1.
Semplificando molto si può dire che in letteratura l’analisi delle credenze religiose opti per l’uno o l’altro fra due approcci mainstream. Da un lato stanno coloro che muovono esplicitamente da un orizzonte esternalista forte; orizzonte secondo il quale l’aspetto rilevante di una credenza consiste nel modo in cui essa è formata. Indipendentemente dal fatto che le credenze si ritengano giustificate per il loro essere prodotte da una pratica doxastica affidabile,1 oppure che si affermino garantite per il loro essere costituite in virtù di processi doxastici correttamente funzionanti,2 gli autori che sostengono un punto di vista esternalista forte assumono la sostanziale equiparabilità di credenze ordinarie e credenze religiose dal punto di vista della razionalità dell’attività doxastica che conduce alla loro assunzione.
Su un altro fronte stanno invece coloro che battono una pista esternalista, sebbene debole. Questi autori ritengono ancora che sia la natura del processo che produce una credenza a impegnare razionalmente il soggetto alla sua assunzione. Tuttavia, l’esternalismo debole è disposto ad ammettere che sia necessario distinguere fra almeno due forme fondamentali di processi doxastici, in virtù dei quali porre una differenza generica fra due tipi di credenze: da un lato l’assunzione di proposizioni fondamentali (framework propositions o cornerstone propositions) per la costituzione di un determinato ambito di discorso; dall’altro la deduzione di credenze ordinarie il cui valore di verità è stipulato nei termini degli assunti semantici impliciti nelle proposizioni fondamentali.3
La strada che vorrei seguire nel presente lavoro è alternativa all’uno e all’altro orientamento nella misura in cui trae il suo fondamento dal punto di vista internalista che ha caratterizzato l’analisi (neo) empirista (logica) delle pratiche doxastiche. Secondo tale approccio, ciò che qualifica una credenza (e quindi la razionalità o meno della sua assunzione) è il suo contenuto semantico e il metodo di analisi di esso. Rudolf Carnap e gli altri filosofi del circolo di Vienna ritengono che la via maestra per la conduzione di tale analisi sia l’applicazione di una forma o l’altra del principio di verificazione. Detto in modo molto rozzo: il significato di una credenza — o meglio: di un insieme di credenze che collettivamente considerate determinano la natura di un ambito di discorso -, è ciò che essa esprime referenzialmente; ossia la sua capacità di catturare, rappresentare o agire su un quid di realtà fattuale. Di conseguenza, il criterio per la giustificazione di una credenza è la sua adeguatezza espressiva nella resa concettuale delle proprietà del proprio bersaglio referenziale.
Alla luce di tale criterio i neoempiristi logici hanno distinto fra credenze legittime o illegittime (dal punto di vista della razionalità della loro assunzione) nei termini della referenzialità o meno del loro contenuto. Notoriamente, l’applicazione del principio di verificazione ha condotto Carnap e gli altri filosofi del circolo di Vienna all’emissione di un giudizio di illegittimità nei confronti delle proposizioni metafisiche e religiose.
La mia intuizione di fondo è che, al fine di condurre una analisi empiricamente fondata dall’attività doxastica e della natura delle credenze religiose, sia necessario da un lato accettare l’istanza internalista dell’empirismo, dall’altro dissociare tale accettazione dall’emissione di un giudizio di illegittimità nei confronti delle proposizioni metafisiche e religiose. Vale a dire che, mentre la distinzione fra credenze contenutisticamente referenziali e credenze non contenutisticamente referenziali caratterizza correttamente le proprietà peculiari delle credenze degli ambiti di discorso di ordine referenzialmente fattuale e di quelle di ordini di discorso non referenzialmente fattuali, tale distinzione non implica un giudizio di illegittimità delle seconde rispetto alle prime, alla luce della diversità della loro natura doxastica. Ciò potrebbe essere espresso dicendo che non ci sono motivi particolari per giudicare la legittimità delle seconde alla luce di criteri di legittimità delle prime, perché la diversità doxastica delle une e delle altre non implica che la validità delle seconde debba essere misurata sulla validità delle prime.
2.
Tutte le credenze possono essere distinte in fattuali e non fattuali alla luce del contenuto che esse affermano. Le credenze fattuali esprimono l’essere così e così di una certa esperienza attuale o possibile: esse descrivono lo stato del mondo che appare esperienzialmente così e così oppure la struttura ontologica che determina l’essere così e così degli stati del mondo. Al contrario, le credenze non fattuali esprimono un certo punto di vista semantico (scilicet, interpretativo) relativo all’essere così e così di un determinato stato del mondo oppure dei fatti che determinano l’essere così e così degli stati del mondo.
Le credenze religiose hanno natura eminentemente non fattuale. Esse non riguardano, infatti, descrizioni di fatti empirici, ma valutazioni assiologiche della natura di una dimensione trascendente l’esperienza. Di conseguenza, esse non esprimono direttamente un’esperienza, ma un’analisi semantica (valutativamente assiologica) di un’esperienza. Vale a dire che il contenuto di una credenza religiosa non è (generalmente) un fatto, ma l’interpretazione di un fatto. Credo sia evidente come fra i segni che marcano la differenza fra carattere fattuale e carattere interpretativo nell’attività credenziale sia da rintracciarsi anche il differente grado di condivisibilità transcontestuale dei quadri referenziali dei termini occorrenti nell’uno e nell’altro tipo di credenza: poiché le esperienze religiose non sono (generalmente) la presentazione di oggetti, eventi e stati di fatto relativi a una dimensione trascendente l’esperienza, ma la presentazione (assiologicamente valutativa) di una interpretazione di oggetti, eventi e stati di fatto nei termini della natura di una dimensione trascedente l’esperienza, le credenze religiose non possono essere formulate in funzione di un’ampia condivisione di quadri referenziali che catturino comuni contenuti transcontestuali. Di conseguenza, esse risultano costitutivamente esposte alla indefinita pluralità semantica dei materiali narrativi depositati entro le tradizioni interpretative.
Poiché l’esistenza transcontestuale di oggetti, eventi e stati di fatto fornisce una fonte normativa intersoggettivamente condivisa per i contenuti fattuali espressi da una credenza (fonte normativa intersoggettivamente condivisa perché trascendente l’occorrere peculiare delle esperienze individuali), tale esistenza produce adeguazione espressiva dei termini occorrenti nelle proposizioni per mezzo della condivisione intersoggettiva dei quadri referenziali per essi.
