Quello che cerchi è vicino, già ti viene incontro.
— Friedrich Hölderlin
1. Il conteso terreno della malinconia
Se c’è un’esperienza capace – come poche altre – di rompere la durezza di un linguaggio pervasivo, che sovente si presta a sovvertire l’ordine di significato e significante nel tentativo di definire ogni cosa, questa esperienza è la malinconia. Essa ha sì una sua propria caratterizzazione, tanto da essere stata nella storia, ed essere ancor oggi, oggetto di precise riflessioni; ma il suo incedere non dipende dal rigore di una speculazione teoretica, quanto invece dal pieno intreccio di intelletto e passione, di incanto e vacuità che descrive la drammatica imperfezione della vita e della profondità umana. In questo fondo dell’essere non sembrano esservi zone protette, appigli facili; nella sua refrattarietà a ogni definizione univoca, la malinconia fa emergere una più radicale resistenza ad un sapere aggressivo, che vuole normare l’esperienza senza tenere conto dell’originalità e dell’imprevedibilità dell’iniziativa personale.
Muoversi all’interno di una simile riflessione implica dapprima la difficoltà del suo inquadramento in un ambito circoscritto, fosse anche quello (ampio) di una filosofia dell’esistenza. Così non è, quando si parla della malinconia. Di questa si è discusso – e si torna oggi prevalentemente a discutere – abbondantemente nel campo della psicologia, meglio ancora della psicoanalisi (nelle sue varianti di melanconia, melancolia); se ne trova massima manifestazione anche nella poesia, dallo struggente ermetismo italiano al simbolismo e al decadentismo francese. Il comune denominatore che sottende tali forme di espressione è il fatto di non poter delineare con precisione l’origine e il motivo di tale esperienza, che tutta si fonda su una sorta di mancanza, di distanza da qualcosa di cui non si sa riconoscere l’oggetto né dire che cos’è («Questo pianger da dove mi viene? / Inganno? E quale? Nessuno. / Eppure nel cuore che geme / da dove, da dove mi viene? / E come duole un dolore / senza radice alcuna. / Odio non c’è, non c’è amore […]», scrive splendidamente Paul Verlaine nella poesia Il pleure dans mon cœur). Forse anche da questo deriva la difficoltà che un simile tema si innesti in una analisi filosofica, condotta assai frequentemente a partire dalla distinzione di presupposti e confini; non stupisce invece che la poesia le riservi un grande spazio, poiché questa esalta e non rifugge – anche per il suo terreno linguistico – la commistione spesso confusa dell’esistenza.
Tra i pochi che esplicitamente hanno tentato di porre questo tema in prospettiva (più propriamente) filosofica, vi è senza dubbio Romano Guardini con il suo Ritratto della malinconia,1 un piccolo testo che si sviluppa attorno al confronto con Kierkegaard e getta basi ed intuizioni di un ricco pensiero su un’esperienza spesso relegata entro confini solo clinici. Quando Guardini scrive il Ritratto della malinconia, nel 1928, sono passati tre anni dalla prima pubblicazione dell’Opposizione polare;2 è ormai salda l’idea che la complessità della vita necessita di un metodo d’osservazione che proceda e permanga in una medesima condizione oppositiva, capace di cogliere una verità che è sempre «polifona». Una simile chiave di osservazione – si potrebbe osare che solo una simile chiave interpretativa – è in grado di sondare l’esperienza abissale, qual è la malinconia (modernamente definita quasi sempre depressione), con la delicata ma audace convinzione che tale abisso non sia mai definitivo, definente, ma il polo di una unità non frammentata in cui è già contenuto il suo opposto.
Questo appunto bibliografico è utile a sottolineare come il discorso sulla malinconia trae proprio dalla filosofia degli opposti la propria origine e la possibilità di un inquadramento filosofico, altrimenti difficilmente immaginabile (e in effetti difficilmente perseguito).
