La completezza dell’incompletezza. Linee interpretative per un’analisi del desiderio di rinascere alla filosofia

1. Vivere la discorsività: cosa significa fare filosofia

Michel de Montaigne distingueva sottilmente tra due tipi di filosofie. Parlando della solitudine e dei consigli su questa espressi da Epicuro e Seneca, come contrapposti a quelli di Plinio e Cicerone, confessa che si tratta di una «vera e schietta (vraie et naïve) filosofia, non di una filosofia ostentatrice e chiacchierona (ostentatrice et parlière)1». I primi infatti aiuterebbero ad ammettere i propri difetti e fragilità, per cui andrebbero tenuti a mente come testimonianze per un miglioramento, mentre gli ultimi due propongono tacitamente la gloria e l’ambizione che ostacolano il ritiro e la semplicità. Al di là dell’elogio della sana solitudine che per Montaigne non è esperibile attraverso il solo isolamento, quanto piuttosto nello scardinamento della logica dell’ambizione e dell’egoismo, ciò che risulta interessante è un puntuale differenziamento della filosofia.

María Zambrano si chiedeva, in un’analisi che poco si è ritrovata al di là di quest’esperienza di un pensiero spagnolo, fragile e creatore, che cosa significasse scrivere: perché l’uomo che parla necessita della scrittura. «Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento effettivo, ma comunicabile, nel quale, proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta di rapporti tra esse».2 Data la potenza della parola spontanea, della parola parlata, detta senza troppa esitazione, l’essere umano necessita della scrittura, della pausa ri-flessiva, poiché «nello scrivere, invece, si trova liberazione e durevolezza – si trova liberazione soltanto quando approdiamo a qualcosa di durevole»,3 ovvero «[s]i scrive per rifarsi dalla sconfitta subita ogni qualvolta abbiamo parlato a lungo».4 Lungi dall’essere un dialogo con sé stessi o una copia dell’oralità, per Zambrano la scrittura è un bisogno di riprendere spazio dopo i trascinamenti e le velocità della parola parlata. Attraverso la scrittura, però, si placa una certa qual sete, che è una sete di qualcosa di profondo che «si rivela non del tutto, ma in una divenire progressivo»,5 e che nel raccoglimento può emergere «poiché solo nella solitudine si sente la sete di verità che colma la vita umana».6 Questo risulterebbe contrastante con l’analisi di una certa filosofia antica, che la stessa Zambrano non evita di richiamare. Per questa, lo si vedrà, filosofare significava una dimensione reciproca e dialogica che non si ipostatizzava nel testo scritto, anche quando presente, ma verteva sempre verso l’attualizzazione orale e inter-personale, di cui anche il pensiero non espresso verbalmente ne era affetto.7

La base comune, allora, è rintracciabile nella ricerca della verità, una fame e una sete che attanagliano l’uomo sia nello scrivere che nel dialogare. Chi scrive, infatti, deve rispettare l’altro tanto quanto chi decide di entrare in dia-logo con qualcuno. Deve affidarsi ad uno svolgersi metodico e costante del percorso verso il sapere, un divenire che è svuotato della vanità. Chi scrive, infatti, «deve far tacere le proprie passioni e, soprattutto, la sua vanità. La vanità è una gonfiatura di qualcosa che non è riuscita a essere e si gonfia per coprire il suo vuoto interiore».8 Quando così attuata la filosofia, la scrittura, la pratica filosofica, sarà vera e non chiacchierona. Sarà una filosofia che rappresenta l’uomo veramente affamato di conoscenza. Quest’espressione dovrebbe essere naturale e spontanea, e non una mera metafora, poiché «anima e stomaco, conoscere e mangiare, sono fatti della stessa pasta e sono figli della stessa madre: la fame. La fame di cibo, certo, ma anche la fame o l’appetito di conoscenza».9

La distinzione tra ciò che dovrebbe formare la filosofia e ciò che si limita, con l’espressione di Montaigne, a essere chiacchierona, è portata agli estremi da Pierre Hadot. Occorre, per Hadot, distinguere tra discorso sulla filosofia e discorso filosofico o, meglio, tra semplice discorso filosofico (discours philosophique) e la filosofia stessa (philosophie elle-même).10 La filosofia se discorsa sarà una teoria su qualcosa, ad esempio sulla logica, la fisica e l’etica; mentre se attuata sarà un vivere la logica, la fisica e l’etica. Poiché la filosofia, «il modo di vivere filosofico, non è più una teoria divisa in parti, ma un atto unico che consiste nel vivere […]. Allora non si fa più la teoria della logica, ossia del ben parlare e del ben pensare, ma si pensa e si parla bene, non si fa più la teoria del mondo fisico, ma si contempla il cosmo, non si fa più la teoria dell’azione morale, ma si agisce in maniera retta e giusta».11 La dimensione pratica, performativa, contraddistingue la filosofia vera. «Il discorso sulla filosofia non è la filosofia»,12 poiché questa è «un modo di vivere, come un’arte della vita, come una maniera di essere».13 Per Hadot si ha una vera e propria spaccatura della filosofia moderna con la filosofia antica situabile proprio nel «fatto che, nella filosofia antica, non siano soltanto Crisippo o Epicuro, a essere considerati filosofi, perché hanno sviluppato un discorso filosofico, sia invece considerato tale ogni uomo che viva secondo i precetti di Crisippo o di Epicuro»14 mentre per «la filosofia universitaria moderna, evidentemente la filosofia non è più una maniera di vivere, un genere di vita, a meno che non sia il genere di vita del professore di filosofia».15

In un altro testo Hadot sottolinea che si ha «da un lato, l’esistenza di una vita filosofica, più esattamente di un modo di vita, che può essere caratterizzato come filosofico e che si oppone radicalmente al modo di vita non-filosofico, dall’altro lato, l’esistenza di un discorso filosofico che giustifica e influenza questa scelta di vita».16 Filosofia e discorso filosofico si presentano, «al tempo stesso, come incommensurabili e inseparabili»,17 incommensurabili perché si è filosofi non in virtù dell’originalità o della dimensione del discorso filosofico creato ma «in funzione del modo in cui si vive»,18 ma anche inseparabili poiché non vi è «discorso che meriti di essere chiamato filosofico se è separato dalla vita filosofica, non esiste vita filosofica se non è strettamente legata al discorso filosofico».19 In queste righe Hadot pare ribaltare la netta distinzione tra pratica filosofica e filosofia da una parte e discorso filosofico dall’altra a vantaggio di un’analisi degli intrecci tra le due. Tuttavia è sempre presente il pericolo inerente a questo intreccio che consiste nell’ambiguità propria al discorso filosofico,20 ovvero quando il filosofo «immagina che il suo discorso filosofico possa bastare a se stesso senza essere in accordo con la vita filosofica».21 Il punto è che non ci siano contraddizioni performative.22 Indicare dei precetti e agire diversamente risulta quanto di più distante dalla vera filosofia, dalla filosofia stessa, che è pratica e vita filosofica.

Questo comporta il chiedersi cosa sia realmente la filosofia, sia per il pensiero antico, che per noi inevitabili eredi di questo. Ribaltando l’ordine storico – scavando in questo dopo una coerentizzazione delle problematiche – e incentrandosi sulle questioni proprie della filosofia possiamo individuare, con Zambrano, alcuni punti saldi. La filosofia ha una necessità di indipendenza, di ricerca che la definisce. «La Filosofia non accetta i princìpi individuati da altre Scienze»,23 nonostante sia in relazione e dialogo con queste. La filosofia cerca costantemente i propri fondamenti senza relegarli ad altre scienze e «il fatto che la Filosofia cerchi i propri fondamenti incessantemente appartiene all’essenza stessa della sua condizione. Da qui lo stupore fino all’irritazione di tanti uomini di scienza per quel suo cominciare e ricominciare senza tregua. Ma la Filosofia segue il proprio corso come la vita, con una continuità fatta di rinnovate rinascite, non di mere aggregazioni».24 La filosofia è vitale, affamata, e costantemente in procinto di rinascere di tras-formarsi, poiché «[l]a Filosofia, in realtà, è stata sempre vitale, compimento e realizzazione, nei suoi momenti migliori, di quella necessità che la vita subisce, di quell’aspirazione alla trasparenza che, se trovò la sua espressione più pura nella Filosofia e in certe Filosofie, è riconoscibile in tutte le tormente della storia».25 Essere filosofi, filosofare, significa vivere secondo la filosofia e non limitarsi a parlare di filosofia. Questo essere filosofi «significa, senz’altro, un modo di essere dell’uomo – non sappiamo se il più essenziale di tutti i modi possibili –; e un filosofo particolare è, a sua volta, un modo di esistenza dell’essere filosofo».26 La filosofia è modus vivendi non qualcosa che finisce – ed inizia – nella stanza, nel luogo degli incontri filosofici costellati di discorsi, ma un basso continuo che si ode nella completezza della vita. Da qui la difficoltà all’iniziazione filosofica, all’educazione alla filosofia, «perché qualcuno inizi a filosofare, il problema è nel forzarne, con irresistibile e dolce violenza, più che la mente, la vita non filosofica».27 Occorre, con dolce violenza, distruggere, spostare e scardinare ciò che ostacola la filosofia, ovvero la vita non filosofica. Ma cos’è che ostacola, che è non-filosofia? La filosofia è movimento, è una trasformazione costante in un divenire con stupore dell’umano senza ostacoli. Un fluire leggiadro e umile. Ci vuole umiltà (humildad) e audacia (audacia)28 per un’azione che è esclusivamente umana, che non trae sostegno da nessuna divinità.29 Umiltà perché il fluire necessita della trasparenza: la filosofia «nacque dalla necessità che la vita umana (perché non ogni vita?) ha di trasparenza e di visibilità»30 e la vita che si manifesta, che si fa intelligibile e percepibile, «non ha altra dimora se non la trasparenza».31 E l’audacia perché deve volere, deve sentire con potenza la fame di completamento, quando qualcuno «riesce davvero a condurre qualcun altro alla Filosofia, si può ben dire che lo ha rigenerato, trasformandolo non da uomo in saggio, ma da un uomo in un altro uomo».32

Filosofia significa «amore per la chiarezza e per la trasparenza del pensiero, che è la virtù formale di ogni filosofia, e l’amore per la chiarezza mentale dell’intelletto reale, concreto, che è la virtù materiale del filosofo».33 È un cammino di povertà, di dubbio, di stupore: è povertà feconda (pobreza fecunda).34 Dobbiamo così sottolineare che la questione del sapere filosofico, soprattutto nella forma dell’insegnamento, solleva la questione del suo statuto coerente e sistematico. Ovvero in che modo la filosofia debba coincidere con questo. «A parte il primo errore, in cui tanti incorrono quando confondono il sistematico con il “raccontare” un sistema […] Ci si rende conto immediatamente che si tratta di una perplessità estranea alla Filosofia»,35 qualcosa che ha origine fuori di essa e che «deriva dal fatto di considerare il sistema filosofico in modo estremo, come qualcosa di ben definito, sicuro, chiuso e quasi blindato; proviene insomma da un’incapacità di vivere il farsi della Filosofia, il fare filosofico».36 Mentre, casomai, il sistema proprio alla filosofia, lungi dall’essere un ordine esterno in cui si collocherebbero concetti, è il suo «farsi fluido e vivente; la sua stessa sistematicità in un movimento generatore».37 È il discorso sulla filosofia di cui abbiamo parlato che «è sistematico, non già per il desiderio di procurare una spiegazione totale e sistematica dell’intera realtà, ma per fornire allo spirito un piccolo gruppo di principi fortemente legati tra loro».38 Mentre, sottolinea Hadot, il filosofare come azione vivente (action vivante) comporta inderogabilmente un «trasformare se stessi».39 Il sistema è stato senz’altro la forma privilegiata della filosofia ma non è l’unica forma possibile. E, per quanto lo si neghi e contrasti, la sistematicità lo assimila alla stringente esigenza letteraria rappresentata dal poema. «Il Sistema, la forma chiusa del sistema, è legato al poema molto più di quanto i poeti rancorosi e i filosofi sprezzanti han voluto dar a intendere»40 ovvero «è stato la forma pura della Filosofia nella cultura occidentale moderna; ma è anche poesia».41

È senz’altro appurato che la filosofia non possa, sempre e comunque, coincidere con il sistema filosofico. Vi sono altri generi della filosofia che le sono propri e ne mostrano l’efficacia della pratica, come le confessioni, le guide, le meditazioni, i dialoghi e le epistole.42 Ad esempio il «Rinascimento, povero di sistemi filosofici, fu invece ricco di Dialoghi, Meditazioni, Epistole scambiate tra umanisti».43 Il sistema filosofico nella sua precisione relazionante le parti e formante un tutto organico è senz’altro la forma più pura della filosofia ma lo è stata, in un certo senso, a scapito delle altre. Se la «forma sistematica ha prevalso sulle altre, su cui ha gettato una specie di ombra di disprezzo»44 si dovrebbe adesso «far ricorso ad altre più umili, meno ambiziose della dialettica, però portatrici di un’azione specifica e necessaria»,45 questo perché le forme trionfanti del sistema non esauriscono le profonde necessità del pensiero e della vita dell’uomo.46 Manca, infatti, la componente attiva del pensiero che quelle forme minori invece hanno, ovvero che «trasformano ciò che è stato indagato e scoperto».47 Questa esigenza della conversione, della trasformazione, questa periagoge48 definisce l’attività filosofica. La filosofia è sempre stata vitale, ovvero un compimento e una realizzazione di quella necessità della vita, quell’aspirazione alla trasparenza,49 la cui esigenza è quanto l’attività filosofica attuale deve riscoprire, quando, infatti, già per la filosofia antica «la preoccupazione della coerenza sistematica era messa al servizio dell’efficacia spirituale».50

2. Esperienza trasformativa: la ri-nascita

La questione dell’attività trasformativa della filosofia, la metamorfosi di sé, porrebbe alcune aporie senz’altro riconducibili alle problematiche dell’invariante e della variazione, della sostanza e degli accidenti che la sostanza riceve. Tuttavia il delineare la filosofia come esperienza – il che indica la sua inevitabile presenza costante e la sua potenza cogente – trasformativa porta all’eliminazione delle aporie grazie alla definizione dell’uomo in termini dinamici. Questa dinamicità a cui siamo, spesso, disabituati a vantaggio della staticità rassicurante è quanto si mostra nelle crisi dell’umano. È attraverso la crisi che scopriamo «anzitutto che l’uomo è una creatura non formata una volta per tutte (no hecha de una vez) e non terminata, ma neppure incompleta e con un limite stabilito. Non siamo stati terminati (acabados de hacer) e non ci è chiaro che cosa dobbiamo fare per completarci (que tenemos que hacer para acabarnos)».51 La capacità di trascendenza, di trascendere i propri limiti, nelle epoche di crisi si manifesta al contempo come necessaria e, tuttavia, impossibilitata a realizzarsi, e da questo emerge la crisi.52 La trascendenza (trascendencia) «non è altro che la capacità che hanno gli esseri di uscire da sé oltrepassando i propri stessi limiti, lasciando l’impronta di un altro essere, producendo un effetto, agendo oltre se stessi, come se l’essere di ogni cosa terminasse in un’altra».53 Però mentre «[l]’animale […] [è] nato una volta per tutte con la sua anima e il suo corpo»54 l’uomo non è soddisfatto.55 L’animale «è una creatura perfettamente adattata»56 perché «è interamente ciò che è e non pretende né ha bisogno di altro»57 l’uomo, invece, «deve crearsi il proprio essere, che non ha ricevuto già compiuto».58 Ed è proprio la speranza (esperanza) ciò che smuove e costituisce il doversi creare il proprio essere.59 Ovvero l’«animale nasce una volta per tutte (nace de una vez), l’uomo invece non è mai nato del tutto (nunca ha nacido del todo)».60 Pertanto la «speranza è fame di nascere del tutto (esperanza es hambre de nacer del todo)».61 Il ruolo della filosofia si situa proprio in questo punto. Essendo che l’uomo presenta una nascita incompleta (nacimiento incompleto) «per questo non si è mai adattato a vivere naturalmente e ha avuto bisogno di qualcosa di più: religione, filosofia, arte o scienza».62 L’uomo deve incessantemente partorire se stesso (estar incesantemente de parto). Ma questo finire di nascere e partorire se stesso non è attuabile nella dimensione privatistica ed egoica dell’individualità. Così l’essere umano si trova di fronte ad un bivio, da una parte la via del Budda, il dis-nascere (desnacer) ovvero «cancellare la nascita e annullarla»,63 dall’altra l’esistere e nascere di nuovo (nacer de nuevo).

