René Girard, André Gounelle, Alain Houziaux, Dieu, une invention?, Les Éditions de l’Atelier/Éditions Ouvrières, Paris 2007.
Se Dio esista realmente in se stesso, o se sia un’invenzione degli uomini, è la questione dibattuta in questo libro, che nasce da una conferenza organizzata da Alain Houziaux nel novembre 2005 presso il Temple de l’Église réformée de l’Étoile. Alain Houziaux, nel suo intervento dal titolo Peut-on prouver l’existence de Dieu?, si chiede perché Dio non potrebbe essere un’invenzione degli esseri umani, così prolifici nel concepire idee e ideali che godono di grande prestigio presso di loro, come l’idea di Bene, di Giustizia, di Verità. Dio però è concepito come l’essere che esiste indipendentemente dagli uomini, esiste in se stesso. L’estrema varietà dei modi in cui Dio è concepito potrebbe testimoniare la possibilità che Dio stesso sia una nostra invenzione. Si aggiunga poi che nel corso dei secoli il Dio al quale ci è proposto di credere è divenuto sempre più complicato e così sconcertante da riuscire incredibile. Infatti da una parte è concepito come eterno, totalmente altro, infinito, trascendente, dall’altra è invocato come creatore del mondo, guida della storia, giudice degli uomini e capace di resuscitare i morti. L’ambiguità di tale concezione suscita l’impressione di una dogmatica astratta e insieme troppo umana. Dinanzi a questa costruzione contradittoria, si chiede Houziaux, non è legittimo chiedersi se Dio sia un’invenzione e come le religioni arcaiche siano giunte a inventare l’idea di Dio? Si tratta poi di dimostrare che il Dio del cristianesimo non è un’invenzione dell’uomo, ma è qualcosa che esiste di per sé. La terza e ultima questione consiste nel chiedersi se la fede in Dio si possa spiegare in base al modo in cui funziona il nostro spirito. Non è possibile che Dio sia una nostra creazione, che il Dio creatore, il Dio soccorritore, il Dio della coscienza morale, sorgano come espressioni di esigenze soggettive? (p. 14).
In genere si dà per scontato che se Dio è un’invenzione, allora non esiste; e che se esiste, allora non è un’invenzione. Eppure, avverte Houziaux, le cose non sono così semplici. Con l’esempio delle allucinazioni, si può mostrare che chi soffre un’allucinazione uditiva non sa distinguere tra l’esistenza e la non esistenza dell’oggetto che normalmente procura un determinato suono. Come distinguere tra soggettività ed esistenza oggettiva? Il nostro cervello funziona in modo tale da non avvertire la differenza tra la percezione di un’invenzione e quella di un oggetto reale. Quindi è impossibile distinguere tra la fede in un Dio che è un’allucinazione e la fede in un Dio che esiste realmente. I filosofi utilizzano spesso il nome di Dio per designare il caso, l’amore, il bene, ecc. Dio è sostanzialmente un’idea, con il medesimo statuto dei trascendentali della scolastica medievale che Dio riunisce in sé: Uno, Essere, Vero, Bene. Se si volesse sostenere che Dio è in questo caso un’invenzione, si dovrebbe aggiungere che anche l’Essere, la Verità, il Bene sono delle invenzioni (pp. 15-16). Si deve tuttavia riconoscere che il termine Dio ha un senso che non si può ridurre a quello di una nozione astratta o di un valore. Dio può essere concepito come immanente, ad esempio come anima del mondo (Giordano Bruno), oppure come sostanza infinita (Spinoza) o come processo evolutivo (l’evoluzione creatrice di Bergson), ma neppure in queste accezioni esiste in se stesso, essendo indissociabile dal mondo che abita, come la forma dalla materia. E tuttavia non è un’invenzione, a meno che non si voglia ritenere un’invenzione l’idea di forma o di natura o di evoluzione creatrice. Il vero problema a questo punto non è quello di stabilire se concepiamo Dio secondo il nostro umano modo di essere, bensì se esista un Dio in se stesso, del tutto differente rispetto a quello che noi siamo inclini a immaginare, un Dio quindi che sarebbe del tutto inconoscibile per noi. Si tratterebbe di accertare l’esistenza di un Dio la cui essenza rimane tuttavia inaccessibile. È possibile questo? Non si dovrebbe riconoscere che un Dio totalmente altro rispetto al Dio che riusciamo a immaginare, un Dio estraneo alla nostra intelligenza, un Dio che non riusciamo a pensare, rimane fuori della nostra portata, lasciando del tutto irrisolta la questione se Dio sia un’invenzione oppure no? Bisognerà quindi rassegnarsi a porre la questione nel solo modo sensato: Dio come noi lo pensiamo e lo definiamo, si può considerare un’invenzione? (p. 17). Ma a questo punto la risposta appare scontata: un Dio come noi lo pensiamo o immaginiamo (innumerevoli sono i differenti modi di concepirlo), non può esistere. E tuttavia anche questo ragionamento è discutibile. Non si può escludere che Dio sia totalmente differente dal modo in cui è concepito dagli umani, ma neppure l’opposto, che Dio possieda alcune qualità che gli sono attribuite. «Ad esempio, possiamo considerare che Dio ha un’esistenza oggettiva, che non dipende dagli esseri umani e che è il creatore del mondo; di fatto egli può essere tutto questo» (p. 18). Anche per quanto riguardo Dio, bisogna riconoscere che una certa cosa non è falsa solo perché è oggetto del nostro pensiero. La questione da risolvere è se sia o meno un’invenzione quel che noi pensiamo di Dio. Limitandoci al Dio concepito, ci chiediamo se un tal Dio esista oppure se sia un’invenzione. Tale problema è irrilevante se Dio è concepito come immanente al mondo; ma riveste un’importanza cruciale se Dio è inteso come trascendente, come un ente che esiste in se stesso. D’altra parte, bisogna chiedersi se sia possibile intendere senza contraddizione un Dio che viene concepito come esistente a se stante (indipendente dal fatto di essere pensato da qualcuno). Non è esposta questa semplice asserzione all’obiezione di Berkeley, per la quale è impossibile pensare qualcosa come a se stante, giacché significherebbe assumere ad oggetto del pensiero il non pensato, percepire il non percepito? Inoltre, sarebbero ugualmente un’invenzione gli dei dell’animismo, del politeismo, del monoteismo?
In rapporto alle concezioni sull’origine delle divinità, Houziaux cita G. Van der Leeuw, il quale spiega le credenze dei primi uomini relative agli dei come derivanti dai fenomeni naturali. La potenza di tali fenomeni (la pioggia che fa crescere le piante, la polvere da sparo che può distruggere), quella di certi uomini provvisti di poteri soprannaturali di guarigione, la stessa potenza sessuale di generare: dietro a questi fenomeni l’animista individua l’azione di spiriti, siano questi concepiti come interni ai fenomeni o indipendenti da essi. L’idea di Dio si sarebbe evoluta in tal modo, senza soluzione di continuità, passando dall’animismo al politeismo al monoteismo. La teologia pone come originario il Dio unico e non ammette alcuna evoluzione verso il monoteismo, concepito come la forma assolutamente originaria di riconoscimento del divino. Gli animisti sono panteisti, concepiscono l’esistenza di un’unità indissolubile tra gli dei e la natura; quindi non ha senso chiedersi se questi spiriti sono indipendenti. La distinzione tra ciò che è oggettivo e indipendente dal fatto di essere concepito, e ciò che è soggettivo, inventato quindi dagli esseri umani, è possibile solo nella nostra cultura. Tuttavia se tale opposizione tra oggettivo e soggettivo viene respinta come inconsistente, la questione se Dio sia un’invenzione non può neppure essere posta.
