafica, ha creato unità visive svincolate da ogni riferimento concreto. Ne consegue che l’idea — tutta occidentale — dell’uomo come «animale razionale» (come disse Aristotele), è un abbaglio ideologico: l’«uomo logico-razionale» è un prodotto della pratica di scrittura alfabetica, sicché elevarlo — come molto immodestamente ha fatto la cultura alfabetico-occidentale — a paradigma dell’uomo tout court è una presupposizione ingenua e superstiziosa. La «verità razionale», ossia le verità logico-scientifiche, lungi dall’essere universali, sono del tutto relative e interne al paradigma alfabetico-occidentale.
11. La separazione tra segno e significato
L’alfabeto fonetico greco, a differenza dei pittogrammi e dei sillabari, ha un’ulteriore caratteristica che lo rende unico e le cui conseguenze sono decisive per la nascita del pensiero occidentale. Esso può trascrivere in sé ogni lingua umana ed essere letto da chiunque senza una previa conoscenza di quella determinata lingua, cioè senza comprendere ciò che vi è scritto: possiamo ad esempio leggere la parola latina pollinctor anche senza comprenderne il senso, poiché p-o-l-l-i-n-c-t-o-r è la pura trascrizione fonetica dei suoni da pronunciare a prescindere dal significato. Con l’alfabeto avviene così il divorzio tra lettura e comprensione: da una parte ciò che si vede, si pronuncia e si sente, dall’altra il suo senso.
I miei occhi vedono i segni grafici della parola pollinctor, la mia bocca ne pronuncia il suono, il mio orecchio lo sente, ma continuo a non sapere che cosa pollinctor voglia dire. L’uomo alfabetizzato si trova per la prima volta a vivere questa strana esperienza, per cui il senso delle parole sembra abitare altrove rispetto al loro corpo visivo e sonoro. Il senso, il significato delle parole, si è infatti sganciato dalla sua materialità sensibile (audiovisiva), ovvero da ciò che prenderà il nome di significante. A partire da questa separazione — prodotta dall’alfabeto, a causa delle sue particolari caratteristiche — la cultura occidentale ha costruito la distinzione tra significato e significante estendendola indebitamente a tutti i tipi di segni. Si è così sviluppata una concezione del segno, che ha le sue radici in Aristotele e la sua moderna trattazione e sistemazione teorica nella semiologia di De Saussure, secondo cui ogni segno è caratterizzato dalla duplice natura di significato e significante. Il che è un notevole abbaglio ideologico. Si potrebbe mostrare come, da Charles S. Peirce a Heidegger, la filosofia contemporanea non ha fatto che minare alle basi questa concezione ingenua e acritica del segno. Ma, senza intraprendere strade che ci porterebbero lontano, restando sui binari della nostra disamina, ci basti osservare quanto segue: la distinzione tra significato e significante è un effetto dell’alfabeto. Vediamo in breve perchè.
Anzitutto, è l’annotazione alfabetica a creare grafemi a-significanti (le vocali e le consonanti). L’unità minima del sillabario, ovvero il segno sillabico, era invece, almeno originariamente, una parola dotata di significato. Dietro i segni sillabici si celano cioè logogrammi decaduti, parole-icone dotate di un senso compiuto: sebbene successivamente utilizzati solo per indicare la sillaba, tali segni continuano a lasciare traccia del loro senso originario. Si prenda ad esempio il termine sumerico asari, uno dei nomi attribuiti al dio Marduk, che significa «donatore dell’agricoltura; fondatore della delimitazione dei campi; creatore dei cereali e della canapa; produttore di ogni verzura». Questa complessa espressione è direttamente ricavabile dalle sillabe del nome, a-sar-i: se a richiama il logosegno indicante l’acqua e il canaletto di irrigazione (utilizzato per delimitare i campi), sar richiama invece un pittogramma indicante la verdura e la produzione agricola. I segni grafici della parola sumerica asari, lungi dall’essere dei puri significanti, cioè una mera convenzione semiotica per indicare un insieme di suoni che rimandano a un significato, sono visibilmente pregni di senso. Sono dei veri e propri disegni decaduti, ma il cui originario valore pittografico rivive nell’atto di lettura del dotto mesopotamico (cfr. Gelb 1952, p. 149; Bottéro 1991, p. 97 e sgg; Ronchi 1996, p. 73-74).