Al fine di provare questa tesi si consideri la proposizione fattuale la neve è bianca. Quando si enuncia una tale proposizione, l’analisi semantica di essa è funzione di un quadro referenziale per i termini impiegati che produce normativamente un accordo condiviso fra tutti i parlanti della lingua in cui tali termini occorrono. Infatti, nel modo ordinario di utilizzare una lingua, non sembra esserci alcuna possibilità di negare che (almeno in prima istanza) la neve sia bianca. Naturalmente lingue diverse possono esprimere gamme di colori non sovrapponibili. Tuttavia, per ciascuna sfumatura di colore ordinariamente selezionata per l’uso comune, se l’esperienza di presentazione della sfumatura di colore y mostra che essa appartenga all’oggetto x, allora la credenza x è y è assunta in modo da non promuovere disaccordo. Altrimenti detto: chiunque parli correttamente una lingua, non può essere in disaccordo su quali proprietà referenziali del contenuto fattuale di una credenza siano affermate dalla sua enunciazione.
Assumo, perciò, la tesi che la condivisione di quadri referenziali per i termini occorrenti nelle credenze dipenda in modo direttamente proporzionale dal grado di fattualità della credenza che per mezzo di essi è espressa. Una alternativa formulazione è quella secondo la quale quanto più le attività doxastiche risultino espressive di fatti, ossia di descrizioni di contenuti transcontesualmente trascendenti la presentazione determinata dei medesimi nelle esperienze, tanto più le attività doxastiche saranno produttrici di quadri referenziali per i termini occorrenti nelle credenze che risultino ampiamente condivisi. Cioè, i fatti determinano l’attrito espressivo delle credenze rispetto alle esperienze, e, per questa ragione, essi sono il bersaglio ultimo dell’intenzionalità espressiva dei quadri referenziali dei termini occorrenti nelle credenze. Si dirà, allora, che un’esperienza è ordinariamente la presentazione di fatti (oggetti, eventi, stati di fatto) che l’attività doxastica rappresenta in funzione di un’ampia condivisione intersoggetiva dei quadri referenziali per i termini occorrenti nelle credenze.
Introduco adesso due ulteriori nozioni utili alla comprensione delle attività doxastiche. Denomino relazione evidenzialmente empirica di sostegno fra esperienze di fatti e credenze fattuali la relazione fra fatti accertati in prima persona e l’espressione doxastica dell’esperienza che presenta tali fatti. Denomino relazione evidenzialmente doxastica di giustificazione fra credenze fattuali e credenze interpretative la relazione fra le determinate espressioni doxastiche delle esperienze che presentano dei fatti e l’interpretazione doxastica di tali determinate espressioni.
A questo punto si hanno tutti gli elementi necessari a caratterizzare l’attività doxastica in genere. Siano F un fatto; E una esperienza; P una credenza; Pe una credenza fattuale; Pi una credenza interpretativa; QR il quadro referenziale per i termini occorrenti in Pe; A un’analisi semantica per Pe; Re una relazione empirica di sostegno fra F ed E; Rd una relazione doxastica di giustificazione fra Pe e Pi; x un individuo. Si avrà che condizione di possibilità per assumere una credenza è la seguente:
- x crede che P solo se x accede a un qualche A (in funzione del quale è assegnato un significato al contenuto di P).
Si danno due casi limite:
- se P è Pe, A è identico a QR; il contenuto di Pe è una rappresentazione di E e x crede che P perché si dà Re (F, E);
- se P è Pi, A non è identico QR; il contenuto di Pi è una interpretazione di E e x crede che P perché si dà Ri (Pe, A).
Si dà inoltre il caso ordinario:
- P è una miscela di Pe e Pi; Pe e Pi contribuiscono a P in modo inversamente proporzionale; x crede che P per il sussistere di una relazione (di proporzionalità inversa) fra Re e Ri.
Se ne conclude che l’attività doxastica produce credenze che si trovano su uno spettro che va dal massimo grado di espressività (fattuale) e minimo grado di interpretatività (semanticamente analizzante) al minimo grado di espressività (fattuale) e massimo grado di interpretatività (semanticamente analizzante). Cioè, quanto più una credenza si trovi vicina al limite fattuale, tanto più tale credenza sarà espressa nei termini di analisi semantiche che tenderanno a coincidere con l’assunzione di quadri referenziali ampiamente condivisi; al contrario, quanto più una credenza si trovi vicina al limite interpretativo, tanto più tale credenza sarà espressa nei termini di analisi semantiche che tenderanno a ignorare l’utilizzo comune dei termini credenziali secondo quadri referenziali ampiamente condivisi.
Tanto il limite fattuale che il limite interpretativo costituiscono due casi ideali. Le credenze ordinarie stanno, infatti, generalmente nel territorio compreso fra fattualità e interpretatività (la mia intuizione è che esse dovrebbero rispondere a una distribuzione gaussiana, ma, almeno per quanto ne so io, le ricerche empiriche che sono mirate alla rappresentazione delle tipologie di credenza non sono condotte nei termini delle due funzioni doxastiche della fattualità e della interpretatività).
Le credenze fattuali occupano la porzione dello spettro doxastico vicina al limite fattuale. Esse sono credenze tendenzialmente espressive, nelle quali fatti ed esperienze appaiono stare fra loro in una relazione empirica di sostegno.
Le credenze religiose occupano, invece, la porzione dello spettro doxastico vicina al limite opposto. Esse sono per lo più interpretative: esprimono relazioni doxastiche di sostegno fra credenze espressive e analisi semantiche.
Lo schema seguente rappresenta graficamente la struttura dello spettro doxastico:
A partire da questa strutturazione generale dello spettro doxastico è possibile mettere in piena luce le proprietà peculiari delle credenze religiose. In primo luogo, a causa della propria natura non fattuale, le credenze religiose devono essere caratterizzate come analisi semantiche di situazioni fattuali condotte nei termini di quadri referenziali non condivisi. In secondo luogo, data la non condivisione dei quadri referenziali per i termini occorrenti in esse, le credenze religiose sembrano costitutivamente vaghe, generalmente equivoche e referenzialmente opache.
3.
Se così stanno le cose, credere religiosamente sembra, dunque, consistere nell’assumere qualitativamente l’essere il caso di un certo contenuto (a), nel non riuscire a dominare l’emergere di dissonanze cognitive (b) e nel ritenere contenuti in modalità de dicto (c). Ossia:
a) ciò che è doxasticamente rilevante nell’adesione a una certa tradizione religiosa consiste nell’assunzione di un insieme di credenze fondamentali che esprimono l’interpretazione religiosa dell’esperienza da parte dell’aderente a essa; rispetto alle quali il peso dell’evidenza fattuale gioca un ruolo marginale, quando non è del tutto assente;
b) il processo di esplicitazione di tutte le credenze implicitamente assunte nelle credenze confessate porta all’emergere di contraddizioni non aggredibili da razionalizzazioni (psicologiche), dato che credenze diverse ritenute da un aderente a una tradizione religiosa sono in genere doxasticamente sostenute in funzione della pluralità dei pacchetti doxastici che sono da tale aderente peculiarmente rinvenuti nella tradizione di appartenenza;
c) il contenuto di esse non è analizzabile esclusivamente alla luce dei termini referenziali rilevanti; cioè, le credenze religiose non sono ordinariamente sostenute da alcuna evidenza fattuale, essendo piuttosto doxasticamente giustificate dalle analisi semantiche volta a volta assunte.