È nel sapere filosofico, che nell’insegnamento ne forza le dinamiche proprie, il quale compie un’«azione su di un essere che non si è reso conto della sua tragedia, del suo essere e non-essere, del suo destino e della sua libertà, della sua possibile perfezione»,64 il luogo in cui si può trovare un aiuto a completarsi. «Nascita e morte, aurora e tramonto, sono i momenti del processo vitale più carichi di promesse»,65 momenti in cui si dà la possibilità di rovesciare la propria esistenza poiché nella vita c’è una sorta di chiusura formale mentre «nascita e morte sono distruzione di una forma, passaggi».66 Questi passaggi sono lo spazio proprio dell’auto-trascendimento necessario per completarsi. Per Zambrano vi è una dimensione precedente l’idea che si struttura in un’idea incarnata, fattasi dimensione pratica. Vi è una dimensione affettiva, pulsionale che definisce l’esigenza del cambiamento proprio dell’uomo. La ragione da sola coordinerà e vaglierà le scelte, ma mancherà della potenza viscerale necessaria al cambiamento; la passione da sola invece potrà essere cieca alle sfumature della conoscenza. Allora solo «passione e ragione unite, o meglio, la ragione appassionata che si slancia con impeto ma sa poi trattenersi al momento giusto, riescono a catturare senza danno la nuda verità».67 Quelle che Ortega y Gasset chiamava «idee vigenti» (ideas vigentes) ovvero «idee vincitrici e coniate in moneta corrente, idee chiare e distinte che si sono ancorate nel cuore delle genti in forma di convinzioni»68 si ancorano nel profondo dell’umano innescando meccanismi, se guidati bene, di auto-superamento e auto-trascendenza, superamento e trascendenza dell’individualità. Le «credenze sono quelle che costituiscono il nostro fondo intimo»,69 l’incarnazione delle idee (encarnación de las ideas) comporta trasformazioni poiché la «conoscenza, quando è assimilata, non lascia la vita umana nel medesimo stato in cui l’ha trovata»70 non «basta infatti nascere una volta e muoversi in un mondo di strumenti utili»,71 si necessita di trasformazioni (transformaciones) e, allora, «[s]aranno sempre necessarie continue rinascite».72

L’essere umano ha sete di trascendenza, di trascendere (sed de trascender), una sete poggiante sulla fiducia originaria, una sorta di speranza che è «nata con noi, come se fosse il sostrato primigenio del nostro essere».73 Ora il punto nodale risiede nel fatto che quest’attitudine (disposición) della vita «che denominiamo fiducia rappresenta il luogo in cui la realtà appare. Tanto più ampia è la fiducia, quanto più grande la realtà di cui godiamo».74 Allora ci vuole apertura, attenzione speranzosa nei confronti del circostante e della relazione dettata dall’incontro, per poter volgere la vita verso il miglioramento. «Sembra che dover rinascere sia condizione della vita umana; dover morire e risuscitare senza uscire da questo mondo».75 Rinascere, nascere del tutto, e, soprattutto co-nascere con il mondo, perché noi co-nasciamo (co-naissons) con il mondo.76 Ed è proprio con queste caratteristiche proprie dell’essere umano che emerge il punto dolente della cultura contemporanea, secondo Zambrano: la «mancanza di trasformazione della conoscenza pura in conoscenza attiva, che possa alimentare la vita dell’uomo che di ciò necessita».77 Vi sono, infatti, «generi letterari il cui significato consiste nel far aderire il pensiero ai bisogni della vita»,78 in cui vi è una forma particolare di pensiero quella che ha «subìto una trasformazione interna per mutare a sua volta la vita in cui s’introduce».79

3. Filosofia antica e trasformazione di sé negli esercizi

Questo bivio tra dis-nascere ri-nascere è in certo qual modo ciò che si presenta con gli stoici. La «filosofia stoica era il prodotto di una regressione e di una semplificazione; quella neoplatonica di un avanzamento».80 Lo stoicismo «era e continua a essere la filosofia della rassegnazione. Rassegnazione che trova il proprio sostegno ritornando alla fonte originaria, alla fede fondamentale della Filosofia greca: il “logos”».81 Ciò che offriva, allora, era rinuncia, una resistenza di fronte al periodo.82 Con lo stoicismo si «trattava infatti di una Filosofia il cui nerbo era la morale, un’estetica, un’attitudine propria per morire con una forma».83 In realtà lo stoicismo era definito da un’esigenza attiva e tutta la filosofia antica, nel modo in cui la si intendeva allora, è stato «uno dei fenomeni tipici e significativi del mondo greco-romano»,84 in cui latino e greco si trovano intrecciati e annodati, e tutta la ricerca di Hadot si situa nello sciogliere, o semplicemente riconoscere, i fili di entrambi, «da un lato si tratta di spiegare il pensiero latino col suo sfondo greco, dall’altro di ritrovare, attraverso gli scrittori latini, il pensiero greco».85

Le tradizioni filosofiche che sopravvivono dal III sec. a.C. al III sec. d.C. sono sei e ricollegabili alla scuola di Platone, Aristotele e Teofrasto, Epicuro, Zenone e Crisippo, e le correnti spirituali del scetticismo e cinismo.86 Il neoplatonismo dal I sec. assorbirà numerose tradizioni e diverrà, come è noto fin negli echi rinascimentali, uno dei principali movimenti di pensiero. Ma l’intento di Hadot, lungi dal trattare una storia della filosofia assodata, è quello di «descrivere l’essenza stessa del fenomeno della philosophia, e di enucleare le caratteristiche comuni del “filosofo” o del “filosofare” nell’antichità».87 La stranezza del fenomeno risiede nell’abisso che separa le tendenze che si limitano ad «adornare uno svolgimento letterario, e il “filosofare” autentico».88 Questo filosofare autentico si innesta nella figura del saggio in cui ad esempio «per gli stoici, il pensiero e la volontà del loro saggio coincidono totalmente con il pensiero, la volontà e il divenire della Ragione che è immanente al divenire del Cosmo»,89 mentre il «saggio epicureo, come gli dei vede nascere, a partire dagli atomi, nel vuoto infinito, l’infinità dei mondi; la natura basta a soddisfare i suoi bisogni, e non c’è nulla che possa minimamente turbare la pace della sua anima».90 La figura del saggio lungi dall’essere esplicabile in un’esteriorità è qualcosa relativa ad un habitus, che è abito e disposizione d’animo e non un’abitudine (habitudo) – dove si crede di avere (habere) afferrato il mondo. Il saggio deve tendere, attraverso la vita quotidiana, ad un modo di vivere completamente estraneo alla vita quotidiana.91 La vita filosofica è questo, un tendere verso uno stato trascendente,92 «vivere e pensare secondo la norma della saggezza».93 Si parla, allora, di una vera e propria forma di vita (forme de vie). Egli, il saggio, «[h]a il sentimento di appartenere a un tutto che eccede i limiti dell’individualità».94 Gli atteggiamenti interiori fondamentali che ne sono esempio sono «la tensione per gli stoici, la distensione per gli epicurei»,95 «vigilanza tesa nello stoicismo, rinuncia ai desideri superflui nell’epicureismo».96

Per gli stoici, allora, filosofare è «esercitarsi a “vivere”».97 Un vivere con coscienza, superando i limiti dell’individualità. Ma anche «l’epicureismo, considerato abitualmente come una filosofia del piacere, fa posto non meno dello stoicismo a pratiche precise che non sono altro che esercizi spirituali […] la filosofia è una terapia».98 Se per gli stoici dobbiamo prepararci a ricevere i mali del mondo ed esercitarsi – avendo sottomano i rimedi consistenti in massime, insegnamenti ed esercizi – a far fronte ad essi, per gli epicurei dovremmo concentrarci sui piaceri, fissare lo sguardo su questi.99 Ma la comunanza tra i due risiede nella dimensione dell’esercizio, dell’allenamento. Così Hadot, come abbiamo visto, parla di esercizi spirituali. Esercizio e spirituale sono due ambiti semantici potenti quanto confusi e fuorvianti. Quello che Friedman nel ‘900 chiamava «uscire dalla durata (sortir de la durée)», uno «spogliarsi (dépouiller) delle proprie passioni, delle vanità, del desiderio di rumore intorno al proprio nome»,100 indica bene la caratteristica degli esercizi e il suo lascito nella contemporaneità. Gli altri aggettivi possibili come «”psichico”, “morale”, “etico”, “intellettuale”, “di pensiero”, “dell’anima” – non coprono tutti gli aspetti della realtà»101 poiché gli esercizi a cui Friedman si riferisce «corrispondono a una trasformazione della visione del mondo e a una metamorfosi della personalità».102 Non vi è solo un’opera del pensiero, un suo agire, ma in gioco vi è la completezza dell’umano, motivo per cui spirituale risulta il termine adeguato.103

Esercizio, l’askesis, ugualmente non deve «essere intesa nel senso di ascetismo, bensì come pratica di esercizi spirituali»,104 ovvero qualcosa che parla e descrive la tradizione filosofica dell’antichità come un’arte di vivere (art de vivre), una conversione che cambia la vita e «l’essere di colui che la compie»,105 che è incentrata verso l’imparare a vivere. Gli «esercizi spirituali avranno precisamente lo scopo di realizzare tale trasformazione»,106 indicano, pertanto, «un’attività interiore del pensiero e della volontà».107 La questione degli esercizi spirituali antichi solleva alcune problematiche storiografiche, e prettamente definibili all’interno di una storia del pensiero filosofico, per quanto riguarda il rapporto con il cristianesimo. Nonostante Paul Rabbow sottolinei che l’illustre tradizione delle meditazioni che Ignazio da Loyola con gli Exercitia spiritualia apre all’Occidente affondi le sue radici nelle pratiche filosofiche della filosofia antica,108 secondo Hadot, la sua analisi è incentrata nella distinzione tra morale e spirituale dove quest’ultimo spetterebbe solamente all’avvento cristiano. Mentre, è vero che «[è] la filosofia stessa che gli antichi hanno concepito come un esercizio spirituale»,109 poiché questi esercizi «intendono realizzare una trasformazione della visione del mondo e una metamorfosi dell’essere»110 pertanto hanno, oltre che un valore morale, un valore esistenziale (valeur existentielle). Sono, per l’appunto, «esercizi che impegnano tutto lo spirito»,111 ma, mentre nel cristianesimo ciò prenderà una strada legata alla corporeità e alla possibilità dell’ascetismo, per i filosofi antichi è una postura112 ovvero vi è «nel fatto di ripetere atti, di compiere un training per modificare e trasformare se stessi, una riflessione, una distanza, che è molto diversa dalla spontaneità evangelica».113 Tuttavia, presentando il cristianesimo come stile di vita nuovo, come «un atteggiamento spirituale», Hadot ne parla come «erede, certamente consapevole, di una corrente che esisteva già nella tradizione ebraica».114 L’atteggiamento filosofico consistente nell’uscita dall’individualità per acconsentire con gioia alla ragione e alla correttezza «cosmici e universali» è «anche l’atteggiamento del filosofo cristiano».115 L’attenzione al momento presente, l’analisi personale attuata attraverso l’esame di coscienza strutturano l’ossatura comune degli esercizi spirituali.

La questione, allora, risiede nel passaggio da dimensione umana a dimensione naturale, ovvero da valori che dipendono dalle passioni «a una visione “naturale” delle cose che colloca ogni evento nella prospettiva della natura universale»116 proprio per questo, perché è difficile, si tratta di un percorso lento e graduale e, anche se non vi è «nessun trattato sistematico che codifichi un insegnamento e una tecnica degli esercizi spirituali»,117 le allusioni nei testi antichi sono tante, la presenza confermata e ciò porta a concludere per una costanza e un uso quotidiano di tali pratiche. Ad esempio l’attenzione è l’atteggiamento fondamentale dello stoico,118 una «coscienza di sé sempre desta, una costante tensione dello spirito».119 L’attenzione al presente «è in qualche modo il segreto degli esercizi spirituali»,120 un «concentrarsi su ogni istante della vita»121 e «prendere coscienza del valore infinito di ogni momento presente».122 Gli allenamenti dell’anima sono «analoghi all’allenamento dell’atleta o alle cure di una terapia medica»,123 sono allenamenti in cui la meditazione, lungi dall’essere legata al corpo, è «un esercizio puramente razionale o immaginativo o intuitivo»,124 grazie a questi esercizi la visione del mondo (vision du monde) «sarà interamente trasformata».125 Il parallelismo con l’atleta poggia sul fatto che «come, con esercizi fisici ripetuti, l’atleta dà al suo corpo una forma e una forza nuove, così, con gli esercizi spirituali, il filosofo sviluppa la sua forza d’animo, trasforma la sua atmosfera interiore».126

In questo tentativo asintotico di raggiungere una conoscenza, di per sé irraggiungibile, ciò che ne risulta è la metamorfosi dell’Io, di me stesso (métamorphose du moi). Il nocciolo dell’esercizio, per quanto possa non essere esplicitato, risiede in «uno sforzo di trasformare l’uomo».127 Stoicismo ed epicureismo sono come due «poli opposti ma inseparabili della nostra vita interiore, la tensione e la distensione, il dovere e la serenità, la coscienza morale e la gioia d’esistere»,128 in ambedue il «filosofare è un atto continuo, un atto permanente, che s’identifica con la vita, un atto che occorre rinnovare a ogni istante».129 Questi esercizi non sono semplice sapere ma ciò che comporta «una trasformazione della personalità»,130 una dimensione psicagogica (psychagogique). La filosofia, almeno, lo si ripeta, nell’epoca ellenistica e romana, è «una maniera di vivere […] una maniera di esistere nel mondo, che deve essere praticata ogni istante, che deve trasformare tutta la vita»131 poiché «la sapienza non fa solo conoscere, fa “essere” diversamente».132

