Giovanni Jervis, Il mito dell’interiorità. Tra psicologia e filosofia, a cura di Gilberto Corbellini e Massimo Marraffa, Boringhieri, Torino 2011.
1. La rivincita dell’inconscio
Il primo scritto di questa raccolta postuma si intitola La rivincita dell’inconscio e risale al 2005. Jervis contesta il primato epistemologico della coscienza, che non va intesa come un explanans, ma un’explanandum. La coscienza va quindi studiata come un insieme di funzioni che emergono lentamente dallo sviluppo dei sistemi nervosi lungo l’intera evoluzione della specie. La psicologia considera inconsci tutti i processi mentali, con poche eccezioni. L’inconscio si è quindi esteso fino a occupare quasi tutto lo spazio dell’attività mentale. La coscienza è un prodotto, un derivato, lo stato di eccezione di una vita mentale dominata dall’inconscio.
Jervis chiarisce la differenza tra la psicologia attuale e la psicoanalisi. Freud ha dato un contributo decisivo a una nuova concezione della psiche umana e ha indirettamente aiutato ad aprire la strada alla psicologia sperimentale nella seconda metà del secolo XX. Nonostante il suo materialismo, il fondatore della psicoanalisi concepiva l’inconscio come un’entità indipendente, una sfera dotata di proprie leggi e funzioni, sostanzialmente priva di rapporti col funzionamento cerebrale, con la base biologica. Freud si sarebbe così reso responsabile della nascita di una mitologia dell’inconscio, disancorato dalla fisiologia e autosussistente: nonostante l’ispirazione materialistica originaria, la teoria freudiana sfociava in una visione dualistica della natura umana. Negli scritti di Freud si mescolerebbero mitologizzazioni e realismo. Freud giunse alla convinzione che l’Es fosse lo stato più profondo, vero e autonomo della mente; l’Es diventava ai suoi occhi dominante, mentre la coscienza diveniva insignificante e subalterna, tanto che l’Es si serviva dell’Io come di una facciata. La scuola americana di psicoanalisi restituiva all’Io una certa autonomia, mentre la scuola francese preferiva approfondire e correggere la concezione freudiana (in cui l’Es è primitivo e non strutturato), in una teoria dell’Es inteso come realtà dotata di una struttura ben precisa e di un suo linguaggio. Rimaneva tuttavia intatta l’idea di fondo del freudismo, che molti processi e contenuti della nostra mente non sono accessibili alla coscienza (p. 9). Non va taciuto, aggiunge Jervis, che certi aspetti della teoria di Freud hanno dimostrato nel tempo la loro discutibilità e inadeguatezza: la teoria delle pulsioni non ha un fondamento biologico, l’influenza dell’inconscio sulla coscienza non è di tipo meccanicistico causale, come voleva Freud; lo sviluppo affettivo sessuale della prima infanzia si è rivelato diverso dall’interpretazione pansessualista di Freud; il trattamento psicoanalitico non è più efficace di altri tipi di trattamento. Jervis lamenta che gli psicoanalisti siano chiusi nel loro mondo e scarsamente disponibili a confrontarsi con i risultati della ricerca in campo psicologico.
Al di là degli aspetti superati del freudismo, la sua vitalità consisterebbe secondo Jervis nell’idea che ogni individuo abbia la tendenza e l’interesse a dare di sé, dei propri pensieri e delle proprie azioni, descrizioni e spiegazioni manipolate e inattendibili. L’aspetto decisivo dell’inconscio freudiano sarebbe quindi «la presenza di una difensività (auto) apologetica», anzi «una sistematica tendenza all’autoinganno all’interno dei processi ordinari del pensiero»; l’inconscio freudiano in sostanza fa perno sulla «tendenza della mente a costruire illusioni» (p. 12). L’aspetto obsoleto e fragile della teoria freudiana sarebbe l’idea che l’inconscio contenga un qualche segreto da svelare, qualche significato profondo o addirittura qualche saggezza: «l’inconscio freudiano sembrava contenere messaggi ed emozioni più veri di quanto la coscienza individuale non concedesse» (p. 13). Freud si rese conto del rischio che le tecniche ipnotiche e associative non evocassero affatto ricordi reali, ma creassero falsi ricordi, descrizioni immaginarie di fatti mai avvenuti; tuttavia non lo prese troppo sul serio. E ancora negli anni ottanta, avverte Jervis, «pochi si rendevano conto della facilità con cui i bambini possono avallare, cedendo alle suggestioni di maestre e psicologi, sospetti infondati circa molestie sessuali; del pari vi fu, all’inizio, una scarsa consapevolezza della facilità con cui persino gli adulti possono «ricordare» nel corso di sedute terapeutiche, con sincerità di emozioni e vivida precisione di dettagli, episodi remoti mai avvenuti e talora del tutto inverosimili» (p. 14). I falsi ricordi dimostrano che i meccanismi dell’inconscio sono caratterizzati da un’elevata potenza e pervasività. L’inconscio non è solo il luogo di ricovero di ricordi reali rimossi, ma anche strumento di fabbricazione di ricordi non corrispondenti ad alcun fatto reale.
La psicologia attuale contesta gli aspetti ingenui della teoria dell’inconscio di Freud, in relazione alla mitologia del «trauma rimosso», tuttavia rimane aperto e si approfondisce il problema delle alterazioni del ricordo. La psicologia attuale rinuncia al metodo freudiano essenzialmente introspettivo e parte dal repertorio della quotidianità per esaminare la buona fede autodichiarativa del soggetto, che viene sollecitato a confrontarsi con l’analista e ad ammettere la possibilità che la sua vita quotidiana sia influenzata da fattori non controllati. La psicologia scientifica parte da una documentazione oggettiva e rinuncia a una modalità introspettiva che aveva il compito di convincere più che di dimostrare (p. 17). Freud concepiva la coscienza come un dato da cui partire per cercare la presenza occulta di fattori inconsci nella sua vita, mentre la psicologia scientifica, osserva Jervis, parte dal presupposto che non ci sia nulla di ciò che intendiamo per coscienza nel funzionamento del sistema nervoso degli organismi, per capire se nel corso dell’evoluzione animali complessi, tra cui anche l’uomo, presentano tratti ai quali possa applicarsi il termine «coscienza». Non si parte dalla coscienza per arrivare all’inconscio, ma viceversa si parte dall’inconscio per arrivare alla coscienza. In questo modo risulta chiaro che la concezione freudiana della mente era «antropocentrica, adultocentrica (e lo era anche nel suo modo di esaminare la mente infantile) e in ultima analisi si rivelava incapace di distaccarsi del tutto da una visione della coscienza come qualità primaria della mente» (p. 18). La moderna concezione scientifica della coscienza parte dall’ipotesi che non solo nell’animale e nel bambino piccolo, ma in qualche misura anche nell’adulto, i meccanismi di apprendimento e in generale di acquisizione cognitiva non possano essere oggetto di autoindagine introspettiva. L’indagine della moderna psicologia ha potuto stabilire che gli animali possiedono una coscienza che si può chiamare primaria, una coscienza d’oggetto che Bertrand Russell, scrive Jervis, distingueva già nel 1912 dalla facoltà umana di «sapere di sapere».