Il dio del monoteismo deriva dall’animismo. Secondo Houziaux proprio il dio del monoteismo «è stato definito come un Dio-potenza e come un atto di potenza che agisce nell’universo e nell’uomo» (p. 22). La metafisica e la teologia scolastica hanno preso ad oggetto di indagine questo Dio onnipotente, rappresentandolo come la Causa Prima di tutto ciò che esiste. In un certo qual modo, commenta Houziaux, «la metafisica deriva dall’animismo più che dalla concezione di un Dio personale che si allea con il popolo d’Israele» (p. 23). Come causa impersonale di ogni accadimento il dio della metafisica è molto più simile alla forza che anima le cose stesse, che non a Jahwe. I teologi presentano Dio come un Essere attivo, dotato di esistenza propria: Dio esisterebbe dall’inizio, infinitamente prima che l’uomo apparisse. Dio come causa delle cause è impersonale, a differenza del Dio creatore. La domanda quindi diventa: «Il fatto di riconoscere a Dio un’esistenza propria indipendente dall’uomo e di considerarlo come un Essere attivo di per se stesso, può essere considerato un’invenzione? » (p. 24).
È possibile dimostrare l’esistenza di Dio? Tommaso d’Aquino considera poco valida la prova ontologica di Anselmo d’Aosta, dal momento che tale prova consisterebbe nel fatto che l’esistenza di Dio è contenuta analiticamente nella stessa definizione della parola “Dio”. La prova di Cartesio mostra per via antropologica come l’uomo non possa essere l’autore dell’idea di sostanza infinita, sapendosi finito: dunque l’idea di una sostanza infinita deve essere opera di Dio stesso, che quindi ha un’esistenza indipendente. Tuttavia osserviamo che la prova di Cartesio funziona se si presuppone che le idee della nostra mente devono avere un autore, noi o Dio. Deve esserci sempre qualcuno che ha fatto quello che c’è o che fa esistere quello che esiste. Una forza, un’energia, che fa funzionare il mondo, non può mai mancare. Non è forse questo un modo di pensare animistico? Secondo questa concezione, una cosa non può esistere da sola, ma è quello che è solo in virtù di qualcos’altro, che si mostra non direttamente, ma attraverso la cosa stessa, come se un burattinaio invisibile muovesse tutto ciò che si muove, facesse accadere tutto ciò che accade. Le prove a posteriori partono dagli effetti per risalire alle cause; ma l’esistenza di una causa è già posta in anticipo, giacché si considera impossibile l’esistenza di qualcosa in virtù di se stessa. Il principio adottato, per cui nessun ente esiste senza causa, fa sì che le prove a posteriori non siano realmente sintetiche, ma analitiche. Il raddoppiamento originario presuppone l’azione di spiriti o forze in ogni accadimento. Così dietro a ogni fatto si crede che agisca Dio stesso, in qualche modo. Qualcuno fa esistere, governa, provvede, come un genitore onnipresente e così potente da sopravvivere al mondo intero. Il raddoppiamento originario deriva forse dalla relazione genitori-figli. L’animismo infantile potrebbe essere la matrice dell’animismo adulto e di tutte le credenze teologiche fondate sul raddoppiamento dei fatti. Si può osservare, in linea di principio, che anche se gli eventi sono soggetti a condizioni, questo non significa che ci sia una causa retrostante, remota e invisibile, di cui essi sarebbero gli effetti.
Le prove di Tommaso d’Aquino sono costruite a posteriori, partendo dalla considerazione del mondo stesso. In base al raddoppiamento animistico si può risalire dagli effetti alle cause solo nella misura in cui gli effetti sono sensibili, mentre la causa ultima rimane inaccessibile, invisibile; essa non ha causa, esiste necessariamente, nella più assoluta indipendenza. Credere che dietro gli eventi ci sia Dio rappresenta un vantaggio sul piano psicologico, ma è privo di conseguenze sul piano strettamente conoscitivo, poiché una causa è tale quando a sua volta sussiste in virtù di altre cause e inoltre si può agire su di essa oppure si può immaginare la possibilità di un’azione. Se ogni effetto deve avere una causa, quale sarà la causa dell’intero universo, se non Dio stesso? L’esistenza dell’universo è inesplicabile, commenta Houziaux, ma ricondurla a Dio potrebbe significare che si spiega l’inesplicabile con qualcosa di ancora più inesplicabile. La quinta prova ci dice che tutti gli enti, per quanto privi di conoscenza, obbediscono al principio per cui essi tendono a un fine, come se fossero diretti da un Essere intelligente. Anche Voltaire e Rousseau hanno riconosciuto la necessità per cui deve esistere un autore del mondo. Oggi le cinque prove di Tommaso d’Aquino sono riprese da quanti ritengono impossibile il verificarsi di una serie di miracoli (l’esistenza di un pianeta dove la vita ha potuto comparire, prima che apparisse l’intelligenza dell’uomo), la cui concatenazione non può essere dovuta al caso. Quanto alla validità delle prove di Tommaso d’Aquino e alla loro forza di persuasione, Houziaux riprende le osservazioni di Kant, il quale, pur ammettendo che con un ragionamento si possa pervenire all’idea di Causa prima per spiegare l’esistenza del mondo e il suo funzionamento, giudicava però illegittimo concluderne che esiste un essere che è la Causa prima (p. 29), giacché questo equivarrebbe a passare dal concetto razionalmente necessario di causa prima all’affermazione della sua esistenza. Inoltre la prova fisico-teologica è concepita da Kant impossibile dal momento che il regresso dall’effetto alla causa, che è la base del ragionamento, non può essere applicato a Dio stesso, che dunque sarà detto causa sui, introducendo quindi un concetto incongruente rispetto allo schema di ragionamento adottato. Impossibile dunque provare l’esistenza di Dio con la logica. Quanto alla quinta prova, per la quale l’apparizione dell’uomo sarebbe un miracolo che dimostra l’esistenza di Dio, va precisato che l’apparizione dell’uomo rappresenta un miracolo per il fatto che siamo noi il risultato, quel miracolo che potrebbe non essere un miracolo in sé (p. 31). Non basta che un fatto sia altamente improbabile, che sfiori l’impossibilità, perché il suo verificarsi sia avvertito come miracoloso. Bisogna che il risultato ci riguardi direttamente, perché sia chiamato miracolo. Infatti diciamo che è tale non l’apparizione della carpa o del rinoceronte, ma l’apparizione dell’uomo. Insomma consideriamo un miracolo l’apparizione dell’uomo solo perché siamo esseri umani.
