Su Max Scheler. Riflessioni a partire da Wesen und Formen der Sympathie

Piano biosemiotico: un’introduzione

Se volessimo prendere uno degli aspetti del pensiero di Max Scheler che ne restituisce un quadro estremamente contemporaneo dovremmo iniziare con la relazione che intercorre tra organismo e ambiente. Per Scheler tra questi si sviluppa una relazione semiotica che, coinvolgendo la dimensione del vivente, si declina in un’accezione ben precisa che è la biosemiotica. «Un organismo – ricorda Cusinato – interagisce con il processo biosemiotico a livello pre-rappresentativo mediante il riferimento a una grammatica dell’espressione comune a tutti gli esseri viventi».1 Prima dell’intuizione interna e rivolta a noi, il vissuto emerge attraverso l’effetto del corpo vivo (Leib) che si dà sempre nello spazio comunicativo dell’esterno. Scrive Scheler:

ancora prima dell’intuizione interna rivolta a noi stessi, il vissuto emerge dal flusso globale della vita non immediatamente, bensì solo attraverso l’effetto esercitato sullo stato del corpo vivo. Su questo punto non sussiste in linea di principio alcuna distinzione tra la percezione di sé e dell’altro.2

Questo avviene grazie al rapporto stringente tra Ausdruck ed Erlebnis, dove l’espressione manifesta il vissuto, e per cui si può avere accesso all’altro. In virtù dell’espressione, ossia al dato fenomenologico che «anche la percezione di sé è legata al fatto che l’oggetto della percezione si trasforma in tendenze espressive»,3 non vi è una percezione intrapsichica a cui aggiungere le tendenze e i movimenti espressivi, che è piuttosto «una mera illusione».4 Vi è semmai un’unità, che nell’esperienza soggettiva si esplica nell’intuirsi costante nel corso delle nostre azioni. Questo punto essenziale dell’espressività per Scheler dimostra che si può realmente percepire l’altro e la sua interiorità. Se, infatti, percepisco la dimensione dello psichico ho una percezione interna, che sia mia o di un altro. Non vi è differenza tra forme espressive dell’altro o proprie, perché in ogni caso il processo percettivo della dimensione interna si esplica secondo tensioni manifestative dell’Ausdruck. La posizione di Scheler non è semplicissima, né tantomeno scontata dal punto di vista argomentativo, ma senz’altro difficile da sostenere sul piano filosofico. In effetti Scheler attinge da Schiller5 e Tagore,6 poiché più di tutto e prima di tutto è la poesia a essersi avvicinata alle posizioni da lui espresse. Nonostante la pars costruens della sua teoria sia dovuta, in negativo, alla pars destruens che attua criticando – o semplicemente ampliando – Schopenhauer,7 Schelling, Hegel, E. von Hartmann, Wundt,8 Bergson,9 Husserl,10 Lipps e Stein,11 Freud,12 Darwin e Spencer;13 la presenza di Bergson e Dilthey è decisamente forte e si può, infatti, notare come siano presenti problematiche simili: con Dilthey condivide la questione del limite umano dove, però, in Scheler risiede nella struttura autoreferenziale ed egocentrica superata con la Weltoffenheit e in Dilthey in dinamiche esterne per cui l’unica soluzione si trova nella creatività artistica.14 La presenza di Bergson è invece più radicata, innanzitutto l’indagine percettiva portata avanti da Bergson ebbe un influsso rilevante in Scheler per cui lo schema valoriale «ciò che è rilevante viene percepito» continua a funzionare. In altre parole, in tale schema, «la sensazione è il risultato di un’attività selettiva che attraverso la rilevanza vitale dell’organismo individua gli elementi immediatamente utili».15 Nonostante il forte dialogo con questi autori, Scheler si pone in una posizione filosofica decisamente nuova che segna il percorso di molta della fenomenologia contemporanea.

Lo psichico, dicevamo, non è ciò che è dato a uno, quindi al soggetto esperiente, quello è il dolore, o il piacere di un cibo.16 Non possiamo percepire questi in quanto stati del corpo vissuti dall’altro, ossia sensazioni e sentimenti sensoriali. Ciò che noi, attraverso la percezione dell’altro, non potremo mai “percepire” sono soltanto gli stati del corpo vissuti dall’altro, cioè soprattutto le sensazioni degli organi e i sentimenti sensoriali ad esse connesse. Sono questi la causa di quel tipo di separazione dell’uomo dall’uomo.17 Non possiamo sentire il dolore altrui, ma la stessa sofferenza sì, come «è possibile, per esempio, nel caso di un sentimento spirituale di tristezza».18 La questione si trova a essere legata all’emendare fenomenologicamente gli stati vissuti del soggetto dal vissuto cui l’espressione si lega. Si tratta di “pulirsi dal corporeo”, ossia dagli stati corporei, poiché all’essere umano:

solo nella misura in cui si eleva sopra di essi e diventa cosciente del suo corpo in quanto oggetto, ma ripulisce i suoi vissuti psichici dalle sensazioni organiche, che sono sempre dati insieme ad essi, gli si spalanca davanti agli occhi la realtà dell’esperienza altrui.19

Il punto, di conseguenza, è che anche l’accesso al proprio vissuto psichico è precluso se lo si lascia vivere esclusivamente negli stati corporei. Così Scheler attua una distinzione tra stato corporeo e vissuto psichico dove quest’ultimo è ciò che è conoscibile anche nell’altro, mentre del primo ne resta preclusa la conoscenza nel caso dell’esperienza altrui. In altre parole, identifica con il primo (stato corporeo) un ostacolo alla comprensione del vissuto (Erlebnis). L’apertura comunicativa, come vedremo, vive nel campo dell’espressione. Nello specifico, la questione di un luogo comune, di condivisione, pre-individuale e legato alla Weltoffenheit, nel modo in cui «svuotandosi dalla pienezza del sé, la singolarità personale diventa personal-non-self»,20 apre a una dimensione comunicativa dell’umano. L’apertura al mondo è la caratteristica dell’uomo o meglio «l’umano è il gesto con cui la vita si posiziona nell’apertura al mondo»21 e l’epochè fenomenologica, la riduzione fenomenologica, in Scheler porta alla Weltoffenheit. «L’epochè scheleriana mira all’annullamento del proprio ego per far parlare il mondo e rinascere nell’incontro con l’altro».22 L’ascolto del mondo deprivato dall’atteggiamento naturale porta quindi alla Weltoffenheit. Scheler scrive che:

l’uomo deve elevarsi “eroicamente” al di sopra della corporeità e al di spora di tutto ciò che è importante per essa e deve nello stesso tempo “dimenticare” la sua realtà spirituale ovvero non “interessarsene”, per così dire, cioè deve rinunciare alla sua dignità spirituale e lasciar scorrere la “vita” pulsionale.23

Questa dinamica raggiunge il suo estremo nel caso dell’unipatia (Einsfühlung) su cui torneremo. Intanto occorre tener presente che se per Uexküll le Umwelten rendono spazi incomunicabili agli organismi, l’unità biosemiotica di Scheler non ha distinzioni per Umwelt, ma accoglie tutte le forme viventi. Scheler concepisce un’unica biosemiotica per tutte le forme viventi superando così il problema dell’incomunicabilità degli ambienti specifici che aveva, almeno nel campo animale – dato che il caso umano costituisce un modo del tutto particolare – Uexküll.24 Se teniamo presente che la sensazione è il risultato di una selezione, comprendiamo come il «corpo vivo agisce in tal modo come apriori materiale della percezione attraverso una categorizzazione pre-rappresentativa alla base della stessa sensazione».25 Fenomenologicamente la sensazione non è pre-data rispetto al corpo vivo ma «costituita attraverso la biosemiotica del corpo-vivo».26 Così la sensazione emerge come il «risultato dell’attività dello schema corporeo, che si traduce in un’attività categoriale pre-rappresentativa che non dipende dalla legislazione del soggetto, ma dalla biosemiotica della vita».27 Il termine schema corporeo (Leibschema) compare da Erkenntnis und Arbeit in poi e ha una rilevanza determinata nel pensiero di Scheler. In tal senso, l’interazione avviene attraverso lo schema corporeo che si fa teatro dell’esperienza espressiva attraverso cui si dà la possibilità dell’inserimento di un piano biosemiotico. Tralasciando la critica che Moritz Schlick28 muove contro Scheler e Husserl, riproponendo una visione strettamente kantiana, sostenendo che l’apriori materiale non sia altro che una riproposizione concettuale semplicemente mascherata, quindi che «le nostre proposizioni “materiali” a priori sono in verità di natura puramente concettuale, la loro validità è logica, esse hanno un carattere tautologico, formale».29 Ovviamente ciò che Scheler ci sta dicendo è di forza tale da distruggere il predominio del concetto e farci notare come prima di questo vi sia una dimensione pre-riflessiva che prende forma attraverso il piano biosemiotico.