Ormai sappiamo che la coscienza di un topo o di un passero non consiste semplicemente in una vigilanza o familiarità con il mondo circostante, ma comprende anche la capacità di costruire, all’interno della mente, rappresentazioni e vere e proprie mappe della realtà circostante di cui l’animale si serve per elaborare veri e propri piani di azione. La ricerca ha dimostrato che, oltre l’uomo, solo poche specie manifestano la capacità di essere autocoscienti, distinguendo chiaramente il proprio corpo dall’ambiente circostante (questo accade ad esempio quando uno scimpanzé si riconosce a uno specchio o lo usa per esaminare parti nascoste del proprio corpo). Nei casi più semplici «l’automonitoraggio corporeo si compie e si completa in quanto oggettivazione di un corpo proprio, e quindi come rudimentale coscienza di sé: esso si va così ad aggiungere a quel più banale monitoraggio ambientale, o «rivolto al mondo esterno», che caratterizza la coscienza vigile di qualsiasi specie animale» (p. 21). Ma non siamo ancora alla coscienza introspettiva: «Solo nella specie umana, e solo dal terzo anno di vita (all’incirca), l’oggetto della coscienza vigile (o se vogliamo, l’oggetto dell’attenzione vigile) è non soltanto l’ambiente esterno, né soltanto il proprio corpo, ma anche la coscienza stessa con i suoi contenuti» (p. 21). Nell’introspezione la coscienza ha per oggetto se stessa. Ma questa autocoscienza dell’essere umano evoluto non è affatto piena e completa come si potrebbe credere. Come del resto anche la vigilanza sul mondo ambiente, la coscienza introspettiva si mostra precaria e frammentaria. Basta considerare gli eventi passati per accorgersi che la memoria li riporta in modo diseguale, senza contare che la memoria operativa (saper fare) non comporta necessariamente una memoria esplicita in grado di esprimersi con modalità dichiarative. Il «sapere come» non sempre si traduce in un «sapere che», cioè in conoscenze comunicabili. Jervis porta ad esempio l’andare in bicicletta e la padronanza di una lingua. Le conoscenze puramente operative prevalgono decisamente nei nostri rapporti con la realtà. Altro esempio sono le emozioni che, pur essendo oggettivamente e indiscutibilmente reali in quanto fenomeni biopsicologici, non sono mai apprese direttamente, ma sono sempre ricostruite a partire dall’osservazione empirica: osservandoci dall’esterno mentre ci muoviamo in modo agitato, concludiamo che, internamente, siamo agitati. L’autocoscienza quindi, conclude Jervis, non è data né assicurata dall’introspezione diretta, «al contrario la nostra autocoscienza, nella misura in cui esiste, è congetturata, pensata e ripensata, ricostruita, rielaborata. Ed è anche, ovviamente, immaginata» (p. 25). Del resto la maggior parte dei nostri gesti e comportamenti quotidiani (lavarsi i denti, spegnere la luce, chiudere la porta, ecc.) sono eseguiti senza che li sottoponiamo a un vero e proprio controllo consapevole. La linea che separa il sapere dal non sapere, il conscio dall’inconscio, è sfumata e incerta. La rimozione decisa e definitiva di un’esperienza frustrante è molto rara, «in pratica disattenzioni e registrazioni selettive di eventi, dimenticanze, «rimozioni» temporanee, scotomi percettivi e concettuali, consapevolezze incomplete, accantonamenti di conoscenze, razionalizzazioni, amnesie e modificazioni parziali o radicali dei ricordi (compresa l’invenzione dei ricordi) costituiscono il tessuto stesso della nostra vita mentale» (p. 27).
L’autocoscienza introspettiva piena e completa, ammesso che esista, è un’occasionale forma di attenzione riflessiva, un «fermarsi a pensare a se stessi» che si fa di rado e non sempre in modo onesto. Anche nel procedimento logico-razionale, l’autoverifica e automonitoraggio del ragionamento si rivelano molto spesso incompleti: le decisioni apparentemente più razionali rivelano l’adozione di schemi procedurali inconsapevoli e non necessariamente logico-razionali. I nostri comportamenti dipendono spesso da fattori motivazionali inaccessibili alla coscienza, come nel caso dell’ascolto dicotico: se un soggetto riceve due registrazioni diverse ai due auricolari, dopo una brevissima confusione indirizzerà spontaneamente l’attenzione al messaggio che proviene da uno dei due orecchi, eliminando l’altro, di cui non conserverà alcuna memoria. Ma le ricerche effettuate dimostrano che lo stesso soggetto, dovendo svolgere un compito in cui può utilizzare le istruzioni del messaggio di cui conserva memoria, terrà conto anche delle istruzioni contenute nel messaggio soppresso (p. 29). Il fenomeno della percezione non accompagnata dalla percezione di percezione, che Locke giudicava impossibile, era noto a Leibniz, che nei Nuovi saggi lo usa quale argomento per confutare la teoria lockiana della mente tabula rasa.
La scienza moderna dà ragione a Leibniz, mostrando che il nostro cervello riceve stimoli e contenuti a nostra insaputa. I motivi che il soggetto adduce per spiegare le proprie azioni sono molto diversi dalle motivazioni reali o cause profonde dell’agire. Per lo più il soggetto tende a spiegare i motivi per cui fa una certa cosa esibendo una giustificazione, più che una mera descrizione. Jervis conclude che la critica e l’esame delle forme di coscienza conduce a una rivincita dell’inconscio, tale da mettere in discussione la possibilità di una coscienza come stato permanente. Senza negare completamente l’autocoscienza, Jervis ritiene che la coscienza umana non sia uno stato cognitivo stabile, ma consista nella capacità di «approvare» continuamente ciò che si sta facendo, ricostruendo le motivazioni delle proprie azioni. In sostanza «i processi mentali sarebbero tutti sostanzialmente inconsci e, per così dire, automatici, ma verrebbero poi parzialmente descritti e correntemente giustificati, in forma narrativa, con l’aiuto di costrutti del tutto convenzionali quali «scelta», «ispirazione», «intuizione», «autodeterminazione», «volontà»; e magari anche «pensiero»» (p. 33). E non essendoci in pratica alcun processo lineare di elaborazione delle scelte, basato sul presupposto che le procedure razionali della mente umana siano complete, consapevoli e decidibili, si dovrà considerare con estremo scetticismo l’idea stessa di «libero arbitrio». Dato che i fattori motivazionali non sono accessibili all’introspezione, un’azione volontaria non è quella compiuta per effetto di una procedura di scelta razionale ma, per dirla con Wittgenstein, quella di cui non ci stupiamo subito dopo averla compiuta (p. 34).