4. La figura del saggio e la dimensione dialogica

Come ricorda Zambrano «Seneca sostiene che il saggio si vede costretto all’inattività perché la sua presenza è già una forma d’azione sui suoi concittadini».133 La figura del saggio già per gli antichi era quella di una potenza presente, e una presenza potente, anche quando immobile, come i numerosi casi di stupore e immobilismo socratici. Il saggio emana una certa potenzialità attiva nei dintorni perché ha già attualizzato ciò che definisce la filosofia come esercizio e come modo di vita, e per questo può trasformare gli altri. Il significato proprio dell’apatia è «questa piena attualità, questa vita senza possibilità; è l’impassibilità nel senso più profondo: ciò che non patisce perché è sempre attivo».134 I saggi, non sono le figure solitarie, le quali potrebbero essere rintracciate nei sapienti. Per essere sapienti non è necessaria una grande esperienza, spesso i sapienti sono tali in virtù di caratteristiche loro proprie, hanno ricevuto la conoscenza, l’illuminazione; mentre il saggio deve aver compiuto certe tappe e un cammino interiore che si esplica, poi, nell’ambito comunitario. Se infatti con Platone possiamo dire che la saggezza è «condotta razionale della vita umana»,135 è con Aristotele che si assiste ad una distinzione tra sapiente e saggio. La saggezza riguarda le faccende umane, il miglior modo di condurle è definito come comportamento saggio. La sapienza, invece, ha come oggetto elementi alti e sublimi cose remote dalla comune umanità. «Cosicché in generale chi delibera bene è anche saggio»,136 ovvero il saggio è definito da una disposizione pratica, mentre la sapienza ha altre mete, altri scopi.137

La moralità per l’esistenza non basta, non basta avere dei divieti d’azione nella vita: questa necessita la saggezza.138 Il saggio, per Montaigne, deve stare separato dalle persone, dal gruppo; ma, poi, senza queste e senza la società non ha ragione d’esistenza. Pare «che il saggio debba nell’intimo separar la sua anima dalla folla e mantenerla libera e capace di giudicare liberamente le cose»,139 ma poi vada dalla folla poiché «[l]a società non sa che farsene dei nostri pensieri; ma quello che resta, cioè le nostre azioni, il nostro lavoro, i nostri beni e la nostra propria vita, bisogna prestarlo e abbandonarlo al suo servizio e alle opinioni comuni».140 La saggezza ancora, per dirla con Schopenhauer, è «intesa come arte di trascorrere la vita nel modo più gradevole possibile e più felice».141

I saggi, coloro che hanno compiuto il cammino, sono senza pudore (pudor), vivono all’aperto, «li sentiamo vivere nella luce, bagnati interamente da essa, privi di spazi privati, di rifugi in cui ritirarsi lontano dal nostro sguardo»142 ovvero «[l]a mancanza di spazi privati non è che il segno della vita contemplativa».143 Ciò può sembrare paradossale ma la paradossalità si scioglie di fronte alla visione pratica della figura del saggio. Il saggio è qualcosa di sociale, non solo perché la sua identità è data dal riconoscimento altrui, ma proprio perché la sua effettualità si ha soltanto in una coralità nelle cui ricadute pratiche e pregnanti si riconosce l’azione e il ruolo del saggio. Il che, spesso, porta a nutrire strani sentimenti verso queste figure. Con Socrate,144 ad esempio, in particolare nei dialoghi socratici, i logoi sokratikoi, l’interlocutore non impara nulla se non un continuo esaminare la propria coscienza e una preoccupazione per i propri progressi interiori;145 per cui il «dialogo socratico appare dunque come un esercizio spirituale praticato in comune che invita all’esercizio spirituale interiore».146 È con il dialogo, la dimensione dialogica del rapporto con l’altro, che si trova uno strumento privilegiato dello scambio tra i partecipanti e dell’attività di conversione della filosofia. Il dialogo si costituisce nella presenza di sé e degli altri cosicché «ogni esercizio spirituale è dialogico, nella misura in cui è esercizio di presenza autentico, a sé e agli altri».147 Il dialogo, i dialoghi platonici, sono esercizi-modelli (exercices modèles), che non si ipostatizzano nella trascrizione o nella materialità degli snodi teoretici che via via possono presentare, quanto piuttosto ricreano la condizione trasformativa del dialogo parlato, un «esercizio concreto e pratico»148 che porta ad un vero e proprio «atteggiamento mentale».149 Se per Zambrano la scrittura si poneva come rivincita sull’incuranza del parlato, attraverso la dialogicità si ha uno strumento maieutico ed educativo. Poiché «sebbene ogni scritto sia un monologo, l’opera filosofica è sempre implicitamente un dialogo; vi è sempre presente la dimensione dell’interlocutore eventuale».150 L’assunto di base di questa posizione poggia sul fatto che l’esigenza trasformativa si abbia in presenza di un interlocutore, di un allocutore. È con Socrate che si è portati al miglioramento di sé, all’esercizio.

Si deve tener conto allora di come «le opere scritte […] non siano mai emancipate del tutto dalle costrizioni legate all’oralità»,151 le opere scritte restano legate a «comportamenti orali»,152 questo perché «la stessa filosofia antica è, anzitutto, orale».153 Pertanto ciò che emerge è che «la filosofia antica è sempre una filosofia che si pratica in gruppo, che si tratti delle comunità pitagoriche, dell’amore platonico, dell’amicizia epicurea, della direzione spirituale stoica»,154 ovvero «la vita filosofica comporta normalmente un impegno comunitario».155 Queste produzioni filosofiche, anche le opere più sistematiche del periodo, «non si rivolgono, diversamente dalle opere moderne, a tutti gli uomini, a un pubblico universale, ma in primo luogo al gruppo formato dai membri della scuola».156 Ciò è spiegato all’interno dell’esigenza trasformativa della filosofia come pratica che contraddistingue il pensiero antico. In definitiva questa è «la lezione della filosofia antica: un invito per ogni uomo a trasformare se stesso. La filosofia è conversione, trasformazione della maniera di essere e del modo di vivere».157

Dimensione dialogica e pratica della filosofia comportano che il saggio sia qualcuno che fa parte del mondo, che è cosmico. Il piacere particolare del saggio consiste «nel guardare il mondo dalla sua condizione di pace e serenità, come gli dèi che non prendono parte allo svolgersi delle vicende del mondo»,158 ma che ne sono inevitabilmente parte attiva. Sono inseriti in un ordine del mondo perché la «dimensione cosmica è parte integrante della figura del saggio antico […], il saggio antico non trova il piacere nel suo io individuale»159 ma, al contrario, va «al di là del suo io per collocarsi a un livello universale, per prendere posto nella Totalità del mondo di cui è una parte, razionale o materiale».160 La ricaduta pratica, e la conseguenza logica di questa posizione, risiede nel fatto che «questo esercizio della saggezza possa e debba mirare a realizzare un reinserimento dell’io nel mondo e nell’universale».161 Così, lungi dall’essere una torsione radicata nel sé individuale ed egoico, «l’interiorizzazione è superamento di sé e universalizzazione».162 Si tratta di un movimento spirituale,163 uno scoprire nella parzialità ciò che la trascende, ovvero «andare al di là, verso la rappresentazione di una totalità che supera qualsiasi oggetto visibile».164 È attraverso una «conversione totale che ci si può aprire al mondo e alla saggezza».165 Con l’apertura alla saggezza che trascende l’individualità si è aperti al mondo, alla totalità degli accadimenti e al miglioramento della relazione con questi. Questa operazione tuttavia non è compibile nell’isolamento metodologico, nell’autodidattica, ma necessità dell’esempio – diretto o indiretto che sia.

5. La guida e il sapere dell’esperienza

La guida è colui, o colei, il quale si trova a svolgere il compito di mostrare la via, di guidare. Il Führer deve führen (guidare), tuttavia il tipo di guida che si incarna nella figura del saggio, ma che non è a questa riducibile essendo qualcosa di dilatabile ad altre testimonianze – maieutiche –,166 è qualcuno e qualcosa che dà l’esempio, non che forza verso. È Vorbild, ovvero esempio, modello, precursore e testimonianza.167 È con la guida che emerge la funzione medicinale (medicinal) del pensiero, di un’estrema misericordia, ovvero estremamente misericordiosa (extrema misericordiosa).168 La dimensione aurorale da cui si può rinascere – abbiamo detto che aurore e tramonti sono i momenti più carichi di promesse –,169 per Zambrano si lega con leggiadria alla possibilità e alla necessità della figura della guida. L’esempio più solido resta Maimonide e La guida dei perplessi.170 La guida è simile ad un trattato filosofico, ma, mentre i sistemi e i generi filosofici forti non hanno un destinatario, le guide sono definite dall’essere indirizzate a.171 Sono la tensione che va verso una questione, un problema, che chiede di essere affrontato e che va verso chi questo problema vuole risolverlo.172 Filosofia tout court e guida si accomunano nell’essere cammino di vita;173 la filosofia e le altre pratiche «hanno infatti un’aspirazione comune: salvarsi dall’individualità, trascendere la prigione individualizzante»,174 che abbiamo visto essere l’esigenza propria della figura del saggio.

La guida si fonda nell’esperienza viva175 e quotidiana, ovvero in quell’«irrinunciabile desiderio di trovare il logos del quotidiano».176 L’esperienza viva parla di una verità in cui si «nasce e rivive, che è capace di rinascere tante volte quante ne ha bisogno».177 Sono verità, quelle dell’esperienza, che smuovono la vita nella sua dimensione quotidiana, aperta a tutti; verità «che, penetrando in essa, la fanno muovere ordinatamente; quelle che l’accendono e la traggono fuori da sé, trascendendola e mettendola in tensione».178 Queste verità, secondo Zambrano, appartengono a un altro percorso del pensiero, ad un riconoscere che «la verità non si possa raggiungere interamente attraverso il pensiero filosofico, o che non si possa raggiungere interamente attraverso il pensiero filosofico sistematico».179 La guida ha metodo, è simile al metodo;180 è un sapere dell’esperienza che smuove e trasforma, un sapere quotidiano lento e graduale e in quanto «sapere dell’esperienza essa comunica attivamente e trasforma».181 Se l’«esperienza è sempre frammentaria, in caso contrario cesserebbe di essere esperienza»,182 da questa consapevolezza nasce «un genere, la Guida, che pretende sistematizzare tale sapere dell’esperienza senza per questo elevarlo al rango di scienza».183 Pertanto l’unità, la sua unità, è data dall’unità d’azione,184 dell’azione cui si rivolge e dal suo riferirsi alla vita, all’essere un sapere della vita.185 La guida forma un tutto complesso con cui ci avviciniamo ad alcune peculiarità della vita,186 proprio in virtù della sistematizzazione dell’esperienza. Con la guida ci si rivolge al concreto, al quotidiano, alla dimensione degli affetti che costellano la nostra esperienza del mondo. «La vita infatti, oltre a essere luce, veglia, è anche dimenticanza, mancanza di cura: abbandono»187 è lì che, come ricorda Jaspers,188 si trovano appoggi per trascendere la situazione. È lì che sentiamo il bisogno di auto-superamento.

Allora essere «filosofo vuol dire portare, sempre vigente, un imperativo di chiarezza, non accontentarsi di attraversare edonisticamente – chiusi nell’oscurità vegetale del piacere o del dolore – il tunnel della vita»,189 ovvero il filosofo è esigente «non si accontenta dell’offerta spontanea della vita, ma in fondo non pretende se non da se stesso».190 E nel fare questo si rivolge alla vita con stupore ma rigore, con trasparenza; diretto a ciò che l’esperienza stessa porta a trascendere, ai modi in cui si dà un’esperienza di un’altra esperienza. Poiché «ci sono certe caratteristiche umane che forse possono raggiungere la trascendenza attraverso una specie di martirio raffinato […] difficile da vedere e che difficilmente si manifesta, perché non culmina nello spargimento di sangue ma si verifica lentamente, giorno dopo giorno, senza sangue o dolore fisico, in un patire continuo che è un agire».191 La questione da porsi, allora, è il come. Di fronte al bivio tra discorso filosofico e filosofia, tra mero sistema e pratica minuziosa, sentiamo che ciò che «le separa è il come (cómo), la modalità con cui accolgono la speranza e promettono di portarla a compimento».192 Affidarsi ad una guida significa vivere una condizione d’umiltà, «la profonda umiltà di sentire che il proprio essere non è compiuto, e di affidarlo interamente al futuro».193 Un’umiltà che si affida alla guida come ciò che inerisce e fa parte «non della scienza ma della vita nella sua trasformazione necessaria».194 Affidarsi ad una guida spirituale (guide spirituel) per un progresso spirituale (progrès spirituel).