Illustro il perché. A tal fine ritengo molto utile e illuminante introdurre del materiale narrativo relativo all’autointerpretazione dei processi di conversione da parte di soggetti che abbiano cambiato la propria affiliazione religiosa. Tale materiale proviene da testi letterariamente definibili come letteratura di conversione (testimonianze A-D) e da una indagine sociologica qualitativa (testimonianza E). Notoriamente, l’opinione che la letteratura di conversione non fornisca indicazioni utili alla comprensione delle reali dinamiche psicologiche connesse all’autoattribuzione (ed eventualmente alla revisione) di credenze religiose è largamente condivisa fra gli studiosi (la letteratura di conversione risponde per lo più a criteri canonici di ordine letterario che costituiscono la narrazione del processo di conversione secondo una precisa struttura semiologica data a priori dalla tradizione del genere). Anche il ricorso al report sociologico sembra inadatto all’individuazione delle cause reali del processo di conversione (se mai esiste un fenomeno generale di ordine transcontestuale che risponda all’espressione processo di conversione): esso perde, infatti, gran parte del proprio appeal euristico quando i fatti emergenti dall’indagine siano estrapolati dal contesto di studio e generalizzati a differenti configurazione sociali.
Tuttavia, ciò non inficia l’uso di testimonianze di questo tipo nella caratterizzazione delle credenze religiose. Esse non sono, infatti, utilizzate al fine di analizzare psicologicamente il decorso (psicologico) dell’esperienza doxastica, né di individuare universali transcontestuali rispetto a ogni determinata tradizione. Piuttosto, isolando la testimonianza dal contesto narrativo o sociale in cui essa appare, si intende mettere a fuoco il modo nel quale siano espressivamente individuati, per mezzo dell’autoattribuzione doxastica, i tratti caratteristici della relazione fra evidenza e credenza religiosa. Cioè, i canoni propri di un genere letterario costituiscono i contorni strutturali che rendono possibile l’espressione di un contenuto (così come le strutture sociali di un dato contesto). Tale contenuto risponde in parte ai processi di strutturazione canonici e socio-culturalmente instanziati, in parte alla peculiarità delle esperienze che sono espressivamente individuate e veicolate da un testo o da un’intervista. Di conseguenza, dissociando il contorno letterario strutturale della narrativa di conversione (il modo nel quale tutti i processi di conversione entro un certo contesto seguono un certo pattern) dall’esperienza determinata che in esso si esprime, sembra possibile fare ricorso alle informazioni emergenti dall’analisi dei testi. Tali testimonianze non sono prese in considerazione, dunque, perché esse abbiano un valore di evidenza fattuale (ossia: come dati empirici); ma in quanto esempi di un modo paradigmatico di spiegare a se stessi, con il fine di persuadere gli altri oppure aiutarli nel vivere esperienze complesse analoghe alla propria, le ragioni evidenziali che hanno giocato un ruolo nel cambiamento di affiliazione religiosa.
Nei limiti posti da queste osservazioni, si considerino le seguenti testimonianze paradigmatiche:
A. «Quanto più leggevo e studiavo, tanto più mi convincevo che l’Islam fosse la religione più pratica e la più adatta a risolvere i molti sconcertanti problemi del mondo, e a portare pace e felicità al genere umano».4
B. «Alcune persone ci avevano detto che il dharma cristiano fosse il migliore, e così ce ne siamo appropriati! ».5
C. «Per quanto riuscisse a ricordare, Michael aveva continuamente avuto la sensazione di esistere da sempre e che sempre sarebbe esistito. Non appena ebbe udito questa idea [dei predicatori stanno esponendo la dottrina dei Mormoni secondo la quale ogni essere umano ha avuto una vita precedente la presente], pensò: dovresti parlare [loro] della verità che risuona chiaramente nel tuo cuore, o, sarebbe meglio dire, che ti ristora interiormente… E il predicatore di Amsterdam Jacob Triglandius, vecchio amico di Jacob Rolandus, cresciuto cattolico, ma appena conosciuta la teologia riformata sentitosi immediatamente a casa per la prima volta, così si esprime: era come se fossi già stato riformato, anche prima che di conoscere la dottrina dei Riformatori».6
D. «Alzarsi, inchinarsi, prostrarsi e inginocchiarsi [l’autore, ospite da una famiglia palestinese, racconta il rientro a casa del padre da lavoro, a cui segue una pregheria rituale eseguita con il figlio] . Rialzarsi e abbassarsi. Ero incantato da tutta questa cosa. Era perfetta, completa. Ero ancora più incantato da come questo atto trasformasse il padrone di casa e suo figlio. Appena si alzarono in piedi io li riconobbi come i perfetti rappresentanti degli esseri umani davanti a Dio. In quel momento fui interamente scosso, e fui altrettanto certo che quella era l’azione migliore e più perfetta che avessi mai visto nei miei viaggi attorno al mondo. In quel momento seppi anche che dovevo diventare musulmano, perché quella era chiaramente la via.
