Il Dasein heideggeriano e l’«oltrepassamento» del concetto cristiano di persona

1. Introduzione

Il concetto di persona nella società post-moderna è condizionato da fattori che determinano una tendenza al misconoscimento del Sé, dimensione dell’essere che origina dalla relazione dell’Io con il Tu.1 Tale dinamica di pensiero, indebolita dalla frammentazione teoretica del sapere inaugurata dalla filosofia moderna, comporta, nel XX secolo, il sorgere di ermeneutiche antropologiche riconducibili all’esistenzialismo. Questa situazione odierna comporta un rinnovato stimolo alla riflessione, e quindi alla comprensione, della struttura antropologica non solo in ambito filosofico, ma anche teologico.

Lo scopo di questo articolo è un tentativo di lettura del Dasein heideggeriano in quanto oltrepassamento (Verwindung)2 del concetto di persona, in un primo momento elaborato dalla metafisica classica, e successivamente acquisito dalla filosofia cristiana. Questa ricerca intende esaminare il mancato raggiungimento dell’obiettivo enunciato dalla filosofia esistenzialista: la ri-fondazione del pensiero sull’essere umano a partire dalla sua dimensione immanente senza più alcun riferimento all’essere metafisico.

Il metodo utilizzato verte su un’analisi della produzione filosofica del primo Heidegger, cioè quel periodo che si conclude con la pubblicazione di Essere e tempo nel 1927,3 in relazione alla sua riflessione sull’esperienza religiosa, con riferimento a S. Paolo, Eckhart, Lutero ed Agostino. Si è voluto, per questo, circoscrivere l’ambito della riflessione alla produzione del primo Heidegger, in quanto i riferimenti alle fonti filosofiche e teologiche intorno al concetto di persona sono dal filosofo definiti in modo sistematico. Data la finalità per cui questo lavoro è scritto e considerando la vastità del pensiero e della produzione scientifica del filosofo tedesco, non è possibile approfondire in modo esaustivo e definitivo l’oggetto in questione.

2. Il primo Heidegger: l’esperienza religiosa e l’analitica esistenziale

La domanda sull’Essere è il filo conduttore che attraversò tutto il pensiero di Heidegger, il quale propose di scrivere il termine «Essere» con la grafia arcaica Seyn, a voler indicare un percorso teoretico che si allontanava dalla metafisica tradizionale e dalla teologia cristiana, che erano giunte a separare l’Essere dalla dimensione storica dell’uomo.4 Afferma a tal proposito Volpi:

La metafisica presuppone una comprensione non originaria di quel particolare ente capace di domandare dell’essere che è l’uomo: essa lo concepisce in termini di sostanza, di oggetto, di semplice cosa tra cose. Si tratta invece per Heidegger di cogliere la vita umana nei suoi tratti genuini e nella sua specifica motilità di ente che «fintanto che è, ancora non è»: come tale, cioè in quanto «poter essere» caduto nel tempo e dunque costitutivamente finito e mortale, in quanto originaria temporalità, la vita umana «si cura di sé».5

poiché «la domanda fondamentale dell’ontologia fondamentale e della storia dell’essere vede una differenza essenziale tra Dio e la verità dell’essere».6 Afferma Heidegger:

L’idea della «trascendenza», secondo cui l’uomo è qualcosa che tende al di là di sé, ha le sue radici proprio nella dogmatica cristiana della quale non si vorrà certo dire che abbia sempre posto il problema ontologico dell’essere dell’uomo. […] Le sorgenti principali dell’antropologia tradizionale, cioè la definizione greca e il filo conduttore teologico, attestano che la definizione dell’essenza dell’ente «uomo» ha dimenticato il problema del suo essere, considerandolo per se stesso ovvio nel senso dell’esser semplicemente-presente comune a tutte le altre cose create.7

Nella prima parte di Essere e tempo,8 Heidegger affronta il tema dell’analitica esistenziale,9 cioè dell’analisi dell’Esserci, che ha origine, come afferma Vattimo, dalla «definizione dell’essenza dell’uomo come esistenza, come poter-essere».10 L’uomo, unico ente fra gli enti che è in grado di porsi la domanda circa l’Essere, è definito Dasein,11 cioè Esserci. Il prefisso «Da» (ci), è la denotazione ontologica per eccellenza che qualifica la totalità dell’uomo nel suo “ontos”.12

