Sulla possibilità di un uso empirico delle categorie dell’intelletto sul concetto di noumeno. Differenze e analogie fra il concetto di in sé delle cose e le idee della ragione all’interno della Critica della Ragion pura

1. Introduzione

Il concetto di noumeno è uno dei capisaldi dell’idealismo trascendentale kantiano, ne è premessa e conseguenza nonostante la sua natura teorica sia estremamente controversa. Il seguente articolo si soffermerà in modo precipuo sull’analisi dell’uso possibile delle categorie dell’intelletto quando applicate all’oggetto del solo pensiero. Verranno prima analizzate le differenze fondamentali fra le nozioni di uso empirico e ʿusoʾ trascendentale delle categorie e sarà poi approfondito in relazione al testo kantiano il senso del ʿsignificatoʾ trascendentale dei concetti puri dell’intelletto nei rispetti dell’impossibilità di un ʿusoʾ trascendentale degli stessi. Introdurrò quindi la formulazione di uso empirico negativo dell’intelletto per riferirmi al possibile impiego “produttivo” (produttore di senso) delle categorie sul concetto di noumeno. L’analisi si articolerà parallelamente alla problematizzazione della differenza fra la natura dell’idea trascendentale della ragione e quella del concetto intellettuale di noumeno. Verranno infine prese in esame alcune delle assunzioni salienti portate avanti da alcuni studiosi contemporanei1 circa l’interpretazione possibile del significato trascendentale dei concetti puri dell’intelletto. La trattazione culminerà nella descrizione del tipo di giudizio che è possibile articolare sul pensiero di un in sé delle cose.

2. Indagine sulla possibilità di un uso trascendentale delle categorie: l’uso empirico negativo dei concetti puri dell’intelletto.

La questione è dunque, se al di là dell’uso empirico dell’intelletto (persino nella rappresentazione newtoniana dell’universo), non sia possibile anche un uso trascendentale che si riferisca al noumeno come a un oggetto, domanda alla quale abbiamo risposto negativamente.2

Kant si sta chiedendo se sia possibile fare anche un uso delle forme pure a priori dell’intelletto che abbia come specifico proprio oggetto il noumeno, che in quanto tale non appartiene di certo alla dimensione dell’esperienza, quindi su un oggetto trascendente l’esperienza, non intuibile sensibilmente. L’uso trascendentale (uso, non significato) quindi, è bene chiarirlo, si riferisce esclusivamente alla possibilità per l’intelletto di operare svincolato dalle forme pure dell’intuizione sensibile, a ciò che può o non può fare l’intelletto in assenza delle coordinate necessarie alla pensabilità di qualcosa in quanto fenomeno (senza schema trascendentale), a livello puro: un uso dell’intelletto su oggetti in generale. Posta in modo diverso, la questione potrebbe essere così letta: egli si domanda se sia possibile fare un uso empirico dell’intelletto – perché se parliamo di uso, questo è sempre solo empirico per l’intelletto – che abbia per esperienza il non esperibile. Viene problematizzata l’ipotesi di un impiego delle categorie che, considerato l’oggetto trascendente l’esperienza, resti tuttavia nella sua applicazione produttivo (per noi nel senso di empirico), ovvero produttore di conoscenze oggettive sintetiche circa un’esperienza che risponde a determinate forme, pur non operando su oggetti di esperienza possibile. Ed è chiaro, Kant lo conferma, che è impossibile fare un uso empirico delle categorie su un oggetto che trascenda l’esperienza, perché quell’uso diverrebbe trascendentale (trascendentale o empirico, come predicazioni di uso, si riferiscono all’oggetto che è sottoposto all’azione delle categorie, empirico o trascendente), non empirico. La menzione kantiana di un uso trascendentale è, in questo preciso paragrafo, da intendersi quindi nel senso negativo di ʿuso non-empiricoʾ, in primo luogo per l’oggetto d’esame, il noumeno, e in secondo luogo per il fatto che non esiste un uso propriamente trascendentale dell’intelletto ma solo un significato che parafrasi l’impossibilità per quello di operare sensatamente a livello trascendentale (su oggetti che trascendono l’esperienza). Difatti i principi a priori dell’intelletto sono in grado di significare gli oggetti dell’esperienza solo se saldamente ancorati alla possibilità della percezione degli stessi, che sia essa solo esibita formalmente secondo le forme pure a priori della sensibilità, spazio e tempo, o realizzata per il tramite della sensazione.