Volendo considerare quella unità del concreto-vivente, non esauribile in nessuna delle sue parti né nella somma di tutte, sarebbe lecito avanzare un’ipotesi: il primo stupore che nell’essere umano si evoca (si evocherebbe, se per un istante avesse di fronte agli occhi quella unità soltanto) non è anzitutto la constatazione dell’esistenza delle cose, della loro molteplicità o dei tasselli variegati della propria vita, quanto invece – nell’uomo che abbia una formata autocoscienza – la constatazione del dato: «Io (ci) sono». «Persona – scrive Guardini – è quel dato di fatto che suscita continuamente lo stupore esistenziale. Essa è il dato di fatto più ovvio (selbstverständlichste) di tutti — nel senso più letterale: capire che io sono io, è per me la cosa che «si capisce da sé» (selbst-verständliche) in senso puro e semplice e comunica il suo carattere a ogni altra struttura di realtà. Al tempo stesso è anche enigmatico e inesauribile che io sia io; che io non possa essere rimosso da me, nemmeno dal più forte nemico, ma solo per opera mia, e, interamente, nemmeno da me stesso; che io non possa essere sostituito, nemmeno dall’uomo più nobile, che io sia il centro dell’esistenza, e anche tu lo sia […]»3. Questo «io» è il centro dell’autoappartentenza in cui l’uomo sussiste, tale da apparire ineffabile; capace d’azione e di compiere l’inatteso, ciò che è infinitamente improbabile. Guardini rileva esattamente qui il più grande pericolo per l’uomo del (suo) tempo: essere minato, intaccato proprio in ciò che ne costituisce l’ultima garanzia d’unicità, di novità: lo spirito, cioè il centro vivente. La persona sembra avvertire una sorta di stanchezza verso sé stessa, prima ancora che verso le cose: non si riconosce come un «dato», non si concepisce in quella potenzialità d’azione e di novità di cui è capace. Il peso e l’oppressione per la responsabilità verso i propri limiti divengono fattori di una solitudine che spesso non trova intesa, conforto: così, ciò che naturalmente potrebbe (o dovrebbe) volgersi ad un’apertura all’essere si riflette nell’unica esigenza di trovare il modo di alleviare e di eliminare quel limite: è «il tedio della sua determinatezza»4, la noia di convivere sempre e solo con sé (con un sé spesso sconosciuto).
Non tanto si tratta di svogliatezza, ripugnanza, dolore, che possono essere pene, e pene violente, e possono in noi provocare una resistenza appassionante, e tuttavia vi si nasconde o almeno vi si può nascondere alcunché di chiaro, atto a stimolare a una decisa difesa quelle forze in noi che ci portano ad affermarci. Nella malinconia, al contrario, sta riposto qualcosa di diverso, a sé stante, che scarnisce sino all’osso la sofferenza. Il suo genere di sofferenza ha un carattere particolarmente intimo; ha una profondità tutta speciale; è qualcosa di indifeso, di nudo. […] E la cosa può arrivare a un punto tale che il malinconico avverte come fonte di dolore ogni cosa e ogni avvenimento, qualunque sia; sino a che, infine, l’esistenza medesima come tale non gli si tramuta in dolore. La propria esistenza – e il fatto che comunque qualcosa esista.5
La malinconia è ciò che si incontra quando, addentrandosi nelle profondità dell’esistenza personale fino a giungere alle radici dell’«io», ci si sorprende di fronte allo svelarsi della sorgente dell’inquietudine, della fragilità, «dove più che altrove si manifesta la criticità della nostra condizione umana»6.
