Mactare. Etimologia e antropologia del sacro arcaico

Con questo breve intervento vorrei mostrare che la teoria vittimaria di René Girard può fornire un contributo decisivo all’interpretazione e soluzione di vexatae quaestiones di ordine etimologico e semantico relative al verbo mactare, che è centrale nella terminologia relativa al tema del sacrificio. L’antropologia vittimaria fornisce la chiave ermeneutica che permette di considerare le espressioni mactare deum e mactare victimam come geneticamente sinonime.

1.

Il dizionario Georges-Calonghi stabilisce i seguenti significati di mactare: glorificare, onorare, magnificare (aliquem honoribus mactare); onorare una divinità con un sacrificio, placare (puerorum extis deos manes mactare, Cic.). Mactare fa riferimento anche a sacrifici di animali; significa nondimeno immolare, sacrificare, votare (hostium legiones Telluri ac dis manibus mactare, Liv.; perfidos et ruptores pacis ultioni et gloriae mactare, Tac.). In senso più generale mactare significa uccidere, mettere a morte, punire, rovinare, ad esempio i nemici interni ed esterni. Mactare è verbo denominativo da mactus, termine che gli antichi derivavano da magis auctus, etimologia che però Georges-Calonghi considera inattendibile.1 Mactare risuona nell’italiano «mattanza», che secondo Giacomo Devoto è entrato nell’italiano dallo spagnolo matanza (uccisione), derivato a sua volta dal verbo matar, uccidere, di chiara derivazione da mactare.2 Una trattazione più aggiornata, nonché sintetica dell’etimologia di mactus e mactare si trova nel Lateinisches Etymologisches Wörterbuch che giustifica la doppia costruzione di mactare (aliquem aliquâ rç — alicuî aliquid) mediante il parallelismo con dônô, circumdô, ecc. .3 La precisazione ci obbliga a osservare che la doppia costruzione presuppone due modalità opposte di concepire il rapporto triadico tra colui che dà, colui che riceve e ciò che viene dato. Con la prima costruzione (aliquem aliquâ rç) la cosa che viene consegnata è un mero strumento al servizio dell’operazione che riguarda il destinatario; con la seconda costruzione (alicuî aliquid) la cosa che viene consegnata ha valore in se stessa. Nel primo caso l’obiettivo primario è la valorizzazione o glorificazione del destinatario, nel secondo è in primo piano l’oggetto che passa dall’uno all’altro. Un dizionario che gode di ampio credito4 distingue quattro accezioni principali di mactare, seguendo l’ordine ormai canonico: 1) onorare, celebrare (eos mactant honoribus: Cic. Rep. 1, 67); 2) sacrificare, immolare (col dativo della divinità cui si sacrifica, es.: mactavit taurum Neptuno: Verg. Aen. 3, 118); 3) uccidere (damnos mactabis et apros: Mart. 1, 49, 24); 4) affliggere tormentare, punire (con ablativo strumentale: Nonne hunc summo supplicio mactare imperabis? Cic. Cat. 1, 27). Se partiamo da quest’ultima accezione, possiamo ricostruire le fasi principali di costituzione del sacro arcaico secondo la teoria vittimaria5: una vittima, accusata di essere causa della violenza e del caos indifferenziatore dilaganti nella comunità, viene uccisa e sacralizzata; il linciaggio della vittima ne rovescia l’onnipotenza malefica in onnipotenza benefica perché la sua espulsione ristabilisce la pace e l’ordine; la potenza salvifica della divinità sarà periodicamente rinnovata mediante il sacrificio in suo onore, che consisterà nell’immolazione rituale di una vittima umana o animale. La ricostruzione delle fasi in cui si costituisce il sacro arcaico mostra come l’ordine canonico delle accezioni del termine mactare capovolga la sequenza genetica individuata dalla teoria vittimaria, dove la celebrazione della divinità mediante il sacrificio rappresenta la fase conclusiva dell’intero processo: si parte dall’individuazione della vittima che, ritenuta unanimemente responsabile della dissoluzione della comunità, è così predestinata alla rovina per la salvezza di tutti.

2.

Il Lexicon totius latinitatis propone un quadro più analitico della semantica di mactare, distinguendo tra senso proprio e derivato sia in re profana che in re sacra. Mactare proverrebbe da un inusitato mago, magere, derivato da un etimo mag che ritroviamo anche in magis e magnus. In re profana, mactare significa in senso proprio augere, in senso derivato è usato ironicamente per indicare un evento tragico da cui si ricava un danno, come quando si dice in italiano che qualcuno è stato «visitato da una disgrazia». In re sacra, in senso proprio mactare ha come significato principale «deos vel deorum felicitatem augere, atque adeo deos honorare, honorem diis adhibere»; in secondo luogo significa solennizzare, celebrare. In senso traslato significa principalmente «offrire in sacrificio agli dei».6 Mactare ha quindi per oggetto principale il dio, che si vuole rendere più potente e felice; e in secondo luogo significa immolare una vittima agli dei, sacrificare alla divinità per onorarla. Vedremo come, partendo dall’individuazione della vittima da offrire nel sacrificio, possa emergere una connessione intima tra senso proprio e senso traslato di mactare. La divinità alla quale si sacrifica, nell’orizzonte mitico, deve la propria genesi all’uccisione fondatrice di una vittima, poi sacralizzata.