Le prove di Tommaso d’Aquino presuppongono che Dio possa essere inteso e giustificato mediante i concetti di causa ed effetto. Esse presuppongono che Dio possa essere conosciuto mediante la ragione umana. Questo però non è provato. Se Dio è Dio, è indipendente dalla logica e quindi non può essere dimostrato dall’uomo. L’uomo non può conoscere Dio se non a propria immagine, a immagine della propria intelligenza. L’uomo può rappresentarsi solo un Dio antropomorfico, un idolo, adorando il quale adora inconsciamente se stesso. Dio va concepito come indipendente dalla stessa logica dell’uomo, anteriore alla creazione del mondo. Ecco quindi che possiamo dimostrare solo un Dio conforme alla nostra logica: «Se pretendiamo di poter dimostrare Dio, ben lungi dal dimostrare che non è un’invenzione, ne facciamo un’invenzione della nostra intelligenza e della nostra logica» (p. 34). Definire Dio per mezzo del nostro intelletto significa fornire il significato di una parola, senza dimostrare l’esistenza dell’essere corrispondente. Tuttavia niente esclude che possa esserci un Dio quale causa prima di tutto ciò che esiste. Può esserci un Dio che rispecchia il nostro modo d’intenderlo, ma niente lo dimostra. Dio potrebbe esistere nel modo in cui lo concepiamo, ma non possiamo dimostrare che non si tratta di una creazione del nostro intelletto.
Houziaux volge il suo sguardo alle rappresentazioni che i credenti si fanno di Dio, utilizzando un metodo più psicologico. Oltre al Dio causa prima, abbiamo il Dio salvatore e il Dio giudice, che prescrive e condanna. Citando Albert Schweizer, Houziaux contrappone il Dio che appare nell’universo come forza misteriosa e impersonale, al Dio che si rivela nel cuore dell’uomo come volontà etica e personalissima. Trattandosi di rappresentazioni molto differenti di Dio, è inevitabile chiedersi a quali esigenze risponde il nostro modo di inventare Dio o, quanto meno, di rappresentarlo (p. 36). Con ogni probabilità Dio svolge diverse funzioni, che corrispondono a diversi bisogni umani, di cui potrebbero essere le proiezioni o invenzioni.
Lo studio delle religioni primitive permette di comprendere che la nozione di spirito e in seguito quella di Dio, è sorta dallo stupore davanti alle forze della natura e a fenomeni sconcertanti e privi di spiegazione. La prima funzione di Dio è, in ogni epoca, quella di illuminare il prodigio dell’universo, spiegando l’inesplicabile con qualcosa d’inesplicabile. E siamo alla prima rappresentazione di Dio. La seconda rappresentazione, quella di Dio salvatore o soccorritore, esprime il desiderio fondamentale dell’uomo di porre rimedio al proprio sentimento di impotenza. Il senso di vuoto e di fragilità dell’uomo è incolmabile e solo Dio può compensarlo: di qui la preghiera con cui l’uomo impotente si affida a Dio onnipotente. Riguardo alla terza rappresentazione, quella di Dio giudice, Freud ha spiegato come sia i malati di mente sia le persone normali avvertano la voce del Super-io come voce di Dio che ordina loro di fare questo e quello. In questo senso, Dio avrebbe la funzione di fare da substrato del super-io e dell’ideale dell’io, allorché queste due istanze della coscienza sono recepite dal soggetto come esterne a lui stesso.
Non si può escludere a priori che l’esperienza di Dio (fede, sentimento mistico o sentimento del sacro) si possa considerare come una dimostrazione dell’esistenza di Dio, dato che un’esperienza è inconfutabile almeno quanto possono esserlo certi ragionamenti. L’esperienza di Dio non è necessariamente l’invenzione di una forma di risposta a precisi bisogni. Le situazioni che suscitano l’esperienza di Dio non sono le stesse che spingono a ricorrere a Dio in rapporto ai tre bisogni essenziali (comprendere, essere soccorso ed essere esortato a un dovere). Le situazioni in cui facciamo esperienza di Dio sono la coscienza della morte e della fugacità della vita, la bellezza della natura, la solitudine, la musica, mentre quelle che suscitano il bisogno di Dio sono la depressione, la paura, le espressioni del sentimento di impotenza (p. 41). L’uomo moderno scopre Dio non come risposta a dei bisogni, ma come esperienza gratuita: si può fare esperienza di Dio senza aver bisogno di lui e viceversa si può aver bisogno di lui senza fare esperienza della sua presenza. Quanto alla possibilità che l’esperienza di Dio sia una prova che Dio non è una nostra invenzione, Houziaux è perplesso. Infatti l’esperienza di Dio, in particolare l’esperienza mistica, può essere dovuta all’azione di droghe; e quella religiosa potrebbe configurarsi come espressione di un processo neurologico. L’esperienza di Dio non è riducibile a un evento psichedelico, ma al tempo stesso non rappresenta una prova della sua esistenza.
Inoltre Houziaux osserva che diventa sempre più difficile sostenere che Dio non è un’invenzione man mano che si passa dal Dio dell’animismo al Dio causa prima e infine al Dio delle credenze religiose dei nostri giorni. «I teologi, nello sforzo di precisare ed esplicitare l’idea di Dio, l’avrebbero reso di fatto sempre più complicato e incredibile» (p. 43). Dagli dei dell’animismo, considerati troppo panteisti e immanenti alla natura stessa, i teologi sono passati alla concezione di una divinità sempre più trascendente ed esterna al mondo, suscitando complicazioni e difficoltà sempre più gravi. Un Dio che esiste oltre il mondo, anteriore e infinitamente trascendente, pone il problema di spiegare come tale Dio non sia in contraddizione con il verificarsi di catastrofi naturali e con la fallibilità dell’uomo. Potrebbe sembrare una provocazione l’invito a ritornare all’animismo, al fine di ritrovare un Dio meno complicato e più credibile, ma l’idea non è così sciocca, avverte Houziaux. A suo avviso infatti il ritorno alla spiritualità al quale oggi si assiste, non è che un revival di animismo. L’animismo esprime la rinuncia alla pretesa che Dio abbia un’esistenza in se stesso.