Così Heidegger spiega il significato del termine Dasein:

Mentre nell’uomo l’essere, il sein del Dasein, l’essere dell’Essere esprime la possibilità da parte di questo ente di essere tale quale esso progetta di essere; l’Esserci è tale che, nel suo essere, questo stesso essere è in gioco. Quindi solo dell’uomo si può dire che ha l’«esistenza», che ex-siste, che, autoprogettandosi, è esposto alla possibilità di realizzarsi (nell’autenticità) o di perdersi (nell’inautenticità).13

Inoltre, e soprattutto, l’uomo è consapevole di sé e degli altri: infatti «l’essere per gli altri è ontologicamente ben diverso dall’essere per le cose semplicemente-presenti: l’«altro» ha infatti il modo di essere dell’Esserci. Nell’essere con gli altri e per gli altri si costituisce un rapporto d’essere fra Esserci ed esserci».14 Heidegger, rilevando l’importanza ontologica di un «io costituente» in grado di spiegare la costituzione dell’esperienza del mondo, distingue tra l’ente che ha il carattere dell’Esserci e l’ente che è invece difforme dall’Esserci, assegnando al primo una priorità ontico-ontologica. A questo proposito afferma Heidegger:

L’Esserci ha dunque un primato in vari sensi rispetto ad ogni altro ente. In primo luogo ha un primato ontico: questo essere è determinato nel suo essere dall’esistenza. In secondo luogo ha un primato ontologico: per il suo essere-determinato dall’esistenza, l’Esserci è in sé «ontologico».15

Per Heidegger dunque è importante, «per determinare in maniera adeguata il senso dell’essere, analizzare chi è colui che si pone la domanda sul senso dell’Essere».16

Ci occuperemo, nel successivo paragrafo, di alcuni temi17 della tradizione cristiana reinterpretati da Heidegger per l’elaborazione della struttura del Dasein.

3. S. Paolo e lo statuto della Sacra Scrittura

Nella riflessione heideggeriana troviamo diversi riferimenti al Nuovo Testamento. In particolar modo, Heidegger prende in considerazione il corpus paolino volendo utilizzare il concetto di tempo proposto da San Paolo. Come vedremo in seguito questo tentativo, integrato dalla prospettiva di S. Agostino intorno alla temporalità, servirà ad Heidegger per evidenziare la dimensione esistenziale del Dasein.

Volendo giustificare la connessione tra il suo impianto teoretico e il dato scritturistico, Heidegger utilizza le affermazioni paoline senza tuttavia tenere conto dell’interpretazione che lo stesso Paolo propone del corretto utilizzo della sophia. In effetti, San Paolo, in 1Cor 18, 23, esprime chiaramente la distinzione tra la saggezza presuntuosa, quella che cioè tende all’assolutizzazione del pensiero dell’uomo come misura di tutte le cose, e la saggezza che riesce a condurre verso Dio indipendentemente dalla fede cristiana.18 Inoltre, secondo quanto S. Paolo afferma nella prima lettera ai Tessalonicesi, il tempo può essere vissuto in una duplice accezione: se, infatti, da un lato può essere interpretato come chronos, dall’altro esso ha un contenuto kairologico. Alla luce di questa prospettiva, Heidegger propone una lettura dell’esperienza cristiana volendola intendere come compimento:

Affrontando il capitolo quarto della prima lettera ai Tessalonicesi, Heidegger riprende i temi della parusìa e della speranza cristiana. Commentando il v. 1 del cap. 5, oppone la determinazione «cronologica» che caratterizza la nostra «presa» sul tempo, alla determinazione «kairologica» che dice invece la sua imprevedibilità. […] Attraverso la tematica del «ritorno del Signore», dell’attesa «escatologica», del «compimento», Heidegger intende comprendere la figura specifica dell’esperienza cristiana: «La conversione all’esperienza cristiana ha il carattere di compimento».19

Secondo Heidegger, l’esperienza religiosa cristiana si fonda proprio sulla tensione escatologica. La radice di questa verità rivelata è nell’intervento di Dio nella storia, culminato nella kenosi e nell’ascensione del Figlio, così che il tempo diviene possibilità di incontro con la salvezza. Capelle-Dumont, riprendendo Heidegger, afferma infatti che «la vita fattizia si accorda con la temporalità: la religiosità cristiana non fa che vivere nel tempo, essa “vive la temporalità”. È questo il motivo per cui la fede cristiana ha il suo luogo ermeneutico specifico nella questione escatologica».20