Il Novus Linguae Latinae Thesaurus mette in primo piano l’interficere quale significato di mactare e l’immolare. In secondo luogo è riportato il significato di onorare, elevare, accrescere; in terzo luogo mactare significherebbe essere colpito, essere afflitto da una sventura o da un danno. Per quanto riguarda mactus, leggiamo quanto segue: «Origine sua videtur participium verbi obsoleti Magere, quod idem significasse putamus, quod augere, quodque se habeat ad adverbium Magis ita, ut Graecum mogan ad mogis. Certe ex eodem fonte sunt magis, maginus contracte magnus maior quasi magior, maximus pro magissimus: tum ut ex Ago agito, ita ex Mago Magito contracte Macto: ex eodem Mago est Magitus Mactus, ut pro agitus actus, pro augitus auctus ecc. ».7 Se il Lexicon totius latinitatis considera come propria e primaria l’espressione mactare deum, il Novus Linguae Latinae Thesaurus attribuisce il senso proprio a mactare victimam. Il Dictionnaire étymologique de la langue latine di Ernout e Meillet ricorda che mactus, macte erano usati nella formula che accompagnava il sacrificio: mactus sies, esto o macte esto.8 E aggiunge che a mactus si connette il verbo denominativo mactare nei due significati di 1) onorare gli dei e 2) immolare una vittima, sacrificare, uccidere. In dissenso rispetto alla tesi che riconduce i due significati a due verbi differenti (onorare da mactus e immolare da una radice che troverebbe corrispondenza nel gotico mekeis e mâki («spada»), Ernout e Meillet osservano che verosimilmente il senso di «immolare» è derivato in via secondaria dal senso di «onorare gli dei». Insomma da «onorare con sacrificio» a «offrire un sacrificio», il passo sarebbe facile e breve.9 L’osservazione è pertinente, come si vedrà, e non solo sul piano etimologico. Il verbo mactare presenta tre livelli semantici principali: uccidere, immolare una vittima, onorare gli dei. Ma ancora non è chiaro perché immolare, sacrificare una vittima, debba avere la funzione di onorare gli dei e di propiziarne l’intervento salvifico a favore dei sacrificatori.

I tre livelli semantici di uccidere, immolare una vittima e onorare gli dei sono ripresi dal Thesaurus Linguae Latinae, ma significativamente nell’ordine inverso.10 Il sottinteso è che, posta la derivazione di mactare da mactus, macte (che compaiono in formule propiziatorie e prive di riferimento all’uccisione di una vittima), anche mactare abbia come significato principale e proprio quello di ampliare, onorare, innalzare. Il Thesaurus propone una sofisticata suddivisione delle diverse accezioni in cui sono attestati i tre significati principali. Mactare nel senso di auctare, ampliare va inteso sia in senso positivo (bonis rebus: praecipue honoribus) e può essere riferito agli uomini, agli dei, agli animali, alle cose,11 sia in senso negativo, in espressioni in cui ad esempio si auspica o si promette a qualcuno un esito rovinoso.12 È degna di nota questa articolazione di mactare nel senso di ampliare, in due accezioni opposte, come benedire e maledire; far vivere e prosperare da una parte, danneggiare e far morire dall’altra. Del resto l’atto con cui si demolisce comprende in sé il riconoscimento dell’importanza e del valore di ciò che ci si appresta a distruggere; e viceversa si innalza qualcuno o qualcosa, gli si attribuisce un valore superiore per allontanarlo, metterlo nella condizione di non nuocere, espellerlo dalla comunità. Non ci si vendica forse talvolta di qualcuno proprio mediante le lodi iperboliche che gli sono rivolte? Mactare ha un secondo significato, sacrificare, immolare (alicui) aliquid, che il Thesaurus suddivide in due accezioni: propria (in riferimento all’immolazione di vittime umane o animali) e traslata (ad esempio si può sacrificare la propria volontà seguendo per filo e per segno la volontà di un altro). In terzo luogo, mactare significa interficere in senso proprio e traslato. In senso proprio, uomini e animali possono essere uccisi ma allora sono vittime e quindi sono immolati.13 Tale nesso ci permette di collegare il terzo significato di mactare al secondo. Ma il cerchio si chiude se aggiungiamo che possiamo uccidere qualcuno solo in virtù dell’importanza e del valore che gli attribuiamo. Perciò in qualche modo dobbiamo onorare, innalzare qualcuno prima di abbatterlo, affinché abbia senso la sua distruzione. Come nella bestemmia, dove la maledizione accorata di Dio presuppone una convinta ma implicita attribuzione di onnipotenza allo stesso Dio. Non si uccide qualcuno per toglierlo di mezzo se non partendo da una preliminare sopravvalutazione del suo potere di recare un danno smisurato (o percepito come tale) a colui che decide di distruggerlo. Uomini e cose cui non sia riconosciuto alcun valore non possono essere oggetto di svalutazione; non possiamo negare se non ciò che abbiamo affermato; anzi, l’atto di negare è implicitamente un affermare che viene al tempo stesso smentito. Come quando rimuoviamo un ostacolo che ci impedisce di procedere lungo il cammino: riconosciamo l’importanza dell’ostacolo solo nella misura in cui avvertiamo la necessità di rimuoverlo e viceversa.

3.