In terzo luogo, Houziaux osserva che è divenuta sempre meno pressante l’esigenza, tipica della metafisica, di chiarire la questione se Dio abbia un’esistenza in se stesso. È divenuta pertinente invece la questione: Quale senso Dio può conferire alla vita?, per rispondere alla quale è irrilevante stabilire se Dio esiste in se stesso o è un’invenzione degli esseri umani. D’altra parte sappiamo bene che le idee di giustizia, di verità, di libertà sono prodotti del nostro spirito e non hanno esistenza in se stesse (tranne che per i platonici). Quel che conta è che esse abbiano un senso e che rendano conto di ciò che noi pensiamo essere una verità (p. 45). Bisogna dunque avere il coraggio di gettare alle ortiche una questione che non ha alcuna rilevanza, anche se si dovesse ammettere che Dio è un’invenzione, così come viene trattato in metafisica e teologia. Dobbiamo arrenderci all’evidenza che Dio non è una realtà fisica e neppure metafisica, che si possa identificare e dimostrare. “DIO” è una parola inserita in una confessione di fede. Si tratta solo di sapere se ciò che designa questa parola possiede una verità e un senso. La pretesa di stabilire se all’idea di Dio corrisponda un essere in se stesso, porta a una strada senza uscita, giacché non abbiamo nulla da dire in proposito. In pratica è legittimo invocare Dio «come principio dell’inesplicabile, della gratuità e del per niente» (p. 47). Se diciamo che il mondo ci è dato da Dio, intendiamo dire che ci è offerto gratuitamente, senza motivo, incomprensibilmente. Dio, scrive Houziaux, non è la spiegazione dell’inesplicabile, ma è il principio dell’inesplicabile che rimane tale. Il mondo e la vita sono per grazia di Dio, vale a dire senza motivo, senza alcuna possibilità di giustificare razionalmente lo stato delle cose. Il mondo e la vita ci sono donati gratuitamente, per niente, senza che ci sia richiesto nulla in cambio. Designiamo Dio come donatore del mondo per dare un nome all’atto della donazione, ma questo non comporta affatto che Dio sia un soggetto che esiste in se stesso. La grazia, o gratuità, è qualificata come grazia di Dio. La professione di fede, osserva Houziaux, non dice solo: “Il mondo e la vita ci sono dati per grazia di Dio”, ma anche: “Dio, per grazia, ci dà il mondo e la vita”. Dio diviene soggetto nella versione attiva: è questo l’aspetto retorico e innologico della professione di fede. Il nome Dio è quindi un artificio retorico, «utilizzato per rendere conto del senso che diamo al fatto che “il mondo esiste per niente”» (p. 50). Il mondo non è giustificato in se stesso, la sua sola giustificazione è il fatto che esiste e che tale esistenza gli è data per niente e per grazia. Lo stesso vale per la nostra vita, che non ha giustificazione in se stessa, giacché «non potremo mai dare di nostra iniziativa (attraverso le nostre opere, le nostre azioni o le esperienze che possiamo vivere) un senso alla nostra esistenza» (p. 51). La vita ci è data per niente e per grazia, essa quindi ha questa sola giustificazione, senza che possiamo preoccuparci di dare noi un senso alla nostra vita. Operare nel mondo per amore di Dio significa agire per niente, in modo gratuito. La predicazione di Gesù Cristo diffonde una visione degli uomini come peccatori perdonati e chiama alla realizzazione di un ideale e di un progetto di vita e società, quello del regno di Dio. Decidere di credere in quella predicazione significa compiere un atto di fede che comporta un impegno nella realizzazione di un compito. Il cristiano prende una decisione, abbraccia una convinzione, agisce per difendere e promuovere una verità che non vede. La sua decisione esprime la sua ferma volontà di partecipare alla realizzazione del Regno, resistendo al male e opponendosi al realismo che vorrebbe inestirpabili il male, l’assurdo e l’ingiustizia.
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René Girard inizia il suo intervento dal titolo Le bouc émissaire et Dieu, con una risposta secca: Dio non è un’invenzione. Troppe sono le somiglianze tra le diverse concezioni di Dio nelle società arcaiche perché si possa sensatamente parlare di invenzione. Dio è inizialmente la personalizzazione del sacro. Ma che cos’è il sacro? Il sacro per Girard è l’esperienza della violenza all’interno delle comunità, violenza così terribile e inesorabile, che gli uomini vi riconoscono una potenza trascendente che li sottomette, alla quale obbediscono ciecamente e di cui non negherebbero mai l’esistenza. Dio è originariamente, nella concezione mitica, la stessa violenza espulsa e sacralizzata. Le divinità arcaiche, pur non essendo il vero dio, non sono invenzioni ma interpretazioni senza le quali non ci sarebbe stata l’umanità. Sono proprio queste interpretazioni che, per quanto non corrispondenti alla verità, hanno consentito alle comunità umane di tenere sotto controllo la violenza, che altrimenti avrebbe dissolto ogni forma di convivenza. Gli uomini sono stati capaci di escogitare, con il capro espiatorio, il solo strumento efficace che potesse contrastare quella violenza che essi stessi hanno provocato. Le interpretazioni della violenza e del sacro sono inseparabili dal vero Dio, il quale neppure è inventato: il Dio giudaico e cristiano che Girard dichiara realissimo.
Per comprendere il fenomeno religioso in modo scientifico e senza cedere al fideismo, si dovrà ammettere che la religione comincia con l’umanità; non solo, si deve riconoscere che l’umanità è figlia del fatto religioso, senza il quale non esisterebbe. L’evoluzione dell’uomo avviene in società che gli impongono restrizioni speciali, che non troviamo nelle specie animali. Per comprendere queste costrizioni o limitazioni, si deve partire dal carattere mimetico del comportamento degli esseri umani. L’imitazione agisce non solo nel modo di parlare e di comportarsi, ma anche sul piano del desiderio. Gli uomini imitano i desideri gli uni degli altri, provocando quella che Girard chiama rivalità mimetica, che tende a intensificarsi e a esasperarsi: «Più desidero quella cosa che voi desiderate già, più essa vi sembrerà desiderabile, e più, di riflesso, sembrerà desiderabile a me stesso» (p. 57). Il mimetismo speculare tende a trasformare la rivalità mimetica in un’ossessione, dove la soppressione del rivale diventa il vero obiettivo, al posto della cosa contesa in partenza. Anche tra gli animali possiamo osservare l’insorgere di rivalità, in particolare tra maschi per la conquista della femmina. Tali combattimenti però non sono mai mortali: la rivalità mimetica non sfocia nell’uccisione di uno dei due contendenti, giacché il competitore più debole a un certo punto si sottomette al più forte, che si astiene dall’ucciderlo. I casi di assassinio intraspecifico in ambito animale sono eccezionali, anche nelle specie più mimetiche. Nell’uomo invece il combattimento può prolungarsi indefinitamente in virtù della vendetta, invenzione esclusivamente umana. La vendetta consiste nell’infliggere al proprio avversario la violenza che egli ha già perpetrato. Essa trascende, va oltre gli individui tra i quali il conflitto ha avuto inizio, e coinvolge intere famiglie e gruppi. La vendetta, per il semplice fatto di trascendere il tempo e lo spazio, ha già in se stessa qualcosa di religioso.