2. L’impotenza di sentire il presente in un tempo così provvisorio
Non sono dunque i capisaldi psicologici a supportare la ricerca di Guardini, né la descrizione analitica del funzionamento medico di specifici stati mentali; come sempre il punto di origine è il «concreto-vivente», nel caso particolare inscritto in una dimensione che potrebbe dirsi spirituale, vale a dire immediatamente in relazione con l’essenza profonda della persona, con un difetto, cioè una mancanza, dello spirito: «Il problema della persona, molto importante, simpliciter fondamentale, è di non semplice soluzione»7. Quando il soggetto non è in grado di far fronte all’iniziativa costante del proprio spirito, iniziativa che tende all’appartenenza con la totalità dell’essere (e degli esseri), con la totalità del tempo (del presente) e di sé stesso, si genera in esso uno scarto che trasforma quello slancio positivo in una (ri)flessione paralizzante: non quella necessaria alla soggettività per conoscersi, ma una riflessività interrotta, incapace di vedere oltre una identità ferma, che frattura il nesso tra l’io e le cose:8 una chiusura narcisistica che tenta di eludere la costitutiva dipendenza dell’essere, il fatto evidente di non essere la totalità e non poterla dominare:9
« […] nelle cose noi cerchiamo, appassionatamente e dappertutto, alcunché che le cose non possiedono. […] Si cerca e ci si sforza di prendere le cose così come si vorrebbe che fossero; di trovare in esse quel peso, quella serietà, quell’ardore e quella forza compiuta delle quali si ha sete: e non è possibile. Le cose sono finite. Tutto ciò che è finito, è difettoso. E il difetto costituisce una delusione per il cuore, che anela all’assoluto. La delusione si allarga, diviene il sentimento di un gran vuoto… Non c’è nulla, per cui valga la pena di esistere. Non c’è nulla, che sia degno che noi ce ne occupiamo. […] Noi sentiamo una insoddisfazione particolarmente violenta per ciò che è finito.10
Si tratta un rapporto erroneo con l’assoluto, scrive Guardini; lo si vorrebbe cogliere nella sua immediatezza, ne si vorrebbe raggiungere e assorbire la pienezza, dimenticando un dato centrale e decisivo, che nell’Opposizione polare egli aveva definito alla stregua della «legge della perfezione»: questo dato è il limite, che di fatto costituisce l’essenza umana: il limite di non essere il mondo, la natura, l’essere totale, ma (per questo) potervi aderire, esserne distinto e unito. Così appare la malinconia, come il rimpianto per una realtà e passato che non riesce a corrispondere all’esigenza dello spirito, la spietatezza di un’ora (e di molte ore) in cui nulla sembra poter accadere;11 non c’è partecipazione (o sentimento di partecipazione) alla propria esistenza se non in istanti evanescenti. È l’incapacità di vedere il presente, la percezione di oscillare tra un passato che non esiste più e un futuro che si ritrae continuamente. La malinconia è come sentire di non avere, e non riuscire ad avere, alcuna patria nel tempo e nel mondo.
Esiste per il malinconico, al pari di ogni altro, il rischio di un pernicioso attaccamento all’oggetto che sembra soddisfare la mancanza che egli sente; esperienza altrettanto evanescente, poiché ad una confusa e pietrificata identità, al silenzio che ciascuno sente dentro di sé, la malinconia unisce la lucida e insopportabile percezione della incompiutezza delle cose, della imperfezione degli esseri umani, del vuoto e della disillusione di ogni esperienza che avviene sotto il sole. Ciò di cui la malinconia soffre, così come ciò che essa cerca, è un non-so-che di chi-non-si-sa, un’indefinibile (e spesso inimputabile) realtà che viene e non viene da ciò che accade al di fuori; che viene da lì ma non si arresta lì; che si cerca nelle cose, nelle altre persone, e non viene mai restituito. Il titanico tentativo di sopportare le cose nella loro grandezza e nella loro pochezza che un malinconico sente è quello della «ricchezza di una vita che si avverte sfuggente, perennemente straripante, debordante oltre ogni forma e figura. Inesprimibile, inspiegabile»12.