Certamente più articolata è la voce di Emile Benveniste dedicata al sacrificio, nel suo Vocabulaire des institutions indo-européennes. Il verbo mactare in epoca classica, scrive Benveniste, è «sacrificare una bestia». Dato che mactus è impiegato nella forma macte! che significa «animo, forza, coraggio! », con un significato quindi molto diverso da mactare, si è pensato che i latini avessero due verbi mactare, uno col significato di «uccidere» e l’altro con quello di «esaltare, innalzare, rafforzare». Benveniste però respinge tale ipotesi. Di verbi mactare ne esiste uno solo. Pur avanzando seri dubbi sull’attendibilità dell’etimologia di mactus proposta dagli antichi (da magis auctus), Benveniste ritiene pienamente legittima la nozione che mactus trasmette nei testi latini, «quella di un accrescimento, di un rafforzamento del dio, ottenuto per mezzo del sacrificio che lo nutre».14 Benveniste indica in mactus un aggettivo verbale *mag-to parallelo a *mag-no, richiamando due forme di aggettivo verbale: quella in -no indica lo stato di natura, la disposizione permanente di una cosa; quella in -to indica lo stato o condizione in cui si è trasferiti. Il verbo denominativo mactare quindi indica l’operazione con cui si rende grande qualcosa, portandola allo stato di mactus. Si comprende così l’uso dell’espressione mactare deum extis, nel senso di onorare, glorificare la divinità con il sacrificio. Attraverso il sacrificio la divinità è resa più grande, più forte. Mactare però compare anche nell’espressione mactare victimam, «offrire in sacrificio una vittima», donde poi anche il significato di mettere a morte, uccidere, conservato nello spagnolo matar. Ma il rapporto tra le due accezioni fondamentali di mactare — ingrandire, rafforzare, onorare, glorificare e sacrificare, uccidere, immolare — Benveniste non lo spiega, nonostante la marcata opposizione semantica tra le due accezioni. Di solito i vocaboli non hanno un significato e insieme anche quello opposto (ad esempio: vita e morte; gioia e dolore; guerra e pace). I parlanti non usano lo stesso termine per designare qualità o stati opposti. Almeno questa è la regola alla quale la semantica logica ritiene debba obbedire il lessico di qualsiasi lingua. A meno che non ci troviamo alle prese con un caso particolare del fenomeno dell’enantiosemia, per cui in molte lingue sono presenti termini con significato opposto. Pioniere in questa direzione è stato il glottologo Karl Abel, che ha richiamato l’attenzione sul fenomeno dell’enantiosemia.15

4.

Freud confessa di essere riuscito a capire che il sogno elabora i contenuti della veglia facendo a meno della negazione, così che nel sogno ogni cosa può significare il suo contrario, solo grazie alla lettura del saggio del glottologo Karl Abel Über den Gegensinn der Urworte pubblicato a Lipsia nel 1884.16 Freud si dichiara sorpreso dalla scoperta che il lavoro onirico si svolge secondo la modalità che rispecchia una caratteristica delle lingue antiche, in cui è possibile reperire in grande quantità termini che possiedono due significati opposti. Con particolare riferimento alla lingua dell’antico Egitto, Abel segnalava un altro fatto sorprendente: l’esistenza di parole composte, in cui due termini di significato opposto sono riuniti in un’unica espressione, la quale tuttavia possiede il significato di uno solo dei due termini che la costituiscono. Secondo Abel sarebbero state create parole composte non per creare un terzo concetto, ma per designare il contenuto che uno solo dei termini avrebbe indicato da solo. Abel spiegava il fenomeno riconducendolo alla formazione dei concetti per comparazione. Tutte le determinazioni della realtà sono relative, come fuori-dentro, vicino-lontano, giovane-vecchio, luce-buio, ecc. Se ci fosse sempre la luce, non distingueremmo tra chiaro e scuro, giorno e notte. Niente sulla terra è indipendente: l’interdipendenza trova la sua più eloquente espressione nei termini relativi, come destra-sinistra, davanti-dietro, sopra-sotto, ecc. Se sul piano ontologico non c’è il caldo senza il freddo, a livello logico non possiamo pensare il caldo senza il freddo. «L’uomo infatti, scrive Freud citando Abel, non ha potuto acquisire i suoi concetti più antichi e più semplici se non in contrapposizione al loro contrario, e ha imparato soltanto gradualmente a separare le due parti dell’antitesi e a pensare l’una senza commisurarla consapevolmente all’altra».17 L’uomo primitivo riusciva a far riconoscere al suo prossimo a quale delle due parti del doppio concetto facesse riferimento. Secondo Abel il problema era risolto ricorrendo a immagini esplicative nello scritto e a gesti nella lingua parlata. Le radici più antiche conservano il duplice significato antitetico. Successivamente nel corso dell’evoluzione linguistica le parole ambigue si scompongono in due termini, ottenuti con la modificazione fonetica della stessa radice. Abel porta l’esempio di ken «forte-debole» nei geroglifici egizi, che si sdoppia in ken «forte» e kan «debole».18

Nello sviluppo storico della lingua si afferma la tendenza di ciascun concetto a comunicarsi mediante un unico termine, autonomo, con una sua veste fonetica indipendente. Il fenomeno di separazione fonetico-lessicale di ciascun concetto può essere interpretato sia come progresso, in quanto facilita la comprensione del lessico mediante l’istituzione dell’univocità semantica, sia come regresso, giacché l’atto cognitivo che accompagna la produzione del messaggio perde la comprensione dell’interdipendenza tra le cose del mondo e quindi tra i rispettivi concetti. Che un termine significhi una cosa sola appare un impoverimento rispetto alla fase in cui le parole esprimono un doppio significato. La possibilità che una parola significhi una certa cosa, ma anche quella contraria o semplicemente altra, è evidentemente all’origine di tutte le figure retoriche che includono il riferimento al doppio significato: l’ironia, la metafora, la litote, l’ossimoro, la preterizione. L’ironia, valga una per tutte, dice manifestamente il contrario di ciò che vuol dire realmente.

Abel riferisce che un filosofo, Alexander Bain nella sua Logic (1870), aveva postulato il doppio significato delle parole come logicamente necessario, partendo dall’essenziale relatività di ogni conoscenza, la quale fa riferimento alle cose attraverso il linguaggio. Di tale relatività il linguaggio non poteva non recare traccia. Il passo della Logic di Bain riportato da Freud su indicazione di Abel, asserisce che, «se tutto quello che possiamo sapere è visto come una transizione da qualcos’altro, ogni esperienza deve avere due facciate e, o ogni nome deve avere un doppio significato, oppure per ogni significato vi devono essere due nomi».19 Se ogni cosa è anche il suo opposto, dal momento che ogni ente diventa altro da ciò che è, il divenire si configura come alternanza circolare da uno stato al suo opposto e il linguaggio non potrà che rispecchiare questa visione per cui nulla può essere ed essere pensato se non in relazione al suo opposto. Ciascun termine dovrà quindi esprimere la vocazione a indicare il plesso dei contrari. L’isolamento dei termini ai quali si attribuisce un significato univoco è il risultato di una deriva lessicologica verso l’individualismo semantico, che presuppone l’oblio del doppio significato delle parole o dei due termini riferiti alla stessa cosa. Non posso pensare l’alto senza il riferimento al basso, il coraggio senza la viltà, l’amore separato dall’odio.