Simpatia, empatia e unipatia

Sin dalle prime righe di Wesen und Formen der Sympathie Scheler sottolinea che la sua non è un’analisi che parta dall’indagine sull’amore (Liebe) e sull’odio (Haß) bensì da una ricerca (Untersuchung) del processo di condivisione che si attua nel con-gioire (Mitfreude) e nel con-patire (Mitleid).30 Nonostante il valore dell’amare e dell’odiare sarà fondamentale per il fondamento della riflessione scheleriana, l’analisi e l’argomentazione parte dai processi condivisivi del sentire. Un’etica che si basi esclusivamente sul co-sentire non spiega la vita etica. L’etica della simpatia (Sympathieethik), infatti, non collega il valore etico primario all’essere (Sein) e ai modi di comportamento (Verhaltungsweisen), bensì lo fa risiedere nel comportamento dello spettatore (Zuschauers), operando così una petitio principii, ossia presupponendo cosa voglia dedurre.31 Per Scheler, nonostante non affronti immediatamente la questione procedendo con l’analisi dei processi affettivi, l’etica si basa su fenomeni dell’amare e dell’odiare. Tra amare e co-sentire (Mitgefühl) c’è una grossa differenza poiché solo se vi è valore c’è amore (o odio), quindi un interesse verso il vissuto dell’altro. Mentre il co-sentire «in ognuna delle sue possibili forme è fondamentalmente cieco verso il valore».32 È erroneo sostenere, quindi, che ogni giudizio etico venga da un Mitgefühl, prima di tutto vi sono giudizi auto-valutativi che appartengono a una classe di etica dell’autovalutazione, rivolta a sé, autogiudicante (Selbstbeurteilungen).33 Questo insieme è caratterizzato dalla totale assenza di atti simpatetici: non si necessita di una simpatia verso se stessi per compiere un giudizio su se stessi. E anche la valutazione altrui, il giudizio dell’altro (Fremdbeurteilung), non deve compiersi attraverso il Mitgefühl.34 Dobbiamo infatti distinguere dal co-sentire autentico ciò che rientra nell’ambito dell’apprensione, comprensione e del ri-vivere le esperienze altrui.35 Anche l’artista, ad esempio, rivive ma non necessita di co-sentire. Quell’esperienza, infatti, assieme al risentire, si differenzia dal co-sentire per la possibile indifferenza nei confronti del soggetto.36

Punto centrale della questione è l’affermazione che fenomeni come la comprensione e l’apprensione non derivino da un procedimento per ragionamento analogico «né da un’“empatia” proiettiva o “impulso di imitazione”».37 Qui il riferimento è a Theodor Lipps e la sua teoria dell’empatia, la quale vedeva alla base un processo imitativo e, indirettamente, a Edmund Husserl. Scheler propone che la connessione tra io e vissuto ci sia data direttamente, che la presenza dell’io legata al vissuto «si basa immediatamente sull’intuitiva connessione di io e vissuto; non si ha bisogno per questo di nessuna empatia del proprio io».38 Noi colleghiamo immediatamente l’io a un vissuto, e se nell’altro questa cosa non possiamo compierla immediatamente, non possiamo cogliere direttamente il suo io, certo è che possiamo cogliere il vissuto attraverso i fenomeni espressivi (Ausdruckphänomen). Attraverso questi fenomeni, conosciamo l’altro. Grazie al corpo vivo (Leib) si crea un campo espressivo (Ausdruckfeld) che ci consente un processo grazie a cui si ha un’interazione con l’altro su di un piano immediato e non frutto del ragionamento. Questo perché in gioco non vi è una relazione causale (Kausalbeziehung), ma, piuttosto, una relazione simbolica (Symbolbeziehung).39 La tesi centrale per la comprensione dei processi affettivi permane la non necessità del ricorrere all’imitazione per spiegare i processi di relazione con l’altro. Nelle spiegazioni che vedono chiamata in causa l’imitazione, oltre alla non necessità di questa, processo che potremmo definire di semplificazione, come il rasoio d’Ockham insegna, vi è inoltre qualcosa di propriamente sbagliato, ci dice Scheler, poiché non tengono conto di un elemento essenziale, necessario al fine di rendere possibile questa relazione.

C’è qui in un certo modo una grammatica universale che vale per tutte le espressioni linguistiche ed è il fondamento supremo per la comprensione di tutti i tipi di mimica e pantomimica del vivente. Solo per questo possiamo per esempio percepire l’inadeguatezza di un movimento espressivo altrui rispetto al vissuto, anzi il contrasto tra ciò che il movimento esprime e ciò che dovrebbe esprimere.40

Questa grammatica universale è il fondamento di cui tutti siamo in un certo qual modo investiti in quanto esseri viventi. È grazie a essa che riusciamo a comprendere l’altro, la relazione tra vissuto e movimento espressivo e, elemento non indifferente, la non aderenza tra espressione e vissuto – quindi i procedimenti espressivi falsi e di menzogna. Questo atto che ci consente di percepire direttamente non è intuitivo ma fa riferimento «a un processo biosemiotico pre-rappresentativo che avviene senza la mediazione d’inferenze o simulazioni».41 Per comprendere l’altro, in altre parole, non si deve aver compiuto la stessa azione. Se un uomo sta affogando e noi ci troviamo nelle vicinanze, sentiremo la sua sofferenza a prescindere dall’aver avuto stesse esperienze o meno, o dall’immaginarci cosa l’altro stia provando. La teoria proiettiva oltre a moltiplicare oltre il necessario, «contraddice il fatto fenomenico che, comprendendo, non esperiamo realmente in alcun modo ciò che viene compreso».42 Scheler porta a questo punto esempi del contagio delle masse dove l’impatto immediato è dell’ordine dei movimenti espressivi poi, solo in un secondo momento, si può trasformare in un agire dettato da un affetto e intenzione d’azione simile.

Scheler distingue diverse forme del co-sentire. L’esempio celebre di co-sentire immediato (das unmittelbare Mitfühlen) è quello dei due genitori che soffrono l’un l’altro, insieme, lo stesso dolore (Sie fühlen miteinander dasselbe Leid). Questo è appunto un esempio di Miteinanderfühlen la cui esperienza affettiva può trovare lo spazio necessario perché si abbia un’etica. Negli altri casi di cui parla Scheler (Nachfühlung, Einfühlung e Gefühlsansteckung) la componente etica non può invece sorgere perché, di fatto, non si può dire che il con-gioire sorto per il piacere che qualcuno prova per il male di qualcun’altro sia in quanto tale eticamente positivo – la stessa cosa vale per l’etica dell’empatia. Il contributo più originale di Scheler, e il nocciolo della questione che stiamo cercando di delineare, è costituito dalla componente primordiale che consente agli esseri viventi di comunicare fino all’estremo del sentire insieme in uno: l’unipatia (Einsfühlung).43 L’unipatia viene presentata in due forme: quella idiopatica e quella eteropatica. Nel primo caso si ha un assorbimento completo nel proprio io, mentre nel secondo il movimento è opposto e siamo noi a entrare nell’altro.44 Scheler parla dei Bororo45 e dei lavori di Levy-Bruhl sul pensiero primitivo. Nei casi di rapporto uomo-pietra, uomo-animale totemico e nella relazione con l’avo quella a cui si assiste sarebbe un’autentica identità.46 Scheler vi aggiunge anche i fenomeni di identificazione presenti nelle masse e vi vede inoltre la base per le dottrine della reincarnazione. Esempi di eteropatia si hanno poi negli antichi misteri religiosi e negli esempi di estasi.47 In questi casi «egli “diventa” il dio».48 Effettivamente Martin Buber nelle Ekstatische Konfessionen riporta numerosi esempi di identificazione, di «essere pieni di Dio»,49 parlando di entusiasmo come enthousiasmòs, l’essere propriamente ispirato, pieno di Dio, e potremmo pertanto vederci un esempio di unipatia, fermo restando che le difficoltà di un legame così delineato – la relazione con il Dio – resta di un ordine maggiormente difficile rispetto alla questione, motivo per cui infatti Scheler vi dedica, qui, poco spazio, preferendo poi parlare di amore acosmico della persona e di Dio come di un «amare mundum in Deo» visto che solo lui può amare completamente il Tutto e noi limitarci a co-compiere l’atto con cui egli ama. Una genuina unipatia, comunque, è presente nella relazione tra ipnotizzatore e ipnotizzato dove vi è un incontro tra l’io dell’altro e l’io proprio. Se nel caso dell’unipatia primitiva vi è un’identificazione dell’esistenza (Daseinsidentifizierung) qui vi è in gioco un’identità dell’esser-così (Soseinidentität).50 Inoltre una primordiale unipatia si ha nei casi di sottomissione, di masochismo e sadismo. Nei casi di sottomissione, infatti, si entra completamente nell’ottica dell’altro e Scheler riporta il caso dello scoiattolo che finisce nelle fauci del serpente.51 Ma una vera e genuina unipatia che non appartenga né alle forme dell’unipatia idiopatica né a quelle eteropatiche si ha con il «fenomeno della fusione reciproca».52 La forma più elementare è data dall’atto sessuale compiuto per amore. Elemento base di quei misteri bacchici dove, gettandosi nella natura naturans, quella che veniva persa era l’individualità, e qui la sottile citazione di Scheler si collega alla distinzione scolastica – ripresa poi da Spinoza – tra natura naturata e natura naturans dove è quest’ultima quella con ruolo creatore ove, nei misteri, ci si immergeva con l’intento di fusione. A quest’ambito appartengono nuovamente alcuni casi di unione nelle masse che sarebbero sempre legati alla sfera della fusione, per cui cita Freud ma ci ricorda che per «quanto S. Freud abbia trattato il formarsi di questa psiche di massa […] in stretta relazione con il caso della fusione erotica, mi mancano ancora i membri intermedi dimostrabili di questa sua teoria della massa».53 Questa relazione resta, infatti, ancora non spiegata.