È difficile contestare il fatto che il genere umano si sarebbe estinto se le società avessero ammesso la ritorsione. Oggi proviamo orrore al vedere che, con la potenza dei mezzi che la tecnica mette a disposizione della vendetta, la distruzione della vita sulla terra è a portata di mano di qualsiasi soggetto ben organizzato e determinato. La situazione odierna è apocalittica, spiega Girard, nel senso che essa rivela in modo violento la violenza che inerisce all’umanità stessa. La violenza dell’uomo oggi supera le possibilità umane di contrastarla, mettendo a rischio la sopravvivenza della specie. L’umanità in passato ha potuto sopravvivere in virtù di un congegno che ha interrotto la catena della vendetta interminabile, evitando che gli esseri umani si massacrassero l’un l’altro. Che cosa può aver interrotto efficacemente la vendetta, che in se stessa è interminabile? La vendetta è in se stessa paradossale, se pensiamo che ogni volta viene perpetrata allo scopo di porre fine alla violenza vendicatrice, mentre in realtà la rafforza e la protrae. La vendetta, che è insieme lo sforzo di interrompere la vendetta, non ha in se stessa un meccanismo di autocorrezione. Le società travolte dalla violenza sono società precipitate in una crisi mimetica, dove tutti desiderano la stessa cosa e cercano di impadronirsene con la forza bruta. La crisi mimetica generalizzata è massimamente violenta perché coinvolge tutti. La violenza diffusa si espande ammorbando l’intera società e minacciandone seriamente la sopravvivenza. I miti dell’antichità testimoniano per lo più la condizione di crisi generalizzata, da cui partono. Nel mito di Edipo la peste va interpretata come metafora di una violenza che contagia tutto e tutti. Molti miti espongono una catastrofe naturale, ma spesso si tratta di una crisi sociale camuffata, che ha avuto il suo innesco nel desiderio mimetico. «Quando due individui desiderano la stessa cosa, si aggiungerà un terzo; quando ve ne siano tre, presto saranno in quattro, e da quel momento si può capire come le società abbiano la tendenza a mobilitarsi tutte quante in lotte insensate» (p. 59).
Le società che si sono immesse nel vicolo cieco della violenza generalizzata e della vendetta interminabile, possono dissolversi rapidamente. A un certo punto la rivalità diventa così acuta che l’oggetto della controversia e del conflitto va distrutto, mentre i rivali continuano a battersi. L’antagonismo mimetico non verterà più sull’oggetto, ma sugli stessi antagonisti. Diviene possibile allora una soluzione mediante lo stesso meccanismo mimetico. Pur non potendo cessare di contrapporsi poiché desiderano tutti la stessa cosa, gli uomini possono però intendersi mimeticamente odiando lo stesso avversario. Siamo al meccanismo del capro espiatorio, il nemico di tutti divenuto unica vittima. Gli individui si trovano nella condizione di sostituire il proprio avversario privato con quello del loro vicino, per imitazione anche in questo caso; passo passo, viene il momento in cui l’intera comunità si trova schierata e compatta, in contrapposizione a uno solo, individuato come colpevole dai segni vittimari, ma in realtà senza un motivo preciso. Nello stesso mito di Edipo, a un certo punto, si scopre in Edipo il responsabile della crisi, ma guarda caso Edipo è zoppo, non si sa nulla riguardo la sua provenienza. L’eroe mitico è la vittima unanimemente designata. Tutti trasferiscono la violenza su di lui e lo uccidono. Il linciaggio unanime è l’espulsione della vittima espiatoria, ritenuta colpevole della crisi mortale: essa deve drenare tutta la violenza della società, ripulire e purificare, pacificare e stabilizzare l’intera società, per consentirle di sopravvivere. Girard vede all’opera il linciaggio originario nei miti e nei testi biblici, nonostante il ruolo diverso che esso ha nei due casi. L’assassinio collettivo è presente nella letteratura mitica e nella bibbia, spesso in una modalità che lo rende irriconoscibile: dev’essere chiaro che l’assassinio collettivo nei testi religiosi trova una spiegazione coerente non nella colpevolezza reale della vittima, ma nel transfert mimetico della violenza in un’unica vittima.
Il linciaggio, proprio in virtù del suo carattere unanime, riconcilia la comunità lacerata dalla violenza diffusa di tutti contro tutti, che rapidamente si converte in tutti contro uno. La vittima che ha subito il linciaggio è accusata di crimini atroci — parricidio, incesto, ecc. nel caso di Edipo, che Freud, secondo Girard, commette l’errore di prendere sul serio, mettendo in secondo piano la rivalità mimetica da lui peraltro intravista nel complesso edipico — in realtà crimini indifferenziatori, come indifferenziata è la stessa violenza di cui la vittima è ritenuta la causa. La vittima unica è uccisa perché creduta, senza fondamento, essere la causa della crisi, quindi il male onnipotente; dopo il linciaggio la stessa vittima diventa il bene onnipotente. Il dio arcaico infatti è insieme malvagio e benefattore. Il dio arcaico sorge per l’azione di un meccanismo che Girard chiama del capro espiatorio. Un aspetto fondamentale del capro espiatorio è il fatto che chi se lo crea, ignora di averlo e giudica la vittima realmente colpevole. Nelle società arcaiche una vittima colpevole e malefica si trasforma nel salvatore mediante la sua espulsione o linciaggio. Il lato oscuro, l’onnipotenza malefica della vittima, rimane incognito, mentre assume rilevanza unica la decisione di salvare gli uomini attribuita al dio sorto dal linciaggio nella rappresentazione collettiva. Non c’è alcuna evidenza riguardo ai motivi che spingono il dio a prodigarsi per la salvezza dell’umanità. Di fatto l’opera di salvezza è già avvenuta con il linciaggio: l’onnipotenza benefica del nuovo dio è un titolo nobiliare per l’impresa compiuta, ma la sua origine dalla vittima unanime rimane nascosta, non detta. Il dio diventa oggetto di culto per ottenerne dei benefici in futuro, mentre il vero unico grande beneficio è quello passato, in virtù del quale il dio arcaico è venuto alla luce dalle spoglie della vittima uccisa.
Girard vede nel sacrificio la prima istituzione dell’umanità. Una comunità che è stata riconciliata dal linciaggio cercherà di ripetere l’assassinio di una vittima, come la prima volta, quando una vittima uccisa perché ritenuta unanimemente colpevole, è stata linciata a nome dell’intera comunità per la sua salvezza. Il sacrificio ha quindi la funzione di rinnovare il beneficio ottenuto con l’espulsione originaria di una vittima. Il sacrificio è efficace in quanto riflette e surroga l’assassinio collettivo. La ripetizione del sacrificio, col passare del tempo, ne attenua l’efficacia; si apre così la strada alla possibilità di un nuovo linciaggio, che è un assassinio sperimentato come risolutore al di fuori di ogni programmazione rituale. Lo stesso meccanismo si presenta nell’atto di nascita, per così dire, del cristianesimo. Un’intera comunità (i sacerdoti, Pilato e anche Erode nel vangelo di Luca) esige che la vittima sia messa a morte. Sembrerebbe che nei vangeli la vittima del linciaggio, Gesù, sia divinizzato, al pari di ciò che accade nel mito. Gli antropologi dell’età del positivismo hanno creduto che i cristiani si fossero ingannati, accogliendo come verità quello che si doveva considerare un mito tra gli altri. Sfuggiva a quegli scienziati la differenza abissale tra il modo in cui il capro espiatorio opera nel mito e il modo in cui opera nei vangeli. La differenza è semplicissima: nel mito la vittima è sempre colpevole, mentre nella Bibbia e soprattutto nei vangeli, la stessa vittima è innocente. La Passione quindi non è l’ennesimo caso di linciaggio fondatore, la ripetizione del meccanismo di capro espiatorio, bensì luogo in cui il meccanismo del capro espiatorio viene rivelato e la menzogna disvelata. Nella Passione Gesù Cristo si lascia mettere a morte, pur essendo innocente, affinché gli uomini si riconoscano come persecutori di vittime incolpevoli. Cristo rinuncia interamente alla violenza sacrificale, alla vendetta interminabile. Il suo sacrificio è dunque toto coelo diverso dal sacrificio vittimario del mito. Cristo accetta di diventare capro espiatorio per mostrare come funziona nel mito il linciaggio fondatore, per svelare la menzogna su cui si fonda l’espulsione della vittima da parte di persecutori unanimemente convinti della colpevolezza della vittima: “Meglio che un uomo muoia e il popolo sia salvo”.