Il contributo di Bain alla spiegazione del fenomeno dell’inversione semantica può essere considerato decisivo, soprattutto se si tiene conto del fatto che ogni spiegazione deve partire da un explicans del tutto evidente e comprovato. Che cos’è la conoscenza secondo Bain? Essenzialmente transizione o cambiamento. L’atto cognitivo include due cose, che corrispondono al punto di partenza e di arrivo della transizione. La stessa considerazione vale relativamente agli stati mentali. Infatti è noto, scrive Bain, che conosciamo il caldo mediante la transizione dal freddo, la luce uscendo dal buio, il sopra in contrasto con il sotto. L’oggetto della conoscenza non è assoluto, ma sempre relativo al suo opposto: non potremmo conoscere il movimento se non avessimo la nozione dell’immobilità. Possiamo indirizzare la nostra attenzione a una singola proprietà o qualità solo se ci soffermiamo più a lungo su di un membro della coppia. Ad esempio possiamo pensare più al caldo che al freddo, nel qual caso il caldo sarà il termine esplicito, il freddo quello implicito. Inoltre, dato che le nostre transizioni possono avvenire in due direzioni (seguendo lo stesso esempio: dal caldo al freddo e viceversa), il nostro sentimento sarà diverso nei due casi. Abbiamo una coscienza più viva del caldo quando passiamo a una temperatura più elevata e del freddo quando passiamo a una temperatura più bassa. Il principio di relatività enunciato da Bain prevede una sorta di dualismo cognitivo e coscienziale, per il quale l’attività della mente è una transizione da uno stato all’altro, dove abbiamo una coscienza esplicita dello stato di arrivo e una coscienza implicita dello stato di partenza.20 Bain applica il principio di relatività alla denominazione, alla definizione e alla proposizione.

L’ambivalenza dei fenomeni psichici è una proprietà dell’attività psichica che Freud ha ben presente e che completa il quadro fenomenologico delle aree in cui l’attività di riflessione e denominazione ha per oggetto la coincidentia oppositorum. L’oggettività è la totalità, che è la sintesi degli opposti; il linguaggio dovrà quindi rispecchiare fedelmente l’unità complessiva dei contrari, consistendo di termini che hanno un significato opposto. Il fenomeno del significato opposto è così profondo e pervasivo che se ne trovano numerosi esempi in tutte le lingue. Abel segnala il latino clamare (gridare) e clam (piano, di nascosto); siccus (secco) e succus (succo); il tedesco kleben (attaccare) e l’inglese to cleave (spaccare); l’inglese without, che letteralmente significa «consenza». E lo stesso with in origine non significava solo con, ma anche senza, come risulta in withdraw e withhold. Lo stesso fenomeno è riscontrabile nel tedesco wider (contro) e wieder (insieme con) .21

Abel aveva richiamato l’attenzione sul fenomeno dell’inversione fonetica, che nell’antico egizio sarebbe parallela all’inversione semantica. Gli esempi di inversione fonetica o metatesi, presenti nelle lingue d’Europa, sono troppo numerosi, scrive Freud, perché si possa considerarli casuali. Per citarne alcuni, si vedano hurry (ingl. fretta) e Ruhe (ted. calma). In altri casi l’inversione fonetica non è accompagnata da inversione semantica: capere (lat. prendere) e packen (ted. afferrare); ren (lat. rene) e Niere (ted. rene) .22

La teoria di Karl Abel è stata oggetto di critiche da parte di illustri glottologi e linguisti, come ricorda Giulio C. Lepschy in un saggio che ricostruisce la storia della recezione del famoso libro del linguista citato da Freud.23 In particolare si deve a Benveniste la critica più radicale alla teoria di Abel, delle cui etimologie denuncia l’arbitrarietà, (utilizzata da Freud come argomento a sostegno della propria teoria dell’inconscio); Benveniste inoltre punta il dito sull’irreperibilità di lingue primitive o dell’età della pietra in cui siano rintracciabili termini con significato opposto, sottolineando infine l’inassimilabilità dell’inconscio a un linguaggio naturale.24 Il simbolismo dell’inconscio non ha natura linguistica: la tesi di Abel, da cui Freud pretende di trarre solidi argomenti a sostegno della propria teoria psicoanalitica, in particolare rispetto all’interpretazione dei sogni, sarebbe destituita di qualsiasi fondamento. Naturalmente Benveniste e altri linguisti — fortemente, se non intransigentemente critici nei confronti della teoria di Abel — non mettono in discussione la teoria freudiana, ma si limitano a evidenziare l’insostenibilità della teoria linguistica abeliana. Romaniello dà man forte all’attacco demolitore di Benveniste contro la tesi dell’autore di Über den Gegensinn der Urworte: il fenomeno dell’enantiosemia non esiste in alcuna lingua, perché nessun termine linguistico è mai impiegato in due significati opposti isocronicamente. Ad esempio il passaggio dal latino «feriae» (che indicava le giornate dedicate alle feste religiose, perciò non lavorative) all’italiano «feriale» (che indica i giorni lavorativi), non avrebbe nulla a che vedere con l’enantiosemia: il capovolgimento semantico nel tempo di ferialis da «festivo» a «lavorativo» trova una spiegazione in circostanze storiche ed extralinguistiche: la rivoluzione religiosa e il trionfo del cristianesimo.25 Lepschy, molto meno intransigente di Benveniste, è disposto a riconoscere l’esistenza del fenomeno dell’enantiosemia come uno dei meccanismi che sono alla base di ogni sistema linguistico e porta ad esempio il termine latino fortuna quale esempio irrefutabile. Tuttavia, il senso di fortuna, in quanto derivato da fors (caso, evento, fatto accidentale), non è né di buona fortuna né di mala sorte, accezioni che si ottengono solo se a fortuna si aggiungono secunda, prospera, florentissima, oppure adversa, iniqua.26 Insomma la bivalenza semantica, per cui lo stesso termine, nella stessa lingua, ha due significati opposti, non esiste, poiché nessun termine può significare due cose opposte, al tempo stesso. Se un parlante usasse termini con un doppio significato, metterebbe in difficoltà i suoi interlocutori e la comunicazione diverrebbe impossibile. A questo punto converrà distinguere tra due ordini di linguaggio — analogico e numerico o verbale — riservando l’enantiosemia al linguaggio analogico.