Per le idee della ragione neppure sorge la questione della possibilità di un uso delle categorie dell’intelletto, poiché gli oggetti presi in esame sono per loro costituzione contenuti di esperienze impossibili. Sarebbe insensato chiedersi se sia possibile un uso delle categorie in merito a Dio, perché la ragione coi suoi principi trascendenti costringe l’intelletto a pensare l’incondizionato che eccede l’esperienza, ed essendo il concetto di Dio il risultato di questa operazione, non si darà per tale oggetto il caso di un’applicazione dei concetti puri dell’intelletto che giunga a giudizi sintetici, ma su questo tonerò più avanti. Se invece sia possibile un uso trascendentale delle categorie, nel senso di riferito a oggetti in generale, ovvero sul noumeno, è quesito che sorge a mio parere per dare atto dell’origine intellettuale di simile concetto, ma, soprattutto, una volta trovata la risposta, per render noto che l’uso possibile delle categorie non è mai trascendentale e quindi che il noumeno, non potendosi considerare oggetto di un’esperienza possibile, resta oscurato alla nostra conoscenza svincolata dall’intuizione sensibile, allo stesso intelletto. Dalla natura dell’interrogativo, dai toni quasi retorici,è possibile iniziare a definire la differenza fra i due oggetti presi in esame (il concetto di noumeno e l’idea trascendentale). L’oggetto che sfugge all’uso trascendentale dell’intelletto, il noumeno, non è un oggetto trascendente l’esperienza tout court, ma un concetto del tutto vuoto che si tiene entro i limiti dell’esperienza nella sua funzione normativa per una teoria della conoscenza. L’idea della ragione esige una risposta di unità quanto al molteplice condizionato sintetizzato dall’intelletto, e non si arresta laddove constata l’impossibilità per una conoscenza oggettivamente valida di venire ad essere sotto forma di giudizio sull’incondizionato: valica anzi il confine e produce contenuti concettuali noumenali. Dall’analisi appena compiuta della domanda, cercherò di dare senso alla risposta fornita da Kant: è proprio il responso negativo a ripristinare lo statuto del concetto di noumeno al di qua dell’esperienza come pensiero logico che sorge a partire dalla conoscenza sensibile senza avanzare pretese di realtà. Il contenuto delle idee della ragione invece, non è intellettuale, o meglio, è un contenuto che origina dall’intelletto, ma che viene sottoposto ad un’ulteriore mediazione, quella ad opera dei principi trascendenti della ragione. Il contenuto razionale del concetto trascendentale, quanto alla forma, non parte quindi dall’esperienza per darsi natali, non c’è un diretto collegamento con la forma o materia dell’intuizione, ma con l’intelletto. La ragione imprime la propria esigenza di ordine e comprensività a partire dal lavoro di sintesi operato dall’intelletto sul materiale fornito dall’intuizione.

Quanto al ruolo svolto dalle categorie nella formulazione del concetto di noumeno, l’espressione uso empirico negativo mi pare adeguata perché implicitamente contiene il pensiero della negazione dell’esperienza, cioè include l’interrogativo che sorge in assenza di questo riferimento necessario, che è la domanda posta dallo stesso Kant: se non ci fosse data la possibilità di un’esperienza sensibile per un oggetto, sarebbe comunque possibile per le categorie conoscere qualcosa mantenendo il loro statuto di principi a priori dell’intelletto? Il fatto è che, Kant stesso lo esprime introducendo la nozione di significato trascendentale, non è possibile effettivamente un uso, un’applicazione delle categorie ad una dimensione che non sia quella esperienziale. L’uso che però hanno le categorie nella formulazione del concetto di noumeno, è tale se lo si considera in quanto funzione dell’intelletto di pensare la possibilità e di ulteriori forme di conoscenza oltre la propria e della negazione della propria conoscenza in generale, a partire da una proposizione non contraddittoria e logicamente valida. Ciò definisce i limiti entro cui la riflessione su questo pensiero deve stanziarsi. Il noumeno non va trattato come un oggetto trascendente, perché allora sarebbe da annoverarsi fra i noumeni pensati dalla ragione (molta letteratura critica noumenalista cade in questo atteggiamento quando tenta di connotare positivamente la realtà ontologica di questo concetto).3 Il discorso va impostato differentemente perché la ragione, in quanto facoltà dei principi, domanda incessantemente all’intelletto di comprendere (Begriffen) le proprie conoscenze condizionate sotto principi incondizionati, mentre i concetti dell’intelletto si occupano di intendere (Verstehen) le percezioni e, per l’intelletto, comprendere le percezioni significa anche assumere che tutto ciò che posso percepire è fenomeno; da qui l’uso negativo del concetto di noumeno. Potrei dire che il concetto di noumeno è un principio immanente dell’intelletto che ne guida l’uso empirico nella misura in cui definisce il confine dell’esperienza, e quindi della conoscenza, pensandone la negazione, postulando la dimensione indipendente dell’oggetto. L’uso del concetto di noumeno formulato dall’intelletto è, quindi, negativo.