Confrontai il tutto opponendolo al rientro a casa di mio padre da lavoro e al modo nel quale io lo salutassi. Lo misi in contrasto con i molti operai che avevo conosciuto nella mia vita di muratore e con il modo nel quale, rientrati a casa, stanchi e abbattuti, correvano a una birra, al giornale o ad accendere la televisione, chiedendo: cosa c’è per cena? ».7
E. «Se degli studiosi [esegeti del Corano] dicessero qualcosa e il mio cuore gridasse che le cose non possono stare nel modo affermato, io mi affiderei al mio cuore, da principio, e in seguito ricercherei per mio proprio conto. Io mi affido a me stessa, in primo luogo».8
Le testimonianze A e B mettono a fuoco il carattere pratico dell’esperienza religiosa. La A fa parte della narrazione del pellegrinaggio alla Mecca da parte L. E. Cobbod, la prima donna occidentale ad avere adempiuto tale obbligo religioso. La B è invece una dichiarazione di un uomo di nome Parsuram, informatore Kulung dell’antropologo G. Schlemmer. Entrambe affermano che il principale criterio (esterno all’esperienza spirituale diretta) per l’adesione a una determinata prospettiva religiosa consiste nella intuizione della sua efficacia pragmatica: una religione è confessata dai propri aderenti in quanto si mostra efficace nel risolvere i problemi (di ordine pratico) ritenuti pressanti da coloro che a essa aderiscono. L’aspetto teorico-conoscitivo può essere naturalmente presente, ma risulta apparentemente secondario. Si consideri ciò che afferma la Cobbod: lei ha letto e studiato, ha cercato di approfondire la propria fede nell’Islam, ha accresciuta la propria consapevolezza religiosa. Tutto questo processo non sembra, tuttavia, essere orientato a formare opinioni valide sulla natura del divino alla luce del conseguimento delle corrette condizioni epistemologiche di accesso a una sfera d’esistenza trascendente; piuttosto, il bersaglio a cui si mira è l’efficacia pragmatica nel risolvere le difficoltà di maggiore rilevanza a cui sembra essere intrensicamente esposto il genere umano. L’assunto epistemologico di fondo relativo alle credenze religiose per la Cobbod sembra essere il seguente: ciò che rende vera una religione, e che di conseguenza mostra la natura della relazione fra evidenza e credenze religiose, è unicamente l’efficacia di essa nel promuovere una vita pacifica, serena e pienamente dignitosa. Lo stesso vale per quello che dichiara Parsuram. La menzione della nozione di dharma sembra, al proposito, particolarmente significativa. Infatti, indipendentemente dal modo nel quale sia corretto rendere la parola nelle lingue occidentali moderne, certo è che in esso si afferma una correlazione di ordine cosmico e ordine umano, alla luce di una immanenza nel naturale dell’ambito giuridico, cognitivo, e religioso (secondo i molteplici significati nei quali è inteso il termine religione nella tradizione indiana). Il dharma di cui si appropria Parsuram (Schlemmer riporta la descrizione del processo di affiliazione al cristianesimo da parte dell’informatore come un taking the Christian dharma) è cioè un discorso normativo che irregimenta una certa relazione fra uomo e natura nei termini di un dispositivo regolatore di tipo pratico: la rappresentazione dell’essere così e così del mondo è un imporre classificazioni, tassonomie, e ordinamenti per mezzo di una interpretazione di carattere pragmatico-strumentale (interpretazione che affonda le proprie radici in un universo indistinto di naturale, giuridico, cognitivo e religioso) .9
La testimonianza C proviene da uno studio storico di C. Harline relativo al modo nel quale l’esperienza di conversione investe l’orizzonte familiare del convertito. Harline racconta e mette a confronto la vicenda di due persone: Jacob Rolandus, gesuita olandese figlio di un predicatore protestante, e Micheal Sunbloom, nome fittizio per un amico dell’autore. Il primo è divenuto cattolico da riformato, il secondo, dopo essersi convertito alla religione della Chiesa dei Santi degli Ultimi Giorni, è successivamente divenuto apostata a causa della inconciliabilità della propria omosessualità con le credenze dei Mormoni sul tema. Il passo in esame prende in considerazione lo stupore provato da Micheal Sunbloom quando si ritrova a tu per tu per la prima volta con la dottrina della pre-esistenza delle anime alla vita individuale, e lo mette a confronto con la testimonianza di Jacob Triglandius, un amico di Jacob Rolandus, anch’egli convertitosi, sebbene secondo un percorso inverso rispetto all’amico (dal cattolicesimo alla Riforma). Entrambe le esperienze si svolgono secondo una diversificazione fra eventi esteriori ed eventi interiori. Dal primo punto di vista, la conversione è il passaggio da un realtà positiva (l’affiliazione alla tradizione religiosa di appartenenza) a un’altra (l’affiliazione alla nuova tradizione religiosa). Essa sembrerebbe pertanto presupporre un qualche genere di scelta legata ad un cambiamento. Tale scelta si origina da un confronto fra le tradizioni, e a tale confronto segue il decidersi per l’una in quanto migliore dell’altra. Se puntiamo lo sguardo sull’evento interiore che innesca il processo esteriore, tuttavia, la conversione appare qualcosa di profondamente diverso: il convertito ha sempre implicitamente aderito alla sua nuova affiliazione religiosa, pur senza riconoscere una tale affiliazione implicita. Le parole dei due testimoni sottolineano proprio lo stupore generato dall’avvenuto riconoscimento di essere da sempre al di fuori della religione che si è abbandontata e da sempre all’interno di quella a cui ci si è convertiti. La conversione, cioè, appare un semplice processo di autocomprensione di se stessi, e, perciò, è propriamente niente di diverso dal tornare pienamente in se stessi: l’esposizione a determinate dottrine religiose è soltanto un’occasione che mostra la conformità delle intuizioni religiose di fondo del convertito con la tradizione a cui egli, infine, aderisce. Tale autointerpretazione del processo di conversione sembra comune a molti neoconvertiti.10
Le testimonianze D ed E mostrano come avviene tale processo di ritorno a se stessi. La prima appartiene a Nooruddin Durkee, un americano che a partire dalla fine degli anni sessanta ha compiuto varie esperienze spirituali di tipo hippie-comunitario, che lo hanno progressivamente portato ad abbracciare l’Islam. La seconda a una delle donne partecipanti all’indagine qualititativa condotta da Y. Suleiman in Gran Bretagna. Ciò che appare evidente dalla lettura dell’una e dell’altra è che il criterio per valutare la verità di una religione non sembra presupporre alcun esercizio di capacità intellettuali avanzate, né uno studio approfondito ed esteso: l’accesso al significato ultimo della nostra vita è disponibile a chiunque ascolti il proprio cuore. Scegliere una religione è, infatti, un atto intuitivo. La testimonianza D è illuminante al riguardo: la consapevolezza che una qualche tradizione religiosa sia corretta viene riconosciuto senza sforzo e senza resistenze da parte del convertito. In un solo attimo tutto appare chiaro: che quella mostrata dall’atto religioso del praticante sia la via verso Dio è così evidente da non avere bisogno di alcuna garanzia epistemologica. Il sentimento immediato che le cose stiano in questi termini (contrappositivi rispetto alle esperienze personali pregresse del convertito) si impone come qualcosa che era sempre stato lì a portata di mano perché, di fatto, lo era stato implicitamente. Per questo la testimonianza E può rivendicare la superiorità epistemologica dell’esperienza in prima persona su qualsiasi altra fonte evidenziale: non si crede perché altri ci inducono a farlo, perché soppesiamo opinioni e credenze, perché misuriamo evidenze fattuali; piuttosto, basta prestare attenzione a ciò che immediatamente sentiamo, a ciò che dentro di noi ci mostra il significato ultimo dell’essere così e così di ciò che proviamo.