Tra madre e figlio sussiste un tipo di unipatia dell’esser-così, dato che sin dalle fasi pre-natali i due sono fenomenicamente distinti. Se si può parlare di identificazione questa è di tipo estatico, ossia da leggersi, in questo caso particolare, come dedizione al figlio.54 Anche la vespa che riesce a neutralizzare un bruco ha una specie di unipatia. Tradotto: per poter comprendere l’atto di penetrazione del pungiglione, ossia della puntura, si deve supporre una «specie di unipatia della vespa col processo vitale e l’organismo del bruco».55 Per comprendere tutto questo lo sguardo di Scheler si rivolge al mondo animale, primitivo, dei fenomeni di massa e dell’infanzia. Questi non sono diversi per grado ma per essenza.56 Con l’unipatia ciò che infatti si compie è un andare oltre la percezione,57 poiché la percezione (Wahrnehmung) ha una presa sul tutto (udito, vista, olfatto, tatto e gusto), ma la componente precedente, pre-data, quella che ordina, è la percezione valoriale (Wertnehmung). L’unipatia, per così dire, unisce in uno i sentire distinti. La primarietà della Wertnehmung si fonda invece sul fatto che sono i valori, l’unità di valore (Werteinheit) e la forma (Gestalt) ciò che è primariamente dato. Non possiamo vedere la percezione come semplice somma di stimoli (Reizsumme) che invece corrisponderebbero alla somma delle sensazioni (Empindungssummen). Mentre questo problema resta abbastanza oscuro58 certo è che l’unipatia va oltre la percezione e ci dimostra un fondamento più primitivo della datità dell’altro. Questa comprensione era conosciuta dall’uomo primitivo ed è stato con la civiltà che, a vantaggio di alcune migliorie, è andata perduta tale capacità dell’umano. Motivo per cui si richiede un elevarsi sopra i limiti, un togliersi, con le parole di Scheler, i paraocchi.59 Per quanto questi ultimi «abbiano una finalità biologica – colui che conosce in quanto soggetto conoscente deve elevarsi sopra di essi mentre li coglie come un oggetto e estende la sua coscienza al di là di essi, diventandone consapevole».60 Fenomenologicamente parlando il luogo dell’unipatia è quello che risiede tra coscienza del corpo vivo (Leib) e l’essere noetico-spirituale che è il centro attivo degli atti intenzionali superiori.61 Questo luogo è l’ambito della coscienza vitale, l’ambito degli affetti e delle pulsioni che «nelle loro rispettive manifestazioni coscienziali possono portare all’unipatia e alla genuina identificazione».62

È da tener presente la portata di queste affermazioni. Attraverso il sentire si possono dare le condizioni per cui sorga ed emerga l’unipatia. Questo non attraverso una costituzione intenzionale o tramite una valorizzazione della dimensione psichica, elemento non estraneo anche ad alcune culture orientali e alle relative medicine.63 Piuttosto, le «genuine unipatie nel loro sorgere hanno un’unica cosa comune: 1. Esse accadono sempre “automaticamente”, mai “volontariamente” e mai “in modo meccanico associativo”64». È una «causalità del vitale» ciò che consente l’emergere dell’esperienza unipatica. Non è, ad esempio, nei fenomeni di solidarietà legati alla guerra dove sì, vi è sentimento unitario ma perdita spirituale, che si può rintracciare una modalità di esternazione dell’unipatia. «2. Esse si presentano solo se due sfere della sua coscienza, date sempre e con necessità essenziale all’uomo, diventano completamente o approssimativamente “vuote” di contenuti particolari».65 Se un’indicazione Scheler la dà questa è quindi da rintracciarsi in un atto dell’uomo.

Il fenomeno dell’espressione

La questione dell’espressione, come abbiamo visto nell’introduzione sul piano biosemiotico e nella possibilità dell’esperienza unipatica, è di rilevante importanza. Essa, come caratteristica principale del vivente, è stata messa in luce già dalla filosofia di Schelling. Nel finalismo tradizionale la questione resta il «voler im-primere un fine dall’esterno. In Schelling invece il problema del finalismo viene rovesciato in quello dell’es-primere».66 Ausdruck (espressione) viene da aus-drücken (premere fuori), come la via latina di esprimere viene da ex-prĭmĕre (spremere, far uscire, fuori). «La forma espressiva è un effetto che eccede il contesto, nel senso della causalità organica di Schelling»67 Infatti, in Schelling l’effetto eccede la causa e questa è la tensione alla base dell’espressione perché espressione significa eccedere il contesto e la causa per mettersi in evidenza.68 La filosofia dell’organismo come si declina in Schelling è contraria a un finalismo tout court, proprio perché «alla base della vita si scopre un processo creativo imprevedibile, irriducibile a un progetto prestabilito o a un’idea già conclusa».69 L’organismo viene così definito come ciò che è in grado di auto-organizzarsi.70 Questo va contro l’impostazione kantiana secondo cui vi deve essere una natura il cui ordine è dominato dalla legislazione dell’intelletto, piuttosto:

la natura è idonea a darsi un ordine e un’auto-organizzazione […] vi è dunque il riconoscimento di una legislazione materiale pre-rappresentativa e indipendente da quella intellettuale: solo in questo modo l’organismo può diventare un fenomeno concreto, una struttura data che può essere fenomenologicamente descritta e non meramente pensata.71

L’organismo quindi si pone come schema fisico della libertà, che significa:

avere un’autonomia nei confronti dell’ambiente, e questa autonomia viene conquistata attraverso una ritorsione temporale del rapporto causa-effetto, per cui i processi non si svolgono più nella forma di una mera successione, ma producono un effetto retroattivo sullo stesso soggetto agente.72

La tensione esprimente si ha, ad esempio, anche nella produzione di un effetto sproporzionato rispetto allo stimolo (Reiz) proveniente dall’ambiente esterno che scatena «una reazione unitaria (Einheit der Reaktion) dell’organismo nel suo complesso».73 E questo è anche quanto propone l’emergentismo.74 Ma è con il concetto di metabolismo (da metabolè, derivato da metaballon: gettare oltre, mutare; quindi mutazione) che si può procedere in un’analisi approfondita dell’organismo. Alla fine della metabolizzazione siamo di fronte a «qualcosa di ontologicamente diverso».75 Nell’espressione si viene fuori arrivando a caratterizzarci nel modo in cui «ogni individualità ha un suo stile specifico nel modo di trascendere il proprio contesto. L’espressione diventa in tal modo il principio d’individuazione del vivente».76 Nel metabolismo tale processo elastico diviene un fenomeno evidente. Questo è ben comprensibile se teniamo presente che per Scheler la persona «è un essere non oggettivabile […], la persona è “sostanza d’atto”»,77 e in quanto atto partecipa secondo l’«esistenza» all’essere solo attraverso un co-compimento (co-pensare, co-volere, co-sentire). Ma il punto di maggiore rilevanza è che, se teniamo presente quanto detto circa alla comunicabilità sul piano biosemiotico di tutti i viventi, l’espressione accomuna il vivente nelle sue forme. Tuttavia con il concetto di espressione ci spingiamo ancora oltre una concezione sul vivente, perché le forme di e-sistenza si distinguono da quelle della vita, biologicamente intesa. In altre parole, anche la materia inorganica può avere delle forme espressive che, riconosciute tali o no, aggettano nel mondo. L’espressione, si pensi solo al caso privilegiato dell’esperienza artistica, è lo stato vivente della materia.

[L]’espressione (distinta dall’espressività) si svela come un particolare stato della materia: lo stato vivente della materia. […] L’evoluzione della vita non si muove a caso in tutte le direzioni, ma le possibilità vengono limitate da un determinato fattore: l’espressione.78

Per Scheler questa dimensione dell’espressione è il «proto fenomeno della vita nel senso che è la pulsione ad esprimere il modo in cui si sente di vivere».79 Emerge quel Gefühlsdrang (pulsione primordiale del sentire) che è «la prima forma di auto-organizzazione della vita nel senso di un’affettività che è espressione di stati interni».80 Nella percezione dell’altro si coglie l’espressione, ma questa «è addirittura la primissima cosa che l’uomo coglie in ciò che esiste nel mondo esterno».81 Tutto ciò conduce senza esitazione al tema dell’espressione dell’inanimato. Se «solo l’essere vivente è in grado d’interagire con il piano espressivo della vita e questa diventa la sua caratteristica determinante»82, ciò con cui interagisce non è sempre e soltanto un essere vivente. L’opera artistica o il manufatto possono essere intesi come manifestazione espressiva. Però, se Munch realizza più versioni di un quadro, questo avviene perché «in ognuna di queste versioni cerca di trovare un’espressione più adeguata».83 Cerca, in altre parole, di dare una forma rigorosa al suo vissuto. In tal senso non si intende quindi tanto interagire con l’espressività della pietra o dell’oggetto, ciò con cui si interagisce è ciò che artisticamente si plasma. Il caso artistico pone quindi il soggetto artista al centro. Inoltre, e qui si conferma quanto detto sul dispiegamento del vissuto nell’atto, «non c’è solo uno sviluppo dell’espressione, ma anche del vissuto».84 La funzione essenziale e profonda del processo artistico elabora quindi un dispiegamento del vissuto nell’espressione, permettendo non solo di trovare una forma adatta del vissuto nell’espressione, ma dello stesso vissuto che si coerentizza nello svolgimento dell’espressione.