2. Il «sé» e la nascita della coscienza introspettiva
Nel secondo capitolo Il «sé» e la nascita della coscienza introspettiva, pubblicato nel 1989, Jervis contesta il dualismo della psicoanalisi e la tendenza a trattare l’io, l’inconscio, il sé, non come un insieme di funzioni, ma come entità mentali autonome e costanti. Tanto per cominciare Jervis invita a non confondere due significati principali del sé: quello relativo al vissuto di sé e quello relativo al «se stessi» come struttura interiore. I vissuti di sé assicurano la continuità col nostro passato e con noi stessi: sono rappresentazioni e contenuti della coscienza, in parte confluenti nell’inconscio, che sarebbe improprio tuttavia considerare come costituenti strutture della coscienza (p. 37). Jervis esprime tutto il suo scetticismo riguardo la consistenza del sé nella seconda accezione, inteso cioè come struttura: è lecito sospettare che ci si trovi dinanzi alla reificazione/oggettificazione di un sé direttamente vissuto o esperienziale. Si tratterebbe in sostanza, avverte Jervis, della «trasformazione, illusoria e proiettiva, di una esperienza soggettiva in una realtà oggettiva» (p. 39). Jervis ritiene che sia normale questa reificazione dell’interiorità della persona in un’entità a se stante, senza con questo dare per scontato che esista davvero questa struttura (sé, anima, spirito o altro che sia inteso).
D’altra parte, potremmo obiettare che l’esperienza del sé e la sua reificazione, il sé vissuto e il sé struttura sono pur sempre rappresentazioni, contenuti della mente, elementi di una coscienza della cui consistenza ontologica sappiamo poco. Alle due accezioni del sé indicate da Jervis potremmo aggiungerne quindi una terza, quella del sé non percepito. Anche ammettendo di poter concepire il sé struttura solo mediante la sostanzializzazione di una funzione, l’oggettivazione di un sé vissuto, non abbiamo ancora dimostrato che, oltre il sé inteso come struttura e autorappresentato come tale dalla persona, non ci sia un sé ulteriore, un’entità permanente quale supporto destinato a rimanere inaccessibile. Infatti è possibile che, a differenza di contenuti inconsci che diventano accessibili alla coscienza prima o poi per un tempo più o meno breve, il contenuto di questo sé non percepito ma permanente rimanga per sempre inaccessibile. Niente ci obbliga a escludere che vi siano contenuti destinati a rimanere inaccessibili alla coscienza per sempre. La psicologia del sé, d’altra parte, deve prendere in considerazione solo contenuti appresi. Il ragionamento di Jervis quindi non si presta a obiezioni se si limita a distinguere due modalità di rappresentazione del sé, purché tale distinzione non implichi alcuna assunzione di ordine ontologico riguardo al sé. Infatti, se è vero che il sé, in entrambe le accezioni distinte da Jervis, è un contenuto appreso, si tratta di chiedersi propriamente: appreso da chi? Da un soggetto implicito, inaccessibile per definizione, dato che identificarlo e oggettivarlo condurrebbe a un regressus in infinitum. Un soggetto implicito, un sé non percepito, che apprende sempre senza essere appreso, del quale possiamo solo dimostrare l’esistenza, e nient’altro. L’io che prende coscienza di se stesso nell’autocoscienza in realtà rimane ignoto a se stesso, infatti l’io di cui l’io stesso è cosciente, l’io oggetto di coscienza, è di volta in volta un vissuto, assolutamente differente dall’io che lo guarda. L’io è una dimensione trascendentale, irriducibile evidentemente alla dimensione del vissuto esperienziale e delle funzioni psichiche che possiamo percepire, comparare, ecc. Anche ammettendo che il sé sia un costrutto, deve essere concepito o immaginato da un sé. Jervis non esplicita quest’ultimo, inaccessibile sé, non ne dà conto. La lucidità delle sue analisi contrasta con l’assenza del terzo sé, quello che può essere evocato ma non convocato.
Jervis approva le teorie del self di Locke e James con particolare riferimento alla loro concezione laica e antimetafisica che ha scongiurato il pericolo di cadere nella seducente trappola di considerare il sé un’esistenza oggettiva indipendente per il fatto che è un oggetto della coscienza (p. 50). Il sé esperienziale non è il sé come soggetto, ma come oggetto. L’impegno di negare l’esistenza oggettiva di un sé come struttura riducendo il sé a esperienza soggettiva, si ripresenta nell’analisi dell’opera di Winnicott, per il quale il vero sé è solo un’esperienza: l’esperienza o l’autopresentazione della propria persona (p. 52). Riflesso soggettivo di un modo di essere vissuto come spontaneo, il vero sé è anche un sentimento o esperienza di una realtà interiore che va protetta e tenuta segreta. Il vero sé sarebbe dunque solo l’esperienza del vero sé. E tuttavia, riflettendo sull’esperienza del vero sé, è lecito chiedersi chi sia il soggetto dell’esperienza del vero sé: possiamo concepire un sé solo come mero riflesso di un’esperienza di sé, giacché è innegabile una molteplicità indefinita di esperienze del sé: per ciascuna di esse avremo un distinto sé? Non è legittimo sospettare almeno che il vero sé possa ricondursi a un’entità o struttura che svolge la funzione di istituire e mantenere coerenza e continuità tra i differenti sé? Il sé sintetico non può ridursi a mero risultato, semplice riflesso dell’esperienza soggettiva di sé, altrimenti dovrebbe risultare impossibile la dolorosa esperienza di scissione che fanno i malati di mente. Il veto antimetafisico interviene costantemente nelle analisi di Jervis, fino a costituire un grave pregiudizio per la ricerca. Il timore che un insieme di funzioni si trasformi in un’entità metafisica traduce l’ossessiva e rituale adesione al principio empiristico, per cui tutti i termini che indicano realtà psichiche devono intendersi in senso esclusivamente empiristico: la loro semantica è limitata rigorosamente all’esperienza del (presunto) oggetto di riferimento; così il sé è l’esperienza del sé nello spazio e nel tempo, come il tavolo è l’esperienza del tavolo, e così via; il sé e il tavolo non hanno alcuna realtà oggettiva indipendente, sono semplicemente dei percetti. Che ne sarà allora del sé che riflette sull’esperienza del sé, in un catena di rimandi potenzialmente infinita? Non si comprende il veto alla sostanzializzazione del sé, giacché non si spiega perché e come il sé come sostanza sia incompatibile con la ricerca empirica, dato che ne rappresenta invece la condizione trascendentale. L’esperienza del sé confligge forse con l’esistenza di un sé indipendente, non riducibile all’esperienza del sé? Che il sé non sia monolitico e atemporale e che sia il risultato di interconnessioni e contaminazioni con altri sé non implica l’impossibilità della sua esistenza di un apriori trascendentale e indipendente dall’esperienza che ne abbiamo. «Esperienza del sé» è un’espressione che ha diversi livelli: esperienza del mio corpo, esperienza dei miei sentimenti, idee, ricordi, ecc.; esperienza della riflessione sulla mia esperienza. Ora, poiché non c’è motivo di limitare il numero di questi livelli, è chiaro che qualunque sia quello al quale ci fermiamo, esso presuppone un soggetto o sé trascendentale e inoggettivabile, di cui non si dà esperienza possibile. In Jervis, così come negli autori del suo stesso orientamento, manca una considerazione attenta delle condizioni che rendono possibile l’esperienza soggettiva. Negare l’esistenza di un sé indipendente da ogni esperienza, ma condizione di ogni esperienza, significa navigare al buio in un mare di autocontraddizioni. Se il veto antimetafisico si scontra con l’evidenza logica, le ragioni che lo sostengono devono essere ideologiche. Le osservazioni di Jervis riguardo la differenza profonda tra mente del neonato e mente dell’adulto, oltre che sul rischio di proiettare sul bambino piccolo categorie psicologiche della mente adulta (pp. 63-64), non sono in contrasto con l’affermazione dell’esistenza di un sé indipendente che si evolve costantemente lungo l’arco dell’intera esistenza. Ma ciononostante Jervis boccia certe tendenze della stessa psicoanalisi a rinviare a un principio interno strutturale globale, a un’entità essenziale e quindi metafisica; e al tempo stesso respinge la tesi di autori «meno rigorosi» che presentano il sé «come un’ipseità idealistica al tempo stesso soggettiva e strutturale: in definitiva come una unità che vede coincidere in se stessa l’autocoscienza e l’organizzazione della personalità» (p. 65).