6. Riflessioni sulla cura di sé

La questione della forma filosofica vera solleva ancora l’indagine sul modo in cui si possa definire la filosofia elle-même. La parola, che mostra un potere terapeutico,195 deve essere anche rispettata, curata. Essa comporta delle responsabilità, delle dimensioni di senso e del performativo a cui si deve rispondere. La parola si fa portatrice di un senso, una cogenza vibrante. «La parola si volgerà verso ciò che sembra essere il suo contrario e perfino il suo nemico: il silenzio. Vorrà unirsi a esso invece di distruggerlo: “musica silenziosa”, “solitudine sonora”, connubio di parola e silenzio. Ma in questo retrocedere al silenzio deve però introdursi nel ritmo: assorbire insomma tutto ciò che la parola nella sua forma logica sembra essersi lasciata alle spalle. Poiché solamente se è insieme pensiero, immagine, ritmo e silenzio, la parola può recuperare l’innocenza perduta ed essere quindi azione pura, parola creatrice».196 La parola creatrice è terapeutica; è cura di sé e dell’altro, è relazione e conversione. La questione della cura sui, di sé, infatti, ha portato ad un esplosione discorsiva sul tema, e si pone come principale all’interno del dibattito sul pensiero antico nella prospettiva di una filosofia pratica. La cura è fragilità e affettività, relazione e trascendimento. Come sottolinea Umberto Curi, «potrà dirsi autentico terapeuta colui che manifesti il suo pieno coinvolgimento (emotivo, affettivo e intellettuale) nella condizione di colui del quale si è posto al servizio, anche senza “fare” concretamente nulla, e non chi si limiti ad applicare, con totale distacco emozionale, le linee guida astrattamente fissate dai custodi della scienza medica».197 La cura è data nell’incontro, come sostiene Mortari è la relazionalità la dimensione in cui si esplica la cura.198

Hadot sottolinea come tra le analisi dal lui proposte e quelle portate avanti da Foucault199 ci sia una differenza sostanziale. Parlare di «tecniche di sé»200 secondo Hadot comporta una nozione che «sia troppo incentrata sul “sé” o, quanto meno, su una certa concezione del sé».201 Ma il sé a cui si riferiscono gli stoici, ad esempio, lungi dall’essere depositato in una concentrazione egoica, è coincidente con una Ragione cosmica è «un sé trascendente».202 È in gioco una dimensione universale che, costituendo il vero sé dell’uomo,203 «trasforma in modo radicale il sentimento che si può avere di se stessi».204 Mentre per gli epicurei, sottolinea Hadot, Foucault ne parla ben poco poiché, probabilmente, «è piuttosto difficile far rientrare l’edonismo epicureo nello schema generale dell’uso dei piaceri proposto da Foucault»,205 si deve sottolineare, come è stato ampiamente sottolineato, che gli esercizi spirituali, come l’esame di coscienza, erano certamente presenti anche tra gli epicurei. E questi si inserivano in una dimensione comunitaria e condivisa al fine di intelaiare gli affetti e co-attuare l’esercizio spirituale. Per questi, proprio in particolare gli epicurei, «è necessario frequentare gli altri membri […] per trovare la felicità nell’affetto reciproco».206 E tale atto significava uscire dall’individualità per compiere l’esercizio nella reciprocità. Un esercizio che si attua anche nella pratica apparentemente più individuale di tutte: la scrittura. In un certo qual modo nella scrittura e con la scrittura si tratta di «liberarsi della propria individualità per elevarsi».207

7. La dimensione del vivente umano: l’affettività e l’ordo amoris

La dimensione affettiva emerge come fondamento della pratica di sé, dell’esercizio spirituale, poiché l’affetto è l’ordine attraverso cui si struttura la trasformazione innescabile nell’incontro. Per quanto riguarda gli esercizi nella filosofia antica, ellenica e romana, si deve tener presente come «le tonalità affettive e i contenuti concettuali di tali esercizi fossero molto diversi a seconda delle scuole: mobilitazione dell’energia e consenso al destino per gli stoici, distensione e distacco per gli epicurei, concentrazione mentale e rinuncia al sensibile per i platonici»208 ma il minimo comune denominatore resta «il miglioramento, la realizzazione di sé».209 In questo senso si può comprendere l’importanza e l’insistenza della filosofia antica per il tema della morte.210 L’esercitarsi a morire, l’imparare a morire, «significa esercitarsi a morire alla propria individualità, alle proprie passioni, per vedere le cose nella prospettiva dell’universalità e dell’oggettività».211 Per Platone, sottolinea Hadot, «l’esercizio della morte è un esercizio spirituale che consiste nel cambiare di prospettiva».212 Il lavoro del filosofo consiste proprio nel mirare ad eternarsi, superandosi, e liberarsi dalle illusioni dell’individualità213 e, così, si può dire che «si muore alla propria individualità».214 Liberati dalle dimensioni oppressive, non si è «più la nostra individualità egoista e passionale»215 ma un’apertura «all’universalità e all’oggettività».216 Allora «[l]a vera filosofia è dunque esercizio spirituale, nell’antichità»,217 per gli antichi gli esercizi spirituali avevano una «prospettiva concreta».218 E questa concretezza, di cui l’esercizio ci parla, si esplica nella dimensione affettiva. L’esercizio trova la sua ossatura negli affetti poiché l’esercizio prima che attività concettuale è maniera di vivere, è pratica, che si struttura, trova la sua energia, e il suo senso nella dimensione affettiva.

Come sottolinea Zambrano ci sono appunto dimensioni che sfuggono alla ragione, vi è «una realtà che la ragione non può comprendere ma che può essere captata in altro modo».219 Qualcosa che precede la ragione e che la direziona, una «sopravvivenza di qualcosa di anteriore al pensiero».220 Per Max Scheler, filosofo inevitabile per la comprensione del pensiero di Zambrano, vi è un livello pre-riflessivo che dirige l’umano, il quale si istituisce in – ed è formato da – una dimensione affettiva; si tratta di un a priori affettivo, del cuore e delle passioni. La Wertnehmung in Scheler dirige la percezione nel modo in cui la percezione (Wahrnehmung) ha una presa sul tutto (udito, vista, olfatto, tatto e gusto) ma la componente precedente, pre-data, quella che la ordina, è la percezione valoriale (Wertnehmung), ovvero sono i valori, l’unità di valore (Werteinheit) e la forma (Gestalt) ciò che è primariamente dato poiché non possiamo strutturare la percezione come semplice somma di stimoli (Reizsumme), che invece corrisponderebbero alla somma delle sensazioni (Empindungssummen)221 – questo problema resta, tuttavia, abbastanza oscuro.222 Mentre l’ordo amoris struttura la persona e la definisce sia per quanto riguarda il suo agire che per una sua individuazione.223 «Per Scheler la dimensione dell’a priori non riguarda solo l’intelletto; essa appartiene anche alla vita emotiva, che ha infatti un proprio contenuto specifico del tutto indipendente e non derivabile a posteriori dall’esperienza empirico-induttiva».224 Un a priori affettivo che definisce la persona perché «[c]hi ha l’ordo amoris di un uomo ha l’uomo stesso. Ha per l’uomo inteso come soggetto morale ciò che è la formula di cristallizzazione per il cristallo».225

Bisogna tener presente, per delineare l’importanza delle analisi di Scheler, che l’umano si posiziona nel mondo come organismo (schema corporeo e livello unipatico),226 come sé sociale (senso comune ed empatia) e come singolarità personale (ordo amoris e solidarietà).227 Per cui la stratificazione è tripartita: abbiamo un ordo carnis, un ordo socialis e un ordo amoris (a cui corrispondono rispettivamente schema corporeo, sé sociale e centro personale). La persona è il suo ordo amoris ovvero «l’ordo amoris è il principium individuationis della persona»,228 poiché questa «non è un ente di ragione»229 è un ordo amoris, il che è provato dal fatto che se vi sono disturbi dell’ordo amoris si assiste alla «decostruzione e alla frammentazione della persona».230 L’ordo amoris, «in definitiva, è ciò che conferisce il timbro inconfondibile alla singolarità».231 Questo anche perché attraverso l’ordo amoris si innescano riposizionamenti della persona, e dell’ordo amoris stesso. «La caratteristica più straordinaria dell’ordo amoris è quella di funzionalizzare non solo l’esperienza e i posizionamenti ma anche sé stesso: è l’organo che – di fronte a una crisi, a una sconfitta grave, a un lutto e più in generale a qualsiasi trasformazione rilevante dell’esistenza – metabolizza una metamorfosi e rinasce nello spazio trans-soggettivo dell’incontro con l’altro».232 Allora quando vi sono disturbi dell’ordo amoris questi sono collegati a disturbi dell’ambito dell’emotional sharing, poiché «l’ordo amoris non è l’organo di una cura ripiegata su sé stessa, ma l’organo di un’emotional sharing solidaristica che si svolge sul piano trans-soggettivo dell’incontro con l’altro nella co-attuazione dell’atto».233 Questi disturbi sono ad esempio l’infatuazione che «indica una forma di amare cieco, in cui un umano viene rapito da un bene finito, fino a rimanere intrappolato in esso, in quanto crede illusoriamente “d’aver raggiunto in un bene finito il definitivo appagamento e il pieno soddisfacimento della ricerca del proprio amare”».234 L’infatuazione è legata a, ma si differenzia dalla delusion in quanto «l’impressione è che qui l’errore del giudizio sia un problema secondario e che invece primaria sia una distorsione a livello assiologico, che risulta inconfutabile. In altri termini, la delusion non è qualcosa di accessorio o di contingente rispetto al modo di essere di quell’individuo, ma costituisce il suo principium individuationis».235 Il risentimento, che «tratta di illusioni che falsano il modo di comprendere l’altro, portando a ipotizzare una superiorità dell’evidenza della percezione interna rispetto a quella esterna».236 Questi compromettono la funzione enattiva e ne comportano storture nella stessa forma mentis. Il risentimento infatti è un avvelenamento, un autoavvelenamento, in cui «una particolare violenza di queste passioni [odio, invidia] vada di pari passo con il sentimento dell’incapacità di tradurle in atto, da cui deriva il “morso avvelenato” dovuto vuoi a una debolezza di natura corporea e spirituale vuoi ad angoscia e timore nei confronti di coloro ai quali tali affetti si rivolgono».237 Pertanto vi è un vero e proprio ordre du cœur e una logique du cœur a cui si deve rivolgere l’attenzione. Un livello che se inquinato può dar origine a tutta una gamma di disturbi.

Vi è una visione del cuore238 indagando la quale si incontrano ordini di ragione differenti. «La ragione, anche se legata a un organo fisiologico, il cervello, non consiste in esso. Non sappiamo esattamente cosa fa il cuore nella vita psichica; se fa qualcosa, questo qualcosa gli è talmente connaturato che non risulta separato come il pensiero dal cervello»239 allora, sottolinea Zambrano, piuttosto «[l]a ragione è pura manifestazione, è la comunicazione stessa».240 La ragione si dà in una dimensione comunicativa e l’interiorità, lungi dall’essere uno spazio rinchiuso, è apertura, un offrirsi che la esalti. Essa «[s]i offre perché è interiorità e per continuare a esserlo; l’interiorità che si offre per continuare a essere interiorità, senza annullarla, è la definizione dell’intimità».241 In questo modo si parla di una filosofia dell’espressione, del venir fuori, o si va in direzione di una «considerazione della Filosofia come espressione»242 in cui le radici del filosofare, «come tutte le radici, sprofondano nella vita».243 La vita e la filosofia allora si delineano come intrecciate, come bisognose l’una dell’altra. Una per completarsi, l’altra per necessità. La complessità della vita richiede allora un livello affettivo, un livello dell’amore, poiché l’amare apre ad una densità esistenziale che non è accumulazione o confronto di valore ma novità e creazione, incontro e trasformazione. Se l’uomo necessita di completarsi di nascere del tutto, la filosofia è lo strumento adatto se inserito all’interno di una prospettiva dominata e guidata dagli affetti. Questo perché «l’amare non si limita a comparare valori già esistenti, ma apre un varco verso qualcosa che ancora non esiste: fa venire alla luce la parte migliore […], crea le condizioni per l’apparire di una novità ontologica».244 L’amore, sostiene Scheler, produce, è «un movimento creatore e non riproduttore di valori».245 Allora se per gli antichi «[e]sserci è un dovere, non fosse che per un istante»,246 e lo spazio proprio della pratica filosofica era la comunità e il gruppo come condensatore e distributore di affetto reciproco (affection mutuelle), anche la filosofia che si riprende dalla violenza della cecità a cui può essere sottoposta, verso cui Zambrano vuole volgere, si dà in rapporto ad un ordine del cuore, che, come intendeva Scheler, «è il cuore infatti che più del conoscere e del volere merita di essere definito come nucleo dell’uomo inteso quale essere spirituale».247

8. Un esempio di «cibo affettivo»: il rapporto madre-bambino in René Spitz

In ogni epoca ci sono beni e mali, dice Zambrano. Capita, però, che glorie e mali si mostrino mescolati (mezclados). Uno di «questi beni e mali della nostra epoca è ancora la dottrina (doctrina) chiamata “freudismo”248». Per Zambrano con il freudismo si tratta di una vera e propria religione della nostra epoca,249 il quale è qualcosa proprio della nostra cultura, e della nostra epoca, nel cui cuore poggia le sue radici.250 La dottrina si basa sul riconoscimento di un’infermità (enfermedad) da dover sanare. Questa «non è un’infermità che si ha, ma che, in un certo modo, si è».251 La vita intera, tuttavia, e abbiamo già avuto modo di sottolinearlo, è problematica, gioia e dispiacere sono consustanziali, allora, se si problematizza, «significa che si è fatto problema qualcosa che non doveva esserlo».252 Il male individuato, la natura e la condizione del male da curare, risiedeva nell’anima253 e Freud ebbe il pregio di ricercare e rischiare una cura, per cui «[i]l tratto geniale di Freud fu indubbiamente il suo distaccarsi dalle dottrine correnti».254

Gli assunti di base del freudismo intrecciano linee differenti. La psiche umana avrebbe «la tendenza a coprirsi; l’ansia di vestirsi, di mascherarsi»,255 ma al contempo sarebbe caratterizzata dall’espressione, per la quale «[t]utto ciò che è psichico si esprime».256 Una via privilegiata per quest’espressione è, secondo una posizione alquanto antica, quella dei sogni,257 oltre, ovviamente, quella da rintracciare nei «piccoli equivoci della vita quotidiana».258 «I sogni sono per Freud rivelazione (revelación)».259 Ma ciò che può essere represso appartiene anche all’ambito delle manifestazioni coscienti dove «reprimiamo la manifestazione di molte cose […] Freud afferma che queste cose non si tacciono soltanto agli altri, ma anche a se stessi: la simulazione si trasforma in inibizione».260 Il punto è che «[s]fuggire la verità con la menzogna, o per ignoranza, ci sottomette alla schiavitù più angosciosa […] se non viviamo chiarendoci a noi stessi, possiamo cadere in schiavitù».261 Allora occorreva curarsi, prendersi cura di sé. E nulla più del freudismo ha dato vita a esplosioni discorsive e linee interpretativo-metodologiche. Il cospetto però era alquanto tragico, dice Zambrano. L’uomo europeo, «“fatto a immagine e somiglianza di Dio”, di un Dio creatore, viene ora definito come oscuro, informe furore sessuale, demone insaziabile perpetuamente insoddisfatto, divoratore di tutto».262

Per uscire da questa tragedia l’amore e la carità erano e sono i mezzi necessari.263 «L’amore è fame, furia, ma di generare… e nella bellezza. Trova compimento quando genera, fisicamente o intellettualmente, creando un corpo o una conoscenza».264 La questione allora resta quella di stabilire in che modo si possa generare nell’amore e trovare l’appoggio necessario per il completamento dell’esistenza e della vita che per mezzo della filosofia si può, poi, strutturare e delineare. Se con la lingua inglese distinguiamo tra care e cure potremmo dire che to care significa sentire interesse e coinvolgimento, senza però preoccupazione per le conseguenze e le attuazioni di questo coinvolgimento come nell’espressione «I care», mi interessa, me ne curo, mi sta a cuore. Mentre to cure si ricollega alla dimensione pratica della cura.265

La cura nel suo fondamento nella dimensione affettiva è quanto qualcuno vicino al bene e male del nostro tempo di cui parla Zambrano, il freudismo, ha analizzato e indagato con la ricerca sul campo: René Spitz.266 Spitz attuò un’originale sintesi tra psicoanalisi infantile e nuovi orientamenti dettati da una ricerca sperimentale, tuttavia non coincidente con la cosiddetta psicologia sperimentale tout court. Questo perché il metodo di Spitz consistette nell’intreccio tra l’analisi della maturazione neurobiologica del bambino e l'attenzione alla relazione dinamica madre-bambino. Quest’ultima si poneva come una transazione tra organismi viventi dotati di un corpo. Attraverso l’indagine di casi patologici e non, poté individuare la norma – tratto, questo, caratteristico del metodo freudiano –,267 e distinse tre stadi fondamentali dello sviluppo psichico: lo stadio preoggettuale, fino ai tre mesi di vita del bambino; quello dell’oggetto precursore, dai 3 agli 8; lo stadio della relazione con l’oggetto libidico (8-15 mesi).