La presenza dell’amore nel campo della simpatia

Si è parlato della forma privilegiata di contatto con l’altro e dell’indicazione che Scheler dà come esempio e fenomeno paradigmatico di una simile condizione. Tuttavia il ruolo dell’amore nel pensiero di Scheler è più forte ed emerge a più riprese. L’itinerario dell’Amore in Scheler si afferma con energia quando nelle “Leggi di Fondazione (Fondierungsgesetze) della Simpatia” delinea il fondamento ultimo nell’unipatia.85 «Nello stadio più basso troviamo ancora l’unipatia, mentre negli stadi più evoluti troviamo il ri-sentire».86 L’unipatia fonda il risentire; il risentire fonda il co-sentire;87 il co-sentire fonda l’humanitas, ossia la filantropia (Menschenliebe), per cui, rendendoci «consapevoli dell’“io altrui in generale” (già dato prima come sfera) come di una realtà uguale alla realtà del nostro proprio io»,88 può appunto essere possibile la filantropia. Quest’ultima fonda l’amore acosmico della persona e poi di Dio.89 Ne risulta quindi che l’amore sia qualcosa di attivo mentre il co-sentire è passivo,90 e che l’amore acosmico della persona e di Dio «si fonda, per quel che concerne la possibilità del suo “divenire”, sulla filantropia universale».91 L’uomo può divenire persona proprio quando tramite il co-sentire un atteggiamento reale altrui si dà a un’altra persona, ossia compie un’apertura.

[L]a persona infatti (i suoi atti puramente noetici e il loro senso) può darsi a un’altra persona (tramite una comprensione di senso puramente spirituale) solo se si è già realizzato tramite co-sentire un atteggiamento reale dell’altro io vitale (cioè del suo substrato) uguale a quello del proprio io vitale […] – fino al punto per dir così in cui l’uomo comincia a essere una persona.92

«Le “persone” – in altre parole – non possono essere riconosciute mediante la comprensione (nella riproduzione dei loro atti spirituali) senza che esse si schiudano spontaneamente».93 Scheler qua condensa la sua filosofia della Weltoffenheit nell’intreccio con l’amore. Bisogna tener presente che per Scheler sono due i livelli che caratterizzano la “vivente” persona. L’affettività è prerogativa dell’essere vivente (I), ma è l’apertura al mondo la condizione determinante la persona (II). Questa non ha a che fare con l’uomo in quanto tale. Non tutti gli uomini sono persone e, estremizzando, forse non tutte le persone sono uomini. Questo il senso di: «al punto per dir così in cui l’uomo comincia a essere una persona».94 Non solo perché la persona indica una profondità dell’esistenza non inclusa nel solo essere esseri umani, ma perché non c’è una distinzione antropologica in Scheler che faccia coincidere, al di là dell’analisi degli atti ad esempio del Formalismus, il rapporto tra persona/non persona con quello umano/non umano. Il rapporto di coincidenza tra i due rapporti, inteso al di là del campo degli affetti e dentro quello dell’esperienza espressiva, non regge. Mentre per Heidegger solo l’uomo è formatore di mondo, la pietra ne è priva e l’animale è povero di mondo, per Scheler è più complessa la questione: la chiusura ambientale e l’apertura al mondo non hanno a che fare solo ed esclusivamente con l’uomo. Chi, cosa, riesca a compiere la Weltoffenheit è una persona. Ora, tornando al tema dell’amore, la filantropia universale è qualcosa di spontaneo e costituisce un amore per la persona in generale, non per l’amico o il proprio caro particolare.95 Scheler declina quindi questa forma della filantropia come un amare Deum essendo «la filantropia universale […] una condizione essenziale per l’amore di Dio».96 Nelle pagine precedenti Scheler aveva precisato, parlando dell’eros, che questo è qualcosa di ben diverso dalla sublimazione freudiana,97 dall’amore erotico verso gli oggetti, mentre, invece, è la radice pulsante dell’unipatia. Dalla vita di San Francesco, ad esempio, «è confermato che la radice ultima di ogni unipatia è e rimane l’eros».98 Eccoci, allora, al punto centrale dell’unipatia: l’amore. In quanto depurato dall’erotismo verso gli oggetti o dalla sublimazione che si esplica poi nelle attività, l’amore è presente come radice fondamentale dell’unipatia. Per quanto Scheler nelle leggi fondazionali sia arrivato a un altro tipo di amore, quello acosmico e di Dio, ci dice che anche l’atto sessuale amorosamente compiuto è espressione dell’unipatia. La:

pubertà significa però preparazione di quell’unipatia tra uomini con l’unità della vita universale, che ha il suo fine e il suo termine naturale, secondo la causalità biologico-evolutiva, nell’atto sessuale amorosamente compiuto – ovvero nell’unico caso di unipatia normale e umanamente reciproca nella vita universale.99

Il punto focale dell’impulso vitale è diverso da una volontà cieca (Schopenhauer), da un appetito, fame o sete (Marx) e dalla pulsione di potenza (Nietzsche).100 Se l’eros ha un significato metafisico questo «deve essere restituito all’idea dell’atto sessuale»101 Con quanto detto adesso e quanto affrontato sopra sulle modalità d’esperienza dell’unipatia, il cerchio si stringe intorno a un centro che vede la sua forza nell’amore. L’interpretazione scheleriana dell’amore trova forti legami con altre posizioni ed esperienze come quella di Lev Tolstòj. Parlando di Dio Tolstòj detta alla figlia, poco prima di morire, le seguenti parole per il Diario: «l’unione di questa sua vita [di Dio] con le vite di altri esseri si attua mediante l’amore»102 e subito dopo aggiunge che «Dio non è amore, ma quanto più grande è l’amore, tanto più l’uomo manifesta Dio, e tanto più esiste veramente».103

Sull’amore come slancio e movimento ben diverso dall’amore puramente sessuale ovviamente è nel Simposio di Platone che si trovano le argomentazioni fondamentali, a cui lo stesso Scheler rimanda. È interessante notare come, nel discorso di Aristofane, parlando dell’amore come brama della metà perduta, si sostenga che «nessuno infatti potrebbe credere che sia la comunione dei piaceri sessuali, come se fosse questo il motivo per cui uno gode a stare insieme all’altro con uno slancio così grande».104 Nel discorso di Socrate, quando riporta quanto appreso da Diotima, leggiamo che Eros è propriamente un demone, qualcosa che sta a metà tra l’uomo e il dio;105 dove prosegue presentando i celebri genitori di Eros. L’amore nobile, come una forza che muove l’animo al bene, è cosa buona ed è considerato migliore dell’altro amare, quello meramente sensuale. Ciò emerge dal discorso di Pausania. «Si tenga a mente infatti che qui è considerato più bello l’amare in maniera aperta che di nascosto, e soprattutto i più nobili e i migliori, anche se più brutti degli altri».106 Tale questione, intesa come il tema dell’amore nel suo flusso dinamico, è ovviamente presente anche nel Fedro.107 Scheler lo ha ben presente quando sostiene esplicitamente che «Platone e Nietzsche, quindi, hanno visto molto più in profondità di Schopenhauer, Freud, Simmel e degli ideologi romantici dell’amore».108 Questo perché per Platone si tratta di un “generare nel bello” e per Nietzsche di una “produzione verso l’alto”. Si ribadisca, prima di proseguire e, quindi capire le motivazioni di una tale posizione, che tra Freud e Scheler c’è una grossa asimmetria. Se si può parlare di libido per Scheler lo si può fare in quanto «è un fatto originario del tendere»109 e non un emergere da produzioni meccaniche. Ugualmente la pulsione è innata, diretta in generale e incontra poi un oggetto e non è, quindi, libido che prende forma con un oggetto.110 Scheler rovescia i termini: il bambino può esplorare e poi trovare l’oggetto giusto e non viceversa l’oggetto è una sublimazione di un amore impossibile (verso un genitore, ecc.) perché:

anche qui – come in tantissimi altri punti della sua opera – Freud si rende colpevole dell’errore metodico di voler rendere comprensibile il caso normale a partire da dati di fatto relativi al caso anormale, capovolgendo in questo modo i dati reali.111

L’indagine di Scheler è quindi completamente differente: c’è un valore che guida l’agire. La questione è che «non solo il tendere in sé è un fatto irriducibile alla sensazione, al sentimento e ai processi della rappresentazione, bensì anche la direzione qualitativa del tendere e qui del “desiderare” localizzato nel corpo vivo, sono fatti originari».112 La teoria della rimozione per cui nascerebbero le forme elevate d’amore e le attività culturali è essenzialmente un tentativo di spiegazione fallito..113 L’indagine di Scheler, essendo realmente fenomenologica, tende all’«intuizione dell’essenza del fatto da osservare»,114 e questo è il motivo per cui la teoria di Lipps e l’empatia per analogia «non è scorretta, entro certi limiti persino dal punto di vista empirico-psicologico, per gli europei in “società” e per la “struttura scientifica” appartenente alla società»,115 ma quella di Scheler, la «“teoria della percezione dell’io altrui”, è corretta anche solo per il modo in cui gli uomini sono dati nella “comunità di vita”116». Una è parziale, l’altra completa e generale. Completando quindi lo svolgimento del discorso di Scheler sull’amore si perviene allo scardinamento dell’alternativa vetero-ebraica – che si è perpetuata nel cristianesimo, nel matrimonio e addirittura nella prostituzione borghese – che, situando l’essenza dell’atto sessuale nello scopo, vede un’alternativa tra procreazione o voluttà.117 Per Scheler l’essenza è completamente diversa dallo scopo, «l’atto sessuale in quanto tale non appartiene affatto alle cosiddette azioni dotate di scopo, quanto piuttosto rappresenta un’azione d’espressione».118 Ecco quindi che se si definisce l’atto sessuale come azione d’espressione, si comprende il fatto fenomenico per cui questo (l’atto) non possa essere forzato. Inoltre, il concepimento non è intenzionale, solo la sua negazione, ossia il suo evitarlo, lo può essere.119 In secondo luogo, il concepimento, l’azione procreativa:

e tutti i processi ad essa connessi, rappresentano soltanto le causae occasionales fisiche. […] Ogni essere umano è, anche sotto il profilo corporeo, un “individuo” originale affatto nuovo, che soltanto nel senso dell’analisi statistica rivela, in relazione al sostrato materiale del corpo vitale, i medesimi organi e processi degli altri esseri umani. […] Tale produzione di volta in volta originale della vita universale, per la quale la procreazione bisessuale rappresenta semplicemente una tecnica della natura.120

si situa «completamente al di là del “volere” umano o anche semplicemente di una possibile causalità messa in atto dall’essere umano in generale».121 L’emergere dell’umano avviene dalle profondità metafisiche della vita, dove quindi:

dobbiamo piuttosto assumere che sia soltanto l’unipatia reciproca con il comune sfondo e medium della vita universale il vero e perfetto correlato psichico di coscienza dell’atto ontico-metafisico dell’emergere di un nuovo individuo corporeo dalle profondità metafisiche della vita.122