La malinconia consiste in un’oppressione di spirito: un peso grava su di noi, che ci sta sopra fino a schiacciarci; […] sensi, impulsi, forze immaginative, pensieri si paralizzano; si spossa la volontà, e lo stimolo della gioia, del lavoro e della lotta languiscono. Un laccio interno, prodottosi dalla parte sensitiva dell’animo, avvolge tutto ciò che altrimenti scatta in libertà, e si muove e opera senza impacci. La freschezza e la tesa rapidità della determinazione, il vigore di una definizione netta e incisiva, l’ardita presa che dà una forma, tutto diviene stanco, indifferente. L’uomo non padroneggia più la vita […] Le vicende lo avviluppano inestricabili, ed egli non sa più vederci chiaro. Non sa più come cavarsela, in determinate vicende della propria esistenza; il compito a lui affidato gli si erge dinanzi insuperabile, come la parete di una montagna.13
L’esperienza della malinconia ha accompagnato Romano Guardini per l’intera vita, nell’esperienza personale, nel sacerdozio, nell’insegnamento e nella ricerca: «Avevo anche portato in me fin da bambino l’eredità della malinconia di mia madre, eredità che in sé non è cattiva; è la zavorra che dà all’imbarcazione il suo pescaggio. Non credo che siano possibili una capacità creativa e un rapporto piuttosto profondo con la vita senza un temperamento malinconico. Non lo si può eliminare, bensì inserire nella vita…»14; ciò gli ha reso chiaro che, in quanto esperienza viva, la malinconia può però portare l’uomo a ribellarsi alla sua stessa vita, a sradicarsi da sé: non se ne può parlare come di una condizione collaterale, caratteriale o contingente. Sembra paradossale affermare che tale vita della malinconia, che si è descritta come una sorta di sopraffazione, va in realtà conquistata, quasi preservata, perché da essa si avvia l’autentica (e creativa, appunto) relazione con il mondo; occorre, in virtù di questa conquista, che resti saldo l’intimo «centro» della persona, poiché «troppo dolorosa è la malinconia e troppo a fondo spinge le sue radici nel nostro essere di uomini, perché la si debba abbandonare nelle mani degli psichiatri»15: «Medici e psicologi ti sanno dire un mucchio di cose, e tutte pertinenti, circa le cause e la struttura intima della malinconia. […] Ciò che essi ti sanno dire, non va oltre la teoria di certe sottostrutture fondamentali. Il vero significato non si rivela se non attraverso lo spirito»16.
Ma Guardini riconosce che i momenti e le qualità della malinconia trovano il loro punto sorgivo in uno spazio che appare precedente alle opposizioni, una sorta di fondo oscuro personale non interscambiabile però con le «tenebre»; l’oscurità presuppone il suo polo opposto, la luce (la chiarezza), e da tale reciproca opposizione si genera la tensione all’essenziale, la capacità di valorizzare il reale e coglierne la cifra, vale a dire la mancanza dell’assoluto. Vi è una malinconia positiva che si acuisce quanto più si fa esperienza dell’insufficienza del mondo, della finitezza dell’esistenza: «La malinconia è il prezzo della nascita dell’eterno nell’uomo»17.
Malinconia vuol dire connessione con l’oscuro fondo dell’essere – e «oscuro», in questa accezione, non comporta senso peggiorativo. Non significa contrasto con la luce, la quale è bella ed è buona. Non significa «tenebra», significa il vivo controvalore della luce. La tenebra è cattiva, essendo qualcosa di negativo. L’oscurità, invece, appartiene alla luce: tutte e due, riunite, costituiscono il mistero di ciò che è essenziale. Verso l’oscurità tende nostalgicamente la malinconia, ben sapendo che dal seno di lei le sorgeranno innanzi le figure luminose del presente.18
3. La voglia di credere ancora ad un gesto d’amore
Il confronto con Kierkegaard lascia emergere tutta la chiarezza, da cui Guardini prende le mosse, sull’instabilità della condizione umana: «Ecco la mia disgrazia: tutta la mia vita è un’interiezione, niente vi è di fisso […] Per me tutto è “volante”: pensieri volanti, dolori volanti […] Come agire, senza un punto di appoggio? Se è assente, tutto resta incerto»19. La vanità e la finitezza delle cose si rivela essere dunque l’emblema della vanità di un io finito (che pur non smette di cercare qualche cosa di infinito), un io che si flette, viene meno. Il desiderio di un centro di gravità permanente, di una certezza vitale, non riesce a trovare pieno fondamento nel riconoscimento di tale desiderio di contatto, di unione; neppure lo trova in una volontà «eticamente cosciente», quand’anche fosse questa a guidare l’azione. Perché l’unità vivente cui ogni soggettività aspira assume con la malinconia un carattere equivoco, in perenne opposizione tra l’anelito alla realizzazione e quello alla distruzione.