Viene problematizzata e risolta l’ipotesi di un uso trascendentale, non empirico, del pensiero. Se sia possibile un uso positivo, alla stregua dell’empirico, dell’apparato conoscitivo trascendentale sull’oggetto noumeno, un’applicazione positiva delle categorie su questa dimensione concettuale ad opera del solo intelletto coerentemente coi propri principi, ma distaccato dallo schema formale dell’intuizione del proprio oggetto (dato che non c’è), è presto detto.4 È l’uso empirico negativo dell’intelletto invece, coerentemente con quanto fin qui è stato evidenziato, a poter essere connotato come uso ʿpositivoʾ – intendendo qui per positivo ʿproduttore di sensoʾ – delle categorie. Simile impiego delle categorie dell’intelletto si riferisce a questo: alla possibilità di pensare la negazione della nostra conoscenza restando nei limiti della nostra esperienza. Essendo il fenomeno ciò che appare entro la struttura dell’esperienza che vivo, se non potessi più conoscere il fenomeno per affezione, se non avessi più luoghi logici per le mie rappresentazioni dell’oggetto che modifica il mio spirito, quello cesserebbe di apparirmi, cesserebbe di affliggermi e, quindi, scomparendo la forma dell’apparenza del fenomeno, scomparirebbe la connotazione fenomenica dello stesso, lasciando spazio non più a me, soggetto, ma all’essere per sé dell’oggetto.

Propongo quindi una possibile declinazione positiva di quell’uso trascendentale delle categorie che è invece, letteralmente inteso, sempre e solo negativo e impossibile. La distinzione fondamentale da porre si riduce a questo punto a quella circa l’oggetto del concetto preso in esame: quello di noumeno è un concetto peculiare che sorge a partire dalla considerazione della natura sensibile del fenomeno pensandone poi il negativo (la possibilità della negazione), quindi di un concetto che, seppure privo di contenuto e significato, vuoto (ed è questo il discrimine rispetto alle idee trascendentali, che sono sì vuote, poiché manca il riferimento alla sensibilità, ma significate discorsivamente in modo arbitrario quanto al contenuto), parte dall’esperienza per definirsi e si attesta sulla posizione dell’indecidibilità quanto alla sua possibilità e impossibilità reale (non logica, che è invece possibile). Anche l’idea di Dio, si potrebbe obiettare, parte dalla dimensione creaturale, quindi dall’esperienza, in quanto spiegazione causale della sua origine, ma il riferimento all’esperienza culmina in questo caso nella formulazione di un oggetto del pensiero dotato di contenuto significativo positivo nonostante la completa astrazione dalle forme pure che consentono di pensare la possibilità per un oggetto in genere di essere esperito; nel caso del concetto di noumeno, come ho già provato a dire, il riferimento all’esperienza è quello che porta alla delimitazione del dominio delle nostre conoscenze oggettive aggiungendo un contenuto di pensiero che sorge dalla possibilità di negare la nostra conoscenza stessa. Di qui si aprono due strade, quella della possibilità e impossibilità per un’altra intuizione sensibile di darsi, e quella della possibilità (e impossibilità) per l’oggetto di essere pensato come un fondamento stabile e indipendente dalle nostre facoltà cognitive che ne renda possibile l’applicazione. La credibilità che mi sento di riconoscere al concetto di noumeno e che lo differenzia dall’idea dell’anima, ad esempio, origina proprio dal limite metodologico che impone ai principi dell’intelletto nella loro possibilità di significare la realtà tenendosi al di qua di quella permanenza logica fondamentale dell’oggetto (noumenon),5 sospendendo qualsivoglia giudizio apodittico in merito ad esso. È come se il pensiero del noumeno sapesse cosa sia un’idea della ragione, e anziché declassarsi in contenuti noumenali, si fermasse appena prima per definire l’impossibilità di una loro formulazione coerente (nei riguardi dei contenuti che propongono).