Non esistono cioè, nei sistemi di scrittura logo-sillabici, segni a-significanti che, uniti tra loro, rinviano per convenzione a un significato. Questo tipo di operazione si genera invece con la scrittura alfabetica, dove compaiono per la prima volta grafemi del tutto privi di significato (nonché privi di effettiva natura sonora). Le vocali dell’alfabeto, come già abbiamo avuto modo di notare, erano infatti originariamente matres lectionis, segni grafici a-significanti utilizzati solo per indicare la pronuncia corretta. Una volta introdotte stabilmente nell’alfabeto greco, esse modificano la funzione del segno-base sillabico trasformandolo in consonante, cioè in un altro segno grafico di per sé privo di significato: tutti gli elementi di cui è composta la scrittura diventano così puramente convenzionali, di per sé insignificanti. Il significato riemerge a questo punto dalla loro combinazione: abbiamo così un insieme di segni grafici puramente convenzionali — il significante — che rimanda a un significato.
L’alfabeto opera dunque una separazione su ciò che prima era unito in forma «simbolica». Separazione dalla quale emerge il significato, scorporato dalla materialità delle lettere, e il significante, quale «resto» materiale di questa operazione di scomposizione.1
Questa separazione tra significato e significante fa sì che per il lettore greco (e per tutti coloro che utilizzeranno da allora in poi la scrittura alfabetica) il senso delle parole non sia più auto-evidente, come poteva esserlo per il lettore mesopotamico. Per il dotto sumero, infatti, il senso della parola scritta asari era già in qualche modo racchiuso nei suoi segni grafici (che, in quanto pittogrammi decaduti, mantenevano la loro arcaica valenza simbolica e sacrale sebbene trasfigurata in funzione fonetica). Per il lettore greco non vi è invece più alcuna corrispondenza tra l’insieme dei segni scritti e dei suoni vocali che formano una parola e il senso di quella parola. Si tratta di una differenza decisiva e fondamentale per comprendere come a un certo punto sorga in Grecia quella rivoluzione culturale che è la nascita della filosofia in quanto ricerca del senso (ovvero, del significato). Già, perché il senso non è più lì, non è più immanente al suo corpo significante, non fa più tutt’uno con la sua materialità sensibile, e sembra debba essere ricercato altrove (nell’«Iperuranio», dirà Platone, cioè: in un luogo ultrasensibile, dimora dei concetti, delle «idee», al di là del mondo materiale e sensibile; oggi diremmo, più prosaicamente ma altrettanto ideologicamente, nella «mente» o «psiche»). È Socrate, allevato dalla scrittura alfabetica, il primo uomo a testimoniare questa singolare esperienza di estraniazione del senso: egli si aggirava per le piazze domandando «cos’è l’uomo?», «cos’è la virtù?», «cos’è il coraggio?». Cioè, domandando il significato di tali parole. Significati che, non essendo più auto-evidenti ed immanenti alle parole, andavano appunto ricercati. Ed è da questa estraniazione che si genera la domanda sul significato delle cose, domanda che inaugura l’abito della filosofia e che conduce il mondo del rito e del mito al tramonto.