Complessivamente considerate, le testimonianze A-E mostrano i tratti fondamentali delle credenze religiose. Poiché esse hanno un carattere pratico (testimonianze A e B), esse riguardano una relazione di ordine interpretativo all’esperienza fattuale: le credenze religiose mostrano il significato dei fatti. In quanto tali esse hanno poco a che fare con la formazione di opinioni corrette circa l’essere determinato di oggetti, eventi e stati di fatto. Questi sono, infatti, esperiti immediatamente per mezzo di un accesso diretto al loro stare in un certo modo. Tale presentarsi, mostrarsi, offrirsi del mondo è espresso da credenze fattuali che traducono i contenuti dell’esperienza in concetti per mezzo dell’evidenza empirica disponibile: tali credenze affermano il come del sussistere di oggetti, eventi e stati e di fatto. Credo che sia una evidenza fattuale (di ordine storico-fenomenologico) che gli esseri umani non possano dissociare l’attività credenziale fattuale dall’aspirazione a rispondere a domande nell’ordine del significato. Cioè, la presa concettuale sul mondo richiede in modo pressante che, assieme al mondo, sia afferrato anche il suo significato: le credenze religiose ambiscono a dire il perché di oggetti, eventi e stati di fatto. Di conseguenza, l’essere vero di una credenza religiosa consiste per lo più nella sua capacità di offrire una interpretazione pragmaticamente efficace dei fatti dell’esperienza (testimonianza B), oppure manifestare il fine ultimo della nostra vicenda terrena, rendendolo praticamente disponibile (testimonianza A). Ecco che le tipiche asserzioni di fede confessionali (per esempio: il sacrificio tiene unito il mondo; l’io personale è una illusione; la danza di Siva suscita il cosmo; Dio è il Creatore del Cielo e della Terra; Dio è Trinità; Dio è l’Altissimo e il Misericordioso; K??? a è l’ottavo avatara di Vi?? u) consistono nel delineare un quadro generale nei cui termini si risponde al perché l’essere così e così dell’esperienza è così e così. Esse non intendono spiegare come siano dati i fatti, ma perché essi abbiano per noi un significato. Le credenze religiose sono strumenti che indicano i fini e i valori alla luce dei quali giudicare la nostra esperienza.
Sembra naturale assumere, quindi, che la discriminazione dell’evidenza fattuale non giochi alcun ruolo nella assunzione di una credenza religiosa. Questo rende ragione di un carattere molto evidente di esse: la naturalità, la semplicità, la non problematicità con cui le credenze religiose sono ritenute da chi le assume (testimonianza C). Esse sono l’espressione verbale esplicita che implicitamente orienta la comprensione della propria esperienza. Credere religiosamente qualcosa è una epifania. È conformare ciò che si dichiara di credere a ciò che si è sempre atematicamente e preriflessivamente creduto.
Del resto, la fonte della consapevolezza che una certa credenza religiosa sia vera non è mondana, ma interna a noi stessi (testimonianza E): di fronte all’atto religioso autentico ci appare autoevidente che quello sia l’accesso privilegiato alla strada giusta da percorrere (testimonianza D). La certezza religiosa è esperienziale. Cioè, credere religiosamente che qualcosa sia il caso è un adeguarsi spontaneo e naturale della nostra esperienza pregressa al modo di essere religioso che la credenza esprime.
Si domanda: ma se le credenze religiose non hanno una evidenza fattuale in sostegno, essendo piuttosto interpretazioni finalistiche e valoriali dell’esperienza (la cui validità è funzione di ciò che sembra essere ai diversi individui), le credenze religiose sono soltanto espressione di razionalizzazioni soggettive dell’esperienza in prima persona di colui che crede? Non è possibile identificare criteri che garantiscano la razionalità del credere ed eventualmente la correttezza dei contenuti assunti?
Rispondo: le credenze religiose esprimono l’orizzonte di comprensione della propria esperienza di oggetti, eventi e stati di fatto, traducendo la presentazione reale di essi nell’ordine del significato. Esse non sono il frutto dell’arbitrio individuale o collettivo, sebbene debbano la loro forma ai materiali narrativi rinvenuti nel contesto d’esistenza del credente. Infatti, poiché tali materiali sono sottoposti a processi di adeguazione espressiva nei termini dell’attrito che l’esperienza produce sulla propria espressione doxastica, le credenze religiose rispondono alla natura del proprio bersaglio referenziale. Per esempio, quando si dice che la danza di Siva suscita il cosmo, si afferma che la propria esperienza è interpretata nei termini di una valutazione assiologica della natura di una dimensione oltre-empirica del reale e della conseguente promozione di azioni relazionali adeguate fra il fedele e tale dimensione trascendente l’esperienza. La forma particolare assunta dalla credenza dipende, almeno in parte, dalle relazioni diacroniche e sincroniche fra le semiosfere religiose rintracciabili nelle tradizioni culturali-religiose del subcontinente indiano; ma il contenuto di essa esprime una realtà (che la propria esperienza vada interpretata alla luce di una dimensione oltre empirica del reale la cui attività consista in una armonizzazione degli oggetti, degli eventi e degli stati di fatto condotta nei termini di una espressione estetica integrale, scilicet corporeo-spirituale, di ordine narrativo-performativo). Di conseguenza, le credenze religiose sono ancorate all’espressione di una realtà sostantiva, ancorché tale realtà non abbia natura fattuale (essendo piuttosto un qualcosa di ordine spirituale).
Se così stanno le cose, sembra ragionevole assumere che a giustificazione delle credenze religiose sia presente un qualche forma di evidenza, quantunque essa abbia natura esclusivamente doxastica. Che credere religiosamente qualcosa abbia la natura di una epifania la cui fonte di certezza è interiore non presuppone né implica un approccio mistico; ossia, non afferma che le credenze religiose non siano razionalmente garantite, né corrette. Se l’esperienza di significato espressa da una credenza religiosa è reale, cioè se sotto la buccia formale dell’espressione doxastica che è resa possibile dalle semiosfere tradizionali sta un contenuto reale, allora tale credenza sarà corretta. E ancora, poiché una credenza religiosa esprime nell’ordine del significato l’esperienza reale resa possibile dall’accesso diretto di natura sentimentale alla realtà, una credenza religiosa è razionalmente garantita o meno in funzione della sua capacità espressiva. Ma tale capacità espressiva dipende dalla natura della rete semantica costituita dalle relazioni peculiari fra le semiosfere tradizionali cui il credente ha accesso. Di conseguenza, l’evidenza che giustifica una credenza religiosa non avrà natura fattuale, ma natura doxastica: non si tratta di andare a cercare l’evidenza nei fatti, ma nel grado di espressività esperienziale che una certa interpretazione dei fatti promuove.