C’è inoltre da dire che la funzione del concetto di noumeno è specificatamente epistemologica, permette di definire logicamente il limite al di là del quale le categorie non possono spingersi attraverso l’asserzione di un contenuto problematico di giudizio. Laddove c’è un fenomeno, c’è qualcosa che non appare ma è, ma questo qualcosa posso solo pensarlo, e mai esperirlo. Il giudizio problematico espresso dalla proposizione, parte dalla costituzione della nostra architettonica trascendentale, delineata attraverso l’Estetica e la Logica, e arriva ad inferire logicamente, dal carattere fenomenico della realtà, la possibilità di altre formule trascendentali di conoscenza ed infine la possibilità per l’oggetto di sussistere al di là di queste come condizione d’esistenza dell’essere fenomenico. I concetti trascendentali invece, compresi i limiti della nostra conoscenza, accondiscendono ai desideri regressivi della ragione: anziché definire un limite chiaro per la teoria della conoscenza, questi sono guidati dall’apparenza trascendentale di certi principi trascendenti razionali nella ricerca verticale della condizione suprema che presieda alla serie di fenomeni condizionati.

Il concetto di noumeno offre il paradigma dell’esperienza propria del modo d’intuizione sensibile per dare dignità alle nostre conoscenze e per criticare le pretese velleitarie della ragione, ma anche dello stesso intelletto, quando prova tramite le proprie categorie a predicare qualcosa dell’in sé delle cose, positivamente. La ricerca inaugurata dal concetto di noumeno, potrei dire, segue un andamento orizzontale – al contrario della regressività verticale cui la ragione induce l’intelletto nel condurre al dominio dell’incondizionato. Il concetto di in sé del fenomeno parte dalle forme pure a priori della sensibilità e dell’intelletto, per occuparsi della loro specificità in relazione ad un dato oggetto che, inevitabilmente colto all’interno di una relazione con un soggetto, che siamo noi, presenta idealmente la propria indipendenza, sotto forma di fenomeno. L’uso empirico negativo delle categorie dell’intelletto si riferisce, è bene ripeterlo, a questo: alla possibilità di pensare la negazione della nostra conoscenza restando nei limiti della nostra esperienza.

3. Due nature a confronto: le idee trascendentali della ragione e il concetto intellettuale di noumeno. Problematizzazione dell’interpretazione del significato trascendentale delle categorie.

Proviamo ora a definire le differenze fra l’oggetto in generale delle idee trascendentali (Io, mondo, Dio) frutto dell’uso reale della facoltà dei principi (ragione), e quello (noumeno) formulato dalla facoltà delle regole (intelletto), frutto dell’uso empirico negativo dell’intelletto. La prima differenza la si può rintracciare nel procedimento deduttivo che porta alla formulazione dell’oggetto generale. Va sottolineato che noi, in quanto soggetti conoscenti, abbiamo una necessità impellente di dedurre, potrei quasi dire che la nostra conoscenza avanza per deduzione. Posto questo, l’inferenza che porta alla formulazione dell’idea trascendentale è, in primo luogo, un’inferenza razionale mediata mentre quella che porta alla formulazione del concetto di noumeno è un’inferenza immediata intellettuale che parte dall’analisi del concetto di fenomeno, appreso in primo luogo per intuizione. La ragione, come già detto, avanza sempre, nel dare unità alle singole esperienze, una certa esigenza di completezza: vuol vedere sistematizzato anche ciò che non può essere sistematizzato, l’incondizionato. L’azione della ragione si staglia quindi al di là della sensibilità, va ad operare sul prodotto concettuale dell’intelletto che contiene entro sé la sintesi operata dall’intuizione: conosce il prodotto dell’intuizione solo mediatamente. Per questa facoltà è infatti più facile astrarre del tutto dalla sensibilità, non essendo con essa in contatto diretto. L’illusione (Schein, diverso da ʿfenomenoʾ, Erscheinung) trascendentale è quel fenomeno che si verifica quando la ragione mettendosi alla guida dell’intelletto, ne porta a frutto un uso astratto. Il risultato di questa illusione è la figurazione di una completezza che però non può avere luogo. Ora, il pregiudizio da cui parte la ragione è quello che la realtà sia ordinata, e il concetto trascendentale, in quanto concetto dell’incondizionato, non è altro che il concetto della totalità delle condizioni per un dato condizionato, che prende il nome di assoluto. Mentre l’intelletto ha a che fare con l’unità sintetica delle rappresentazioni a partire dalla sintesi del molteplice appreso in una intuizione, la ragione ha a che fare con l’unità sintetica incondizionata di tutte le condizioni in generale. Il tipo di concetto con cui ha a che fare la ragione esula totalmente dal concetto oggetto dell’intelletto puro, perché non può esser dato punto empiricamente.