Riguardo la tematica del sé nella prima infanzia, Jervis condanna l’adultocentrismo, vale a dire «la tendenza, strettamente ideologica, a considerare il lattante in modo tale da legittimare inconsapevolmente e indirettamente, mediante teorie ad hoc su di esso, convinzioni tradizionalmente apologetiche, cioè autolusinghiere, circa la vita psichica dell’adulto» (p. 68). L’adultocentrismo tradizionale è discriminatore: esso esclude che il bambino possieda le caratteristiche psicologiche dell’adulto. L’adultocentrismo empatico o proiettivo, al contrario, vede nel bambino un soggetto in grado di compiere tutte le operazioni interattive e di esserne consapevole. Ma il bambino, osserva Jervis, non è un piccolo adulto. L’autocoscienza non è una modalità primaria e semplice della coscienza, ma un guardarsi, un cercarsi, quindi un sapere di esserci in un certo modo. Jervis addita in Schopenhauer il pensatore che, a differenza di Kant di cui si dichiara discepolo, nutre «il sospetto che questo sapere di esserci non è mai esauriente, nel senso che è costituito da una ricerca di sé ogni volta insoddisfacente, e quindi interminabile» (p. 71). Jervis adotta un punto di vista evoluzionistico, distinguendo tra coscienza come capacità di rappresentare il mondo e autocoscienza. Bertrand Russell avrebbe chiarito, secondo Jervis, che questa coscienza come mappa del territorio in cui l’animale si muove non è coscienza di sé, né coscienza di possedere una coscienza d’oggetto. «La coscienza semplice, o primaria, o coscienza in senso proprio, infatti, è conoscenza oggettuale, ma questa conoscenza oggettuale è immediata, cioè non include quel distanziamento, che solo permetterebbe di conoscere il fatto che oltre all’oggetto conosciuto esistono altre due istanze: in primo luogo un soggetto che sta conoscendo, in secondo luogo una immagine (interiore) dell’oggetto, la quale non coincide con l’oggetto reale» (p. 73). Jervis si richiama alla distinzione di Russell tra sapere e sapere di sapere. Il neonato, come l’animale, conosce il mondo come oggetto, sa ma non sa di sapere, non è in grado di dirigere la sua attenzione sul proprio sapere. E a sapere di sapere si giunge attraverso la rappresentazione della propria immagine, come dimostra il fatto che quasi tutti gli animali sono incapaci di rappresentare il proprio corpo. L’animale non sa rappresentarsi riflessivamente la sua rappresentazione dell’oggetto e non sa riconoscere le rappresentazioni di se stesso. Quindi l’animale non sa di sapere e non sa di esistere. Con poche eccezioni, gli animali non hanno autocoscienza. «I bambini, scrive Jervis, così come gli animali, sono senza dubbio coscienti fin dalla nascita, nel senso che creano fin dall’inizio rappresentazioni di realtà progressivamente più complesse e integrate: ma nulla dimostra che comincino a riconoscere il proprio corpo e a essere autocoscienti prima del secondo anno inoltrato» (p. 75). Gli esperimenti con i bambini condotti in particolare con le note tecniche dello specchio che Gordon Gallup ha utilizzato per i primati, portano a concludere che «l’autoriconoscimento, e quindi la prova fondamentale dell’esistenza di una rappresentazione di sé come base dell’autocoscienza, non comincia a verificarsi prima del quindicesimo mese, per giungere a compimento verso la fine del secondo anno di vita» (pp. 75-76). Non si può parlare di coscienza di sé — di esistere, di avere un corpo — se non è presente la capacità di rappresentare la propria immagine corporea sapendo che si tratta della propria immagine. E la capacità di rappresentare la propria immagine si verifica attraverso l’autoriconoscimento allo specchio. Nella prospettiva evoluzionistica adottata da Jervis sulla base degli studi sperimentali condotti da autorevoli ricercatori, non c’è differenza sul piano metodologico tra lo studio della soggettività animale e lo studio della soggettività del bambino al di sotto dell’anno di vita; e in entrambi i casi lo sperimentatore deve affrontare il difficile compito di evitare l’insidia dell’immedesimazione e della proiezione: nello studio sugli animali il ricercatore deve evitare l’antropomorfizzazione della soggettività animale, mentre in quello sui bambini piccoli deve fare attenzione alle proiezioni adultocentriche.
Il cammino verso la realizzazione dell’autocoscienza è lungo e non tutte le specie vi giungono, senza contare la necessità di uno sviluppo individuale verso questo obiettivo. L’autocoscienza adulta infatti non si limita all’autoriconoscimento corporeo, al quale deve aggiungersi la capacità di appropriarsi introspettivamente in senso lockiano delle proprie azioni e intenzioni riflettendo sul loro significato. Insomma «il soggetto deve essere capace di rappresentare non solo le azioni corporee ma anche le intenzioni e gli affetti che egli produce dentro di sé, e quindi deve essere capace di rappresentare le proprie fantasie e il proprio mondo interiore, oggettivando quest’ultimo ma al tempo stesso facendolo proprio. È questa l’introspezione: cioè il sapere che si stanno considerando, oggettivamente, i vari aspetti della propria stessa soggettività. Il luogo della riflessività non è qui più solo il corpo come dimensione reale, ma la mente come dimensione virtuale «interna»» (pp. 78-79). La piena coscienza di sé dell’adulto ha alle spalle un lungo cammino evolutivo, dato che la costruzione della propria identità è inseparabile dall’elaborazione di un sistema di credenze su di sé, da elementi cognitivi, dall’uso del linguaggio e dall’autostima, dipendente dai legami affettivi che via via si evolvono attraverso la socializzazione. Il sé si rafforza e si consolida parallelamente alla coscienza di sé, tanto più forte quanto maggiore è il confronto interattivo con altri soggetti, dentro e fuori la sfera familiare. Le dinamiche del confronto imposte dalla socializzazione sono la precondizione per l’evoluzione verso una matura coscienza di sé, le cui componenti cognitive e affettive sono soggette a continue correzioni e rivalutazioni. La precarietà della coscienza di sé dimostra che essa non è mai acquisita definitivamente e in tutte le culture, se è vero che «molti adulti appartenenti a culture preletterate, pur avendo un’acutissima consapevolezza del proprio corpo, riescono con difficoltà a oggettualizzare nel «mondo della mente» le proprie rappresentazioni, i pensieri e gli affetti» (p. 84). Riuscirà loro difficile comprendere che i personaggi dei sogni non vengono da fuori ma sono il risultato di un’elaborazione interiore, hanno difficoltà a distinguere tra i sentimenti e la loro espressione corporea, tra pensare e parlare, incapaci di rappresentare astrattamente il mondo interiore dei sentimenti e dei pensieri. L’autocoscienza è rara e difficile, ma anche in gran parte illusoria, sempre esposta alla malafede e all’autoinganno. L’io si rappresenta e si pensa in modo sempre discutibile, l’autocoscienza fa riferimento sempre e solo a una decisione del soggetto — decisione le cui motivazioni profonde sfuggono al soggetto stesso. «L’autocoscienza è coscienza introspettiva di una superficie, che scambiamo per profondità; è una fiducia, più che una certezza; e forse è soprattutto un bisogno, che è il bisogno di esorcizzare una interiore eteronomia dei sentimenti e delle azioni» (p. 84). Ma proprio questo carattere frammentario, sconnesso e contraddittorio della rappresentazione che il sé fa di se stesso nella problematica autocoscienza, potrebbe rinviare a un regista occulto e irrapresentabile, quell’io profondo al quale dovremmo poter riconoscere il ruolo di presenza trascendentale che governa ogni esperienza possibile, reale o immaginaria. Quell’io di cui già Cartesio ha dovuto riconoscere la resistenza a ogni tentativo dispiegato di annichilazione scettica.