Gli dei arcaici, per quanto non siano reali, non sono completamente inventati: essi incarnano la violenza degli uomini. L’ordine su cui si fondano le società tradizionali è un ordine di tipo sacrificale, generato dall’espulsione di una vittima e dalla sua ripetizione mediante il rito sacrificale. La Passione deve la sua unicità e originalità assoluta alla denuncia espressa dalla crocifissione, che si mostra per quello che è realmente: un’ingiustizia insopportabilmente odiosa, che in futuro gli uomini dovranno evitare. Il disvelamento del capro espiatorio nella Passione deve rendere inefficace e persino prevenire il meccanismo persecutorio del tutti contro uno, al quale il mito, fondato sulla menzogna della colpevolezza della vittima, affida la salvezza della comunità. Non la ripetizione della violenza fondatrice, del linciaggio originario, bensì la rinuncia alla violenza — ecco l’insegnamento del vero Dio, che certamente non è un’invenzione.
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Girard chiede se non sia ridicola la teologia attuale che rifiuta di prendere Dio sul serio. Houziaux chiede a Girard se Dio, che a suo avviso interviene nel funzionamento della società stessa, esista indipendentemente dagli uomini. Girard risponde che Dio certamente esiste in se stesso, ma per intervenire nella società degli uomini bisogna che diventi un uomo proprio per subire il medesimo trattamento degli altri esseri umani, ma reagendo come Dio delle vittime. Gesù, il Figlio di Dio, non subisce rassegnato la violenza dei persecutori, né la utilizza come fanno gli esseri umani che rispondono colpo su colpo. Gesù non si oppone, non risponde con rappresaglie, poiché non riconosce un mondo dominato dalla logica della vendetta. Il vero Dio in Cristo si contrappone ai falsi dei, sorti dal meccanismo espiatorio del mito arcaico. Cristo è Dio e non c’è altro Dio che in Cristo, risponde Girard (p. 67). La teologia, pur partendo da ragionamenti che per certi versi sono falsi, e sulla base di una speculazione spesso incomprensibile, dice molte cose vere. Eppure basterebbe leggere i testi nel modo più semplice e accorgersi che il cristianesimo è portatore di una singolarità assoluta di cui nessuno si accorge perché è troppo visibile, troppo facile da vedere.
Alla questione se Dio esista indipendentemente dagli uomini, André Gounelle risponde con una precisazione lessicale, distinguendo tra essere ed esistere. Si esiste sempre in rapporto a un’esteriorità e a un’alterità, mentre si è in se stessi. Perciò si dovrà dire che «Dio è indipendentemente dagli uomini, non esiste indipendentemente da essi» (p. 68). Rivolgendosi a Girard, Gounelle gli chiede se a suo avviso gli uomini possano pensare di Dio qualcosa che si colloca al di fuori dell’umanità. L’attenzione di Girard è antropologicamente orientata a interpretare le tracce di Dio nell’uomo; si tratta di capire se la sua ottica si proponga come esclusiva. Girard confessa di non essere dotato per la metafisica e aggiunge che nel mondo di oggi la vecchia metafisica e la teologia non incidono sugli esseri umani, mentre l’approccio antropologico presenta il vantaggio di giustificare la funzione educativa della religione cristiana. I vangeli portano a compimento una missione storica inaugurata dalla bibbia ebraica, quella di rivelare finalmente la verità sulla vittima, la sua innocenza come fatto oggettivo e irrefutabile, smascherando la cecità dei persecutori e il loro errore. Gounelle riconosce che il valore di una religione si valuta in base alla sua capacità di migliorare la condizione dell’umanità e di condurre al bene; e concorda con Girard che le categorie teologiche classiche non riescono più a parlare agli uomini di oggi. Girard potrebbe ricordare Pascal, che si rifiutava di afferrare Dio mediante prove ontologiche, cosmologiche, metafisiche, ma lo faceva partendo dall’essere dell’uomo, dalla sua dualità di miseria e grandezza. Gounelle però chiede a Girard se la crisi mimetica sia la sola chiave per comprendere le società umane, la religione e Dio, oppure se lo stesso teorico del mimetismo non creda trattarsi di una chiave tra le altre. Inoltre gli chiede se il ragionamento di Pascal sia sempre pertinente o se l’argomentazione di Girard lo sostituisca semplicemente (pp. 70-71).
Girard risponde che in Pascal la crisi mimetica è abbozzata, il che si spiega con la scarsa esperienza degli uomini che Pascal ha avuto, a differenza di un Shakespeare o di un Cervantes. Alla domanda di Houziaux, se il sacrificio sia essenzialmente religioso o se sia possibile anche un sacrificio non religioso, Girard risponde indicando il sacrificio come intermediario tra il religioso e tutte le culture. Le istituzioni, con la loro struttura gerarchica e l’ordinamento disciplinare, provengono tutte dal sacrificio. La giustizia nasce dal sacrificio mediante la violazione della regola principale, per cui si deve sacrificare una vittima qualsiasi, non quella colpevole, perché nelle società arcaiche e deboli sacrificare la vittima colpevole significherebbe innescare la ritorsione interminabile. Il sacrificio mette a morte individui che non hanno alcun legame con la situazione di crisi, cosa che i moderni considerano assolutamente ingiusto. La giustizia come istituzione nasce nel momento in cui questa stessa istituzione può permettersi di sacrificare il colpevole, poiché è divenuta ormai così forte da poter resistere alla vendetta.
Secondo Girard il cristianesimo abolisce il sacrificio arcaico, eppure, osserva Gounelle, la stessa circostanza è presente anche in altre religioni, come il buddismo e in qualche misura anche nell’islam. Girard riconosce che esiste una lieve tendenza ad abolire il sacrificio anche in altre religioni, ma solo il cristianesimo a suo avviso l’ha eliminato davvero in modo completo. Per comprendere in che senso il cristianesimo può essere detto sacrificale, Girard invita a rileggere l’episodio del giudizio di Salomone in 1Re. Due prostitute dormono nello stesso letto con i rispettivi neonati, ma durante la notte uno dei due bambini muore soffocato. Allora la madre del bambino morto lo sostituisce con il bambino vivo e lo rivendica come suo. Salomone ascolta le due donne, le loro rivendicazioni speculari, poi ordina che sia portata una spada e dice alle due donne: dividerò il bambino in due. La cattiva madre è quella sacrificale, infatti accetta che il bambino sia tagliato in due purché esso non vada all’altra donna. La vera madre invece rinuncia al figlio e accetta che possa essere affidato alla rivale, purché viva. La vera madre è quella capace di sopportare il distacco dal bambino perché è mossa esclusivamente da amore altruistico, mentre la cattiva madre è dominata dall’egoismo e dallo spirito di vendetta.