Il passo ulteriore che si può fare senza valicare il confine appena delimitato fra sensibilità (appannaggio della mia conoscenza) e noumeno, è il seguente: il concetto di noumeno ci dà la possibilità di asserire, per il tramite della proposizione, la possibilità logica, il caso, di una realtà inconoscibile (noumeno in senso negativo) che prescinda dal nostro punto di vista, e che quindi possa schiudere altri possibili orizzonti di intuizione sensibile o intellettuale (noumeno in senso positivo). Potrei dire che con la scomparsa del soggetto umano, l’oggetto continuerebbe a persistere e verrebbe magari sottoposto ad altre modalità di intuizione entro una relazione, ed il significato trascendentale, che non è mai uso perché slegato dalle forme pure dell’intuizione sensibile (distacco che mina alle fondamenta la possibilità di un’applicazione sensata delle categorie agli oggetti dell’esperienza, e quindi la possibilità stessa di giudizi sintetici), è per Yaron Senderowicz proprio questo, l’allusione ad altre forme di intuizione su cui le nostre categorie possano poggiare, scrive:

the trascendental significance of the categories therefore seems to allow the «mere possibility» of synthetich a priori judgments that are based on forms of intuitions different from our forms of intuitions.6

Non sembra però che questa interpretazione di ʿsignificato trascendentaleʾ sia in linea col testo kantiano, che citerò più avanti a tal proposito. Tanto per cominciare la nozione di significato trascendentale sorge come precisazione di ʿuso trascendentale delle categorieʾ. L’uso trascendentale, ci dice Kant, non è mai propriamente un uso delle categorie quanto piuttosto un significato che otteniamo dal ragionamento su una loro possibile applicazione ad oggetti in generale, un’indicazione significativa sulla loro possibilità di applicazione. L’indicazione importante fornita da questo esperimento è che l’applicazione delle categorie a un oggetto che non presenti alcun tipo di anticipazione della percezione e che non esibisca nell’intuizione la forma del fenomeno, significa un uso improprio delle stesse, un abuso, perché mancano le coordinate necessarie alla loro applicazione (le forme pure dell’intuizione sensibile). In definitiva il significato trascendentale ci informa del fatto che per il nostro particolare modo di conoscenza, che abbiamo capito non poter prescindere dall’azione combinata di sensibilità e intelletto, è impossibile giungere a conoscenze certe, oggettive, apodittiche su un oggetto di cui non è possibile avere intuizione, pura o empirica che sia. È impossibile portare avanti un uso trascendentale delle categorie:

i concetti puri dell’intelletto non possono essere mai di uso trascendentale, ma solo sempre di uso empirico, e […] i principi dell’intelletto puro soltanto in relazione alle condizioni generali di una esperienza possibile possono esser riferiti agli oggetti dei sensi, ma giammai alle cose in generale (senza riguardo al modo onde possiamo intuirle).7

Il significato che sorge da una simile costatazione, solo successivamente diventa quello di una apertura alla “mera possibilità” di giudizi sintetici a priori basati su una forma di intuizione diversa dalla nostra. L’uso trascendentale delle categorie, che è di per sé impossibile, è l’uso arbitrario delle categorie portato avanti dall’intelletto, senza badare ai confini del terreno entro cui gli è consentito muoversi (che è quello aperto all’intuizione sensibile, e, quindi, all’esperienza), un uso che culmina in un errore di giudizio, se non sorretto da una strutturata riflessione trascendentale.8 Ma, ancora meglio, l’uso trascendentale di un concetto culminerebbe nella formulazione di un giudizio che pretenda di riferirsi alle cose in generale e in loro stesse facendo a meno della sensibilità, e il solo significato che possiamo trarre da un simile uso non è quello che si esprime sulla possibilità per le categorie di poggiare su altre forme di intuizione, ma quello che definisce l’impossibilità per noi di avere un’idea di cosa significhi fare esperienza di un oggetto trascendente la sensibilità. L’uso trascendentale delle categorie significa il limite per la nostra conoscenza quando cerchi di formulare giudizi oltre il dominio dell’esperienza possibile. È impossibile, ci dice, formulare proposizioni significative sul noumeno. L’interpretazione di Senderowicz apre piuttosto a quello che Kant definisce come significato positivo di noumeno, ciò che di positivo porta con sé il suo concetto:

se per esso (noumeno), intendiamo l’oggetto d’una intuizione non sensibile allora supponiamo una speciale maniera di intuizioni, cioè l’intellettuale, la quale però non è la nostra, e della quale non possiamo comprendere nemmeno la possibilità; e questo sarebbe il noumeno in senso positivo. […] Perciò, se noi volessimo applicare le categorie ad oggetti che non siano considerati come fenomeni, dovremmo porre a fondamento di esse un’intuizione diversa dalla sensibile, e allora l’oggetto sarebbe un noumeno in senso positivo.9

Il significato trascendentale delle categorie porta invece con sé una connotazione negativa nella misura in cui include il riferimento ai limiti entro cui devono trattenersi nella loro applicazione i principi puri dell’intelletto.