3. La psicologia di Ernesto de Martino
Il terzo capitolo, Ripetizione e identità nel pensiero di Ernesto de Martino, riproduce il saggio Alcune intuizioni psicologiche di Ernesto de Martino, 1986. Jervis si propone di mettere in luce i due aspetti principali che, a suo avviso, sono di particolare rilevanza psicologica nell’opera di de Martino: il significato della ripetizione e il problema dell’identità. L’autore del Mondo magico citava volentieri il passo freudiano di Al di là del principio del piacere, in cui Freud descrive il gioco del rocchetto, fatto sparire e ricomparire dal bambino. Freud interpretava il gioco, per usare le sue stesse parole, mettendolo in relazione «con la rinuncia pulsionale, rinuncia che consisteva nel permettere senza proteste che la madre se ne andasse. Il bambino si risarciva, per così dire, di questa rinuncia, inscenando l’atto stesso dello scomparire e del riapparire, avvalendosi degli oggetti che riusciva a raggiungere» (p. 87). Tale gioco è interpretato da Freud come uno stratagemma per dominare eventi che provocano ansia e frustrazione, senza subirli passivamente: prendendo l’iniziativa di ripetere l’esperienza dolorosa della sparizione e di farla cessare, il bambino attraverso quel gioco assumeva un ruolo attivo che lo compensava della frustrazione. La ripetizione però, per la sua coattività può rivelarsi sterile. Il paziente è «indotto a ripetere il contenuto rimosso nella forma di una esperienza attuale, anziché, come vorrebbe il medico, a ricordarlo come parte del proprio passato», scrive Freud, il quale interpreta «la coazione a ripetere» che così si instaura come sintomatica di una pulsione di morte (p. 87). La ripetizione ha un duplice significato: espressione di controllo attivo e di formazione di una cultura, è insieme una condotta di scacco, di sconfitta, di fallimento, quasi che il soggetto miri a cancellare la natura distruttiva della frustrazione ripetendola. Un vero e proprio paradosso, come se si pretendesse di cancellare una figura sulla carta ripassandone i contorni. Il nevrotico non prende coscienza con la ripetizione, ma la sostituisce con un movimento automatico senza fine, illimitato. A de Martino però, commenta Jervis, interessa soprattutto il primo aspetto. De Martino non è interessato alla ripetizione dell’individuo isolato, condannato a superare invano lo scacco ripetendone l’esperienza, ma a quella di una comunità che «nel proprio vivere nella storia, e nel proprio fare cultura, ha già trovato il modo di trascendere la sterile prigionia della nevrosi» (p. 88). Il rito svolge la funzione di superamento dell’angoscia mediante la sua ripetizione.
La destorificazione del divenire in de Martino avviene su di un piano metastorico, «un luogo in cui, mediante la iterazione di identici modelli operativi, può essere di volta in volta riassorbita la proliferazione storica dell’accadere, e quindi amputata del suo negativo attuale e possibile» (p. 89). Jervis vede però la possibilità di sviluppare il tema del rapporto tra rito e nevrosi, sul quale de Martino è stato reticente. Infatti da una parte il rito può essere considerato come modalità di superamento dell’angoscia, dall’altra «il rito, come fenomeno collettivo e culturale, mantiene in se stesso una traccia, un residuo della coazione nevrotica individuale e preculturale» (p. 89). Sul piano psicologico Jervis ritiene che la tendenza alla ripetizione della condotta di scacco non si possa spiegare in base al meccanismo di un’autodistruttività primaria e che in molti casi la ripetizione nevrotica abbia cessato di fungere da copertura dell’ansia presente e sia diventata un meccanismo autonomo, che tende ad attivarsi anche dopo che è scomparso il disagio che l’ha provocato. L’ipotesi è che qualcosa del genere si presenti anche nel caso della ripetizione rituale. L’ambivalenza del rito, per Jervis, consisterebbe nel fatto che esso è «per un verso aiuto psicologico, riscatto di un disagio che altrimenti dilagherebbe privo di strutture e di contenuti; per un altro verso chiusura in una coazione che, incapace di aprirsi ad altri significati, sequestra e forse addirittura nevrotizza indefinitamente un intero settore dell’esistenza dell’individuo» (p. 90).
De Martino sapeva bene, avverte Jervis, che angoscia e conflitto si manifestano comunque sempre in modi e forme storiche. Il disagio non esiste al di fuori della storia e attraverso il rito cerca di ristoricizzarsi. «De Martino era consapevole del fatto che non esiste una linea retta di separazione fra il rito tradizionale delle comunità preletterate e i più o meno riusciti tentativi di esorcizzare culturalmente il disagio all’interno delle società industriali. Egli era molto attento ai microrituali laicizzati degli individui e delle subculture della nostra società; se non cercava la nevrosi nel rito, cercava il rito nella nevrosi» (p. 91). Se Freud collega il conflitto nevrotico a fattori metastorici e metaculturali considerando il gioco del rocchetto più sotto l’aspetto del fallimento che del successo, per de Martino invece «l’accadere stesso della nevrosi, e il suo piegarsi alle forme storiche del vivere, si giocano fin dall’inizio e in seguito si sviluppano in una dialettica complessa e affascinante di storicizzazione e destorificazione, di ricerca di concretezza e di rifugio nella ripetizione, di riscatto nell’orizzonte simbolico e di imprigionamento nella coazione a ripetere» (p. 92). Secondo de Martino infatti il sentimento dell’unità dell’io, l’autocoscienza fondante quale condizione dell’esperienza quotidiana di vita vissuta, non sono garantiti una volta per tutte, ma sono qualcosa di precario e instabile, che la cultura ha il compito di costruire ogni giorno: «Non si sa che si è senza sapere chi si è; e non si sa chi si è senza un sistema di riferimenti — in parte simbolici e rituali — che diano orizzonte al vivere, domesticità e senso al proprio essere-nel-mondo» (p. 92). L’io si trova a dover far fronte allo spaesamento orizzontale, geografico e a quello verticale, storico, secondo i due sistemi di riferimento o sistemi di presenza, sincronico e diacronico.