L’amore, allora, produce, è «un movimento creatore e non riproduttore di valori».123 L’amore è qualcosa che tende all’innalzamento qualitativo dell’umanità. Questo porta Scheler a parlare di una vera e propria «simpatia sessuale»124 la quale se non è presente preclude la pulsione stessa, addirittura «nemmeno là dove la “fame sessuale” è la più grande che si possa pensare».125 L’unipatia è il basso continuo dell’itinerario scheleriano, potremmo anche dire del suo metodo se lo intendiamo quale iter, percorso (methodos). «Nell’intero ambito delle forme della simpatia e dei tipi di amore, l’unipatia cosmo-vitale e l’amore acosmico della persona – fondato nell’amore di Dio – stanno dunque, per così dire, ai poli opposti».126 In mezzo vi sono tutte le altre forme e chi «volesse salire questa scala, cadrebbe, ove volesse fare il secondo passo prima del primo».127

La base su cui fondare l’indagine, come scrive più avanti,128 sono ovviamente i fenomeni e quelli affettivi in particolare. L’amore non parte dal co-sentire e quindi si scontra con le teorie naturalistiche dell’amore, come quella filogenetica (Darwin) e quella ontogenetica (Freud).129 L’amore è ben diverso dal sentire poiché non è una funzione, ma un atto.130 È legato alla persona e mai oggettivabile,131 ed è movimento,132 ma in quanto moto affettivo, e non sentimento o affetto tout court.133 L’amore è diverso da un desiderio che porta a un’azione,134 questo perché l’amore è diretto al valore o meglio «io non “amo” alcun valore, bensì sempre qualcosa che è dotato di valore».135 L’amore è principalmente legato al valore, e quindi il co-sentire si fonda sull’amore e non viceversa. Simpatizziamo nella misura in cui amiamo,136 ossia il co-sentire deve essere incorporato in un atto d’amore affinché ci sia qualcosa di più di un puro comprendere o ri-sentire. Là dove c’è amore, c’è simpatia. L’amore spontaneo è verso tutto, non ha limiti, mentre il co-sentire – reattivo – è verso esseri senzienti. Quindi «è ben possibile simpatizzare con chi non amiamo; è invece escluso che non si simpatizzi là dove si ama».137 L’amore in questo senso crea una novità ontologica «fa spazio, a partire da quel singolo valore, alla realizzazione di un incremento di valore […] apre un varco verso qualcosa che ancora non esiste».138 L’analisi, allora, verte sempre sull’unipatia e sul valore, termini e concetti chiave, come abbiamo visto, della filosofia scheleriana.

Ora, mettere un primato ontologico della pulsione sessuale sull’amore sessuale è come mettere prima la conservazione sulla nobilitazione e l’individuo prima della specie.139 Questa è la metafisica meccanicistica che domina e riflette la «“visione del mondo relativamente naturale” di un gruppo, cioè di un’epoca, ovvero ciò che viene sentito e pensato come “ovvio”».140 Questo l’atteggiamento naturale da eliminare. Scheler si spinge oltre dicendo che tutto questo riflette non un’unica unità di visione del mondo propria di una cultura ma, «bensì il tipo borghese di uomo, l’“homo capitalisticus”».141 È sempre in queste pagine che Scheler ribadisce che l’unipatia uomo/cosmo è legata all’unipatia dell’amore sessuale «di modo che quest’ultima costituisca per così dire la “porta” per quella».142 Bisogna tener presente, per delineare l’importanza delle analisi di Scheler, che l’umano si posiziona nel mondo come organismo (schema corporeo e livello unipatico), come sé sociale (senso comune ed empatia) e come singolarità personale (ordo amoris e solidarietà).143 Per cui la stratificazione è tripartita: abbiamo un ordo carnis, un ordo socialis e un ordo amoris (a cui corrispondono rispettivamente schema corporeo, sé sociale e centro personale). La persona è il suo ordo amoris, nel modo in cui «l’ordo amoris è il principium individuationis della persona».144 La persona, in altre parole, «non è un ente di ragione»145 è un ordo amoris, qualcosa per cui, se vi fossero disturbi dell’ordo amoris, si assisterebbe alla «decostruzione e alla frammentazione della persona».146 L’ordo amoris, «in definitiva, è ciò che conferisce il timbro inconfondibile alla singolarità».147

La caratteristica più straordinaria dell’ordo amoris è quella di funzionalizzare non solo l’esperienza e i posizionamenti ma anche sé stesso: è l’organo che – di fronte ad una crisi, a una sconfitta grave, a un lutto più in generale a qualsiasi trasformazione rilevante dell’esistenza – metabolizza una metamorfosi e rinasce nello spazio trans-soggettivo dell’incontro con l’altro.148

Vi sono disturbi dell’ordo amoris che si collegano ai disturbi dell’ambito dell’emotional sharing proprio perché «l’ordo amoris non è l’organo di una cura ripiegata su sé [sic!] stessa, ma l’organo di un’emotional sharing solidaristica che si svolge sul piano trans-soggettivo dell’incontro con l’altro nella co-attuazione dell’atto».149 Questi disturbi come l’infatuazione compromettono la funzione enattiva e ne conseguono storture nella stessa forma mentis. L’infatuazione, ad esempio:

indica una forma di amare cieco, in cui un umano viene rapito da un bene finito, fino a rimanere intrappolato in esso, in quanto crede illusoriamente “d’aver raggiunto in un bene finito il definitivo appagamento e il pieno soddisfacimento della ricerca del proprio amare”.150

Il risentimento, invece, «tratta di illusioni che falsano il modo di comprendere l’altro, portando a ipotizzare una superiorità dell’evidenza della percezione interna rispetto a quella esterna».151 L’infatuazione è legata ma si differenzia dalla delusion in quanto:

l’impressione è che qui l’errore del giudizio sia un problema secondario e che invece primaria sia una distorsione a livello assiologico, che risulta inconfutabile. In altri termini, la delusion non è qualcosa di accessorio o di contingente rispetto al modo di essere di quell’individuo, ma costituisce il suo principium individuationis.152

Cosicché «lo schizofrenico non può rinunciare alle sue delusions perché esse corrispondono al suo modo di posizionarsi nel mondo: eliminarle significherebbe cancellare la propria esistenza».153 Pertanto si tratta di una vera e propria patologia dell’ordo amoris. L’allucinazione, invece, nell’ottica di Scheler, non consiste di fenomeni psichici, errori di percezione, ma «“percezioni” di qualcosa prodotto dal cervello, che viene scambiato per un oggetto reale del mondo esterno».154 Ora, mentre l’infatuazione è possibile sconfiggerla grazie alla «presenza di una testimonianza maieutica»,155 la delusion «ha perso il terzo livello di sintonizzazione e quindi non potrà mai incontrare una testimonianza maieutica»,156 e per questo motivo fondamentale essa è una patologia. Ugualmente l’illusione è sconfiggibile mentre le allucinazioni «sono percepite a livello di realtà».157 Per Scheler la questione, però, è un po’ più complessa, visto e considerato che nelle allucinazioni egli trova il fondamento della percezione.

[N]elle allucinazioni Scheler vede all’opera, allo stato puro, il momento iniziale della percezione: l’attività percettiva dell’individuo consiste nel limitare, smentire o rafforzare la partecipazione ai contenuti fantastici trans-individuali o collettivi.158

Di conseguenza, «è proprio quest’attività di contenimento sull’originario contenuto collettivo di fantasia che viene a mancare nell’allucinazione».159 Tesi, questa, simile a quella sostenuta più tardi da Merleau-Ponty, sul fondamento sinestesico della percezione,160 per Scheler di fatto la sensazione sarebbe un processo di de-allucinazione:161

la fantasia precede la sensazione ma è nella sensazione che essa trova l’accesso al reale. Le sfere del mondo esterno, lo schema corporeo, il centro vitale, l’io e il centro della persona, infatti, sono pre-dati all’attività fantastica come margini del suo creare.162

La mediazione della corporeità, l’importanza dello schema corporeo è, quindi, fondamentale per l’interazione uomo-ambiente e per tutto ciò che essa media, dalle sensazioni alle forme più elevate d’emotività. In alcuni casi di deprivazione sensoriale emergono situazioni allucinatorie che sembrano presentarci una vera e propria embodied fantasy.163 La schizofrenia, allora, sarebbe un’«incontinenza della fantasia produttiva»,164 la quale prende il sopravvento e i disturbi fondamentali, come l’anaffetività (Fühllosigkeit), che sono alla base della melanconia,165 denotano invece un «collassamento dell’ordo amoris […] l’individuo diventa incapace di condividere un dolore o un qualsiasi altro vissuto a livello del co-sentire»,166 cosa che invece si mostra essere sempre la soluzione per liberarsi dalla pressione negativa di certi vissuti. In questo senso l’amore non è solamente un nodo fondamentale della riflessione scheleriana, che stringe il tema della percezione espressiva dell’altro, fino al suo estremo unipatico, con il tema della percezione valoriale. L’amore piuttosto risulta essere la forma fondamentale dell’esperire e della costituzione della persona che, quando distorto o problematico, modifica strutturalmente la persona.