Se lo sguardo, la percezione e la coscienza si fermano su tale contrasto che tiene alla sua mercé il soggetto, la vita diventa impossibile, incapace di generare alcunché, in una angoscia priva di qualsiasi speranza, di qualsiasi varco: questo fondo dell’esistenza non può che destare timore e paralisi, poiché non la difficoltà di una sfida lo caratterizza ma la fissità di uno spazio in cui non si intravede via d’uscita. E, dal momento che nella malinconia i confini dell’angoscia coincidono esattamente con i confini della propria soggettività, non sembra esserci salvezza e fuga dall’abisso del proprio stesso io.
Ma se – anche solo per un attimo, per una possibilità intravista o un’intuizione presentita – l’angoscia può volgersi e vedere la realtà, incontrare una corrispondenza con ciò che attende, questo salto getta una luce nuova sull’esperienza intera, sulla malinconia stessa, offrendo l’occasione di rimettersi nell’unico spazio in cui l’incontro con il mondo e con sé stessi è possibile, vale a dire il limite, il confine:
Il significato dell’uomo sta nell’essere un vivente confine, e nel prendere sopra di sé questa vita di confine, e portarla sino in fondo. Con ciò egli sta radicato nella realtà […].20
Continua ad esserci nella malinconia, perché questo le è proprio, il desiderio di incontrare l’assoluto nella forma della bellezza e dell’amore:
questa malinconia che toglie valore agli esseri, che svuota di contenuto figure e valori ben stabiliti e fermi; che rende vana e chimerica qualsivoglia cosa, spingendosi nel vuoto e nel tedio; che spezza e asporta i pilastri della esistenza stessa, e si caccia così in una insensata disperazione; questa malinconia è quella da cui esplode il dionisiaco. Proprio l’uomo malinconico è più profondamente in rapporto con la pienezza dell’esistenza. […] Lui, e lui solo, avverte in pieno la violenza delle forme viventi. Dall’essere del malinconico sbocca e trabocca a fiotti la vita; a lui come a nessuno, è dato di esperimentare la sfrenatezza dell’intera esistenza. Sempre, credo io, connessa con la bontà. Connessa col desiderio che la vita si svolga secondo la bontà e la gentilezza, e sia benefica per gli altri.21
Non c’è una strada privilegiata per tale incontro, e non è neppure detto che vi si aderisca pienamente, quando accade; ma accanto alla transitorietà delle cose, al sentimento della propria e altrui manchevolezza, alla precarietà e all’inquietudine che un malinconico restituisce al mondo, persiste il desiderio di una bellezza infinita, di una illogica allegria, per rivedere e vivere lo splendore di tutto ciò che è vivente: che è vulnerabile, imperfetto, ma (anche e finalmente) reale. E di incontrare e riconoscere, ancora una volta, ciò che inferno non è; di incontrare la gioia; di incontrare un altro essere umano che non appaia come un’ombra, ma un altro come sé, per il quale provare amore, simpatia, vicinanza, amicizia; soprattutto, di incontrare e riconoscere ancora una volta sé stessi.
Qui proprio siamo al cuore della malinconia, la quale, in ultima analisi, non è altro se non desiderio d’amore. Amore, in tutte le sue forme, in tutti i suoi gradi; dalla sensibilità più elementare, sino al più alto amore dello spirito. Lo slancio vitale, il cuore della malinconia è l’Eros: desiderio d’amore e di bellezza. Questo desiderio profondo, insieme al fatto che esso non sgorga tanto da un aspetto particolare dell’essere quanto e bensì proprio dal suo centro; che non si limita a pochi determinati rapporti, ma di per sé permea tutto intero l’Essere.22
Molto ancora sarebbe importante mettere a tema, a partire dall’esperienza della speranza e della sua mancanza. Questa non trova qui ampio spazio, ma è inevitabilmente sempre sottesa ad ogni intuizione. Sarebbe soprattutto interessante rimandare alle essenziali riflessioni di Gabriel Marcel, per riprendere l’idea della coincidenza tra la prigionia del tempo, la sua disgregazione, con la disgregazione e la prigionia dell’io; al contrario, invece, di un’apertura del tempo e al tempo, di un’ora non più spietata in cui qualcosa accade davvero. Non a torto Marcel definisce la speranza come «memoria del futuro». Sarebbe poi opportuno osservare come l’espressione marceliana «io spero in te per noi» sia tra le più felici intuizioni dell’idea di una speranza che, per sua natura, implica una elementare e imprescindibile relazione.