Questa tesi (la natura dell’evidenza che giustifica una credenza religiosa è doxastica) mostra un tratto caratteristico delle credenze religiose. Per quanto esse non siano sottoposte a processi di revisione contenutistica di ordine fattualmente evidenziale, esse sono tuttavia costantemente collocate sul banco di prova dei processi doxastici di giustificazione. Possedere una certa credenza non è una condizione definitiva: per quanto l’esperienza mostri la verità di ciò in cui si crede, la comparazione fra credenze, l’analisi semantica di esse alla luce di materiali narrativi alternativi a quelli che le giustificano, l’emergere di possibili dissonanze cognitive che si manifestino nella esplicitazione di credenze implicite, mostrano che credere religiosamente consista in una costante attività doxastica nei confronti dei contenuti ritenuti il caso. Le testimonianze A e B indicano proprio l’imprescindibilità per la credenza religiosa dei processi di giustificazione doxastica in atto. La formula quantitativa della prima è, al riguardo, illuminante: analizzare la credenza posseduta e confrontarla incessantemente con altre al fine di ritenerla o abbandonarla (in blocco).
Infatti, nella misura in cui non ci sono evidenze fattuali da bilanciare, il credere sarà qualitativo (a). La credenza religiosa è tutto o niente. Non si può credere percentualmente più o meno in funzione di quali e quanti fatti sostengano i contenuti ritenuti il caso. Una volta che il credente sia esposto all’atto religioso corretto (testimonianza D), all’enunciazione espressiva della interpretazione implicita della propria esperienza (testimonianza C), alla sensazione che una certa interpretazione abbia una certa efficacia pragmatica (testimonianza B), l’accesso immediato alla realtà indica in modo assoluto la conformità fra espressione doxastica ed esperienza (testimonianza E).
Ora, tale accesso non avviene in forma evidenzialmente fattuale. Laddove il contenuto dell’esperienza siano oggetti, eventi e stati di fatto, l’occorrere transcontestuale di essi promuove la traduzione dei materiali narrativi (nei termini delle cui analisi semantiche è da principio individuata l’evidenza) in quadri referenziali stabili e pubblicamente condivisi. Quando questo accade, la nostra relazione al mondo è empirica. Ma sembra al di là di ogni ragionevole dubbio che, anche ammettendo la possibilità di una esperienza mistica (la cui natura di esperienza percettiva è evidentemente sui generis), la relazione alla sfera oltre-empirica del reale non abbia una simile natura: noi abbiamo un accesso di natura sentimentale alla realtà trascendente, sentiamo che la nostra esperienza ha un senso immanente che rinvia a un al di là di essa e la costituisce ultimativamente come prodotto di una attività (personale o impersonale che sia). Di conseguenza, il contenuto delle credenze religiose è ancora referenziale. Tuttavia esso è di altro genere rispetto alla referenzialità di ordine fattualmente evidenziale. La dimensione referenziale delle credenze religiose è, cioè, rilassata rispetto ai vincoli fattuali posti da relazioni di sostegno empiriche fra evidenza e credenza.
Per questo motivo le credenze religiose sono de dicto (c). Esse sono ritenute dal credente in regime di opacità degli aspetti referenzialmente rilevanti. Chi crede sente esperienzialmente che le cose stanno in un certo modo, ma tale sentire è atematico e preriflessivo (testimonianza C). Esso manifesta sempre, infatti, il contenuto referenziale delle credenze religiose per mezzo dell’attrattività di esso (testimonianza B e D), piuttosto che per la presentazione di caratteri referenzialmente trasparenti.
La congiunzione del tratto (a) e del tratto (c) delle credenze religiose ha per conseguenza l’emergere del tratto (b): credenze qualitative de dicto sono costitutivamente esposte a manifestare dissonanze cognitive a causa della natura doxastica della relazione di giustificazione fra evidenze e credenze (per credenze che ineriscono in un contesto discorsivo informale).
4.
Credo che a questo punto la caratterizzazione delle credenze religiose da me proposta sia sufficientemente argomentata. Contro di esse può essere, però, rivolta una obiezione metodologica: perché modellare le proprietà delle credenze religiose sul modo in cui esse sono assunte nell’esperienza di conversione? Non siamo in presenza di una estensione ingiustificata di una peculiare modalità del credere religioso all’intero fenomeno della credenza religiosa?
La caratterizzazione proposta muove dall’assunto che credere religiosamente qualcosa presupponga un’attività doxastica approfondita nei confronti del contenuto ritenuto. La recente contestazione degli orientamenti sostantivi e funzionali alla luce della nozione di mercato religioso da parte di Warner,11 e la conseguente analisi critica e quantitativa di essa (che ha portato all’emergere del paradigma relazionale) in sociologia della religione,12 sembrano proprio testimoniare la funzione fondamentale dell’intenzionalità individuale al fine di spiegare l’attività doxastica religiosa.
Naturalmente l’adesione a una tradizione religiosa può avvenire anche in modo conformistico. Si può aderire a una religione senza grandi interrogazioni di senso, semplicemente perché essa è professata in famiglia o nel contesto sociale d’appartenenza. Tuttavia, casi come questi esprimono una forma passiva del credere religioso che ha poco a che fare con i contenuti specifici delle credenze ritenute, e molto con l’adesione identitaria individuale alle strutture ideologiche sociali. L’aderire conformisticamente a una religione è il tipico esempio di fenomeno sociale aggredito teoricamente nei termini del funzionalismo: esso ci dice molto della natura delle dinamiche psico-sociali relative all’integrazione comunitaria della propria identità, della genesi e della struttura delle ideologie, delle funzioni sociali individuali e collettive svolte da queste; ma resta di fatto in silenzio circa lo specifico della credenza religiosa: nell’adesione conformistica l’oggetto dell’adesione è un’occasione fra le altre di rispondere a esigenze socio-psicologiche di costruzione identitaria collettivo-contestuale.
La maggior parte delle religioni caratterizza la fede (anche) nei termini di un percorso da compiere. Credere non è uno stato puntuale, ma un processo in atto. A tale dimensione processuale appartiene, fra le altre cose, una vera e propria lotta con le proprie credenze, al fine di adeguarle alla corretta espressione delle proprie opzioni doxastiche, di giustificarle alla luce delle esperienze proprie e altrui, di difenderle contro credenze alternative e incompatibili, così come di renderle consistenti con altre credenze ritenute potenzialmente dissonanti con esse. Credere religiosamente è il caso più evidente del fatto che nei confronti dei contenuti ritenuti colui che crede assume degli impegni doxastici.
Se così stanno le cose, il fenomeno della conversione appare particolarmente utile alla comprensione delle proprietà delle credenze religiose. Infatti, data la natura attiva del cambiamento di affiliazione religiosa, che presuppone l’esercizio di una forte intenzionalità, la conversione si configura come un evento nel quale le normali e ordinarie caratteristiche del credere religioso acquisiscono una chiara visibilità.