Come abbiamo visto, molte tematiche propriamente scheleriane si legano necessariamente con i temi propri della psichiatria. A questo proposito può risultare interessante un confronto con un altro importante filosofo, Karl Jaspers. Sia Scheler che Jaspers individuano nel dialogo tra medicina e filosofia, tra psicologia e filosofia, quindi tra le scienze nelle due accezioni diverse quella possibilità di evitare l’appiattimento in direzione delle sole scienze quantitative.167 Ambedue gli autori sono interessati al superamento della distinzione cartesiana del corpo come res extensa,168 di un semplice Körper. Il superamento, in particolare con Scheler, avviene attraverso un andare oltre le impostazioni della medicina orientale e occidentale essendo focalizzate l’una sull’intervento interno, l’altra su quello esterno:

Il fatto che a noi occidentali sembri più facile agire sui processi vitali dall’esterno piuttosto che attraverso un’opera psichica […] si basa piuttosto su di un interesse unilaterale che per secoli ha dominato la medicina occidentale: prova ne sia che la medicina indiana manifesta all’opposto un’impostazione eccessivamente psichica non meno unilaterale.169

Il nocciolo del problema risiederebbe nell’unità delle funzioni psichiche e fisiche, concetto che presiede a quello di corpo vivo (Leib).170 È solo un superamento di queste prospettive che ci può dare quell’unità valida per tutti gli esseri viventi. Entrambi hanno una visione della filosofia come trasformazione, come «pratica di trasformazione dell’esistenza».171 Jaspers parla proprio in questi termini quando descrive il rapporto tra scienza e filosofia dando quel valore privilegiato alla filosofia poiché la «Philosophie verlangt ein anderes Denken, ein Denken, das im Wissen zugleich mich erinnert, wach macht, zu mir selbst bringt, mich verwandelt».172 Appunto la filosofia come qualcosa che richiede un altro pensiero che allo stesso tempo rende vigile, fa ricordare, porta a me stesso e mi trasforma. Per Jaspers quindi la filosofia, che non coincide con l’uso accademico, è qualcosa che modifica e porta avanti l’uomo nel mondo. E ciò «non come sapere di formule, assiomi e parole, e neppure come intuizione di figure concettuali, ma come agire interiore che risveglia».173 I temi del risveglio, dell’illuminazione e della torsione-cambiamento di prospettiva, sono effettivamente centrali nelle metafore collegate all’uso trasformativo della filosofia.

Le divergenze, poi, sono più di ordine terminologico. Vorbild (modello) in Jaspers rinvia all’imitazione, appunto, di un modello. Qualcosa che rappresenta un progetto cui i differenti tipi soggettivi si possono cimentare e si può quindi legare alle differenti forme di relazione con il mondo – si pensi a tutto quell’elenco di atteggiamenti che prende forma nella Psychologie der Weltanschauungen. In Scheler, invece, di contro all’imitazione sociale, il termine rinvia al processo trasformativo, nel modo in cui, installando un movimento tensivo, induce al cambiamento. Ma questa stessa accezione è usata da Jaspers quando ne Die großen Philosophen parla delle grandi personalità come esempi che agiscono in senso maieutico, come, appunto, il Vorbild di Scheler.174 Inoltre in Scheler è principale il processo di formazione della persona radicato nella sfera affettiva, poiché il motore del processo è un ordo amoris che ci consente forme di emotional sharing nell’incontro con l’altro.175 Le tipologie di atteggiamenti che delinea Jaspers si estendono quindi in Scheler quando propone la possibilità di diventare testimonianza maieutica a chiunque. Ognuno può essere quello step necessario all’autoformazione e trasformazione di sé. Pertanto Scheler e Jaspers entrano in un fertile e necessario dialogo nell’identificazione della condivisione del vissuto quale processo essenziale nella relazione paziente-medico (Jaspers) o percezione diretta dell’espressione (Scheler). Quella stessa condivisione che nei casi patologici, come abbiamo visto, crolla. Base per tutto ciò resta il corpo vivo (Leib) «che quale struttura capace di selezionare i dati in base a un orientamento valoriale»176 resta il nostro più essenziale strumento di relazione con il mondo. Quando lo schema corporeo (Leibschema) si rovescia nella sua prospettiva, il malato sposta «l’attenzione dal fine o dal senso dei movimenti corporei alle “condizioni del corpo vivo”177». Nei disturbi dell’attività non consapevole del corpo vivo ciò che ne risulta è un atteggiamento iper-riflessivo e astratto. Il semplice movimento di apertura della porta viene sezionato nelle sue componenti e fasi rendendo alienante l’operazione la quale diventa un tutto sconnesso. È in questa relazione con la psicopatologia che l’analisi di Scheler si fa strada verso una chiara identificazione del ruolo giocato dal corpo vivo nella nostra quotidiana esperienza. È proprio in questi casi che il corpo vivo (Leib) viene percepito come oggetto corporeo (Körper).

A questo proposito, è interessante notare come si delinei il rapporto con un’altra componente essenziale del rapporto della fenomenologia con la psicopatologia: l’epochè fenomenologica. Se il mondo dello schizofrenico è un mondo che, come nella riduzione fenomenologica, mette tra parentesi qualcosa, quel qualcosa si riferisce al contatto con il circostante a tutto vantaggio dell’«immergersi nella sfera del proprio ego».178 Si tratta sempre di una rottura ma, se per Husserl è l’atteggiamento naturale a essere sospeso in un’operazione ben precisa che mira, tra l’altro, a un rapporto diretto con i fenomeni, nello schizofrenico è la continuità della vita e il vissuto a essere sospeso, e quindi compromesso. Questo si sente al centro del mondo annullando l’incontro con l’altro e la realtà. Il salto in avanti lo si ottiene con la riduzione nell’accezione scheleriana dove la morte è quella del proprio ego al fine di rinascere nell’incontro con l’altro e, così, far rivivere la singolarità personale.179 In tal modo si compie quell’apertura al mondo, la Weltoffenheit, che definisce la persona. Anche Cutting, che si è occupato di schizofrenia, identifica la patologia come «perdita di contatto con l’impulso vitale (Lebensdrang)».180 Riprendendo ancora Scheler, egli dice che lo schizofrenico ha una percezione valoriale (Wertnehmung in Scheler; valueception in Cutting) distorta. Se si delineasse una contrapposizione tra il mondo dello schizofrenico e quello del melanconico si noterebbe che solo il primo si focalizza su valori spirituali e non su quelli vitali, mentre il secondo presenta un processo inverso: può avere amplificata la vitalità senza strutturarsi spiritualmente.181 Però, come aveva già delineato Kurt Schneider stratificando i valori delineati da Scheler nell’ambito specifico della psicopatologia, le classi sono due: quella dei valori vitali e quella dei valori psichici. Mentre per Cutting la depressione è pur sempre legata ai valori spirituali. Però, se «il melancolico perde veramente i contatti con i valori spirituali, che includono la sfera etica, perché i suoi tratti caratteristici sono proprio il senso di colpa e la stigmatizzazione della propria anestesia emotiva?182». Egli esperisce il distacco emotivo, ma il punto centrale risiede nel fatto che «percepire valori etici non significa essere etici».183 La riduzione fenomenologica come delineata da Scheler – ossia come possibilità di apertura al mondo e all’altro – è del tutto assente nello schizofrenico, tanto quanto nel depresso, «tanto che la percezione dei valori spirituali avviene in un’ottica autoreferenziale, cioè disconnettendosi dalla Weltoffenheit e dal contatto con la realtà».184 Abbiamo visto che Cutting riprende il concetto di Scheler di impulso vitale. Effettivamente la riduzione fenomenologica fino al 1923 è individuata in un processo di sospensione della realtà al fine di «far emergere la semisfera dell’essere ideale».185 I concetti cardine adesso sono Dasein e Sosein, dove il primo, lo si ricordi, non rimanda solo all’esistenza ma a tutta la realtà e il secondo alla componente ideale. È dal 1923 in poi, con Wesen und Formen der Sympathie e altri scritti, che la situazione cambia. Nell’edizione inglese Dasein viene infatti tradotto come «existence, presence» e Sosein «character, quality, attributes».186 Da quell’anno si può parlare di una svolta e Scheler, distinguendo tra persona e spirito, indica la sospensione non della «realtà di cui fa esperienza la persona nella Weltoffenheit, ma solo la realtà fattuale esperita come resistenza della struttura pulsionale vitale (Triebimpulse)187». Il punto è di far emergere le cose in sé, il mondo ci illumina, non in virtù di un’operazione concettuale, «non come un metodo della conoscenza, ma come una disposizione, un atteggiamento (Einstellung) emozionale che permette di vedere qualcosa che altrimenti resterebbe nascosto: l’autodatità (Selbstgegebenheit)188». Così più che messa tra parentesi si può parlare di apertura al mondo, quella stessa apertura che risulta compromessa nei sintomi e nei fenomeni della schizofrenia.189