Questi brevi spunti, seppur solo sfiorati, offrono l’occasione per accennare in conclusione ad un altro fattore che forse è della malinconia costitutivo, e probabilmente anche originario: una idea di promessa, che nella vita malinconica prende tutti i tratti di una promessa tradita, dimenticata. Tutto ciò lascia lo spazio – nella concreta realtà più che nella riflessione filosofica o nell’analisi clinica – a domande la cui soluzione non può venire proposta per via teorica. L’esperienza della malinconia porta con sé il dramma della vita e della morte e impone l’umiltà e la semplicità di non poter rispondere (o di non poter rispondere per altri). Se una cosa si può osare dire, è che la percezione di quella promessa perduta significa sempre, necessariamente, che una sorta di promessa sia prima avvenuta, e che essa coinvolge altri da sé: tale è la ragione per cui si attende ancora qualcosa, per cui si soffre, per cui non ci si arrende, e per cui si può distruggere tutto, eccetto quella promessa stessa da cui ci si sente, in qualche modo, investiti.
Che questo possa cancellare la malinconia, sembra impossibile. Che essa si possa portare con sé e riportare indietro riempita di luce – di quella luce che è parte della sua stessa oscurità –, facendosi una volta di più viator e condividendo (laddove accade) la possibilità di ricominciare di nuovo, questo sembra difficile, ma possibile.
Tra le descrizioni più chiare e profonde quando si voglia (tentare di) parlare della malinconia, si può probabilmente scegliere di concludere con una auspicabile e audace affermazione di Jaspers, che così scrive, al termine di un lungo percorso, riguardo alla condizione di naufragio e alla possibilità dell’esistenza:
Non nel godimento della perfezione compiuta, ma lungo la via della sofferenza, con lo sguardo fisso sul volto inesorabile dell’esserci del mondo, e nell’incondizionatezza del proprio sé stesso nella comunicazione, l’esistenza possibile può raggiungere ciò che non rientra in alcun piano e che, desiderato, diventa assurdo: sperimentare l’essere nel naufragio.23
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Romano Guardini, Vom Sinn der Schwermut (1928), in Unterscheidung des Christilichen, Mainz 1963; tr. it. Ritratto della malinconia, Morcelliana, Brescia 1993. ↩︎
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Romano Guardini, Der Gegensatz. Versuche zu einer Philosophie des Lebendig-Konkreten, Matthias Grünewald, Mainz 1925; tr. it., L’opposizione polare. Saggio per una filosofia del concreto vivente, Morcelliana, Brescia 2007. ↩︎
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Romano Guardini, Welt und Person: Versuche zur christlichen Lehre vom Menschen, Werkbund-Verlag, Würzburg 1939; tr. it. Mondo e Persona. Saggio di antropologia cristiana, Morcelliana, Brescia 2000, p. 157. ↩︎
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Ivi. ↩︎
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Ritratto della malinconia, pp. 39-40. ↩︎
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Ritratto della malinconia, p. 34. ↩︎
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Romano Guardini, Ethik. Vorlesungen an der Universität München, Matthias Grünewald, Mainz 1993; tr. it. Etica. Lezioni all’Università di Monaco (1950-1962), Morcelliana, Brescia 2001, p. 220. ↩︎