Il quarto capitolo, Psicopatologia della crisi di possessione, riproduce il saggio Il tarantismo pugliese, apparso nel 1962. Jervis collaborò con de Martino in qualità di psichiatra per una ricerca interdisciplinare sul tarantismo, che si concluse con una pubblicazione — Ernesto de Martino, La terra del rimorso, Milano 1961 — cui Jervis contribuì con un’appendice dal titolo Considerazioni neuropsichiatriche sul tarantismo. Il tarantismo si presenta come un fenomeno culturale, un sistema di credenze e pratiche magico-religiose. La rilevanza psichiatrica del fenomeno riguarda sia le manifestazioni complessive, sia l’elemento patologico che gli individui presentano in quanto tarantati, i quali tuttavia non sono riducibili a quadri clinici astratti, come se i tarantati fossero individui già in precedenza affetti da turbe psichiatriche, un insieme eterogeneo di nevrotici e isterici già predisposti ad assimilare la tradizione del tarantismo in declino. Jervis ritiene in sostanza che i disturbi psichiatrici veri e propri siano ben distinti da modalità di risposta caratterizzate in senso culturale. Il tarantismo si compone di due fasi: una fase di sofferenza, concepita al solito come avvelenamento, in cui il soggetto crede di essere dominato dalla taranta o da san Paolo; e una fase di reintegrazione mediante la musica e la danza. «La fase di reintegrazione attraverso le lunghe ore di danza è al tempo stesso condanna, penitenza e riscatto, ma è anche il momento in cui il soggetto più chiaramente manifesta la sua dipendenza dall’esser soprannaturale, accettando di essere dominato dalla taranta e dal suo veleno fino al punto di divenire ragno, tremando e strisciando sul dorso, infilandosi sotto le sedie e in stretti pertugi, arrampicandosi sui mobili» (p. 111). La crisi di possessione rimane uno stato di trance, se manca la terapia musicale. Il tarantismo quindi si configura come una sindrome di possessione. Si deve aggiungere che i contadini analfabeti presentano molte difficoltà a descrivere stati psichici quali: ansia, preoccupazione, depressione, mentre tendono di solito a somatizzare i disturbi psichici in isterismi che riguardano certe parti del corpo. Si può ritenere che «la danza della taranta, nata forse come terapia magica del latrodectismo, abbia però agito essenzialmente come un sistema ordinatore dell’acting out, come un modo di far rientrare in uno schema di comportamento parossistico, ma relativamente innocuo e socialmente giustificato, tutto un insieme di terrori, di pulsioni, tormenti, furori repressi che altrimenti avrebbero potuto sfociare in comportamenti antisociali» (p. 118).
4. La costruzione dell’identità
Il quinto capitolo La costruzione dell’identità, è la relazione svolta da Jervis al convegno internazionale di antropologia e antichistica «Essere io, essere noi: identità individuali e collettive», tenutosi a Milano nel 1995 presso l’Università degli Studi. Dal 1977 in poi Jervis ha dedicato molta attenzione al tema dell’identità: all’identità individuale innanzi tutto e poi all’identità collettiva. L’identità è certamente riferita ai singoli individui, giacché permette di distinguerli nella loro singolarità, ma al tempo stesso ha un profilo sociale, data l’interdipendenza che caratterizza l’esistere dei soggetti nel mondo. Tra i dati cosiddetti individuali, a partire da quelli anagrafici, pochi sono strettamente individuali, come il DNA o la fisonomia o la mappa retinica, ma il resto è collettivo, giacché ad esempio «condividiamo il nostro cognome con altri, il nostro nome di battesimo con moltissimi altri, e parimenti condividiamo la nazionalità, il sesso, la professione, e così via. Il quadro delle identità collettive è variegato e ne contiene tante quanti sono i modi per collegare in un tipo (nazione, età, città di residenza, ecc.) una moltitudine di soggetti. Esiste tuttavia anche un’identità soggettiva, quella per cui ogni giorno sentiamo di essere noi stessi e non un altro. Ma se rispondiamo a una domanda sulla nostra identità, daremo una risposta che fa riferimento ad appartenenze, quindi a categorie» (p. 125). Jervis riconosce al sociologo Goffman il merito di aver offerto la migliore definizione del «problema psicologico della costruzione e del mantenimento della propria identità di fronte agli altri, come modo per difendere la dignità e solidità della propria autoimmagine» (pp. 129-130).
L’errore in cui è facile cadere, secondo Jervis, è quello di considerare l’identità un problema solo sociale e culturale, nascondendo così la base psicologica. Infatti non è difficile rendersi conto che ciascuno di noi ha bisogno di sentire dentro di sé un centro in ogni momento della vita cosciente; un sentimento di esistere che non è mai completo e definitivo, ma ha bisogno di essere ricostruito e riconfermato ogni giorno. Per essere a nostro agio, dobbiamo nutrire la certezza di un’identità personale ben delimitata e accettabile, dai contorni netti. Inevitabilmente chi ha subito pesanti vessazioni, spoliazioni, violenze, subisce anche un indebolimento e assottigliamento del sentimento di identità, finché subisce un tracollo anche la nostra stessa coscienza di esserci (p. 131). Jervis si richiama all’opera di de Martino, in cui si afferma l’idea di identità soggettiva intesa come sentimento primario dell’esserci in quanto «esserci in un certo modo», dove l’identità è insieme individuale e sociale (p. 132).
Non possiamo tuttavia costruire la nostra identità partendo da noi stessi e rimanendo in noi stessi: abbiamo bisogno di imitare modelli già disponibili, in grado di indicarci la via per distaccarcene dopo essercene impadroniti. Jervis riconosce implicitamente il ruolo dell’imitazione nella costruzione e manutenzione dell’identità. Il processo imitativo nella elaborazione di un sé proprio rende conto del fatto che l’identità ha due facce, individuale e collettiva, personale e sociale. Lo sviluppo dell’identità personale è paradossale, poiché mentre l’adolescente riconosce sempre più chiaramente la singolarità del proprio essere, non confondibile con altri, contemporaneamente ciascuno attiva processi di identificazione, introiezione, proiezione, creando una mescolanza tra le identità dei diversi soggetti. E tuttavia mescolanze, contaminazioni e influenze di ogni genere sono processi di costruzione dell’identità che presuppongono l’intervento di un sé sottostante quale principio attivo formatore di contenuti di varia provenienza. Il principio formale dell’identità è anteriore alle identità che nel tempo si succedono quali provvisorie combinazioni e rielaborazioni di contenuti acquisiti passo dopo passo. L’io non è una sostanza immobile e impermeabile all’esperienza, ma neppure un coacervo di contenuti alloggiati passivamente senza un filo conduttore. Del resto, basterebbe riprendere la considerazione di Jervis del ruolo del DNA nello sviluppo biologico individuale per giustificare la presenza attiva di un principio formale d’identità come apriori trascendentale rispetto ai contenuti empirici.