Può quindi esser ragionevole esprimersi dicendo: le categorie pure, senza le condizioni formali della sensibilità, hanno un significato semplicemente trascendentale, ma non hanno alcun uso trascendentale, poiché questo è in se stesso impossibile, mancando ad esse tutte le condizioni di un uso qualunque (nei giudizi), cioè le condizioni formali della sussunzione d’un qualunque preteso oggetto sotto questi concetti.10

Questo è il motivo per il quale non è possibile riempire un giudizio trascendentale (sussumervi un oggetto) e fare quindi un uso trascendentale delle categorie, perché resteremmo senza parole, o meglio, senza significati. L’uso trascendentale è quell’applicazione delle categorie ad oggetti che prescindono dall’esperienza, quindi ad oggetti che non possono essere appresi secondo la forma dell’intuizione sensibile, che sia mia o di altri. Per poter fare un uso trascendentale delle categorie dovrei poter parlare sinteticamente della mia esperienza del non esperibile, il che, chiaramente, è impossibile. L’unica costruzione cui la categoria giunge mediante astrazione da ogni condizione della sensibilità è quella di un pensiero che si reitera secondo differenti espressioni, mai oggettive, sul pensiero di un oggetto in generale:

esse, (come semplici categorie pure) […] non possono esser nemmeno di uso trascendentale, non sono punto di alcun uso, separate che siano da ogni sensibilità […]; e sono piuttosto semplicemente la forma pura dell’uso dell’intelletto rispetto agli oggetti in generale ed al pensiero, e per mezzo di esse sole non si può mai pensare o determinare verun oggetto.11

È per questo che Kant ritiene opportuno sostituire qui alla nozione di uso quella di significato, perché un uso trascendentale delle categorie è, di fatto, impossibile. Il significato trascendentale sostituisce discorsivamente il vuoto lasciato da una impossibilità fisiologica delle categorie di far presa sull’oggetto che trascende l’esperienza. Questo significato è strettamente legato al senso negativo del noumeno, più che al suo senso positivo. Ciò cui invece si riferisce Senderowicz è la possibilità per altri tipi di intuizione di sostenere l’apparato categoriale in risposta all’impossibilità per un’intuizione sensibile di fornire il materiale adeguato per un uso delle categorie che si voglia su oggetti in generale.

4. Il giudizio possibile sull’in sé delle cose.

Compreso il senso del significato e dell’uso trascendentale, torno ora a considerare il concetto di noumeno. Una descrizione possibile per simile concetto è per me quella di una persistenza, pensata in nostra assenza e da noi solo nominalmente considerabile, che in qualche modo presenta le sue sembianze nella relazione possibile con la nostra sensibilità, emergendo quindi (e però) sotto forma di fenomeno. Potrei definirlo come il pensiero di una presenza vuota, la presenza di un qualcosa che non so come potrebbe presentarsi per il fatto stesso che se potessi coglierla, conoscerei ciò che non posso esperire, e l’oggetto della mia esperienza è sempre tassativamente fenomeno, ciò che mi appare. È infatti impossibile per me astrarre completamente dalle forme pure della sensibilità e dell’intelletto che mi appartengono perché per un verso cesserei di essere soggetto conoscente, per l’altro la realtà cesserebbe di apparirmi fenomenicamente.

È comunque un bel nodo da sciogliere, perché se è vero, ed è stato sufficientemente dimostrato, che per noi non è in alcun modo sostenibile filologicamente la valenza ontologica di tale dimensione concettuale (per il fatto che, se ci sono, non la conosco perché sono determinato in modo da non potervi accedere, e, se non ci sono, non la conosco perché non ci sono), resta il fatto che dalla mia relazione col fenomeno posso analiticamente pensare la permanenza dell’oggetto dell’intuizione al di là di essa, al di là della mia relazione con questo. Mi spiego meglio. Un giudizio analitico, per Kant, è quel giudizio nel quale la connessione del predicato col soggetto viene pensata per identità, è un’esplicazione di ciò che è già contenuto nel soggetto, il concetto del quale vado poi a suddividere tramite analisi in concetti parziali che erano già in esso pensati. Il predicato B appartiene quindi al soggetto A come qualcosa che è già contenuto implicitamente nel concetto A. Nel concetto di fenomeno, l’oggetto per noi, è come se io già sapessi che è implicitamente incluso il rimando all’in sé: se qualcosa appare, dovrà esserci qualcosa che dietro quell’apparenza, è. A partire da questa premessa resta il fatto che in merito a tale giudizio implicito al concetto di fenomeno non possono essere formulati giudizi sintetici o apodittici; la nostra capacità conoscitiva non estrapola contenuti positivi in merito all’oggetto di una concettualizzazione simile. Per Kant, com’è noto dalla critica all’argomento ontologico, non si possono formulare giudizi d’esistenza sulla base di delucidazioni analitiche. L’analisi del sintagma fenomeno, quella che implica l’essere dell’oggetto al di là della sua apparenza, esprime un tipo di esistenza meramente logica, affatto reale. Citerò solo un passo, estremamente esplicativo, dalla Critica:

Cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili. Perché, dal momento che i secondi denotano il concetto, e i primi invece l’oggetto e la sua posizione in sé, nel caso in cui questo contenesse più di quello, il mio concetto non esprimerebbe tutto l’oggetto, e però anch’esso non ne sarebbe il concetto adeguato. Ma rispetto allo stato delle mie finanze nei talleri reali c’è più che nel semplice concetto di essi (cioè nella loro possibilità). Infatti l’oggetto, per la realtà, non è contenuto senz’altro, analiticamente nel mio concetto, ma s’aggiunge sinteticamente al mio concetto.12

Il medesimo aspetto è sottolineato da Robert Hanna quando afferma che il giudizio analitico che di un essere perfetto consideri l’esistenza come annoverata fra i predicati della perfezione, non ci dice nulla sulla attuale esistenza o realtà di quella cosa:

its Realität or Wirklichkeit, […] also require a sensory intuitions of that thing, and […] of course is notoriously lacking in the case of a perfect being. So things-in-themselves are, at most, logically possible values of thins “generic representational object” or “trascendental object ₌X” or “object in general”/Gegenstand über haupt (CPR A108-9 A253).13

Ma vediamo bene qual è la forma particolare di questo concetto caratteristico, quello che postula l’in sé del fenomeno. La formula per la quale «dato un fenomeno, ci sarà anche un noumeno a suo fondamento» non è contraddittoria, è una formula che esprime possibilità logica, è tuttavia una proposizione che contiene un giudizio problematico poiché è impossibile stabilirne la verità o la falsità (manca la controprova empirica). Il giudizio apodittico, citato più sopra, determina al contrario la verità di ciò che afferma secondo il carattere della necessità, cosa che, abbiamo già detto, è impossibile per un giudizio problematico. Il giudizio problematico presenta la forma proposizionale tipica dell’assertorietà, ma il contenuto asserito non definisce qualcosa di cui sia possibile predicare verità o falsità (l’in sé dell’oggetto). Il giudizio problematico, ancora, soddisfa due parametri inerenti al significato trascendentale: quello di essere un concetto non contraddittorio, quindi logicamente valido, e quello di esulare, nell’esibizione del contenuto, dall’intuizione sensibile, quindi l’origine intellettuale. La possibilità espressa dal giudizio problematico non è la possibilità predicabile di quelle conoscenze che presentano aderenza rispetto alle forme pure di una possibile esperienza in genere (che esibiscono nell’intuizione un oggetto indeterminato), non siamo nell’ambito dell’asserzione ma in quello della problematicità, nella fattispecie della mera possibilità logica di un concetto non contradditorio. La possibilità logica del concetto è diversa dalla possibilità reale, così come l’uso trascendentale delle categorie è diverso dall’uso empirico. Quindi, ripetiamo, abbiamo a che fare con un concetto dal significato trascendentale di cui possiamo dire la possibilità logica ma non la possibilità reale. A livello gnoseologico l’idea di un fondamento ontologico delle apparenze ci rassicura sul fatto che la realtà non sia una semplice proiezione della mente, che c’è qualcosa di non apparente a fondamento di ciò che apprendo della realtà e che questo qualcosa non è totalmente dipendente, quanto alla sua sussistenza, dalle mie forme pure (il fenomeno, Kant è chiaro, non è una fantasticheria, non è un prodotto arbitrario delle mie categorie, è anzi il tramite per il quale attingiamo alla realtà delle cose). Questa, tuttavia, resta una rassicurazione che non può appartenere al piano dell’ontologia reale, non a quello della possibilità reale di un concetto, bensì al piano della logicità e della non contraddizione di una proposizione, il contenuto della quale non va considerato come riferentesi ad un oggetto reale trascendente, ma come postulato logico normativo per la nostra conoscenza. Quanto alla realtà dell’oggetto (o oggetti) espresso da questa proposizione non contraddittoria, Kant non ha dubbi:

Perocché il concetto di oggetti puri, semplicemente intelligibili, è assolutamente privo di tutti i principi della sua applicazione, non potendosi immaginare un modo in cui questi principi debbano essere dati, e il pensiero problematico, che lascia loro un posto libero, serve soltanto da spazio vuoto per delimitare i principi empirici, senza tuttavia contenere e additare alcun altro oggetto di conoscenza di là della sfera di questi ultimi.14

È oggettivo infatti il pensiero per il quale la mia possibilità di conoscenza necessita di un dato che si lasci conoscere che sia indipendentemente dal sistema di conoscenza che di volta in volta si applica. Ed è questa l’unica rassicurazione di cui necessita una visione deflazionistica del concetto di noumeno, una rassicurazione propedeutica alla visione del soggetto sulla realtà, che non interpreti il contenuto dell’in sé delle cose come qualcosa di ontologicamente differente da ciò che effettivamente apprendo sotto forma di fenomeno, quanto piuttosto un orizzonte che tenga conto della permanenza indipendente dell’oggetto a fondamento della mia possibilità di conoscenza. Il livello analitico che ho sopra citato, è qualcosa che si pone fra l’ontologia di certe interpretazioni che vedono in Kant delle risonanze metafisiche e il mero nominalismo. Il concetto di cosa in sé è già presupposto implicitamente nel concetto del (soggetto) fenomeno (come sua predicazione). Sebbene il luogo trascendentale delle nostre funzioni logiche ci imponga di parlare del noumeno relativamente ad un modo di pensare certe relazioni del pensiero con la realtà secondo logica e metodologia, di una logica fra l’altro per lo più negativa, il lato costruttivo di questa apparente evanescenza del pensiero è che, pur ridimensionando le mie pretese di conoscenza, in qualche modo ripristina la complessità della questione a livello trascendentale, cioè relativamente al soggetto che la pone. Circa il mondo, oggetto, senza soggetto, non possiamo sensatamente dire nulla di oggettivamente valido, per il fatto stesso che noi siamo già da sempre in relazione coi fenomeni del mondo.


  1. In particolare mi soffermerò su alcuni passaggi contenuti in The Coherence of Kant’s trascendental idealism, p. 52, Dordrecht, Springer 2005, di Y. M. Senderowicz; allo stesso modo considererò brevemente alcune assunzioni di R. Hanna inerenti al lavoro Kant, Science, and Human Nature, p. 197, Why gold is necessarily a yellow metal, Usa, Oxford University press 2006. ↩︎

  2. I. Kant, Critica della ragion pura, (1781, 17872), Firenze-Milano, Giunti editore S.p.A./Bompiani 2019 (terza edizione), traduzione italiana a cura di Costantino Esposito, A257/A258. ↩︎

  3. R. Langton, Kantian Humility. Our ignorance of Things in Themselves, New York, Oxford University Press 2007. ↩︎

  4. Ibidem («domanda alla quale abbiamo risposto negativamente»). ↩︎

  5. νοούμενον participio presente medio-passivo di νοέω, lett. ʿciò che è pensatoʾ. ↩︎

  6. Y. M. Senderowicz, The Coherence of Kant’s trascendental idealism, p. 52, Dordrecht, Springer 2005. ↩︎

  7. I. Kant, CRP: Della distinzione in generale di tutti gli oggetti in fenomeni e noumeni, trad. Gentile, Lombardo-Radice. p. 205. ↩︎

  8. Ivi, p. 236: «Noi diremo immanenti i principi, la cui applicazione si tiene tutto e per tutto nei limiti dell’esperienza possibile; trascendenti, invece, quelli che devono sorpassare tali limiti. Ma non intendo per questi l’uso o l’abuso trascendentale delle categorie, che è né più né meno che un errore del giudizio non convenientemente frenato dalla Critica, e che non bada abbastanza ai confini del terreno, in cui soltanto è concesso all’intelletto puro agire». ↩︎

  9. Ivi, p. 208. ↩︎

  10. Ivi, p. 205. ↩︎

  11. Ivi, p. 206. ↩︎

  12. Ivi, Dialettica Trascendentale, Dell’impossibilità di una prova ontologica dell’esistenza di Dio, pp. 382-383. ↩︎

  13. Robert Hanna, Kant, Science, and Human Nature, p. 197, Why gold is necessarily a yellow metal, Usa, Oxford University press 2006. ↩︎

  14. I. Kant, CRP: Del principio della distinzione di tutti gli oggetti in generale in fenomeni e noumeni, p. 213. ↩︎