È vero, però, che si potrebbe rilanciare in questo modo: va bene. L’analisi del modo di credere del convertito mette in luce aspetti caratteristici delle credenze religiose. Tuttavia, nel convertito un intero complesso doxastico viene sostituito da uno nuovo, mentre nell’esperienza religiosa ordinaria un credente può rifiutare una credenza, assumendone un’altra al suo posto, senza mettere in questione l’edificio doxastico al cui interno trovano espressione le proprie opzioni dottrinali. Sei proprio sicuro di tenere in piedi una relazione di similitudine proporzionale fra conversione ed esperienza credenziale religiosa ordinaria?
L’obiezione consiste nel rilevare una differenza fondamentale fra il modo nel quale occorre il rifiuto e l’assunzione di una credenza nell’esperienza di conversione e nell’esperienza ordinaria. Essa consiste nell’affermare il carattere olistico dell’attività doxastica del convertito, laddove ordinariamente si può rifiutare o accettare una credenza sullo sfondo della stabilità doxastica delle altre credenze ritenute.
L’apparente ragionevolezza di questa osservazione fa però a pugni con i fatti (fondandosi su una lettura dei fenomeni di conversione largamente pregiudiziale, perché probabilmente dipendente dall’utilizzo di una nozione sostantiva di religione). Si considerino, per esempio, le dinamiche di conversione indotte da fenomeni di conquista da parte di una civilizzazione rispetto ad un altra. Da un lato la civilizzazione conquistatrice potrebbe (tentare di) imporre la propria religione sulla civilizzazione conquistata. Dall’altro la civilizzazione conquistatrice potrebbe (tentare di) abbandonare la propria religione e acquisire quella dei popoli conquistati. Un esempio della prima situazione è costituita dall’attività missionaria cristiana nei territori dei nativi americani prima, e nelle riserve poi; della seconda è la conquista vichinga dell’Irlanda. In un caso e nell’altro, l’indagine storica13 e l’indagine sociologica14 quantitativa offrono esempi di come i processi di inculturazione della fede dei convertiti nel nuovo constesto socio-culturale promuove una forma di sincretismo oppure una affiliazione alla nuova religione in funzione del permanere nel convertito di almeno alcuni degli assunti credenziali fondamentali espliciti della vecchia. Cioè, il cambiamento di affiliazione religiosa attestato da questi casi consiste nell’assunzione di nuove credenze religiose fondamentali che vengono inserite su uno sfondo doxastico stabile: il convertito mantiene la precedente appartenenza identitaria che, però, interpreta adesso alla luce delle nuove credenze religiose (che a lui sembrano semplicemente dire in modo esplicito, pregnante, diretto ciò che era già a lui implicitamente chiaro) .15 Ma, se questo è il caso, la similitudine proporzionale fra esperienza doxastica religiosa del convertito ed esperienza doxastica religiosa ordinaria si rafforza: proprio come la seconda, anche la prima non ha la natura olistica che l’obiezione le attribuisce.
Ciò nonostante, vorrei comunque analizzare come avviene la revisione doxastica delle credenze religiose per situazioni che non abbiano niente che fare con il fenomeno della conversione; così da mostrare che i medesimi tratti (a) — (c) messi in luce dalle testimonianze A-E sono presenti anche nel credere religioso ordinario. Il mio case study è fornito dalla vicenda narrata nel docufilm The Good Son della regista israeliana S. Berkovitz.16
Or Bar è il figlio di una famiglia israeliana molto ortodossa. Ha deciso di cambiare genere sessuale, ma non ha il coraggio di parlarne con i genitori. Nelle prime scene del film il padre viene presentato come un ebreo ultratradizionalista. Sembra inoltre incline a comportamenti (verbalmente) aggressivi nei confronti del figlio, anche per cose di piccolo conto. Per diventare donna, Or dovrà recarsi in Thailandia, ma non ha i soldi necessari per affrontare il viaggio: al fine di ottenerli inganna allora il padre e la madre (fa loro credere di essere stato ammesso a un corso di dottorato dell’università di Oxford). Al rientro in Israele, invita all’aereoporto il fratello per testarne la reazione. Inizialmente, il fratello non la riconosce, ma nel momento in cui capisce tutto quello che è successo non ha esitazioni nell’abbracciarla e nell’accoglierla (per quanto sollevi immediatamente profondissime preoccupazioni per come il padre prenderà tutto ciò). Grazie al suo aiuto, riesce ad incontrare la madre. Or dichiara di aver agito in questo modo perché il padre è convinto che i transgender siano malati da curare, e la madre conferma che effettivamente questo è quello che pensa il padre. La madre non ha difficoltà ad accettare il cambio di genere di Or, ma il padre (che non la ha ancora incontrata) sembra non sentire ragioni. Lo spettatore viene a conoscenza delle sue idee grazie a una mail inviata ad Or. Il testo inizia dichiarando che lui vuole bene alla figlia, ma che ciò che Or ha fatto è per lui imperdonabile e inaccettabile. Utilizza una tipica retorica di condanna religiosa per il suo gesto (il mio cuore non reggerà il colpo; la mia vita è accorciata; presto mi verrà un infarto; non smetto di piangere per la disgrazia capitata a me e alla mia famiglia; non posso vivere sapendo che mio figlio ha fatto questo gesto) e termina con un ammonimento circa il senso di colpa che Or dovrà provare nel momento in cui lo seppelirà. Nelle scene successive Or adempie alle pratiche burocratiche relative al cambio di genere, e vengono ripresi alcuni momenti della sua vita. Quindi arriva il tanto atteso incontro con il padre. Or è tesa, spaventata e dispiaciuta. Il padre è in disparte dietro un albero. Le due donne si avvicinano, e la madre suggerisce al padre di abbracciare la figlia. Il padre è chiaramente un uomo distrutto. Di fronte alla figlia, la abbraccia subito, ma non riesce a trattenere le lacrime, e viene rimproverato dalla moglie. Padre e figlia si separano per un attimo. Or dichiara di essere felice così, ma il padre chiede se la cosa sia irreversibile, e se ci sia qualche possibilità di tornare indietro. Or spiega che adesso è orgogliosa di uscire per strada, capace di guardare gli altri negli occhi. Il padre è un uomo a cui è caduto il mondo addosso, si tocca la faccia, incredulo di quello a cui sta assistendo. Invita quindi Or a ripensarci, prova a offrirgli tutto quello che vuole. Ma a questo punto è già successo qualcosa di notevole, perché l’invito a ripensarci è rivolto abbracciando nuovamente Or con un misto di intensità e disperazione: il suo abbraccio è la stretta quasi furiosa di chi cerca conforto. Sembra che il padre sia sul punto di cedere: da un lato restano chiaramente in piedi le sue credenze di condanna verso la transessualità della figlia, ma al tempo stesso sembra rendersi conto che egli sopravviverà alla disgrazia, che dovrà accettare quello che è successo, perché Or è sua figlia e la ama, sebbene non ne comprenda il gesto. Or dichiara ancora di voler fare felice il genitore e promette di restituire i soldi, ma il padre afferma di non volerli. Quindi Or dice a suo padre di volergli bene, e nella scena risolutiva dell’incontro, il padre la abbraccia forte e la invita a tornare a casa con loro, a riprendersi la sua camera. Quello che fa è evidente: il padre accoglie nuovamente Or nella famiglia. Il film termina con Or a casa dopo qualche tempo. Ha ripreso gli studi universitari e, adesso, è finalmente felice.