Domanda sul significato delle cose, ma anche delle azioni. Per chi frequenta ed esercita la separazione tra pratica della lettura e produzione di senso, per chi cioè legge e scrive alfabeticamente, compiere bene la prassi consuetudinaria (ad esempio eseguire correttamente pratiche liturgiche e cultuali), non è più sufficiente: non basta il «saper fare», la messa in opera di riti, usi e costumi della tradizione, è necessario anche sapere il significato di ciò che si fa. É così che Socrate chiede il significato delle azioni: perché fare sacrifici agli dèi? Domande sacrileghe come questa risultano incomprensibili e destano scalpore. Gli varranno l’accusa di esebeia e, infine, la condanna a morte. Ma egli domandava del senso delle azioni perché questo non gli era più evidente: educato dalla scrittura alfabetica alla separazione tra prassi e senso (tra svolgimento di un’azione e suo significato) non era più in grado di percepire l’unità sacrale (la coappartenenza di senso e prassi) propria del rito, non era cioè più in «osmosi» con l’efficacia performativa dell’azione rituale (il cui senso risiede non altrove che nell’atto stesso, ovvero nel compierlo in modo corretto).
Rito, infatti, è ciò che rende valida l’azione, ciò che la rende effettiva, efficace. Il contrario di rito è irritus, cioè in-ritus: inutile, vano, non valido. La «frase di rito» è ciò che conferisce effettualità alla prassi: «Vi dichiaro marito e moglie» dice il sacerdote rendendo il matrimonio effettivamente valido. Ma chi frequenta significati astratti (che sono un tipico prodotto della scrittura alfabetica: non troviamo significati astratti nei poemi omerici), svincolati dall’atto pratico, non si accontenta più della sua (dell’atto pratico) ritualità, cioè della sua efficacia performativa. Nella mentalità alfabetica l’atto rituale non è dunque più autosufficiente, non trova più senso in se stesso, ma deve ora essere giustificato, motivato, argomentato. Il suo significato va ricercato altrove: del rito (più in generale, del mondo) va data una spiegazione. Questa è né più né meno che la fine del sacro. Cercare una spiegazione del sacro, anziché «farlo» (sacri-ficium = fare il sacro) significa averne rotto l’incantesimo per sempre.
Inizia così la ricerca del senso e del significato del mondo, ovvero la sua profanazione «logica» (filosofico-scientifica). La pratica alfabetica produce cioè come sua conseguenza il processo di secolarizzazione con cui l’uomo esce dalla dimensione sacrale della vita e del cosmo.
Il che vuol dire: il nostro modo di interrogarci sulle cose e sul mondo è interamente segnato dalla pratica di scrittura alfabetica cui tutti noi uomini occidentali veniamo educati sin da piccoli. La prima cosa che s’insegna a scuola è proprio a leggere e a scrivere alfabeticamente. Col che è già inevitabilmente e inconsapevolmente segnato il nostro destino: non saremo uomini cui le cose si rivelano entro un orizzonte sacrale (non faremo sacrifici agli dèi né avremo montagne sacre o riti sacri) poiché la pratica astraente dell’alfabeto (con tutte le conseguenze che ha prodotto: razionalità, scienza e tecnica) ci ha già reso estraniati dall’originario senso sacrale entro cui l’uomo dell’oralità arcaica frequentava il mondo.
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Su questa separazione la cultura greca, a partire da Platone, ha anche costruito la distinzione, divenuta canonica nel pensiero occidentale, tra entità sensibili (mera materia) e entità ultrasensibili (i concetti, o «idee», o, come diranno i filosofi scolastici, gli «universali»). Da una parte il puro pensiero, dall’altra la realtà sensibile (nei termini di Cartesio: res cogitans e res extensa). A partire da questa distinzione la strategia platonica, che ancora domina il nostro modo di pensare, ha posto l’origine dei concetti nell’uomo. Si sono cioè messi i significanti sul conto della materia (o «realtà esterna», come direbbero gli empiristi inglesi) e i significati sul conto della soggettività umana (anima, spirito o mente). Che i significati puri (i concetti, le idee) siano un prodotto della mente umana è un pregiudizio che, ancora oggi, è duro a morire. In realtà non esistono «significati», se non in seguito al processo di astrazione operato dalla pratica di scrittura alfabetica, che scindendoli dal loro contesto originario li presenta surrettiziamente come entità autonome, puri «concetti» (cfr. Sini 1989). ↩︎