5.

Il linguaggio analogico si distingue sotto numerosi aspetti dal linguaggio verbale o numerico: per via analogica non è possibile mentire, usare i connettivi logici, le congiunzioni e preposizioni del discorso verbale, non esiste l’equivalente del «non»; qualcosa di simile accade nella primitiva scrittura ideografica, dove le unità di significato sono immagini. Gli studiosi di Palo Alto, autori di Pragmatica della comunicazione umana, segnalano l’intrinseca ambiguità dei messaggi analogici: «Ci sono lacrime di dolore e lacrime di gioia; l’atto di serrare i pugni si può interpretare come un segno di aggressività oppure di costrizione; con un sorriso si può esprimere comprensione oppure disprezzo; la riservatezza può essere una manifestazione di indifferenza oppure di tatto».27 Impossibile non chiedersi se tutti i messaggi analogici presentino la stessa ambiguità, aggiungono gli autori di Pragmatica della comunicazione umana, e non ricordarsi del freudiano Gegensinn der Urworte. Nella comunicazione analogica mancherebbero quindi indicatori e qualificatori che specifichino quale dei due significati è quello esatto. Il significato opposto dei termini primitivi, richiamato dagli studiosi di Palo Alto, può trovare spiegazione come un fenomeno di sopravvivenza o trasposizione dall’analogico al numerico o verbale di una caratteristica tipica del linguaggio analogico. Il linguaggio verbale, tuttavia, sembra per sua natura non poter ammettere alcuna forma di enantiosemia: ciascun termine ha un solo significato nella stessa occorrenza. Il fraintendimento è possibile, ma implica una discrepanza tra il senso voluto dall’emittente e il senso inteso dal destinatario. Forse l’anfibolia28 — non a caso classificata come fallacia dal punto di vista del linguaggio verbale — è la costruzione che assomiglia di più all’enantiosemia. Ma alla fine l’ambiguità ante factum si dissolve quando post factum risulta evidente che una sola interpretazione era quella giusta. Come nel linguaggio analogico, al costrutto anfibolico mancano degli indicatori che permettano di individuare un significato univoco. Gli esseri umani però devono combinare i due linguaggi e tradurre dall’uno all’altro. Tra i due linguaggi non c’è simmetria: non posso descrivere il linguaggio numerico attraverso l’analogico, mentre posso parlare dell’analogico mediante il modulo numerico. Pensiamo solo alla differenza tra corteggiamento e contratto matrimoniale.29 Il primo si basa sul linguaggio analogico, il secondo su quello numerico. Due fidanzati decidono di sposarsi: dopo il matrimonio possono continuare a chiedersi se stanno insieme perché vogliono o perché devono, spontaneamente oppure forzatamente. Il vecchio adagio «il matrimonio è la tomba dell’amore» non è che la drammatizzazione del problema che sorge quando alla dimensione analogica del rapporto amoroso si sovrappone una specie di riscrittura o traduzione dall’analogico al numerico.

In questa sede possiamo richiamarci al paradigma fondamentale di questa opposizione semantica, rappresentato dalle nozioni di sacro e di sacrificio. Sacer è un esempio di termine con doppio significato: sacro e sacrilego, santo ed esecrabile. Sacrificium è l’azione di rendere sacro (sacrum facere). La vittima del sacrificio è resa sacra mediante la sua stessa uccisione. In origine, quella che Girard chiama crisi d’indifferenziazione, caratterizzata dal tutti contro tutti, sfocia nella selezione di un responsabile del male oscuro che lacera la comunità in preda al caos: di qui il tutti contro uno, quando i persecutori e la stessa vittima si convincono che uno solo è responsabile della rovina in cui tutti stanno precipitando. Dopo il linciaggio, la valenza simbolica della vittima si converte nel suo opposto: da potenza malefica quasi invincibile si trasforma in potenza benefica assoluta, poiché la sua espulsione ha permesso alla comunità di ritornare allo stato di pace anteriore alla crisi.30 La stessa vittima è dunque insieme malefica e benefica, distruttiva e costruttiva. Il dio mitico, sorto dalla sacralizzazione della vittima espulsa, permette o vuole anche eventi luttuosi, che tolgono ogni speranza, rivelando così la sua origine dalla vittima, il suo statuto ambivalente di vittima colpevole della conflittualità dilagante e insieme salvatrice della stessa comunità che l’ha linciata. Il dio mitico è benefico e malefico, amorevole e vendicativo. L’uomo arcaico si rapporta al divino secondo quest’ambivalenza fondamentale, per cui quando Dio è pensato esplicitamente come potenza benefica, la sua natura di potenza malefica rimane implicita e viceversa quando, in occasione di tragiche calamità o eventi devastanti, la stessa divinità è pensata esplicitamente come genio del male e causa della catastrofe, la sua azione salvifica rimane implicita. Il risveglio della potenza salvatrice della divinità si produce allora mediante i riti sacrificali che hanno il compito di rinnovare la potenza benefica, l’efficacia risanatrice della vittima espulsa e sacralizzata.31 La relazione tra la vittima espulsa e la divinità, risultato della sua sacralizzazione, rimane inconscia: numerosi miti rappresentano la scena del linciaggio per via metaforica, a partire dall’Edipo.