La situazione della reazione del padre nei confronti di Or è quella di un uomo che è costretto ad accomodare almeno alcune delle sue credenze di origine religiose (indipendentemente dal fatto che la questione della transessualità all’interno dell’ebraismo sia affrontata secondo molteplici posizioni discordanti, sembra evidente che il padre di Or ritenga il gesto della figlia innanzitutto ripugnante per la sua non conformità al modus vivendi di un ebreo ortodosso). Inizialmente egli afferma la inaccettabilità della condizione femminile di Or, e la conseguente condanna senza appello della sua persona. Non vi sono ambiti di manovra per la giovane: secondo il padre, il gesto della figlia lo condurrà alla tomba. Quando, tuttavia, il padre incontra la figlia, qualcosa è cambiato: anche se l’esito dell’incontro non sembra affatto scontato, è chiaro che la moglie abbia quantomeno convinto il marito a provare un confronto (nella scena dell’incontro il padre è nascosto dietro ad un albero, pronto ad andarsene, forse si vergogna; Or, invece, è spaventata e teme, peraltro, per la propria incolumità fisica). Durante il procedere dell’incontro avviene comunque un cambiamento radicale: il padre cede alla forza del suo amore per Or, e anche se tutto fa pensare che da punto di vista doxastico egli sia probabilmente confuso e non sappia bene cosa pensare, alla fine egli ha mutato il suo giudizio (almeno da un punto di vista pratico) ed è finalmente pronto ad accogliere nuovamente a casa la figlia.
Non ci sono ragioni di pensare che questo cambiamento di credenza nei confronti della condizione di genere di Or (al termine della vicenda la figlia vive a casa, è felice e ha iniziato una nuova vita da studentessa universitaria) intacchi l’ortodossia ebraica del padre. Pertanto, esso non è assimilabile a una esperienza di conversione, ma a un semplice mutamento di una credenza (religiosa) all’interno dell’appartenenza a una tradizione di fede. Tuttavia, la natura della revisione doxastica del padre di Or mostra i tratti (a) — (c) emersi dall’analisi dell’esperienza di conversione. In primo luogo, è evidente che la nuova credenza intrattenuta dal padre sia di ordine qualitativo: dal momento che egli cede alla figlia e le chiede di tornare a casa, egli ha cambiato in toto il suo atteggiamento nei confronti dello status di Or. In secondo luogo, questo fa emergere una palese dissonanza cognitiva: precedentemente la condanna della transessualità aveva un’origine religiosa, e adesso il padre di Or si trova nella situazione di dover razionalizzare la sua fede con l’accettazione della figlia. In terzo luogo, il padre di Or non ha più garanzie di ordine referenziale circa la necessità di condannare moralmente il gesto della figlia: se pensasse ancora che lo stato di cose circa come giudicare il transessualismo (la volontà divina) fosse assolutamente trasparente alla tradizione ebraica ortodossa (che inizialmente gli appare condannare senza appello Or), egli non avrebbe potuto cambiare credenza.
Questi tratti sono giustificati dal medesimo decorso esperienziale messo in luce dall’analisi delle testimonianze A-E. Il cambiamento doxastico del padre di Or è di ordine pratico: non si tratta di soppesare informazioni fattuali o non fattuali, di bilanciare evidenze, di indagare quale sia la natura ultima dello stato di cose; piuttosto, l’accettazione della figlia è un fatto pragmatico. Di fronte al pianto, alla paura, alla solitudine e alla disperazione di Or, il padre si sente probabilmente investito dalla questione di che genere di uomo egli voglia essere. La madre pronuncia una frase illuminante al proposito: Or è felice di vederlo, e questo deve bastargli ed essere sufficiente per farlo smettere di comportarsi in modo tanto distante. Nello stesso tempo è altrettanto chiaro come l’esperienza del padre sia il genere di epifania mostrato dall’analisi del cambio di affiliazione religiosa: il decorso dell’incontro è un progressivo cambiamento di ruolo fra padre e figlia. Inizialmente è Or a dover essere consolata, ma con lo scorrere delle immagini risulta evidente che è il padre a necessitare dell’aiuto della moglie e della figlia: la forza con cui abbraccia Or mentre chiede stupidamente se sia possibile di tornare indietro è la rappresentazione plastica della sua capitolazione. Di fronte alla figlia non può più credere quello che credeva precedentemente, si deve arrendere a ciò che gli suggerisce il cuore. Che questa certezza di dover adesso credere che la transessualità di Or vada accettata sia di ordine sentimentale è testimoniato dalla scena che chiude l’incontro: la tenerezza con cui si abbracciano padre e figlia rende quasi superflua la richiesta del padre che la figlia torni a casa. Dentro di lui ormai è sin troppo chiaro cosa credere.
5. Bibliografia
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- Squarcini, F. (2012), Forme della norma, Firenze: Società Editrice Fiorentina;
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6. Filmografia
- The Good Son, Israele, Berkovitz Films & Laughing Buddha Films, 2014, di S. Berkowitz.
-
Alston (1991). ↩︎
-
Plantinga (1993). ↩︎
-
Ward (1994); Malcolm (2000). ↩︎
-
Lay Evelyn Cobbod, Pilmigrage to Mecca, citato in Hermansen (1999), p. 60. ↩︎
-
Schlemmer (2014), p. 5. ↩︎
-
Craig Harline, Conversions: Two Family Stories from the Reformation and Modern America, citato in Parry (2013), p. 13 ↩︎
-
N.Durkee, Embracing Islam, citato in Hermansen (1999), p. 77. ↩︎
-
Suleiman (2014), p. 107. ↩︎
-
Squarcini (2014). ↩︎
-
Hermansen (1999), p. 79; Suleiman (2013), p. 21. ↩︎
-
Warner (1993). ↩︎
-
Woodhead (2009). ↩︎
-
Garroutte and others (2009). ↩︎
-
Downham (2012). ↩︎
-
Suleiman (2013), pp. 80-84. ↩︎
-
The Good Son, Israele, Berkovitz Films & Laughing Buddha Films, 2014, di S.Berkowitz. ↩︎