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«Diventa difficile comunicare se stessi direttamente. Difficile dire con semplicità ciò che si pensa, ciò che avviene dentro di noi. Difficile, dare un nome alle cose che si sentono nell’intimo: troppo sono cariche di sostanza insolita, e fatte in modo che è impossibile ammettere che altri possa intenderle. A colui che le vive appariscono immani, inaudite, strane, terrificanti, forse anche odiose, non commisurabili a ciò che è quotidiano e semplicemente umano. Ecco sorgere così il problema dell’espressione, il dissidio tra esterno e interno. Per il malinconico, proprio intimo e mezzi d’espressione non sono commensurabili. Spirito e corpo, proposito e azione, intenzione e risultato, inizio di una evoluzione e suo compimento: insomma, le cose più alte e quelle più profonde, ciò che è proprio e ciò che è improprio, la cosa principale e quella secondaria, costituiscono altrettante dualità tra le quali, agli occhi del malinconico, si erge un muro. Tragico stato di cose, per cui il mezzo d’espressione, ai fini di ciò che s’intende veramente, dovrà dirsi piuttosto un velo che non una rivelazione.» (Ritratto della malinconia, pp. 54-55.) ↩︎
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Non è la tristezza – fattore naturale, presente e persino simbolicamente positivo dell’esistenza – a costituire un ostacolo nel rapporto con il mondo, con sé stessi e con gli altri; il modo che ne ostacola la realizzazione è invece in primo luogo la trascuratezza dell’io, dello spirito; la prima modalità con cui ciò che c’è diviene avvenimento, realtà pertinente con il soggetto, è un interesse per sé, che dunque produce un’adesione all’essere. Non a caso Etty Hillesum, che al tema dell’interiorità ha dedicato innumerevoli riflessioni, scrive: «Ecco qui l’inizio, il primissimo inizio: prendere se stessi sul serio […]. È proprio questo il lavoro che si può compiere anche per il prossimo: guidarlo sempre più in direzione di se stesso, catturarlo e fermarlo nel suo fuggire lontano da sé, e prenderlo per mano e riaccompagnarlo alle sue sorgenti che gli appartengono». (E. Hillesum, Il bene quotidiano, San Paolo, Cinisello Balsamo 2014, p. 44.) ↩︎
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Ritratto della malinconia, pp. 38-39. ↩︎
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Si potrebbe supporre anche questo come una specie di difetto dello spirito, o ancora di una memoria emotiva che rintraccia nel passato o nell’immaginazione la possibilità di un godimento e di una partecipazione al mondo, e alla vita del proprio spirito. Condizione espressa lucidamente nello Spleen di Baudelaire, il quale scrive: «[…] “Sei dunque giunta [anima, nda] a tal punto di intorpidimento da compiacerti solo del tuo male? Se è così, fuggiamo verso i paesi analogie della Morte. Ho quel che ci serve, povera anima mia! Faremo le valigie […]. Andiamo ancora più lontano, all’estremo capo del Baltico; o ancora più lontano dalla vita, se possibile; installiamoci al polo.” […] Finalmente l’anima mia esplode, e saggiamente mi grida: “Non importa dove! non importa dove! purché sia fuori di questo mondo!”» (Charles Baudelaire, La malinconia di Parigi – Poemetti in prosa, Acquaviva, Milano 2010, p. 156.) ↩︎
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L’opposizione polare, p. 45. ↩︎
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Ritratto della malinconia, pp. 35-36. ↩︎
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Ritratto della malinconia, p. 13. ↩︎
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Ritratto della malinconia, p. 7. ↩︎
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Ritratto della malinconia, p. 69. ↩︎
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Ritratto della malinconia, p. 67. ↩︎
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Ritratto della malinconia, p. 5. ↩︎
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Søren Kierkegaard, Diario, 3ª ed., 12 voll., Morcelliana, Brescia 1980-83, vol. II, 1834-1839 (1980), p. 158 e p. 126. ↩︎
-
Ritratto della malinconia, p. 77. ↩︎
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Ritratto della malinconia, pp. 60-61. ↩︎
-
Ritratto della malinconia, p. 62. ↩︎
-
Karl Jaspers, Filosofia, Utet, Torino 1978, p. 1184. ↩︎