6.

Giovanni Semerano, in radicale controtendenza rispetto alla linguistica ufficiale, propone una rifondazione del lessico delle lingue europee su base semitica.32 A proposito di macto/mactare (abbatto, sacrifico) Semerano giudica semplicistica l’antica etimologia che li vuole derivare da «magis aucto», illustrando come del tutto persuasiva la derivazione dall’accadico maqâtu (cadere abbattuto, attaccare, abbattere). La radice dell’antico accadico MQT (uccidere) è alla base di maqtu (abbattuto, caduto). Il valore di «sacrificio», spiega Semerano, risulta dall’incrocio con la base corrispondente ad accadico maqqû (libazione, sacrificio) e maqqîtu (offerta sacrificale, libazione). Secondo Semerano l’etimologia tradizionale non ha tenuto conto del fatto che victima ha la stessa base etimologica di macto e corrisponde all’accadico wiqittum (miqittum: abbattimento). Semerano respinge la connessione, che l’etimologia tradizionale dà per scontata, tra mactare e mactus, indicando due diverse basi etimologiche: la base di mactus, macte (soddisfatto, abbondante) corrisponderebbe al fenomeno di una originaria laringale occlusiva (vedi *mag-) risalente al sumerico mah, accadico ma’du (abbondante, largo, generoso) e molto diffuso nelle lingue semitiche: ugaritico, arabo, ebraico. Cfr.: accadico ma’âdu (essere abbondante, moltiplicare, abbondare, guadagnare, ottenere); ma’dis (molto, grandemente).

Altra base ha invece macto, corrispondente all’accadico maqtu (abbattuto), da mqâtu (cadere, essere abbattuto e abbattere), incrociatosi con maqqû (libagione) che ricalcano la base corrispondente al semitico mhd, accadico mahasu (uccidere, abbattere) .33 Victima (sacrificio, vittima, offerta sacrificale) ha la stessa base etimologica di macto, accadico miqtum (leggi: wiqtum, abbattimento, caduta) da maqâtu (essere abbattuto, cadere) .34 L’ipotesi di Semerano giustifica sul piano etimologico la connessione tra sacrificio e vittima, per la quale non c’è praticamente sacrificio senza vittima. La vittima può essere colui che sacrifica oppure colui che viene sacrificato.

7.

L’interpretazione che Emanuele Severino tenta dell’etimologia di mactare consente di rivolgere l’attenzione alla differenza tra la sua concezione del divino e la teoria mimetico-sacrificale di René Girard. Severino osserva che mactare in latino significa «uccidere» (cfr. l’italiano «mattanza» e lo spagnolo matar che significa «uccidere») .35 Mactus è però termine latino che significa ingrandito, rafforzato, innalzato, glorificato e condivide con magnus la radice indœuropea, magh, presente anche nel greco mechané. Mactus potrebbe essere la crasi di magis auctus, che significherebbe quindi «reso ancora più grande e più ricco». Di qui mactare col significato di innalzare, ingrandire, glorificare, ma anche onorare, placare, riferito a un dio destinatario del sacrificio o dell’invocazione. Scrive Severino: «Mactare sposta allora la propria mira dal dio, a cui si sacrifica (mactare deum extis, «rafforzare» il dio con le viscere delle vittime del sacrificio), allo strumento del sacrificio, cioè alla vittima, e significa allora anche «uccidere», «ammazzare»: accanto a mactare deum, compare mactare victimam».36

Severino individua la ragione profonda della semantica etimologica di mactare nella necessità, per l’uomo arcaico, di porre rimedio all’angoscia che prova dinanzi alle trasformazioni di se stesso e delle cose del mondo, sottoposte a nascita e morte. L’angoscia procurata dal diventare altro di ogni cosa è superata dall’alleanza con la forza del dio. Se la potenza del dio è la sola speranza di salvezza, l’uomo dovrà proteggere e accrescere tale potenza. Nell’epoca in cui domina il mito, l’uomo rafforzerà la potenza divina con il sacrificio di sé e di ciò che possiede. Successivamente Dio è rafforzato attraverso la filosofia, che lo celebra come la forza invincibile, immutabile, eterna, capace di custodire ogni cosa. Il concetto di un Dio invisibile e onnipotente, causa di se stesso e del mondo, nella teoresi di Severino assume il ruolo di negazione permanente e incontrovertibile dell’annientamento al quale, apparentemente, sono destinate tutte le cose. La riflessione metafisica sulla forza eterna e immutabile ha quindi la stessa funzione del sacrificio, quella di istituire un rimedio efficace contro il divenire che angoscia perché spalanca il nulla davanti agli occhi dell’uomo.

La ricostruzione di Severino non rende conto dell’origine del dio. L’immutabile entra in gioco solo come negazione del divenire? Se tutto diviene e si trasforma nel suo altro, quale può essere la matrice della potenza divina, opposta al divenire come eterna e immodificabile? Con Girard possiamo spiegare l’espressione mactare victimam come perfettamente corrispondente al senso del linciaggio originario di una vittima umana alla quale viene addossato ogni male che funesta la comunità. La vittima espulsa per il convergere unanime dell’odio dei persecutori, in seguito al passaggio dal «tutti contro tutti» al «tutti contro uno», che la individua come causa della crisi dilagante, diventa, in virtù della sua stessa soppressione, la causa del benessere, della pace e dell’ordine della comunità stessa. La vittima è quindi uccisa e poi sacralizzata. Qualsiasi vittima di omicidio subisce la stessa sorte: per il semplice fatto di essere stata uccisa, la vittima è ingrandita, accresciuta, glorificata; lo stesso accade, più in generale, anche in conseguenza della morte di qualcuno per cause naturali, come se coloro che conoscevano il deceduto quando era in vita, si sentissero responsabili della sua morte, pur non avendo avuto alcun ruolo nel determinare il tragico evento.