Come sottolinea Anna Freud, un pregio è certamente che la «descrizione dettagliata dei rapporti affettivi fra le madri ed i loro lattanti è destinata ad un pubblico più ampio di quello a cui sono abitualmente rivolte le opere psicoanalitiche».268 Infatti il testo si pone come necessario per una prevenzione delle patologie, per una terapia, mostrando così un interesse sociologico ampio.269 L’evoluzione coerente e sana dei rapporti oggettuali nel periodo infantile rappresenta la premessa necessaria, ma non sufficiente, per un sano sviluppo psichico.270 Le «ipotesi, queste constatazioni suggeriscono i mezzi di prevenzione; ci suggeriscono anche alcune idee per la terapia»,271 confermandone il «valore sociologico».272 La premessa generale è che ci sia «un punto di partenza per comprendere le forze e le condizioni che fanno dell’uomo un essere sociale».273 Se ci sono le crisi di cui parlava Zambrano, a cui aggiungeremo le delinquenze e il malessere contemporaneo, per Spitz diventa un «imperativo risalire all’origine del male, per creare una psichiatria sociale preventiva, se vogliamo proteggere la nostra civiltà intera dal pericolo rappresentato dal deterioramento rapido delle condizioni necessarie per lo sviluppo normale dei primi rapporti oggettuali».274 La povertà dei primi rapporti si tradurrà nella penuria dei rapporti sociali,275 ovvero bambini «[p]rivati del cibo affettivo che era loro dovuto, ricorreranno alla sola via che loro resta, la violenza, la distruzione di un ordine sociale di cui sono vittime. Lattanti senza amore, diventeranno adulti pieni di odio».276

Freud nei Tre saggi sulla teoria sessuale si era occupato delle relazioni reciproche fra madre e bambino, fra oggetto e soggetto,277 mentre nei testi successivi non si occuperà di relazione oggettuale negli stessi termini. Tuttavia quelle pagine significano per Spitz una base metodologica. Occorre precisare che la premessa – e il risultato – delle analisi di Spitz consiste nel fatto che il bambino, il quale alla nascita «è in uno stato indifferenziato»,278 necessita delle cure che famiglia e ambiente gli procurano. In seguito, grazie alla maturazione – ovvero lo svolgimento di processi filogeneticamente stabiliti – e allo sviluppo – quanto relativo all’emergere di forme dinamiche e di modi di comportamento dettati dalla relazione organismo-ambiente –, le sue funzioni, compresi gli istinti, si potranno differenziare..279 Non è possibile parlare di un Io alla nascita, né di Super-io mentre, piuttosto, il bambino è strutturato da fattori congeniti per cui ciascuno «è nato con una sua propria individualità. È nato munito di ciò che io chiamo il suo “corredo congenito”280» (suddivisibile in ereditario, determinato da influssi intrauterini e quelli legati al parto).281 Vi è inoltre il fattore ambientale per cui nel rapporto madre-bambino si mostra il germe dello «sviluppo delle relazioni sociali allo statu nascendi»,282 e costituisce un aspetto complesso grazie al quale «nel corso del primo anno il bambino passa attraverso uno stadio di simbiosi con la madre».283 Per cui possiamo affermare che per il «neonato l’ambiente è costituito per così dire da un unico individuo: la madre o il suo sostituto».284 Inizialmente questa non è percepita come separata da lui ma come «un insieme di bisogni di nutrizione e soddisfazione».285 Il bambino, infatti, passa il primo anno in un sistema chiuso, costituito di due soli componenti: la madre e il bambino, i quali formano una diade.286 La madre, o chi la sostituisce, è un filtro tra il bambino e il mondo. Ciascuno dei lattanti seguiti dalla ricerca fu osservato almeno quattro ore settimanali,287 e i test effettuati esaminavano lo sviluppo e il dominio della percezione, del soma, dei rapporti interpersonali, della memoria e dell’imitazione, della manipolazione di oggetti e, infine, quanto inerente allo sviluppo intellettivo.288 Spitz eseguì inoltre riprese cinematografiche a 24 fotogrammi al secondo che consentivano di ripetere l’osservazione e rallentare la riproduzione fino a 8 fotogrammi al secondo.

Nell’indagare lo sviluppo dei primi rapporti oggettuali (libidici) Spitz identificò il neonato come soggetto, non-differenziato e privo di funzioni psichiche, e l’oggetto come completamento di un processo dinamico frutto di tappe delicate. Per il neonato, infatti, «non esistono relazioni oggettuali né oggetti. Questi due elementi si svilupperanno progressivamente durante il primo anno, verso la fine del quale si stabilirà definitivo l’oggetto libidico».289 In questo processo Spitz distingue tra: stadio preoggettuale;290 stadio dell’oggetto precursore;291 stadio dell’oggetto propriamente detto. Il termine oggetto si riferisce, freudianamente, a ciò in relazione a cui e mediante cui la pulsione può raggiungere la sua meta.292 Mentre le cose resterebbero identiche a se stesse nello spazio e nel tempo, l’oggetto non può «essere definito con coordinate spazio-temporali, ad eccezione del periodo, lungo o breve, in cui il soggetto non lo trasforma».293 Pertanto, le coordinate che lo definiscono sono coincidenti con le strutture pulsionali che lo investono.

Verso la fine del secondo mese Spitz notò che al bambino succede qualcosa di particolare soprattutto nel suo rapportarsi alla persona umana che prima veniva, nel caso figura materna, percepita come parte del proprio corpo, ovvero «assume un ruolo del tutto singolare fra le “cose” che attorniano il lattante».294 Adesso percepisce visivamente la persona che si avvicina, risponde ad uno stimolo esterno, sempre sotto l’egida di una pulsione interna (aver fame).295 Il punto chiave per una crescita delle relazioni del bambino si ha nel secondo stadio, quello dell’oggetto precursore,296 durante il quale il bambino percepisce un segnale interno al viso umano a cui risponde sorridendo. Il segnale, che non coincide con la totalità del viso, è piuttosto una Gestalt «costituita dall’insieme: fronte, occhi e naso, il tutto in movimento»,297 che non deve coincidere con una persona particolare ma deve rispettare queste condizioni di figura e movimento. Motivo per cui Spitz parla di una configurazione Gestalt-segnale,298 come elemento costituente un oggetto precursore. La risposta al viso è quindi «relazione pre-oggettuale ed oggetto precursore il segnale che viene riconosciuto».299

La madre nel primo anno di vita è «l’intermediaria di ogni percezione, di ogni azione, di ogni conoscenza».300 La Gestalt-segnale è necessaria per la transizione dello stato in cui il bambino «percepisce solo affettivamente allo stato in cui percepisce in modo discriminativo».301 La dimensione affettiva della relazione madre-bambino poggia sull’evidenza dell’importanza della madre per i processi di apprendimento e di presa di coscienza del bambino, ovvero su di un’«importanza primordiale che in questo processo hanno i sentimenti della madre».302 L’atteggiamento affettivo della madre è indispensabile per l’esperienza del bambino, è questo che «determina la qualità delle esperienze stesse».303 Occorre precisare che di fatto nei primi tre mesi di vita la totalità delle esperienze del bambino appartengono ad un ordine affettivo,304 per cui l’atteggiamento affettivo della madre serve da vero e proprio orientamento per il bambino. L’atteggiamento della madre costituisce lo schema affettivo del bambino attraverso cui inizia a vivere il e nel mondo. L’infanzia si mostra come la fase terapeutica e profilattica in cui la diade si struttura per mezzo: della madre «con la sua individualità già formata, ed il bambino con un’individualità in via di formazione».305 La psiche del bambino è nella fase di massima plasticità,306 in cui «il bambino si trova in un processo di transizioni continue, di trasformazioni rapide, violente, spesso tempestose».307 Questo periodo di evoluzione308 si scandisce attraverso stadi evolutivi che coinvolgono la presenza degli organizzatori. Gli organizzatori, che agiscono sullo schema comportamentale del bambino modificandone e strutturandone la forma, si manifestano attraverso indicatori (risposta del sorriso di fronte ad un volto umano;309 reazione d’angoscia di fronte ad un estraneo;310 comparsa del «no» come primo segno semantico e concettuale)311 e si definiscono proprio come «strutture che si sviluppano ad un certo punto in cui convergono diverse linee di sviluppo».312 Dopo la comparsa dell’organizzatore «comincia un nuovo modo di essere, fondamentalmente diverso dal precedente».313 Se si consolida la presenza dell’organizzatore il bambino si svilupperà in modo sano. L’Io «non nasce già costituito in tutta la sua pienezza. Lo sviluppo della sua efficienza, delle sue riserve, della sua resistenza si attua in maniera lenta e progressiva per mesi ed anni».314

Nel rapporto con la madre agiscono delle forze formative da cui l’unità «lattante» trae energia e vita. «Questa totalità attiva, vivente, reagente e in evoluzione, forma l’oggetto delle forze formative che provengono dall’ambiente (più semplicemente dalla madre)».315 Nella relazione con la madre si instaura così una dimensione dinamica la quale è dominata dal processo per «tentativo ed errore (trial and error)316». La questione è che tutto ciò che la madre sente e vive, il bambino lo esperisce senza filtro, «gli atteggiamenti inconsci della madre sono quelli che facilitano maggiormente le azioni del bambino; si tratta dei suoi desideri, dei suoi timori, delle sue risposte inconsce, dei suoi blocchi affettivi».317 Gli influssi della madre «plasmano e dirigono la personalità del bambino».318 La forma delicata di questi processi dinamici tratta di veri modellamenti come «serie di interazioni in un contesto sociale»,319 per cui la diade si struttura in un rimando reciproco «intessuto di legami particolarmente potenti».320 La semiotica di questa relazione d’intimità si costituisce attraverso un codice alquanto particolare. Il bambino, attraverso una Anlage filogenetica, «innesterà lo sviluppo ontogenetico, puramente umano, che consiste nella comunicazione direzionata e trasmessa con l’aiuto di segni semantici e di segnali»,321 il che inserisce il periodo in una fase precedente la funzione simbolica. Questa forma primordiale ha carattere espressivo, ovvero è derivata da stati affettivi e non è direzionata.322 Si tratta, quindi, di una dimensione prossemica e propria del corpo. Sono comunicazioni che avranno luogo nella diade «e stabiliranno nella diade stessa un processo circolare di risonanza».323

La semiotica che Spitz delinea è composta dal segno, che «è una percezione associata empiricamente all’esperienza di un oggetto o di una situazione, suscettibile a sostituirsi all’esperienza dell’oggetto o della situazione stessa»;324 dal segnale che «è una percezione associata artificialmente ad un oggetto o ad una situazione»;325 dal simbolo che «è un segno che ha il compito di rappresentare un oggetto, un atto, una situazione, una nozione, e di sostituirli all’occasione».326 L’elemento portante di questo codice semiotico, e del motivo per cui si distingue dalla comunicazione tra adulti, è la «disparità dei due membri. Mentre le comunicazioni emesse dal bambino non sono che segni, quelle emesse dall’adulto sono segnali».327 Il bambino decodificatore quindi conosce e interpreta i segnali ma produce solo segni. Se il segno è il termine generale, il segnale è l’uso specifico di un segno, un’associazione tra segno e avvenimento. Il livello arcaico infantile pertanto è un livello della somato-psiche, un livello cenestesico che è percezione interna, una recezione che «si realizza nel milieu interno».328 Difatti ciò che il bambino è capace di ricevere si inserisce all’interno dell’equilibrio, tensione (muscolare e non), postura, temperatura, vibrazione, contatto, ritmo, tempo, durata, scala tonale, nuance dei toni, suono;329 dimensioni di cui l’adulto non si rende conto, spazi altri che appartengono ai mondi percettivi dei «compositori, i musicisti, i ballerini, gli equilibristi, gli aviatori […] ai quali è rimasta la facoltà di servirsi di una o di diverse di queste sensibilità».330 Per Spitz al bambino appartengono categorie d’esperienza che ci sono divenute estranee, le stesse che competono alle popolazioni primitive. Questo è quanto Scheler esprimeva in merito all’unipatia come esperienza estranea all’uomo occidentale e all’adulto. Ovvero «l’uomo ha quasi del tutto perduto la capacità di unipatia specifica dell’animale […], il civilizzato la capacità di unipatia del primitivo e l’adulto la capacità di unipatia del bambino».331

Per il lattante il tono affettivo della madre e i suoi segnali costituiscono la comunicazione in entrata. Tuttavia è sbagliato supporre una linearità delle vie comunicative poiché si tratta piuttosto di semiosfere affettive in cui vi sono «effetti cumulativi di esperienze, stimoli, risposte ripetute all’infinito»,332 che portano in direzione di un clima affettivo dettato da un principio dell’accumulo.333 Il sistema di comunicazione pertanto «consiste in scambi affettivi reciproci»334 che si inseriscono ad un livello pre-riflessivo, il che ne struttura e determina le caratteristiche proprie. Questi processi, interazioni, percezioni affettive «precedono ogni altra funzione, che si svilupperà più tardi sulla base creata da questi scambi».335 Inizia così il processo, che qui trova le sue basi, «che trasformerà il bambino in essere umano, in essere sociale, in zoon politikon».336

La madre oltre che intermediaria è il primo oggetto libidico di cui l’essere umano fa esperienza. In essa il bambino scarica le pulsioni di aggressione e quelle sessuali che si devono fondere e scaricare sul partner.337 Le relazioni oggettuali possono però ricevere delle deformazioni e delle deviazioni.338 Se la madre dà sicurezza assoluta al bambino attraverso la dimensione affettiva nel primo semestre di vita ciò «si tradurrà in uno sviluppo rapido nel secondo semestre».339 La questione è delicata e si riferisce al fatto che i segnali affettivi della madre sono determinati da un atteggiamento affettivo inconscio, «cioè il comportamento della madre si manifesta in forme di cui essa stessa non si rende necessariamente conto».340 La madre, nella tassonomia proposta da Spitz, può ipercompensare la propria ostilità o renderla manifesta, l’atteggiamento diventa cangiante e contraddittorio e il «bambino risponderà a questi segnali variabili, instabili, che non gli offrono alcuna sicurezza, formando dei rapporti oggettuali impropri o insufficienti o inesistenti».341 La madre può essere soddisfatta di avere un figlio che fino a poco tempo prima «costituiva una parte del suo corpo»,342 mentre il bambino sarà soddisfatto se i suoi bisogni vengono appagati, tenendo presente che «la natura stessa delle sue soddisfazioni sarà soggetta a trasformazioni rapide».343 Le interazioni che si vengono a formare sono circolari, come abbiamo detto, ed è «difficile, se non impossibile, trovare una formula che esprima la marea multiforme ed invisibile, i flussi e riflussi silenziosi, potenti e allo stesso tempo sottili, che si attuano in queste relazioni».344 La madre è il membro dominante e attivo della relazione,345 se essa disturba e inquina la relazione possono sorgere disturbi gravi nel bambino. Infatti «gli influssi psichici nocivi sorgono in seguito a relazioni non soddisfacenti fra madre e bambino»,346 e le relazioni dannose possono essere inadeguate347 o insufficienti.348 Le deformazioni delle relazioni sono di ordine qualitativo nella prima categoria e quantitativo nella seconda.