5. Persona, soggetto, società
Il sesto capitolo, Persona, soggetto, società, è la relazione che Jervis tenne nel 1995 presso la Facoltà Valdese di Teologia a Roma, in cui sosteneva una concezione antiessenzialistica della persona, osservando come la scomparsa di tradizioni che assicuravano un’identità di appartenenza promuove e promuoverà sempre più la ricerca di nuove forme di identità individuale e nuove forme di identificazione collettiva. Per la maggior parte delle persone rimane un’illusione la speranza di raggiungere una diversa identità; inoltre il venir meno della tradizione può comportare la perdita di valori di riferimento e di orientamento etico e provocare gravi disagi e forme di anomia; in terzo luogo, ammonisce Jervis, l’idea della libera autodeterminazione dell’identità, sottratta a qualsiasi vincolo, è un’illusione, dacché la natura umana non è plasmabile ad libitum e ciascuno deve fare i conti con i limiti che gli sono imposti dai condizionamenti primari della sua costituzione fisica e mentale (p. 151). Possono valere anche qui le considerazioni già fatte sui limiti dell’estremismo antimetafisico di Jervis.
6. La teoria dell’evanescenza dell’io
Il settimo capitolo, Evanescenza e riabilitazione dell’io, è la relazione presentata al seminario «La natura dell’io tra psicologia e filosofia», che si è tenuto presso l’Università di Roma Tre, nel 2000. I termini con cui designiamo l’interiorità — io, sé, coscienza, spirito, ecc. — apparentemente alludono a qualcosa di realmente presente dentro di noi, ma con molta probabilità tali strutture o entità non esistono oggettivamente. Nella concezione cattolica la dignità dell’essere umano dipende da un principio metafisico, posto da Dio all’atto del concepimento, quindi anche l’embrione sarebbe persona. Jervis non condivide questa visione e di conseguenza non vede giustificata l’applicazione della parola «persona» a tutti gli esseri umani, come se designasse una qualità intrinseca dell’essere umano e non fosse invece, come è, un’attribuzione sociale. Un vecchio demente, se si vuole essere rigorosi, non è persona, infatti non gli è riconosciuta la facoltà di disporre dei propri beni (questo non significa che, privatamente, non debba essere trattato come persona, dal momento che lo è stato). Si è persona solo in rapporto a una convenzione sociale, al riconoscimento ufficiale pubblico. La preoccupazione di Jervis è di natura semantica, esprime la volontà di delimitare rigorosamente il significato di termini che, con eccessiva disinvoltura, sono usati come sinonimi o intercambiabili. Ma tra le pieghe della semantica, si è visto, si nascondono posizioni ideologiche ben precise. Infatti un conto è il rispetto che si deve a qualcuno perché è comunque persona, a prescindere dalla decadenza materiale e psichica, un conto è il rispetto per qualcuno che è stato persona, ma che ora non lo è più, perché non è riconosciuto pubblicamente come tale. Jervis cita Locke a sostegno della sua tesi per cui non tutti gli esseri umani sono persone, e viceversa, nel senso che possono esservi persone che non sono esseri umani, come un pappagallo che fosse dotato di linguaggio e di raziocinio (p. 158).
A proposito dell’io, Jervis commenta le osservazioni di James, che considera la confutazione più semplice del dualismo cartesiano. L’io di James diventa a suo avviso sempre più esile ed evanescente se lo si considera come sinonimo di «coscienza di», se diciamo che l’»io» è la nostra mente come coscienza; infatti non solo il mio corpo, ma anche la mia mente può essere oggetto di indagine introspettiva e ogni parte della mente può essere oggetto dell’io, così che alla fine l’io si riduce a una particella grammaticale, «una semplice finzione, l’essere immaginario designato col pronome io», per usare le testuali parole di James (p. 162). Il commento di Jervis porta a conclusioni radicali, in linea con la sua posizione anti-essenzialista: la teoria dell’evanescenza dell’io. «L’io (io agente e osservante) è una soggettività astratta e senza spessore; questa soggettività è, in ultima analisi, una convenzione; non è in alcun modo localizzabile. Il soggetto, portato al suo limite, non esiste» (p. 162).
Dobbiamo intenderci: quella che Jervis chiama evanescenza dell’io, può configurarsi anche e forse più significativamente come trascendenza dell’io, una proprietà, questa, che lo qualifica come una funzione inoggettivabile e intrascendibile. L’io non è una cosa, o un’essenza sempre uguale, ma questo non significa che sia «evanescente». Il suo essere temporaneamente «luogo dell’azione» (fare, pensare, desiderare, ecc.), come scrive Jervis sulle orme di James, non implica che sia qualcosa di inconsistente, bensì significa la sua natura trascendente. L’io è una funzione specifica degli esseri razionali, dotati della capacità di riflettere su ogni cosa, compresa la stessa attività di riflessione, in modo inclusivo e autoriflessivo. Esiste forse una funzione più elevata di questa? A ben riflettere, si può vedere come l’io sia parente stretto della filosofia. Nessun discorso filosofico è infatti possibile senza l’uso della ragione riflessiva, intesa come facoltà inclusiva e autoriflessiva. Il luogo in cui la totalità si manifesta a se stessa — la filosofia — non ha nulla sopra di sé, al pari dell’io. L’io è il luogo in cui la realtà si rende visibile nella forma del pensiero. Che cosa sarebbero le rappresentazioni della realtà e la stessa logica, se mancasse la facoltà egoica di inclusione e autoriflessione? La filosofia deve all’io la sua potenza critica e conoscitiva, l’io deve alla filosofia l’attuazione delle proprie potenzialità. Si può scendere in profondità nel delineare l’unicità dell’io quale precondizione del sapere senza neppure toccare la metafisica, semplicemente riconoscendo l’evidenza. L’io non sopporta riduzionismi di alcun genere (artificio grammaticale per James, metafora imprecisa ma utile per Freud), proprio perché irriducibile. Il fatto che non si lasci ricondurre ad alcuna entità o elemento non significa che l’io non esiste, che il soggetto è scomparso, ma semmai è una dimostrazione della sua vitalità nel senso della trascendenza. L’io trasloca continuamente e si rivela mutevole e inafferrabile proprio perché non è particolare, ma universale, non è parziale, ma «totalitario». L’io non è una cosa tra le altre e neppure un concetto astratto, bensì un’attività rivolta al mondo e a se stesso, dunque è insieme auto-attività. L’io dunque non è nessuna delle componenti «mentali» o collocate nella nostra interiorità (volontà, motivazione, immaginazione, ecc.), proprio perché rappresenta la condizione della possibilità che un soggetto possa dire: voglio, desidero, immagino, ecc. Il soggetto che sa di esistere necessariamente non è una cosa, ovviamente, altrimenti sarebbe particolare e transeunte. Cartesio ha dimostrato come la stessa possibilità di essere ingannato riguardo l’esistenza dell’io è una prova ulteriore del fatto che l’io dovrebbe comunque esistere, altrimenti non potrebbe essere ingannato o ingannarsi. E prima di lui Agostino aveva intuito: Si fallor, sum. Il soggetto la cui esistenza è necessaria non può essere ingannato riguardo la sua esistenza e neppure riguardo a ciò che vuole veramente; nessun Es può asservirlo. Si dirà che il soggetto autocosciente non è tale a lungo né sempre; certamente, ma anche il sole scompare periodicamente per il movimento di rotazione della terra sul proprio asse, eppure nessuno dubita della sua esistenza oggettiva e indipendente dalla funzione di riscaldare e illuminare la terra stessa. Non si capisce perché, a proposito dell’io, invece, si prenda la discontinuità del suo esercizio come prova della sua inconsistenza o evanescenza. Sostenere che io, coscienza, volontà e simili non designano alcuna entità reale, come fa Jervis, significa ben poco, se non si spiega che cosa si intende per «reale». Questo tavolo o questo computer al quale sto lavorando forniscono il criterio di realtà che Jervis ha in mente? Si potrebbe osservare che il mio computer è più o meno instabile della mia autocoscienza, non che il primo è reale e la seconda no.