Eppure anche i non schizofrenici restano immersi in situazioni di tensione e affollamento esistenziale nell’esperienza quotidiana che spesso comportano storture affettive ed esperienziali-espressive. Il nodo della questione resta rovesciare la tensione in distensione. Ci sono infatti due vie per la cultura dell’anima ci dice Scheler. Quella della tensione dello spirito e della volontà e quella della distensione dello spirito e della volontà. Anche Jaspers delinea questo quadro quando nella Psychologie190 parla dell’atteggiamento ascetico proprio in quest’ottica di tensione della volontà. Rispetto all’edonista l’asceta si preclude l’esperienza,191 ed è invece con l’atteggiamento entusiastico, con l’entusiasta, che si distende la volontà in una costantemente nuova relazione con il mondo grazie a quello che Jaspers delinea come «elevazione, slancio, un moto verso l’alto».192 E tutto questo, come l’apertura al mondo di cui parla Scheler, si basa sulla realtà poiché il vero entusiasmo «è possibile soltanto in una comprensione e in un’esperienza delle realtà che le penetrino completamente».193 Nella riduzione come è stata definita nella seconda interpretazione, quindi come apertura, l’uomo «si sente profondamente parte del mondo (als Teil der Welt tief empfinden)194» dice Scheler e, come dice Jaspers, «nell’atteggiamento entusiastico l’uomo si sente toccato nella sua più intima sostanza, nella sua essenzialità o – che è lo stesso – si sente afferrato e commosso dalla totalità, dalla sostanzialità, dall’essenzialità del mondo».195 È in questo spirito di relazione col mondo che si può stanziare la caratteristica necessaria per la distensione dello spirito: l’umiltà, la quale è modalità dell’amare che «agisce come forza dirompente e liberatrice».196 Così si può liberare la tensione in distensione o la pressione in impulso, che libera.197

Il dialogo con Scheler ci consegna una prorompente attualità del pensiero e delle analisi scheleriane. Dalla quotidiana presenza dell’espressione ai dilemmi della comprensione dell’altro; dalla visione di co-formazione del vissuto e dell’espressione, che ci dona uno sguardo nuovo anche sull’arte, alla pervasiva presenza dell’Amore; dai disturbi della personalità al dialogo con la psichiatria Scheler si prospetta come una fertile fonte cui attingere nel complesso panorama contemporaneo. E se questa non ha la pretesa di soluzione, almeno si presenta come preziosa e generosa proposta.


  1. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris. In dialogo con Max Scheler, Franco Angeli, Milano 2018, pp. 148-149. ↩︎

  2. Max Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, Verlag von Friedrich Cohen, Bonn 1923; tr. it. a cura di Laura Boella, Essenza e forme della simpatia, Franco Angeli, Milano 2010, p. 236. ↩︎

  3. Ivi, p. 237. ↩︎

  4. Ibidem↩︎

  5. Si veda ivi, p. 37, 235. ↩︎

  6. Si veda ivi, p. 96. ↩︎

  7. Cfr. ivi, pp. 78 ss. ↩︎

  8. Cfr. ivi, pp. 83 ss. ↩︎

  9. Cfr. in particolare pp. 99-101. ↩︎

  10. Anche se non in modo esplicito e diretto, citato espressamente solo a p. 100. ↩︎

  11. Cfr. ivi, pp. 51-52. ↩︎

  12. Cfr. ivi, pp. 193 ss.; pp. 55 ss.; pp. 114 ss. ↩︎

  13. Cfr. ivi, pp. 143 ss. ↩︎

  14. Cfr. in questo senso Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., pp. 57-63. ↩︎

  15. Ivi, p. 65. La conoscenza emergerebbe come attività puramente inutile per cui la filosofia stessa sarebbe «una “conversione” dello sguardo sul mondo, rovesciando la percezione “ipnotizzata dalla costanza dei nostri bisogni” in una percezione liberata dai limiti imposti dagli interessi biologici e pratici» (ivi, p. 69). Percezione disinteressata di Bergson e Selbstgegebenheit entrano quindi in dialogo. ↩︎

  16. Si veda Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., pp. 239-240. ↩︎

  17. Ivi, p. 239. ↩︎

  18. Ivi, p. 240. ↩︎

  19. Ibidem↩︎

  20. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 20. ↩︎

  21. Ibidem↩︎

  22. Ivi, p. 177. ↩︎

  23. Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 66. ↩︎

  24. Cfr. J. von Uexküll, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen: Ein Bilderbuch unsichtbarer Welten, Verstandliche Wissenschaft, Einundzwanzigster Band, Verlag von Julius Springer, Berlin 1934, ed. it. a cura di M. Mazzeo, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata 2010. Cfr. a questo proposito Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 96. ↩︎

  25. Ivi, p. 88. ↩︎

  26. Ibidem↩︎

  27. Ibidem↩︎

  28. Moritz Schlick, Forma e contenuto, Bollati Boringhieri, Torino 2008, pp. 169 ss. ↩︎

  29. Ivi, p. 177. ↩︎

  30. Si veda Max Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, cit., p. 1; M. Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 41. ↩︎

  31. Si veda Max Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, cit., p. 1. ↩︎

  32. Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 42; ed. tedesca, p. 2. ↩︎

  33. Si veda Max Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, cit., p. 2 ↩︎

  34. Si veda ivi, p. 3. ↩︎

  35. Si veda Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 43. ↩︎

  36. Si veda ivi, p. 44. ↩︎

  37. Ibidem↩︎

  38. Ibidem↩︎

  39. Si veda ivi, p. 45. ↩︎

  40. Ibidem↩︎

  41. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 109. ↩︎

  42. Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 46. ↩︎

  43. Si veda ivi, p. 51. Anche se a p. 58 (ed. originale tedesca: p. 26) parla di «unipatia-dell’esser-così» scrivendo proprio «Soseins-Einfühlung» e non «Einsfühlung». ↩︎

  44. Si veda ivi, p. 52. ↩︎

  45. Nel testo (ibidem) c’è un evidente errore. La popolazione dei Bororo (non Boroso come lo stesso Scheler scrive) è stata studiata da Karl von den Steinen che Scheler riporta e il testo italiano omette. Altro errore da segnalare è a p. 55 dove si riporta l’esempio della collegiale che riceve una lettera da un «amore». Ovviamente va sostituito con amante (Geliebten). ↩︎

  46. Si veda ibidem↩︎

  47. Si veda ivi, p. 53. ↩︎

  48. Ibidem↩︎

  49. Martin Buber, Ekstatische Konfessionen; tr. it. a cura di Cinzia Romani, Confessioni estatiche, Adelphi, Milano 1987, p. 27. ↩︎

  50. La differenza tra Dasein e Sosein è preziosa per Scheler. Possiamo dire che il primo non rimanda solo all’esistenza ma a tutta la realtà e il secondo alla componente ideale. Si veda più avanti. ↩︎

  51. Si veda Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 54. ↩︎

  52. Ivi, p. 57. ↩︎

  53. Ibidem↩︎

  54. Si veda ivi, pp. 58-59. ↩︎

  55. Ivi, p. 60. ↩︎

  56. Si veda ivi, p. 61. Il testo originale riporta als wesens↩︎

  57. Si veda ivi, p. 62. ↩︎

  58. Si veda Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., pp. 83 e 118 dove affronta il problema dello stimolo nel rapporto con la reazione dell’organismo e del valore come appartenente alla sfera del sentire (Fühlen) e non dell’intenzione. ↩︎

  59. Si veda Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 63. ↩︎

  60. Ibidem↩︎

  61. Si veda ivi, p. 64. ↩︎

  62. Ivi, p. 65. ↩︎

  63. «Il fatto che a noi occidentali sembri più facile agire sui processi vitali dall’esterno piuttosto che attraverso un’opera psichica […] si basa piuttosto su di un interesse unilaterale che per secoli ha dominato la medicina occidentale: prova ne sia che la medicina indiana manifesta all’opposto un’impostazione eccessivamente psichica non meno unilaterale» Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di G. Cusinato, Franco Angeli, Milano 2009, p. 166, op. cit. in Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 166. ↩︎

  64. Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 65, dove continua: «Nella nostra terminologia diciamo che esse derivano dalla specifica “causalità del vitale” che è specificamente diversa dalla motivazione noetica di senso e dalla causalità meccanica (formale) del contatto. Automatismo, direzionalità e tendenza al fine (non “attività finalizzata”), vis a tergo e causalità concreta di tutto il passato (a differenza delle cause immediatamente precedenti, reiterantesi uniformemente e qualitativamente identiche), sono alcuni tratti essenziali di questa forma fondamentale di relazione causale». ↩︎

  65. Ibidem↩︎

  66. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 34. ↩︎

  67. Ivi, p. 104. ↩︎

  68. Cfr. ivi, p. 34. ↩︎

  69. Ivi, p. 25. ↩︎

  70. Si veda ivi, p. 26. ↩︎

  71. Ivi, pp. 26-27. ↩︎

  72. Ivi, p. 29. ↩︎

  73. Ivi, p. 83. ↩︎

  74. Si veda ivi, pp. 36 ss. ↩︎

  75. Ivi, p. 44. ↩︎

  76. Ivi, p. 35. ↩︎

  77. Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 214. ↩︎

  78. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 102. ↩︎

  79. Ivi, p. 103. ↩︎

  80. Ibidem↩︎

  81. Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 226. ↩︎

  82. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 107. ↩︎

  83. Ivi, p. 108. ↩︎

  84. Ibidem↩︎

  85. Si veda Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 116. ↩︎

  86. Ivi, p. 117. ↩︎

  87. Si veda ivi, p. 118, tema già affrontato a pp. 43 ss. ↩︎

  88. Ibidem↩︎

  89. Si veda ivi, p. 119. ↩︎

  90. Cfr. ibidem↩︎

  91. Ivi, p. 120. ↩︎

  92. Ibidem↩︎

  93. Ivi, p. 121. ↩︎

  94. Ivi, p. 120. ↩︎

  95. Si veda ivi, pp. 120-121. ↩︎

  96. Ivi, p. 121. ↩︎

  97. Si veda ivi, p. 114. ↩︎

  98. Ibidem↩︎

  99. Ivi, p. 127. ↩︎

  100. Cfr. ibidem↩︎

  101. Ibidem↩︎

  102. Igori Sibaldi, «Introduzione e cronologia», in Lev Tolstoj, Tutti i racconti, a cura di Igor Sibaldi, vol. I, Mondadori, Milano 1991, p. CXIX. ↩︎