Gli influssi psichici hanno un effetto sul soma o possono «abbassare le resistenze del bambino alle varie malattie».349 Nel primo caso quindi la madre offre relazioni improprie, i cui comportamenti agiscono come una «tossina psichica».350 Ciò che ne deriva sono disturbi psicotossici dell’infanzia che si possono distinguere in almeno sei gruppi: rifiuto primario – attivo351 e passivo;352 preoccupazione primaria ansiosamente esagerata;353 ostilità sotto forma di preoccupazione ansiosa;354 oscillazioni rapide fra indulgenza e ostilità aggressiva;355 sbalzi d’umore ciclici ad onde lunghe della madre;356 ostilità coscientemente compensata.357 I rapporti insufficienti invece sono caratterizzati dall’essere «privati di qualcosa di indispensabile al loro sviluppo completo, di un elemento essenziale alla vita»,358 si tratta di disturbi da carenza affettiva, in cui questa «si riferisce solo all’apporto libidico; il bambino ha a disposizione un minimo di nutrimento, di igiene, di calore ecc., senza il quale morirebbe».359 Qui la carenza può essere parziale,360 casi in cui i bambini dopo sei mesi di buon rapporto con la madre ne furono privati e la «persona che sostituiva la madre non soddisfaceva il bambino»,361 in cui sorgeva insonnia, perdita di peso, contrazione di malattie, ritardo motorio fino al letargo; oppure totale,362 in cui vi erano «conseguenze funeste».363 I bambini, allattati al seno della madre si sviluppavano bene, ma essendo dopo il terzo mese svezzati e affidati alle cure di un infermiera che si occupava di dieci o più bambini, questi ricevevano tutto il necessario dal punto di vista fisico, di cibo, igiene, tuttavia trovandosi in rapporto uno a dieci «essi ricevevano solo la decima parte delle cure affettive materne».364 Ne conseguiva marasma e morte. Di 91 bambini seguiti il 37 % morì,365 mentre dove i bambini vivevano in presenza della madre non si registrò alcun decesso.366 L’eziologia proposta da Spitz poggia sull’evidenza che «quando la carenza di rapporti oggettuali rende impossibile la scarica delle pulsioni di aggressione, il lattante rivolge l’aggressione su di sé, cioè sul solo oggetto che gli rimane».367 Il bambino diventa incapace di assimilare cibo, di dormire, diventa autolesionista. L’impossibilità della fusione della pulsione sessuale e di aggressione sposta la direzionalità da verso l’esterno a verso il bambino stesso.368 Così delineati i disturbi psicogeni suddivisi in psicotossici e in carenze affettive mostrano il lato oscuro ed estremo dell’importanza del rapporto affettivo con la figura materna: la sua assenza o il suo disturbo. Quanto esaminato registra la necessità della dimensione affettiva per la costituzione dell’essere umano.

9. Conclusioni

Abbiamo delineato, con quest’ultima tappa, la dimensione prima da cui tutti siamo passati: l’esempio affettivo e pre-verbale che costituisce la base dell’interrelazione che si manifesta nel rapporto della madre con il bambino. Una dimensione relazionale che, poi, nell’esercizio filosofico e nella pratica filosofica del dialogo, dalle sue origini antiche fino all’esigenza contemporanea di re-istituire questo spazio proprio della filosofia, si ri-solidifica. Come in Sinfonia d’autunno, film del 1978 di Bergman, in cui la presenza della madre pregiudica completamente l’esistenza di Helena e Eva, anzi la malattia e l’aggravarsi di Helena sono proprio dovuti alla perpetuazione dell’assenza di amore della madre, così abbiamo tracciato un percorso che struttura l’importanza della relazione madre-bambino ma che poi riverserà la fame di conoscenza e di sviluppo verso l’assolutizzazione, il superamento della condizione egoica e individuale, per mezzo di altre modalità e in altri luoghi come la dimensione comunitaria, di condivisione, di scambio, di esemplarità, che la filosofia struttura e sviluppa, e che solo attraverso l’affetto e l’amore trova le sue condizioni d’attuazione e di possibilità. Come con Hadot si è parlato di «metamorfosi della personalità» che l’esercizio filosofico attua, con Zambrano di una filosofia che trasforma ed è affamata di un completamento, con Scheler di un livello affettivo che riposiziona l’umano, con Spitz si sono delineate le tappe primordiali dello sviluppo umano in cui, in particolare, per mezzo degli organizzatori si assiste alla «formazione di entità completamente nuove, che guidano la metamorfosi della personalità, conducendola a un livello superiore, fino ad ora inesistente, e organizzato in modo diverso dal precedente».369


  1. Michel de Montaigne, Essais. Présentation, établissement du texte, apparat critique et notes par André Tournon, Imprimerie Nationale, Paris 1998; tr. it. di Fausta Garavini, Saggi, Bompiani, Milano 2012, Libro I, Capitolo XXXIX, p. 447. ↩︎

  2. María Zambrano, Hacia un saber sobre el alma, Fundación María Zambrano 1991 (Alianza Editorial, Madrid 2000); tr. it. di Eliana Nobili, Verso un sapere dell’anima, Raffaello Cortina, Milano 1996, p. 23. ↩︎

  3. Ivi, p. 25. ↩︎

  4. Ivi, p. 24. ↩︎

  5. Ivi, p. 26. ↩︎

  6. Ivi, p. 30. ↩︎

  7. I fondamenti dialogici del pensiero sono esemplarmente espressi da Platone, ad esempio, nel Teeteto dove, alla domanda su come si definisca il pensare, Socrate risponde che è un «discorso che l’anima articola da se stessa intorno alle cose che indaga» (Platone, Teeteto, 189 E7-E8), «[c]osicché io definisco l’opinare discorrere e l’opinione discorso proferito, tuttavia non rivolto ad altri ed espresso a voce, ma in silenzio a se stesso» (Ivi, 190 A4-A7). Il discorso con se stessi rappresenterebbe e descriverebbe l’atto del pensare. Nel Sofista sempre con Teeteto presente ma, al posto di Socrate, lo Straniero di Elea, la questione continua così: «STRANIERO: Pensiero e discorso non sono forse la stessa cosa, salvo che il primo, un dialogo interno dell’anima con s[e] stessa che ha luogo senza voce, proprio questo è stato da noi denominato “pensiero”? TEETETO: Certamente. STRANIERO: Mentre il flusso che dall’anima esce attraverso la bocca, accompagnato da emissione di suono, è stato chiamato “discorso”. TEETETO: È vero». (Platone, Sofista, 263 E3-11). Nei due brani si mostra forte l’analogia tra il dialogare e il pensare, dove quest’ultimo si definisce come «dialogo interno dell’anima con se stessa che ha luogo senza voce». Vi è una stretta connessione tra i due che, in definitiva, poggia le sue basi nel logos. Il pensiero (diànoia) e il discorso (logos) appoggiano in quel «legare insieme» comune ad entrambi, difatti del pensiero (diànoia) o pensare (dianoèisthai) si deve ricordare che suo «tratto tipico è la dinamicità o discorsività poiché lega informazioni derivanti dai sensi in sequenze e nessi» (Linda M. Napolitano Valditara, Il dialogo socratico. Fra tradizione storica e pratica filosofica per la cura di sé, Mimesis, Milano-Udine 2018, p. 293). ↩︎

  8. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 28. ↩︎

  9. Francesca Rigotti, Nuova filosofia delle piccole cose, Interlinea, Novara 2013, p. 34. ↩︎

  10. Cfr. Pierre Hadot, Exercices spirituels et philosophie antique, Editions Albin Michel, Paris 2002; tr. it. di Anna Maria Marietti, Esercizi spirituali e filosofia antica, Einaudi, Torino 2005, p. 157. ↩︎

  11. Ivi, p. 158. ↩︎

  12. Ibidem↩︎

  13. Ivi, p. 160. ↩︎

  14. Ivi, p. 163. ↩︎

  15. Ivi, p. 162, non più arte della vita ma linguaggio tecnico per specialisti, cfr. Ivi, p. 164. ↩︎

  16. Pierre Hadot, Qu’est-ce que la philosophie antique?, Éditions Gallimard, Paris 1995; tr. it. di Elena Giovanelli, Che cos’è la filosofia antica?, Einaudi, Torino 1998, p. 167. ↩︎

  17. Ibidem↩︎

  18. Ibidem↩︎

  19. Ivi, p. 169. ↩︎

  20. Cfr. Ibidem↩︎

  21. Ibidem↩︎

  22. Per un esempio di confutazione nel dialogo platonico il Sofista si veda l’analisi di Linda M. Napolitano Valditara, Il dialogo socratico, cit., pp. 281-292. ↩︎

  23. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 134. ↩︎

  24. Ibidem↩︎

  25. Ivi, p. 140. ↩︎

  26. Ivi, p. 161. ↩︎

  27. Ivi, p. 167. ↩︎

  28. Cfr. Ivi, p. 185. ↩︎

  29. Cfr. Ivi, p. 168. ↩︎

  30. Ivi, p. 42. ↩︎

  31. Ibidem↩︎

  32. Ivi, pp. 167-168. ↩︎

  33. Ivi, p. 183. ↩︎

  34. Cfr. Ivi, p. 187. ↩︎

  35. Ivi, p. 179. ↩︎

  36. Ibidem↩︎

  37. Ibidem↩︎

  38. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 158. ↩︎

  39. Ivi, p. 159. ↩︎

  40. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 39. ↩︎

  41. Ivi, p. 40. L’intreccio tra poesia e filosofia per Zambrano è un fertile connubio e nell’indagine filosofica filosofia e poesia si mostrano legate, accomunate da una indiscernibile vicinanza. L’intreccio in Zambrano si fa luogo di «penombra dell’essere e del non essere, del sapere e del non sapere, nel luogo in cui si nasce e si dis-nasce, che è il più appropriato, il più proprio al pensiero filosofico» (Ivi, p. 7). «Filosofia e Poesia hanno cercato da sempre la parola che crea l’essere» (Ivi, p. 135). «Generatrice di musicalità e di abissi di silenzio, la parola che non è concetto perché è lei che fa concepire, la fonte del concepire, che propriamente si colloca oltre ciò che si chiama pensare» (Id., Claros del bosque, Fundación María Zambrano, 1977; tr. it. di Carlo Ferrucci, Chiari del bosco, Mondadori, Milano 2004, p. 105). Poesia e filosofia, figlie entrambe della poiesis, si separano, una nelle sue differenti tipologie e l’altra nelle sue caratteristiche (cfr. Id., Verso un sapere dell’anima, cit., p. 39). L’unità delle due però emerge nel sistema, dove la filosofia si mostra pur sempre figlia della poesia, ovvero «la poesia nacque come slancio dall’oscurità verso la chiarezza e per questo precede la Filosofia, linguaggio meramente intelligibile, e l’aiuta a nascere» (Ivi, p. 137). Tra filosofia e poesia c’è «un’unità intima, essenziale e viva, unità che è identità, una specie di identità tra la persona vivente e la sua creazione» (Ivi, p. 41). Sia il poeta che il filosofo «hanno realizzato una trasformazione o una metamorfosi in cui l’anima si è unità allo spirito o all’intelletto, sia che l’anima assimili l’intelletto – nella poesia – sia che l’intelligenza accolga dentro di sé l’anima» (Ibidem). ↩︎

  42. Cfr. Ivi, pp. 53 sgg. ↩︎

  43. Ivi, p. 54. ↩︎

  44. Ibidem↩︎

  45. Ivi, p. 55. ↩︎

  46. Cfr. Ibidem↩︎

  47. Ibidem. Se la dottrina è riconducibile ad una storia del pensiero, non sempre riducibile a sistema, la forma è ciò di proprio alla filosofia che, però, non è una forma riconducibile esclusivamente al pensiero sistematico proprio del sistema filosofico, ma si riferisce a tutta la gamma di espressioni della filosofia. ↩︎

  48. Se conversione (περιαγωγή) vi deve essere, il «volgere» o «girare» (περιάγειν) di questa conversione (τῆς περιαγωγῆς) deve essere per ciò che di più profondo vi è in gioco. Queste le espressioni che Platone usa nel VII libro della Repubblica, nel cosiddetto Mito della caverna, 514 A – 520 A. Ovvero: περιάγειν (514 B) e τῆς περιαγωγῆς (518 D). ↩︎

  49. Cfr. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 140. ↩︎

  50. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 16. ↩︎

  51. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 84. ↩︎

  52. Cfr. Ibidem↩︎

  53. Ivi, p. 85. ↩︎

  54. Ivi, p. 89. ↩︎

  55. Cfr. Ibidem↩︎

  56. Ivi, p. 90. ↩︎

  57. Ibidem↩︎

  58. Ibidem↩︎

  59. Cfr. Ibidem↩︎

  60. Ibidem↩︎

  61. Ibidem↩︎

  62. Ivi, p. 91. ↩︎

  63. Ibidem↩︎

  64. Ivi, p. 168. ↩︎

  65. Ivi, p. 133. Si veda inoltre Id., De la aurora, 1986; tr. it. di Elena Laurenzi, Dell’aurora, Marietti, Genova 2020. ↩︎

  66. Ibidem↩︎

  67. Ivi, p. 12. ↩︎

  68. Ivi, p. 56. ↩︎

  69. Ivi, p. 83. ↩︎

  70. Ivi, p. 58. ↩︎

  71. Ibidem↩︎

  72. Ivi, p. 59. ↩︎

  73. Ivi, p. 86. ↩︎

  74. Ivi, p. 87. ↩︎

  75. Ivi, p. 10. ↩︎

  76. Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 191. ↩︎

  77. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 56. ↩︎

  78. Ivi, p. 57. ↩︎

  79. Ivi, p. 58. ↩︎

  80. Ivi, p. 142. ↩︎

  81. Ibidem↩︎

  82. Cfr. Ibidem↩︎

  83. Ibidem↩︎

  84. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 7. ↩︎

  85. Ivi, p. 9. ↩︎

  86. Cfr. Ivi, p. 11. ↩︎

  87. Ibidem↩︎

  88. Ivi, p. 12. ↩︎

  89. Ivi, p. 13. ↩︎

  90. Ivi, pp. 13-14. ↩︎

  91. Cfr. Ivi, p. 14. Ovvero «deve staccarsi dal mondo in quanto mondo per poter vivere la sua vita quotidiana, e deve allontanarsi dal mondo “quotidiano” per ritrovare il mondo in quanto mondo» (Ivi, p. 189). ↩︎

  92. Cfr. Ivi, p. 14. ↩︎

  93. Ibidem↩︎

  94. Ivi, p. 165. ↩︎

  95. Ivi, p. 14. ↩︎

  96. Ivi, p. 15. ↩︎

  97. Ivi, p. 39. ↩︎

  98. Ibidem↩︎

  99. Cfr. Ivi, p. 41. ↩︎

  100. G. Friedman, La Puissance et la Sagesse, Paris 1970, p. 359, cit. in Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 29. ↩︎