Del resto, lo stesso Jervis nell’ottavo capitolo, Il mito dell’io debole, prende le distanze da certe posizioni alla moda che insistono sulla debolezza dell’io, a partire dalla contestazione del 1968. Jervis considera la tesi debolista una moda romantica controculturale, ricordando che l’attivo e programmatico indebolimento dell’io e frantumazione dell’identità non può che portare alla sofferenza psichica, a meno che non si tratti di mera finzione, puro esercizio di retorica debolista. Jervis ritiene, a ragione, che molti intellettuali del Sessantotto abbiano peccato di ipocrisia e di plateale incoerenza, giacché da una parte sostenevano la loro bella teoria antirazionalista, debolista, preoccupata di detronizzare l’io, dall’altra agivano in modo deciso, razionale e attento alla realtà. Molti auspicavano la rivoluzione e predicavano la tesi dell’auto-dissolvimento dell’io. Appare oggi drammatica e ironica la coniugazione dei due atteggiamenti, se si considera che un sistema comunista, qualora una rivoluzione l’avesse instaurato, avrebbe realizzato perfettamente la dissoluzione del soggetto proclamata con tanto fervore. Da ipotesi di lavoro l’annientamento dell’io sarebbe divenuto un fatto crudo. Jervis ricorda Gilles Deleuze, Félix Guattari, Ronald Laing, David Cooper, tra i principali sostenitori dell’antipsichiatria e tutti dediti a pratiche di autodissolvimento dell’io con varie tecniche, compresa la dipendenza alcolica e contemporaneamente appoggiavano con entusiasmo gli estremisti di sinistra, divenuti rapidamente esperti nell’uso delle armi da fuoco e degli esplosivi, prima tappa del percorso verso il sovvertimento dello stato. Cooper e Laing erano i critici più severi della «normalità borghese» e dell’autoinganno di un io indipendente, padrone di sé e del mondo circostante. Dissacrare l’io e la pretesa di un’identità era una pratica ideologica, divenuta quasi genere letterario. Se usciva dall’ambito della letteratura e coinvolgeva l’esistenza delle persone, gli esiti erano pericolosamente individuali e tristemente autodistruttivi. «Negli ultimi anni della sua esistenza, conclude Jervis, Cooper finì per incarnare, più di Laing e con maggiore involontaria coerenza, il destino, in realtà penosissimo, di un reale autodissolvimento dell’io e della mente» (p. 183). Insomma Jervis si è convinto che l’auspicato processo di indebolimento attivo dell’io e di sbriciolamento dell’identità si è rivelato una finzione e un azzardo, se non un fallimento disastroso. D’altra parte, potremmo chiederci oggi, se l’io non esiste, se il soggetto cartesiano è un’invenzione, volerlo indebolire o dissolvere è velleitario e inutile. E poi, anche se avesse senso quel progetto, chi lo eseguirebbe se non l’io stesso, che si troverebbe quindi ad essere chiamato ad agire contro se stesso?
Il nono e ultimo capitolo, Retoriche dell’interiorità, è un dattiloscritto del febbraio 2008, che fa parte degli scritti preparatori per un libro sul mito dell’interiorità, mai portato a termine a causa del decesso dell’autore. Tra i presupposti inverificati che sono alla base delle retoriche dell’interiorità, troviamo: un idealismo naturale, che induce a credere che la coscienza preceda il corpo, di cui invece è un prodotto; il presupposto naturale dell’intenzionalità cosciente, per cui interpretiamo ogni comportamento e accadimento come consapevolmente diretto a un fine, supponendo che sia guidato da un’intenzione semplice e sempre presente; il presupposto della simpatia proiettiva, per cui attribuiamo agli animali inferiori caratteristiche (intelligenza, coscienza, ecc.) proprie solo di quelli superiori; il presupposto del libero arbitrio, che, pur essendo universale, sarebbe del pari privo di senso. Si dovrebbe precisare, scrive Jervis, che «il nostro cervello è fatto così, probabilmente se non avesse questo modulo, il modulo della percezione (o meglio illusione) immediata, quasi puramente emozionale, della libera scelta, o della libera volontà (free will), la nostra specie non sarebbe sopravvissuta» (p. 201). Si può ipotizzare, aggiunge Jervis, che il presupposto del libero arbitrio derivi dall’estensione a se stessi del presupposto dell’intenzionalità cosciente che attribuiamo agli esseri viventi intorno a noi. Non è ben chiaro però perché non potrebbe essere vero il contrario: Jervis risponderebbe che l’autocoscienza del bambino non è ancora sviluppata, quando l’infante interpreta le azioni intorno a lui come qualcosa che quell’entità vuole fare secondo un suo piano. Il presupposto dell’autonomia dei valori culturali consiste nella credenza che i valori religiosi e culturali, che sono prodotti umani, siano invece indipendenti e vivano di vita propria. Una conseguenza di questa credenza è l’idea che il linguaggio ci preceda e ci plasmi completamente e che persino la mente sia qualcosa che non riguarda il singolo, ma «una nebbia misteriosa fuori, con e fra qualcosa che sarebbe solo di dialogo, di gruppo o di cultura» (p. 203). Una tesi, questa, che Jervis giudica eccessiva. Infine il presupposto dell’essenzialismo sacralizzante, consiste nell’idea che debba esserci necessariamente un’essenza umana. Gli esseri umani sono immaginati in base a una qualità essenziale. Ragionando in tal modo si finisce col concepire come essere pienamente umano anche un preembrione, in quanto gli si attribuisce un principio intrinseco essenzialmente diverso da quello per cui uno scimpanzé è uno scimpanzé. Curiosamente, questo presupposto non è applicato in modo sistematico: sappiamo bene ad esempio che un bambino non è un adulto, anche se lo diventerà. Un bambino non può rifiutare le cure per la leucemia, non può votare, perché così stabilisce la costituzione. Ed è giusto così, ma c’è chi sostiene che neppure l’adulto può rifiutare le cure, in base al principio della sacralità della natura umana (p. 205). Jervis tuttavia, facendo i conti con le retoriche dell’interiorità, rischia di liquidare l’interiorità come artifizio retorico.