La teoria vittimaria, per concludere, spiega perfettamente la compresenza, in mactare victimam, di due significati: uccidere da una parte, innalzare e glorificare dall’altra. Nel caso del linciaggio originario, che per lo più nel mito è occultato, la vittima, dapprima uccisa perché ritenuta causa di tutti i mali, viene divinizzata come causa di ogni bene per coloro che l’hanno uccisa. Di qui la necessità di rafforzare e rinnovare periodicamente, mediante sacrifici umani o animali, la potenza salvifica della divinità istituita con l’assassinio della prima vittima. Ecco perché uccidere e glorificare coesistono in mactare, che è insieme mactare victimam e mactare deum, giacché il verbo significa uccidere se riferito a una vittima, glorificare se riferito al dio. Infatti la divinizzazione della vittima è la conseguenza della sua uccisione. Se non si ricostruisce la genesi del sacro arcaico alla luce dell’antropologia vittimaria, si può essere tentati di segnalare il verbo mactare come esempio di enantiosemia.

Severino e Girard condividono unicamente il carattere antropologico della genesi del dio che essi propongono (rispettivamente per Severino l’immutabile come argine e negazione del divenire, per contrastare l’orrore del nulla e vincere la contraddizione del divenire; e, per Girard, la sacralizzazione della vittima uccisa e trasformata da onnipotenza malefica in onnipotenza benefica). La negazione del nulla e la vittoria sull’orrore dinanzi al divenire si può conseguire mediante l’uccisione di una vittima. Questa potrebbe essere la genesi di quel dio arcaico che, per Severino, interviene nella fase post-mitica nella forma dell’immutabile all’interno della riflessione propriamente filosofica?


  1. F. Calonghi, Dizionario latino-italiano, 3° edizione interamente rifusa e aggiornata del dizionario Georges-Calonghi (1950), Rosenberg & Sellier, Torino 1967, p. 1628. ↩︎

  2. G. Devoto, Avviamento alla etimologia italiana. Dizionario etimologico, Le Monnier, 1966, seconda edizione 1968, p. 261. ↩︎

  3. A. Walde, J. B. Hofmann, Lateinisches Etymologisches Wörterbuch, Zweiter Band, M-Z, Carl Winter - Universitätsverlag, Heidelberg 1982, pp. 4-5. ↩︎

  4. G. B. Conte, E. Pianezzola, G. Ranucci, Dizionario della lingua latina, Le Monnier - Mondadori 2000, p. 714. ↩︎

  5. Cfr.: Girard, R., La violence et le sacré, 1972, trad. it., La violenza e il sacro, di O. Fatica e E. Czerkl, Adelphi, Milano 1980; ID., Des choses cachées depuis la fondation du monde, 1978, trad. it., Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, di R. Damiani, Adelphi, Milano 1983; ID., Le bouc émissaire, trad. it., Il capro espiatorio, di Ch. Leverd e F. Bovoli, Adelphi, Milano 1987. ↩︎

  6. Lexicon totius latinitatis ab Aegidio Forcellini seminarii patavini alumno lucubratum deinde a Iosepho Furlanetto eiusdem seminarii alumno emendatum et auctum, nunc vero curantibus Francisco Corradini et Iosepho Perin seminarii patavini item alumnis emendatius et auctius melioremque in formam redactum, Tom. III, curante Iosepho Perin cum appendice eiusdem, MCMLXV Arnaldus Forni excudebat Bononiae Gregoriana edente Patavii, p. 142. ↩︎

  7. Io. Matthi. Gesneri, Novus Linguae Latinae Thesaurus, tom. III, col. 168. ↩︎

  8. Ad esempio in Cat., Agr. 134, 2, 3: Juppiter te…bonas preces precor uti sies volens propitius mihi liberisque meis domo familaeque meae mactus hoc ferto …Iane pater…macte uino inferio esto (A. Ernout - A. Meillet, Dictionnaire étimologyque de la langue latine. Histoire des mots, Quatrième édition, Librairie C. Klincksieck, Parigi 1967, p. 376). ↩︎

  9. A. Ernout - A. Meillet, Dictionnaire étimologyque de la langue latine. Histoire des mots, cit., p. 376. ↩︎

  10. Thesaurus Linguae Latinae. Editus iussu et auctoritate consilii ab academiis societatibusque diversarum nationum electi, volumen VIII, M, MCXXXVI-MCMLXVI, Lipsiae in aedibus B.G. Teubneri, pp. 21 segg. ↩︎

  11. Arnob. Nat.: animas inmortalitatis condicione mactatas (Thesaurus Linguae Latinae, cit., p. 21). ↩︎

  12. Ad esempio Enn.: Qui illum di deaeque magno mactassint malo! (Thesaurus Linguae Latinae, cit., p. 21). ↩︎

  13. Thesaurus Linguae Latinae, cit., pp. 22-23. ↩︎

  14. E. Benveniste, Le vocubulaire des institutions indœuropéennes (1969), trad. it., Il vocabolario delle istituzioni indœuropee, a cura di M. Liborio, volume secondo, Einaudi, Torino 1976, p. 453. ↩︎

  15. Cfr.: Maria Dolores Peduto, «Le parole con significato opposto», ÁÉÙÍ, vol. 15, 1993, pp. 65-88; Basile , Grazia (1999) «Le parole di significato opposto prima di Carl Abel. Annali dell’Università degli Studi di Napoli «L’Orientale». Rivista del Dipartimento del mondo classico. Sezione Linguistica, 1997 (19). pp. 29-62. ↩︎

  16. S. Freud, Significato opposto delle parole primordiali, in Freud, Opere, vol. VI, 1909-1912 Casi clinici e altri scritti, Boringhieri, Torino 1974, pp. 185-186. ↩︎