  101. Ivi, p. 30. ↩︎

  102. Ibidem↩︎

  103. Cfr. Ibidem↩︎

  104. Ivi, pp. 30-31. ↩︎

  105. Ivi, p. 32. ↩︎

  106. Ibidem↩︎

  107. Ivi, p. 71. ↩︎

  108. Cfr. Paul Rabbow, Seelenführung. Methodik der Exerzitien in der Antike, cit. in Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 69. ↩︎

  109. Ibidem↩︎

  110. Ivi, p. 70. ↩︎

  111. Ibidem↩︎

  112. Cfr. Ivi, p. 71. ↩︎

  113. Ivi, p. 81. ↩︎

  114. Ivi, p. 72. ↩︎

  115. Ivi, p. 74. ↩︎

  116. Ivi, p. 33. Questo rivolgersi verso la Natura è la dimensione fisica della conversione, «la “fisica” come esercizio spirituale» (Ivi, p. 175). ↩︎

  117. Ibidem↩︎

  118. Cfr. Ivi, p. 34. ↩︎

  119. Ibidem↩︎

  120. Ivi, p. 35. ↩︎

  121. Ivi, p. 164. ↩︎

  122. Ivi, pp. 164-165. ↩︎

  123. Ivi, p. 15. ↩︎

  124. Ibidem↩︎

  125. Ibidem↩︎

  126. Ivi, p. 59. ↩︎

  127. Ivi, p. 66. ↩︎

  128. Ivi, pp. 67-68. ↩︎

  129. Ivi, p. 159. ↩︎

  130. Ivi, p. 35. ↩︎

  131. Ivi, p. 156. ↩︎

  132. Ibidem↩︎

  133. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 148. ↩︎

  134. Ibidem↩︎

  135. Platone, Repubblica, IV, 428 B. ↩︎

  136. Aristotele, Etica Nicomachea, VI, 5, 1140 A 31. ↩︎

  137. Cfr. Ivi, 1140 A 30 – 1140 B 5. ↩︎

  138. André Comte-Sponville, Preséntations de la philosophie, Éditions Albin Michel, Paris 2000; tr. inglese di Frank Wynne, The Little Book of Philosophy, Vintage Books, London 2005, p. 142. ↩︎

  139. Michel de Montaigne, Saggi, cit., Libro I, Capitolo XXIII, p. 211. ↩︎

  140. Ibidem↩︎

  141. Arthur Schopenhauer, Aphorismen zur Lebensweisheit, hrsg. von Georg Schwikar, Marix Verlag Wiesbaden 2012 (1851); tr. it. di Bettino Betti, Aforismi per una vita saggia, BUR, Milano 1996, p. 41. ↩︎

  142. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 149. ↩︎

  143. Ibidem↩︎

  144. Per la figura di Socrate cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., pp. 87 sgg. Si veda inoltre Id., Che cos’è la filosofia antica?, cit., pp. 25 sgg. ↩︎

  145. Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., pp. 43-44. ↩︎

  146. Ivi, p. 44. ↩︎

  147. Ivi, p. 46. ↩︎

  148. Ivi, p. 47. ↩︎

  149. Ibidem↩︎

  150. Ivi, p. 63. ↩︎

  151. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 18. ↩︎

  152. Ibidem↩︎

  153. Ibidem↩︎

  154. Ivi, p. 166. ↩︎

  155. Ibidem↩︎

  156. Ivi, p. 20. ↩︎

  157. Ivi, p. 166. ↩︎

  158. Ivi, p. 180. ↩︎

  159. Ibidem↩︎

  160. Ibidem↩︎

  161. Ivi, p. 181. ↩︎

  162. Ivi, p. 175. ↩︎

  163. Cfr. Ivi, p. 192. ↩︎

  164. Ibidem↩︎

  165. Ibidem↩︎

  166. «La testimonianza maieutica è la forza capace d’orientare e di ri-sintonizzare l’ordo amoris» (Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris. In dialogo con Max Scheler, Franco Angeli, Milano 2018, p. 205), torneremo sul concetto di ordo amoris, intanto è importante sottolineare che la testimonianza può essere rappresentata da «un particolare modo di vivere, da un gesto, da un’espressione o da un’opera d’arte» (Ibidem). ↩︎

  167. A cui Scheler ha dedicato Vorbilder und Führer, in GW X, Schriften aus dem Nachlass. Bd. I: Zur Ethik und Erkenntnislehre, hrsg. von Maria Scheler, Francke Verlag, Bern und München 1957, pp. 255-319, tr. it. a cura di Emanuele Caminada, Modelli e capi. Per un personalismo etico in sociologia e filosofia della storia, Franco Angeli, Milano 2011. Per un’analisi dell’esemplarità si veda Guido Cusinato, Sull’esemplarità aurorale in Ivi, pp. 7-28. In particolare si potrebbe distinguere tra un significato di esemplarità per il Vorbild per cui si noti che «[n]el suo senso più puro il Vorbild è una forza che promuove nel seguace una trasformazione dell’identità personale, anche se all’interno di un determinato stile inconfondibile o di una regola» (Ivi, pp. 7-8) e modello per cui «nel significato più ampio include pure un’esemplarità “tipica” che agisce attraverso forme d’imitazione riproduttiva, rintracciabili ad es. nella forza della tradizione e della consuetudine» (Ivi, p. 8). ↩︎

  168. Cfr. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., pp. 59 sgg. ↩︎

  169. Cfr. Ivi, p. 133. ↩︎

  170. Mosè Maimonide, La guida dei perplessi, a cura di Mauro Zonta, UTET, Torino 2005 (edizione del testo originale arabo: Le Guide des égarés. Traité de théologie et de philosophie par Moïse ben Maimoun dit Maïmonide, a cura di Salomon Munk, 3 volumi, Parigi 1856-1866). ↩︎

  171. Cfr. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., pp. 59-60. ↩︎

  172. Questo non è in contrasto con il metodo zetetico proprio della filosofia dialogica antica. Lungi dall’essere sistema la filosofia si fa ricerca di un problema dato, delle soluzioni ad esso relative, e il metodo di ricerca, zetetico, comporta la possibilità di un’assenza di coerenza che la struttura sistematica dovrebbe, invece, riportare. In ogni opera i dettagli dell’argomentazione saranno relati alla questione posta (cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 20) e non potranno essere messi in relazione con altri dettagli di altre questioni, pena l’assenza di coerenza e la messa in evidenza della sua differenza dal sistema. Non vi è «la necessità pura e assolta di un ordine sistematico, ma deve tenere conto del livello dell’interlocutore, del tempo del logos concreto in cui si esprime» (Ivi, p. 63). Un logos concreto che, semmai, è sistema vivente. Per cui potremmo così dire piuttosto che «[o]gni logos è un “sistema”, ma l’insieme […] non forma un sistema» (Ibidem). È un metodo che «non consiste nell’esporre un sistema, ma nel dare risposte precise a domande precise» (Ivi, p. 64). ↩︎

  173. Cfr. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 61. ↩︎

  174. Ivi, p. 63. ↩︎

  175. Cfr. Ivi, pp. 65 sgg. ↩︎

  176. Ivi, p. 62. ↩︎

  177. Ivi, p. 66. ↩︎

  178. Ivi, p. 70. ↩︎

  179. Ivi, p. 144. ↩︎

  180. Cfr. Ivi, p. 68. ↩︎

  181. Ibidem↩︎

  182. Ivi, p. 67. ↩︎

  183. Ibidem↩︎

  184. Cfr. Ivi, p. 68. ↩︎

  185. Cfr. Ibidem↩︎

  186. Cfr. Ivi, p. 70. ↩︎

  187. Ivi, p. 82. ↩︎

  188. I punti d’appoggio si rintracciano nell’infinito, Karl Jaspers, Psychologie der Weltanschauungen, Verlag von Julius Springer, Berlin 1925 (1919); tr. it. di Vincenzo Loriga, Psicologia delle visioni del mondo, Astrolabio, Roma 1950, pp. 378 sgg. Anche nelle situazioni negative si può scorgere una dimensione di senso e di elevazione (cfr. Ivi, p. 287), infatti la «malinconia rimane sempre: se essa si dilegua del tutto, è segno che la vita dello spirito è cessata» (Ivi, p. 490). ↩︎

  189. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 164. ↩︎

  190. Ibidem↩︎

  191. Ivi, p. 143. ↩︎

  192. Ivi, p. 97. ↩︎

  193. Ivi, pp. 125-126. ↩︎

  194. Ivi, p. 64. ↩︎

  195. Cfr. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 37. ↩︎

  196. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 36. ↩︎

  197. Umberto Curi, Le parole della cura. Medicina filosofia, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017, p. 57. ↩︎

  198. Si veda Luigina Mortari, La pratica dell’aver cura, cit., pp. 93 sgg. ↩︎

  199. Si veda Michel Foucault, Histoire de la sexualité, III. Le souci de soi, Éditions Gallimard, Paris 1984; tr. it. di Laura Guarino, La cura si sé. Storia della sessualità, III, Feltrinelli, Milano 1984 (SE, Milano 2015) e Morale e pratica di sé in Id., L’usage des plaisirs, Éditions Gallimard, Paris 1984 ; tr. it. di Laura Guarino, L’uso dei piaceri. Storia della sessualità 2, Feltrinelli, Milano 1984, pp. 30 sgg. ↩︎

  200. A cui è dedicato un testo di Luther H. Martin, Huck Gutman, Patrick H. Hutton (ed.), Technologies of the Self: A Seminar with Michel Foucault, The University of Massachusetts Press, Amherts 1988; tr. it. di Saverio Marchignoli, Un seminario con Michel Foucault. Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992. ↩︎

  201. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 170. ↩︎

  202. Ivi, p. 171. ↩︎

  203. Cfr. Ibidem↩︎

  204. Ibidem↩︎

  205. Ivi, p. 172. ↩︎

  206. Ibidem↩︎

  207. Ivi, p. 175. ↩︎

  208. Ivi, p. 59. ↩︎

  209. Ibidem↩︎

  210. Cfr. Ivi, pp. 49 sgg. e pp. 195-196. ↩︎

  211. Ivi, p. 51. ↩︎

  212. Ivi, p. 52. ↩︎

  213. Cfr. Ivi, p. 54. ↩︎

  214. Ivi, p. 56. ↩︎

  215. Ivi, p. 61. ↩︎

  216. Ibidem↩︎

  217. Ivi, p. 62. ↩︎

  218. Ibidem↩︎

  219. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 44. ↩︎

  220. Ibidem↩︎

  221. Cfr. Max Scheler, Wesen und Formen der Sympathie, Verlag von Friedrich Cohen, Bonn 1923; tr. it. di Laura Boella, Essenza e Forme della Simpatia, Franco Angeli, Milano 2010, p. 61. ↩︎

  222. Cfr. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., pp. 83 e 118 in cui affronta il problema dello stimolo nel rapporto con la reazione dell’organismo e del valore come appartenente alla sfera del sentire (Fühlen) e non dell’intenzione. Interessante mettere in relazione le analisi di Scheler con le posizioni di Jakob von Uexküll. Per Uexküll «un cospicuo numero di oggetti possiede la “tonalità di seduta”: casse, scaffali, addirittura uno sgabello rovesciato» (Jakob von Uexküll, Streifzüge durch die Umwelten von Tieren und Menschen: Ein Bilderbuch unsichtbarer Welten, Verstandliche Wissenschaft, Einundzwanzigster Band, Verlag von Julius Springer, Berlin 1934; tr. it. di Marco Mazzeo, Ambienti animali e ambienti umani. Una passeggiata in mondi sconosciuti e invisibili, Quodlibet, Macerata 2010, p. 105). Bisogna infatti tener presente che «non sempre cerchiamo un oggetto solo per mezzo di un’immagine percettiva: molto spesso ci serviamo anche di un’immagine operativa. Di solito non cerchiamo una sedia in particolare, ma qualcosa su cui sederci, cioè un oggetto con una determinata tonalità d’uso. In questo caso, non si può parlare di immagine, bensì di tonalità di ricerca» (Ivi, p. 138). Qui Uexküll, introducendo la tonalità di ricerca (Suchton), inserisce un elemento «in grado di disattivare l’immagine percettiva» (Ivi, p. 135) che risulta di estrema importanza per una delineazione del rapporto organismo-ambiente. ↩︎

  223. Cfr. inoltre Guido Cusinato, Mi emoziono, dunque esisto. Un’ipotesi antropogenetica nella prospettiva di Max Scheler, in Linda M. Napolitano Valditara, Curare le emozioni, curare con le emozioni, Mimesis, Milano-Udine 2020, pp. 167-191, particolare pp. 171 sgg. ↩︎

  224. Edoardo Simonotti, Introduzione, in Max Scheler, Ordo amoris in GW X, cit., pp. 345-376; tr. it. di Edoardo Simonotti, Ordo amoris, Morcelliana, Brescia 2008, p. 19. ↩︎

  225. Ivi, p. 52. ↩︎

  226. L’unipatia (Einsfühlung) è la componente primordiale che consente la comunicazione tra gli esseri viventi. Cfr. Max Scheler, Essenza e Forme della Simpatia, cit. ↩︎

  227. Cfr. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 219. ↩︎

  228. Ivi, p. 192. ↩︎

  229. Ivi, p. 199. ↩︎

  230. Ivi, p. 225. ↩︎

  231. Ivi, p. 259. ↩︎

  232. Ibidem↩︎

  233. Ivi, p. 194. ↩︎

  234. Ivi, p. 195. ↩︎

  235. Ivi, p. 220. ↩︎

  236. Ivi, p. 196. Scheler in Essenza e Forme della Simpatia parla di ordo amoris – nel testo e non nelle note – esplicitamente per ben due volte. A p. 38, nella Premessa alla seconda edizione (scritta nel 1922), parlando di «“corretto ordo amoris”, cioè della corretta “cooperazione delle funzioni simpatetiche” nella psiche umana, cui attribuisco anche un significato culturale e pedagogico» (Max Scheler, Essenza e Forme della Simpatia, cit., p. 38), presentando quanto scritto nel capitolo A VII. A p. 122. dopo aver parlato delle leggi di fondazione ci dice che «è dunque possibile, conoscendo ormai le leggi di fondazione appena formulate, delineare un quadro normativo del “retto” ordo amoris, che si fondi sull’ordine gerarchico dei valori di quelle» (Ivi, p. 122). ↩︎

  237. Max Scheler, Über Ressentiment und moralisches Werturteil. Ein Betrag zur Pathologie der Kultur, in GW III, Vom Umsturz der Werte. Abhandlungen und Aufsätze, hrsg. von Maria Scheler, Francke Verlag, Bern-München 1955, pp. 33-147 (or. in «Zeitschrift für pathologische Psychologie», I, 2-3, Engelmann Verlag, Leipzig 1912); tr. it. di Angelo Pupi rivista da Laura Boella, Il risentimento, Chiarelettere, Milano 2019, p. 8. ↩︎

  238. Cfr. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., pp. 44 sgg. ↩︎

  239. Ivi, pp. 45-46. ↩︎

  240. Ivi, p. 48. ↩︎

  241. Ivi, p. 49. ↩︎

  242. Ivi, p. 39. ↩︎

  243. Ibidem. Per cui emerge «la necessità ancora indifferenziata che l’uomo ha di esprimersi creando, rendendo la sua espressione creazione oggettiva» (Ibidem). ↩︎