Houziaux chiede a Girard e Gounelle un commento sulla differenza che spesso si osserva tra il Dio dell’antico testamento (un’invenzione della volontà di violenza che giustifica l’aggressività del popolo d’Israele per conquistare la terra promessa) e Gesù Cristo. In risposta Gounelle osserva che nell’antico testamento non c’è un’immagine o una concezione della divinità, ma ce ne sono diverse e, anche se si tratta dello stesso Dio, esse sono discordanti. Solo la personalità di Gesù Cristo ci permette di distinguere tra queste. In risposta all’invito di Houziaux a precisare che cosa intende con l’espressione “Cristo è Dio”, Girard osserva che la conoscenza che Cristo dimostra di possedere dell’umano è superiore a quella di qualsiasi filosofia o religione. Cristo ha percepito la reale portata della violenza dell’uomo e sceglie di rivelarla all’umanità non attraverso prediche, discorsi o trattati, ma lasciandosi trafiggere sulla croce. Nell’antico testamento si assiste a una progressione nel distacco dalla violenza, partendo da una base sacrificale e muovendo verso la visione profetica che respinge ogni sacrificio che sia ripetizione dell’uccisione vittimaria, finché il rifiuto della violenza si compie perfettamente nel Cristo, che si lascia mettere a morte proprio per scardinare il meccanismo vittimario. Cristo si sacrifica come la vera madre del giudizio di Salomone, in un sacrificio, la Passione, che deve porre fine a tutti i sacrifici.
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André Gounelle, nel suo intervento Dieu inventé et inventeur, alla domanda se Dio sia un’invenzione, risponde: si e no. Nel XVIII e XIX secolo vi sono state correnti anticlericali che hanno sostenuto che Dio e la religione sarebbero stati inventati dai preti, a proprio vantaggio, al solo scopo di assicurarsi potere e ricchezza, mantenendo il popolo in uno stato di soggezione e ignoranza. In quest’ottica Dio appare come un’invenzione diabolica, promossa per mantenere l’umanità in uno stato di alienazione, per assicurare il massimo conforto a un’esigua minoranza. Tesi, questa, superficiale e semplicistica. Gounelle commenta che la fede in Dio non può essere il risultato di un’impostura: è come se si dicesse che i cuochi hanno inventato la fame per trarne vantaggio. Lo stesso Girard, nel suo Le origines de la culture, chiama assurda questa tesi dei preti impostori, imbroglioni e profittatori. Una tesi meno rozza e superficiale è stata sostenuta da Feuerbach nel suo L’essenza del cristianesimo (1841), che considera Dio una proiezione dell’uomo, conseguenza della necessità di compensare il sentimento di impotenza che l’uomo prova dinanzi alla potenza della natura. Dio non è inventato consapevolmente, secondo Feuerbach, ma al contrario è il prodotto della natura dell’uomo o delle sue condizioni d’esistenza, espressione non di un essere trascendente, bensì di una realtà antropologica del tutto fisica e naturale. Feuerbach sostiene che Dio è una proiezione dell’uomo, ciò o colui che consente all’uomo di percepire la propria realtà. Infatti l’alterità è costitutiva dell’identità. L’invenzione di Dio quindi, commenta Gounelle, non deriva da un complotto, ma «si basa sulla stessa struttura ontologica dell’uomo, che ha bisogno di un altro per essere se stesso» (p. 82). Gounelle riconosce che effettivamente tra Dio e l’uomo il legame è molto stretto: essi si condizionano reciprocamente, dissimili e complementari quali sono esistono l’uno per l’altro: «Dio, spiega Gounelle, ha bisogno degli uomini per essere Dio; egli non è Dio senza l’uomo, allo stesso modo in cui non si è sposo o sposa senza coniuge, non si è genitori senza figli, non si è amici senza qualcuno cui si sia legati. È una donna che fa di me un marito, sono i miei figli che fanno di me un padre, sono Pierre e Bernard che fanno di me un amico. Si può dire correttamente che in quanto marito, padre o amico, io sono una loro invenzione; essi mi fanno, mi rendono tale; essi non mi hanno dato l’essere, ma mi danno la capacità di essere questo o quello. Io esisto senza di loro, ma ciò che sono nasce dalla rete di relazioni che intessono la mia esistenza» (p. 83). Così Dio può esistere in se stesso come lo rappresenta la teologia o la metafisica (infinito, onnipotente, principio delle cose, causa prima, ecc.), ma non si tratta ancora di Dio, perché Dio è amore, comunione, relazione. La fede può ammettere che Dio è un’invenzione dell’uomo, «nel senso che il fedele, credendo in lui, mediante la sua fede e il culto che gli rende, fa di lui un Dio, e non solo un’entità ontologica o un principio metafisico, allo stesso modo che Dio fa dell’uomo un fedele, un credente, un essere spirituale e non solo una macchina animata» (p. 84).
In un altro senso “inventare” significa scoprire, venire a conoscenza di qualcosa che prima non si conosceva. Dio è una realtà che conosciamo molto poco, la punta di un iceberg. Citando Ricœur, Gounelle avverte che la teologia è interminabile, giacché Dio è infinito, una totalità infinita, che sfugge da ogni lato; il credente esplora senza sosta e scopre nuove cose sulla verità e il significato di Dio, un mistero che non può essere svelato fino in fondo. L’uomo non crea Dio, ma lo scopre ogni giorno. «In questo senso, precisa Gounelle, Dio è veramente un’invenzione della fede, non che essa lo fabbrichi e lo faccia sorgere dal niente come un’illusione, ma per il fatto che essa lo esplora incessantemente, lo scopre, lo fa entrare nel suo discorso e trova sempre in lui qualcosa di nuovo e sconosciuto» (p. 89).