  17. S. Freud, Significato opposto delle parole primordiali, cit., p. 188. ↩︎

  18. S. Freud, Significato opposto delle parole primordiali, cit., p. 188. ↩︎

  19. S. Freud, Significato opposto delle parole primordiali, cit., p. 189. ↩︎

  20. «The state we have passed to is our explicit consciousness, the state we have passed from is our implicit consciousness» (A. Bain, Logic, London, Longmans-Green-Reader-Dyer 1870, p. 3). ↩︎

  21. S. Freud, Significato opposto delle parole primordiali, cit., pp. 189-190. ↩︎

  22. S. Freud, Significato opposto delle parole primordiali, cit. p. 190. ↩︎

  23. G.C. Lepschy, Freud, Abel e gli opposti in «Sulla linguistica moderna», Il Mulino 1989, citato in G. Romaniello, Pensiero e linguaggio. Grammatica universale, Sovera editore, Roma 2004, p. 172. ↩︎

  24. G. Romaniello, Pensiero e linguaggio. Grammatica universale, cit., p. 172. ↩︎

  25. Il mutamento semantico di feriae, che non ha nulla a che fare con l’enantiosemia, si deve alla «sistematica «damnatio memoria» del culto pagano e, in particolare, di quello dominante negli ultimi due secoli (I-III se. D.C.) del dio Mitra, il «Sol invictus», la cui festa, coincidente col solstizio invernale, fu sostituita dalla festa del Natale di Cristo, il nuovo Sole salvatore, fissata al 25 dicembre proprio per tale «damnatio memoriae» che impose anche la riconsacrazione dei giorni dedicati alle divinità pagane che vennero tutti consacrati all’unico nuovo Dio-Signore degli uomini; pertanto ogni giorno ricevette la qualifica «feria», un singolare di «feriae», poco usato e ripescato appositamente allo scopo, che aveva il significato di «giorno dedicato a Dio» = giorno sacro» (G. Romaniello, Pensiero e linguaggio. Grammatica universale, cit., p. 182). Donde la nuova denominazione dei giorni della settimana partendo dalla domenica, giorno del Signore per antonomasia: prima feria, feria secunda, feria tertia, ecc. ↩︎

  26. G. Romaniello, Pensiero e linguaggio. Grammatica universale, cit., p. 185. ↩︎

  27. P. Watzlawick, J. H. Beavin, D. D. Jackson, Pragmatic of human communication. A study of interactional patterns, pathologies and paradoxes, 1967, trad. it., Pragmatica della comunicazione umana. Studio dei modelli interattivi, delle patologie e dei paradossi, di M. Ferretti, Astrolabio, Roma 1971, p. 58. ↩︎

  28. La fallacia di anfibolia introduce un’ambiguità di tipo sintattico, giacché dipende dal modo in cui le parole sono combinate. Un asserto anfibolo ammette più di un’interpretazione, una delle quali risulta vera. Un esempio facile è il genitivo, che può essere soggettivo o oggettivo (la paura dei nemici). Ennio negli Annales riferisce il responso che la Pizia diede a Pirro: Aio te, Aeacida, Romanos vincere posse, dove la proposizione oggettiva ha due significati opposti: Pirro può vincere i Romani e viceversa. Altro esempio lo troviamo in Erodoto, Storie I 86, 5-6; I 87: «Il re di Lidia Creso muove guerra al sovrano persiano Ciro, dopo aver consultato l’oracolo di Delfi. Il dio aveva vaticinato che, se egli avesse attaccato Ciro, sarebbe crollato un grande regno; ma Creso non aveva neppure sospettato che il regno destinato a cadere era proprio il suo. Il re sconfitto, condannato a morte e posto sul rogo, ricorda anche l’ammonimento a non considerarsi fortunato prima della fine della vita, che gli era stato rivolto tempo addietro da Solone. La sua menzione del saggio ateniese suscita la curiosità di Ciro; colpito dal racconto dell’episodio, il vincitore rinuncia al suo crudele trionfo e accoglie Creso tra i suoi amici». Qualsiasi evento conferma il responso e lo fa risultare veridico: i sacerdoti che lo hanno emesso non hanno nulla da rimproverarsi. Ai sacerdoti si sarebbe potuto rimproverare di essersi sbagliati solo nel caso in cui lo scontro tra i due eserciti si fosse concluso senza vincitori né sconfitti. In tal caso nessuno dei due regni sarebbe crollato. ↩︎

  29. P. Watzlawick - J. H. Beavin - D. D. Jackson, Pragmatica della comunicazione umana, cit., p. 59. ↩︎

  30. Cfr.: Girard, R., La violenza e il sacro, cit.; ID., Delle cose nascoste sin dalla fondazione del mondo, cit.; ID., Il capro espiatorio, cit. ↩︎

  31. Cfr. C. Tugnoli, Girard. Dal mito ai vangeli, edizioni Messaggero, Padova 2001 e http://www.academia.edu/2566746/IL_CIRCOLO_NON_VIZIOSO_DI_GIRARD; https://mondodomani.org/dialegesthai/articoli/claudio-tugnoli-06; https://mondodomani.org/dialegesthai/articoli/claudio-tugnoli-23 dove discuto questi aspetti della teoria mimetica. ↩︎

  32. G. Semerano, Le origini della cultura europea, 2 voll, 4 tomi, Olschki editore, Firenze 1994. ↩︎

  33. G. Semerano, Le origini della cultura europea, cit., vol. II, Dizionari etimologici. Basi semitiche delle lingue indeuropee, tomo 1, Dizionario della lingua latina e di voci moderne, pp. 463-464. ↩︎

  34. G. Semerano, Le origini della cultura europea, cit., vol. II, Dizionari etimologici. Basi semitiche delle lingue indeuropee, tomo 1, Dizionario della lingua latina e di voci moderne, p. 612. ↩︎

  35. E. Severino, La potenza dell’errare. Sulla storia dell’Occidente, Rizzoli, Milano 2013, p. 302. ↩︎

  36. E. Severino, La potenza dell’errare, cit., pp. 302-303. ↩︎