  244. Guido Cusinato, Biosemiotica e psicopatologia dell’ordo amoris, cit., p. 190. ↩︎

  245. Max Scheler, Essenza e Forme della Simpatia, cit., p. 130. ↩︎

  246. Pierre Hadot, Esercizi spirituali e filosofia antica, cit., p. 27. ↩︎

  247. Max Scheler, Ordo amoris, cit., p. 52. ↩︎

  248. María Zambrano, Verso un sapere dell’anima, cit., p. 101. ↩︎

  249. Cfr. Ivi, p. 102. ↩︎

  250. Cfr. Ivi, p. 103. ↩︎

  251. Ibidem↩︎

  252. Ibidem↩︎

  253. Cfr. Ivi, p. 104. ↩︎

  254. Ivi, p. 106. ↩︎

  255. Ivi, p. 107. ↩︎

  256. Ibidem↩︎

  257. Cfr. Ivi, pp. 109-110. ↩︎

  258. Ivi, p. 110. ↩︎

  259. Ivi, p. 109. ↩︎

  260. Ibidem↩︎

  261. Ivi, p. 110. ↩︎

  262. Ivi, p. 111. «Freud ci porge uno specchio in cui vediamo solo la scimmiesca immagine di un demone: il demone impetuoso del sesso» (Ivi, p. 113). ↩︎

  263. Cfr. Ivi, p. 116. ↩︎

  264. Ibidem↩︎

  265. Cfr. Umberto Curi, Le parole della cura, cit., p. 56. ↩︎

  266. René A. Spitz, La première année de la vie de l’enfant, Presses Universitaires de France, Paris 1958; tr. it. di Giuseppe Galli e Anna Arfelli-Galli, Il primo anno di vita del bambino, Giunti, Firenze 2009 (1962). ↩︎

  267. Cfr. Ivi, pp. 131 sgg. Inoltre è «lo studio esatto e continuo dei processi risultanti dall’interazione reciproca fra aspetti genetici e dinamici che contraddistingue il metodo psicoanalitico da ogni altra psicologia» (Ivi, p. 72). Per il metodo in sé Spitz si avvalse di criteri differenti da quello psicoanalitico tout court visto che durante il periodo preverbale non può essere applicato. Così attraverso l’osservazione diretta, e nella modalità della psicologia sperimentale, applicò: il criterio della validità, consistente nell’uso «dei test e dei metodi di osservazione precedentemente standardizzati su di un numero sufficiente di bambini» (Ivi, p. 11); il criterio della fedeltà, ovvero le «ricerche sono state eseguite alternativamente da un osservatore maschile e da un osservatore femminile» (Ibidem); il metodo longitudinale, consistente nell’aver «seguito i nostri soggetti per un periodo relativamente protratto, fino anche ai due anni» (Ibidem); e il correlato metodo trasversale per cui «[a]vendo osservato un numero di bambini sufficientemente elevato, abbiamo potuto trarre conclusioni statisticamente significative» (Ibidem). ↩︎

  268. Anna Freud, Prefazione a René A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, cit., pp. XI-XII. ↩︎

  269. Cfr. Ivi, pp. 136 sgg. ↩︎

  270. Cfr. Ivi, p. 136. ↩︎

  271. Ivi, p. 137. ↩︎

  272. Ibidem↩︎

  273. Ivi, pp. 137-138. ↩︎

  274. Ivi, p. 140. ↩︎

  275. Cfr. Ivi, p. 142. ↩︎

  276. Ibidem↩︎

  277. Cfr. Ivi, p. 5. ↩︎

  278. Ivi, p. 6. ↩︎

  279. Cfr. Ibidem↩︎

  280. Ivi, p. 8. ↩︎

  281. Cfr. Ibidem↩︎

  282. Ivi, p. 9. ↩︎

  283. Ibidem↩︎

  284. Ivi, p. 10. ↩︎

  285. Ibidem↩︎

  286. Cfr. Ibidem↩︎

  287. Cfr. Ivi, p. 12. ↩︎

  288. Cfr. Ibidem↩︎

  289. Ivi, p. 15. ↩︎

  290. Lo stadio preoggettuale coincide con la fase del narcisismo primario in cui il neonato «è incapace di distinguere un oggetto dall’altro, il suo proprio corpo dall’ambiente. Ne risulta che in questo periodo il lattante non è in grado di differenziarsi dal suo ambiente, anzi percepisce il seno materno come una parte del suo corpo» (Ivi, p. 16). Si tratta ovviamente di funzioni prettamente fisiologiche poiché quelle psichiche si svilupperanno in seguito (cfr. Ivi, p. 18). ↩︎

  291. Dal secondo mese il lattante manifesta interesse per il viso umano, nel terzo l’interesse «si cristallizzerà […] in una reazione di forma particolare e specifica. […] Risponderà così prontamente col sorriso al viso dell’adulto» (Ivi, p. 22). Si tratta di una prima manifestazione intenzionale e attiva, un «debole segno del passaggio dalla passività completa ad un comportamento attivo, che va progressivamente aumentando» (Ivi, p. 23). Adesso egli reagisce sorridendo al volto che gli si presenta di fronte, ben visibile e in movimento (cfr. Ibidem). Dopo aver riconosciuto il viso il bambino riconoscerà «il biberon, questa “cosa” che gli viene presentata più volte al giorno, che manipola giornalmente» (Ivi, p. 50), per quanto riguarda la data di comparsa «parliamo di valori medi che possono oscillare entro limiti ampi» (Ibidem). ↩︎

  292. Cfr. Ivi, p. 15. ↩︎

  293. Ivi, p. 16. ↩︎

  294. Ivi, p. 20. ↩︎

  295. Cfr. Ibidem↩︎

  296. Cfr. Ivi, pp. 22 sgg. ↩︎

  297. Ivi, p. 24. ↩︎

  298. Cfr. Ivi, p. 25. ↩︎

  299. Ivi, p. 27. ↩︎

  300. Ibidem↩︎

  301. Ivi, p. 28. ↩︎

  302. Ivi, p. 29. ↩︎

  303. Ibidem↩︎

  304. Cfr. Ibidem↩︎

  305. Ivi, p. 30 (corsivo originale). ↩︎

  306. Cfr. Ivi, pp. 34 sgg. ↩︎

  307. Ivi, p. 35. ↩︎

  308. Cfr. Ivi, p. 37. ↩︎

  309. Cfr. Ivi, pp. 22 sgg. ↩︎

  310. Cfr. Ivi, pp. 52 sgg. Se nel sorriso il viso viene riconosciuto nel confronto con le tracce mnestiche del volto precedentemente visto e accettato in quanto omologo, nel «caso dell’angoscia degli 8 mesi, la percezione del viso dell’estraneo in quanto viso, viene confrontata con le tracce mnestiche del viso della madre. Viene riscontrato diverso da questo e rifiutato» (Ivi, p. 57). Le conseguenze dettate dal sorgere del secondo organizzatore sono numerose. Compaiono nuove facoltà come la comprensione dei gesti, le sfumature negli atteggiamenti affettivi, la possibilità di partecipare al gioco, la comprensione delle proibizioni e la comparsa dei meccanismi di identificazione (cfr. Ivi, pp. 67 sgg.). Si deve considerare che «l’angoscia degli 8 mesi non è un sintomo patologico; al contrario è un sintomo di progresso nell’evoluzione della personalità, un sintomo che il bambino ha acquisito la capacità di distinguere fra amico ed estraneo» (Ivi, p. 110). ↩︎

  311. Cfr. Ivi, pp. 72 sgg., in cui «l’oggetto libidico infligge una frustrazione al bambino, provocando il suo dispiacere. Il gesto di diniego e il “no” pronunciato dall’oggetto libidico sono incorporati nell’Io del bambino sotto forma di tracce mnestiche. La carica affettiva spiacevole, separata da questa rappresentazione, provoca nell’Es una carica aggressiva che verrà associata alla traccia mnestica, nell’Io» (Ivi, p. 78). Il «no» come terzo organizzatore poggia le basi dello sviluppo sociale del bambino che si umanizza, si fa zoon politikon. Grazie ad una rimozione dell’energia aggressiva il bambino «separa da quanto percepisce alcuni elementi e forma con questi una sintesi, che servirà da simbolo o da concetto; il primo di questi concetti astratti nella vita del bambino è la negazione» (Ivi, p. 80). ↩︎

  312. Ivi, p. 37. ↩︎

  313. Ivi, p. 38. ↩︎

  314. Ivi, p. 39. ↩︎

  315. Ivi, p. 40. ↩︎

  316. Cfr. Ivi, p. 41. ↩︎

  317. Ibidem↩︎

  318. Ibidem↩︎

  319. Ibidem↩︎

  320. Ivi, p. 42. ↩︎

  321. Ivi, p. 44. ↩︎

  322. Cfr. Ibidem↩︎

  323. Ibidem↩︎

  324. Ibidem↩︎

  325. Ivi, p. 45. ↩︎

  326. Ibidem↩︎

  327. Ibidem↩︎

  328. Ivi, p. 46. ↩︎

  329. Cfr. Ivi, p. 47. ↩︎

  330. Ibidem↩︎

  331. Max Scheler, Essenza e forme della simpatia, cit., p. 62. ↩︎

  332. René A. Spitz, Il primo anno di vita del bambino, cit., p. 49. ↩︎

  333. Cfr. Ibidem↩︎

  334. Ibidem↩︎

  335. Ibidem↩︎

  336. Ivi, p. 50. ↩︎

  337. Cfr. Ivi, p. 66. ↩︎

  338. Cfr. Ivi, pp. 87 sgg. ↩︎

  339. Ivi, p. 87. ↩︎

  340. Ibidem↩︎

  341. Ibidem↩︎

  342. Ivi, p. 89. ↩︎

  343. Ibidem↩︎

  344. Ivi, p. 90. ↩︎

  345. Cfr. Ibidem↩︎

  346. Ibidem↩︎

  347. Cfr. Ivi, pp. 91-92. ↩︎

  348. Cfr. Ivi, p. 93. ↩︎

  349. Ivi, p. 92. ↩︎

  350. Ibidem↩︎

  351. Cfr. Ivi, p. 95, in questo caso si parla di rifiuto della maternità, probabilmente anche dell’atto sessuale compiuto. ↩︎

  352. Cfr. Ivi, pp. 95 sgg., qui il neonato «va incontro al coma, con dispnea […] pallore estremo e sensibilità ridotta» (Ivi, p. 95). In questi casi la madre tratta il bambino come fosse un estraneo, come una cosa, con atteggiamento di rifiuto e di rigidità. Tuttavia, ovviamente, il rifiuto non è verso il singolo neonato «ma verso il fatto di avere un bambino» (Ivi, p. 97). ↩︎

  353. Cfr. Ivi, pp. 98 sgg. Si tratta di una maternal overprotection↩︎

  354. Cfr. Ivi, pp. 107 sgg., qui «l’atteggiamento materno consiste in manifestazioni di angoscia che si estrinsecano prevalentemente, ma non esclusivamente, nei confronti di tutto ciò che riguarda il proprio bambino. È subito evidente che quest’angoscia manifesta corrisponde ad un’ostilità repressa, particolarmente intensa» (Ivi, p. 107). In questo caso al bambino può sorgere una dermatite atopica. Spitz nelle sue ricerche notò che si trattava di un fattore psicologico legato al rapporto madre-figlio, «dato che tutte le altre variabili dell’ambiente erano controllate e identiche per tutti i bambini» (Ivi, p. 109). Quanto accadeva si inseriva all’interno di un «investimento aumentato dei recettori cutanei» (Ivi, p. 110). Mentre le madri avevano un atteggiamento che «esprime un’ostilità inconscia» (Ivi, p. 111). Pertanto da un lato si ha l’ostilità e la personalità infantile della madre che si manifesta «sotto forma di preoccupazione angosciosa verso il suo bambino, che non ama toccarlo o prenderlo in cura, privandolo così sistematicamente di contatti cutanei» (Ivi, p. 112); dall’altro si ha un «bambino congenitamente dotato di un aumentato investimento delle reazioni cutanee, proprio quelle che la madre rifiuta di provocare» (Ibidem). Inoltre, alla dermatite si aggiungeva un ritardo dell’apprendimento e della capacità di accettare rapporti sociali (cfr. Ibidem). In conclusione i bambini che necessitavano le scariche di pulsione non trovavano sfogo, avendo madri che li privavano di rapporti fisici, sfogandosi, così, attraverso reazioni cutanee e dermatiti (cfr. Ivi, p. 113), ovvero «i segnali ambigui ai quali erano esposti fin dalla nascita, in modo costante, sembrano essersi “somatizzati”» (Ivi, p. 115). ↩︎

  355. Cfr. Ivi, pp. 117-118. L’«atteggiamento materno che oscilla “rapidamente” fra tenerezza e ostilità manifesta, pare conduca frequentemente a disturbi della motricità infantile» (Ivi, p. 117), i quali possono essere divisi in ipermotricità e ipomotricità. Questi bambini, ancora, avevano problemi nell’ambito sociale e nel rapportarsi con gli oggetti. Pertanto si tratta di bambini che «non sono riusciti a formare rapporti oggettuali stabili» (Ivi, p. 118), le cui madri, presentando umori con frequenti alti e bassi, portavano i bambini ad essere privati di un oggetto libidico con conseguente identificazione nel movimento costante di «un’attività senza oggetto, o piuttosto un oggetto sostitutivo, costituito dalle pulsioni narcisistiche primarie, cioè dal proprio corpo» (Ibidem). ↩︎

  356. Cfr. Ivi, pp, 118-120. Qui l’atteggiamento delle madri «resta costante per diversi mesi. Improvvisamente diventa l’opposto, rimanendo anche questa volta tale per un lungo periodo» (Ivi, p. 118). Il fenomeno particolare consisteva nella coprofilia e coprofagia. I cambiamenti delle madri erano costanti per settimane e mesi, da qui il termine ad «onde lunghe». ↩︎

  357. Cfr. Ivi, p. 120. Le madri qui vivono un conflitto cosciente. Per loro il bambino non è un oggetto d’amore, «esse si rendono conto coscientemente che il loro atteggiamento verso il figlio è improprio e lo compensano artificialmente con un atteggiamento assai tipico: è un miscuglio di dolcezza angelica, untuosa e nello stesso tempo quasi acida, agrodolce» (Ibidem). ↩︎

  358. Ivi, p. 93. ↩︎

  359. Ibidem↩︎

  360. Cfr. Ivi, pp. 121-123. ↩︎

  361. Ivi, p. 122. ↩︎

  362. Cfr. Ivi, pp. 123 sgg. ↩︎

  363. Ivi, p. 123. ↩︎

  364. Ivi, p. 124. ↩︎

  365. Cfr. Ivi, p. 125. ↩︎

  366. Cfr. Ivi, p. 126. ↩︎

  367. Ivi, p. 127. ↩︎

  368. Cfr. Ivi, p. 128. ↩︎

  369. Ivi, p. 134. ↩︎