In un altro senso ancora, inventare significa far venire Dio nel mondo, evocare una parentela tra l’uomo e Dio come nella Genesi, dove si parla dell’uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio. Dio è ineffabile, ma paradossalmente se ne parla senza che cessi di esserlo; il puro spirito, inaccessibile ai nostri sensi, si fa carne, inventa una modalità di esistenza che lo rende accessibile ad esseri di carne e sangue quali noi siamo. Dio non rimane in cielo, ma si trasferisce, si comunica ai mortali. L’inventare nel senso di far venire a noi è illustrato da Gounelle con la metafora dell’acqua, che è inventata (fatta venire a noi) mediante caraffe, bicchieri, lavabo, docce o canali. Senza tutti questi accorgimenti l’acqua non verrebbe da noi e noi non potremmo goderne. Ma i dogmi e le pratiche ripetute, la tradizione e la liturgia sono il bicchiere o il canale, non l’acqua. Ed è l’acqua che interessa, non certe pratiche insensate e dogmi incomprensibili che prendono il posto di Dio, dell’essenziale. L’inventiva religiosa è necessaria, ma anche pericolosa; può avere la faccia dell’angelo, messaggero che comunica e riunisce, ma può anche assumere un volto del diavolo, che significa divisore e separatore. L’inventiva religiosa, avverte Gounelle, è diabolica quando ci rinchiude nell’angustia di noi stessi e della nostra rigidità ottusa. L’inventiva religiosa allora non inventa più Dio, la vita e la speranza, ma la superstizione idolatrica, oscurantista e fanatica. È proprio dei dogmatismi e fondamentalismi presentare la religione come rivelazione divina, voluta e istituita da Dio stesso esattamente in quella forma che ha assunto in una certa epoca storica e alla quale si riconosce un’autorità assoluta e indiscutibile (p. 94). Si confonde così il bicchiere con l’acqua, la forma con il contenuto. L’assolutizzazione della forma rende miopi e impedisce di cogliere l’essenza del contenuto, non ammette che i mezzi umani per rappresentare Dio, la forma che la rivelazione assume in una certa epoca storica, abbiano un valore relativo; la religione dogmatica confonde la realtà divina con le formule e i gesti della liturgia, che diventano quindi idoli. Le diverse religioni del mondo dimostrano che infinitamente vari sono i nomi di Dio, molteplici le formule che gli sono attribuite; ma proprio per questo Dio trascende in se stesso ogni formula umana, ogni determinazione particolare e ogni rivelazione nei suoi tratti accidentali. Così ammettere che Dio è un’invenzione (nel modo esteriore di presentarsi nelle diverse epoche alle diverse comunità), si rivela il modo migliore per riconoscerne l’esistenza indipendente dalla percezione umana, la realtà oggettiva, la sostanza che trascende ogni forma particolare. Di qui il tormentoso sforzo di modificare, migliorare, ritoccare le nostre formule per «testimoniare una presenza che insieme ci abita e ci sfugge, che ci invita non al riposo, ma al movimento» (p. 95). Dio dunque al di là e al di sopra di Dio stesso, per riprendere una formula di Paul Tillich; Dio al di sopra dei nomi che lo appellano, oltre ogni formula che parli di lui, oltre ogni determinazione che pretenda di qualificarlo in modo definitivo. «In questo senso posso ben dire, ammette Gounelle, e persino sostenere che Dio, la parola Dio, l’idea di Dio, è veramente un’invenzione, un’invenzione per parlare e testimoniare ciò o colui che si colloca molto al di là dei nostri linguaggi, per parlare e testimoniare ciò o colui che supera ogni intelligenza, compresi i concetti che lo designano e le dottrine che tentano di darne conto» (p. 96). Una questione secondo Gounelle rimane ancora aperta: chi è l’inventore? Forse l’uomo è l’inventore e Dio l’inventato? In parte è vero che Dio è un’invenzione dell’uomo, tuttavia se si guarda più a fondo si può vedere che «Dio è insieme soggetto e oggetto dell’invenzione di Dio» (p. 97). Ad ogni istante, precisa Gounelle, la sua vita sorge da se stessa, si rinnova, progredisce, s’arricchisce. Dio è un movimento incessante con cui inventa continuamente se stesso, crea continuamente se stesso. Per inventarsi Dio si avvale dei testimoni umani. Con la creazione Dio si costituisce come Dio del cielo e della terra. Dio s’inventa anche in un secondo senso, portando alla luce la sua natura e permettendo agli uomini di scoprirla, essendo inteso che egli non è e non sarà mai completamente esplorato. Dio s’inventa anche in un terzo senso, penetrando nel mondo degli esseri umani e situandosi all’interno della loro cultura. Come tutti gli esseri umani, che s’inventano senza sosta vita e personalità, lo stesso fa Dio: inventa se stesso, Dio è un’invenzione di Dio. A questo punto, è fin troppo facile chiedere a Gounelle se anche questa concezione — Dio inventore di se stesso — non debba essere intesa come un’invenzione dell’uomo, in cui Dio sarebbe inventato rispetto alle modalità di autocostituzione. In fondo la proposta di Gounelle è uno sforzo per rendere intellegibile Dio, mentre sappiamo che tutta la teoresi teologica, nonché ogni forma di concettualizzazione e rappresentazione di Dio sono invenzioni umane, segnate dai limiti di una soggettività antropomorfica del tutto aderente alla situazione storica particolare. Quindi dovrebbe rivelarsi irrimediabilmente infondata la pretesa di parlare di Dio in se stesso, uscendo dal condizionamento imposto dalla cultura in cui Dio è rappresentato. Il solo modo coerente per cogliere la realtà divina è il silenzio rispetto alla natura ineffabile di Dio, compreso apofaticamente come ciò che trascende ogni forma soggettiva, storica e relativa in cui possa rappresentarsi.
Girard interviene nel dibattito contestando a Gounelle un’eccessiva concessione alla moda attuale del religiosamente corretto, incline a credere che la migliore forma di religione sia lo scetticismo. Tuttavia si dichiara soddisfatto quando Gounelle precisa che l’inventore di Dio è Dio stesso. Girard ricorda di aver concepito il sistema religioso, ivi compreso il meccanismo del capro espiatorio, come un’invenzione di Dio; e che il flusso del contagio mimetico, interpretabile come il peccato originale dell’umanità, è il processo storico all’interno del quale Dio pianifica il processo di salvezza. A Gounelle una certa dose di scetticismo appare necessaria, per evitare irrigidimenti dogmatici e una sorta di ateismo idolatrico. Dio inventa se stesso in un processo ininterrotto. Riti e dottrine sono linguaggi culturali profondamente radicati nella stessa antropologia: «Attraverso tali forme, spiega Gounelle, l’essere umano parla di Dio mentre Dio sta inventando se stesso, esprime a suo modo il movimento di Dio tra gli uomini» (p. 101).
Girard conclude osservando che oggi in occidente la problematica teologica, che parrebbe tanto lontana dalla mentalità e dal costume, s’impone in virtù della violenza dilagante, a dispetto dei discorsi dolciastri della maggior parte dei teologi. Si trascurano i testi apocalittici, che sono rimossi come insignificanti. Tutte le chiese credono di dover rassicurare gli uomini dicendo loro che Dio non è necessario e che ciò che i testi annunciano è solo umano. Riconoscere l’importanza fondamentale della religione quale fondamento della coesione sociale non implica una concezione funzionalistica della religione, ridotta ad espressione antropologica. La rivelazione per Girard contiene in se stessa anche le fasi della religione arcaica, fondata sulla violenza e sulla paura. La paura di essere vittima incalza e spinge alla febbrile ricerca di un colpevole e alla sua espulsione. La vera teologia è una teologia mistica, la quale comprende che Dio è la verità assoluta. Le rappresentazioni del pensiero teologico primitivo, che vede nei fenomeni eclatanti della natura le manifestazioni di potenze divine, hanno qualcosa di vero, secondo Girard, che tuttavia va interpretato: i miti che raccontano di carestie, siccità, contagi come la peste, evitano di parlare apertamente della violenza, che è la questione essenziale. Il mito rappresenta la crisi determinata dall’endemica conflittualità mimetica e l’indifferenziazione che ne segue, in una forma allusiva e occultata, quella appunto di fenomeni naturali. Ma tale occultamento rivela l’incapacità dell’uomo di fare autocritica e per questo proietta la violenza in Dio, invece di riconoscerne la matrice in se stesso.