  103. Ibidem↩︎

  104. Platone, Simposio, 192 C4-C7. ↩︎

  105. Cfr. ivi, 202 D16 ss. ↩︎

  106. Ivi, 182 D8-D11. ↩︎

  107. Si veda Platone, Fedro, 255 B11 ss. ↩︎

  108. Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 133. ↩︎

  109. Ivi, p. 198. ↩︎

  110. Si veda ivi, pp. 198-199. ↩︎

  111. Ivi, p. 199. ↩︎

  112. Ivi, p. 197. ↩︎

  113. Si veda ivi, pp. 201-202. ↩︎

  114. Ivi, p. 213. ↩︎

  115. Ivi, p. 211. ↩︎

  116. Ibidem↩︎

  117. Si veda ivi, p. 127. ↩︎

  118. Ivi, p. 128. ↩︎

  119. Si veda ivi, p. 129. ↩︎

  120. Ivi, p. 129. ↩︎

  121. Ibidem↩︎

  122. Ibidem↩︎

  123. Ivi, p. 130. ↩︎

  124. Ivi, p. 135. ↩︎

  125. Ivi, pp. 135-136. ↩︎

  126. Ivi, p. 143. ↩︎

  127. Ibidem↩︎

  128. Si veda ivi, p. 179. ↩︎

  129. Si veda ivi, p. 176. ↩︎

  130. Si veda ivi, p. 151. ↩︎

  131. Si veda ivi, p. 152. ↩︎

  132. Si veda ivi, p. 151. ↩︎

  133. Si veda ivi, p. 152. ↩︎

  134. Si veda ivi, pp. 150-151. ↩︎

  135. Ivi, p. 155. ↩︎

  136. Si veda ivi, p. 152. ↩︎

  137. Ibidem↩︎

  138. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 190. ↩︎

  139. Si veda Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 140. ↩︎

  140. Ibidem↩︎

  141. Ivi, p. 141. ↩︎

  142. Ibidem↩︎

  143. Cfr. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 219. ↩︎

  144. Ivi, p. 192. ↩︎

  145. Ivi, p. 199. ↩︎

  146. Ivi, p. 225. ↩︎

  147. Ivi, p. 259. ↩︎

  148. Ibidem↩︎

  149. Ivi, p. 194. ↩︎

  150. Ivi, p. 195. ↩︎

  151. Ivi, p. 196. ↩︎

  152. Ivi, p. 220. ↩︎

  153. Ibidem↩︎

  154. Ivi, p. 221. ↩︎

  155. Ivi, p. 220. ↩︎

  156. Ibidem↩︎

  157. Ivi, p. 221. ↩︎

  158. Ivi, p. 232. ↩︎

  159. Ibidem↩︎

  160. Maurice Merleau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Gallimard, Paris 1945; tr. it. di Andrea Bonomi, Fenomenologia della percezione, Il saggiatore, Milano 1965. ↩︎

  161. Si veda Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 234. ↩︎

  162. Ivi, p. 233. ↩︎

  163. Si veda a questo proposito ivi, pp. 225-238. ↩︎

  164. Ivi, p. 223. ↩︎

  165. Si veda ibidem↩︎

  166. Ivi, p. 224. ↩︎

  167. Si veda ivi, p. 165. ↩︎

  168. Su questa distinzione (tra res cogitans e res extensa) fondamentale per la filosofia moderna sarebbe tuttavia da rimettere in discussione se leggiamo quello che lo stesso Cartesio scrive in più contesti. La questione del dualismo in Cartesio è problematica (Salvatore Nicolosi, Metafisica e antropologia in Cartesio. L’unità sostanziale del composto umano, in Ferdinando Luigi Marcolungo (a cura di), Cartesio e il destino della metafisica, Poligrafo, Padova 2003, pp. 53-74) visto che lui stesso, nelle Epistole – in particolare nello scambio con Elisabetta di Boemia – ammette o, meglio, risponde ad alcune sue obiezioni facendo emergere un certo «“imbarazzo” di terminologia e di dottrina, del tutto insolito nelle sue opere» (ivi, p. 64). Infatti sia dall’Epistolario che dai Saggi (Diottrica, Meteore e Geometria) dove emerge tutto l’interesse per l’ambito dell’estensione, affiora un quadro più complesso. Cartesio ribadisce che l’unione di anima e corpo sia un’idea innata, ovvero che sia una «nozione primitiva» (ivi, p. 63). Inoltre è in un altro testo, importantissimo per la comprensione del pensiero di Cartesio, le Passioni dell’anima, che questi propone la sua interpretazione della questione. Il pensiero ha un legame con le emozioni, vi è quest’operare nel corpo che ci consegna una «mediazione indispensabile della corporeità» (ivi, p. 66). Aggiungendo inoltre che senza quest’interazione tra anima e corpo non si potrebbe parlare di vera sostanza pensante o di «vero uomo» (ibidem). Così le passioni si delineano come dei pensieri particolari (ivi, p. 67). Emerge poi una visione funzionalista – già di derivazione Aristotelica e poi scolastica – dove l’anima non ha, ovviamente, dimensione fisica ma è in «rapporto “solamente con tutto l’insieme dei suoi organi”, cioè degli organi del corpo» (ibidem). Tuttavia ci deve essere un rapporto privilegiato d’incontro e, come è ben noto, Cartesio lo identifica nella ghiandola pineale. L’importanza di questa scelta è in linea con l’intento metafisico che la guida. Cartesio cerca l’unità di anima e corpo e quindi «la parte del corpo, nella quale l’anima deve esercitare immediatamente e specificamente le sue funzioni, non può essere se non una parte che risponda alle esigenze di unità e semplicità» (ivi, p. 68). Così a differenza di tutti gli organi che sarebbero doppi, la ghiandola è singola, unica. Nicolosi si spinge oltre e, parlando poi dell’esigenza di unire metafisica e scienza, esigenza che emerge osservando l’interesse di Cartesio di guardare alla metafisica come scienziato e alla corporeità come filosofo, scrive che l’aporia sostanziale resta legata a una forma espressiva. Vi sono «formule dualistiche» per dimostrare una «dottrina dell’unità» e quindi una materia delle pagine cartesiane dualistica e una forma «profondamente unitaria» (ivi, p. 71). ↩︎

  169. Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, a cura di G. Cusinato, cit., p. 166, op. cit. in Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 166 in merito al rapporto medicine e filosofia e a pp. 80-81 parlando dell’errore di Cartesio e della distinzione necessaria tra Leib e Körper↩︎

  170. La distinzione è già presente in testi precedenti al 1912. Compare poi nel Über Selbsttäuschungen, «Zeitschrift für Pathopsychologie», 1, 1912, pp. 87-163. ↩︎

  171. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 165. ↩︎

  172. Karl Jaspers, Existenzphilosophie. Drei Vorlesungen, Walter de Gruyter, Berlin 1974 (1937-38), p. 10. ↩︎

  173. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 169. ↩︎

  174. Si veda ivi, p. 166. ↩︎

  175. Si veda ivi, p. 167. ↩︎

  176. Ivi, p. 173. ↩︎

  177. Ivi, p. 174. ↩︎

  178. Ivi, p. 177. ↩︎

  179. Cfr. ibidem↩︎

  180. Ivi, p. 176. ↩︎

  181. Si veda ivi, pp. 178-179. ↩︎

  182. Ivi, p. 179. ↩︎

  183. Ibidem↩︎

  184. Ivi, p. 180. ↩︎

  185. Ivi, p. 181. ↩︎

  186. Max Scheler, The Nature of Sympathy, translated by Peter Heath, Tylor & Francis, New York 2008, p. liv. ↩︎

  187. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 181. ↩︎

  188. Ivi, p. 182. ↩︎

  189. Si veda ivi, p. 183. ↩︎

  190. Karl Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, Springer-Verlag, Berlin Heidelberg 1960 (1919), ed. it. a cura di Vincenzo Loriga, Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950. ↩︎

  191. Si veda ivi, pp. 112 ss. ↩︎

  192. Ivi, p. 143. ↩︎

  193. Ivi, p. 144. ↩︎

  194. Max Scheler, Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, Gesammelte Werke, hrsg. von Maria Scheler, Francke, München 1955, p. 22. ↩︎

  195. Karl Jaspers, Psicologia delle visioni del mondo, cit., p. 138. «In der enthusiastischen Einstellung fühlt der Mensch sich selbst in seiner innersten Substanz, in seiner Wesenheit berührt oder – was dasselbe ist – fühlt sich ergriffen von der Totalität, dem Substantiellen, der Wesenheit der Welt» (Karl Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, cit., pp. 117-118). ↩︎

  196. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 184. ↩︎

  197. Si veda Peter Schellenbaum, La ferita dei non amati. Il marchio della mancanza d’amore, Red Edizioni, Como 1991 (1988), pp. 117 ss., dove in riferimento a casi patologici identifica in questo movimento dalla pressione all’impulso la via per la liberazione della persona e, quindi, la soluzione a quei disturbi. ↩︎