4. Meister Eckhart e il rapporto Soggetto - Deità

Heidegger approfondisce e radicalizza il pensiero di Meister Eckhart,21 soprattutto in relazione alla dimensione del sacro,22 così come sottolineato da Penzo: «tale problematica si ritrova in Heidegger laddove egli parla dell’essenza del sacro, del divino come essenzializzarsi (An-wesen), cioè come un continuo approfondirsi nel suo fondamento senza fondamento».23 La dimensione del sacro, cioè il rapporto tra il soggetto e l’Assoluto, in Heidegger sembra caratterizzarsi per una particolare attenzione ad una prospettiva antropocentrica, così come sottolineato da Capelle-Dumont:

Si trova in Eckhart una progressione mistica verso il soggetto stesso; anche se Eckhart lo comprende in termini razionali, il cammino di ritorno al fondo dell’anima non è teoretico; esso precede la conoscenza e la volontà nel cuore della religiosità vivente e del soggetto vivente.24

Nel momento in cui Heidegger prende come riferimento teoretico la mistica eckhartiana, la relazione biblica Dio-Uomo si capovolge nella dinamica Soggetto-Deità.25 Eckhart, infatti, riconosce che l’analogia è uno strumento linguistico in grado di dare all’uomo la possibilità di dire Dio. Tuttavia, attraverso l’elaborazione del concetto di Deità, Eckhart supera la struttura teoretico-linguistica dell’analogia entis focalizzando maggiormente il suo pensiero sull’essenza divina a svantaggio della realtà ipostatica trinitaria. Per Eckhart, Dio non coincide con l’Essere ma è «oltre» l’Essere: questo comporta una differenza sostanziale, ontologica,26 tra Dio e la Deità. Non si può più parlare di Dio utilizzando la categoria di persona, eliminando così la relazione Creatore-creatura: infatti

Eckhart, pur privilegiando, in fedeltà alla scolastica, l’analogia, istituisce una concettualità che svincola Dio da ogni dato esprimibile, dunque dalla teologia trinitaria. Il concetto chiave di «Deità» (Gottheit), ripreso da Dionigi l’Aeropagita, rinvia, al di là della nozione di Dio trinitario e creatore (Gott), all’essenza divina, essenza senza fondo, origine della diffusione delle tre Persone.27

Da ciò deriva che se Dio non è un Essere Personale, l’uomo in quanto creatura non porta in sé la Sua immagine. Heidegger, tuttavia, usa il sistema teoretico eckhartiano per approfondire ulteriormente la sua riflessione sul rapporto tra l’uomo, Dio e l’essere. Infatti, come evidenziato da Capelle-Dumont,

Heidegger, proprio a partire dalla differenza teologica «Dio — creatura», stabilisce una differenza più originaria. La differenza teologica, all’interno della distinzione ens infinitum — ens finitum, non mette in questione la costituzione dell’ente nella sua entità, né la solidarietà essentia — existentia nella quale l’ente è compreso. […] Ora, la differenza teologica non costituisce che un «versante» di una differenza più radicale, che invita lo sguardo dell’ente, sia perfetto — infinito e imperfetto — finito, a rivolgersi verso l’essere.28

Non potendo, cioè, raggiungere Dio in quanto fondamento, non è più possibile conoscere il fondamento eterno dell’uomo. Ne consegue che acquista un’importanza determinante il tempo come orizzonte ermeneutico dell’Essere.

Se non è possibile, quindi, parlare di antropologia teologica, occorrerà definire il discorso sull’uomo nell’ambito della sola antropologia filosofica, anche se nella riflessione sul Dasein non è presente un’interpretazione antropocentrica.29

5. Lutero e la teologia crucis

Prendendo come riferimento la teologia luterana,30 Heidegger si distacca dalla teologia tomista: infatti, «è proprio nell’ispirazione di Lutero che egli rinnova la sua comprensione della tradizione cristiana e difende una teologica biblica libera dalle compromissioni ellenistico-scolastiche».31 Difatti, il ritorno all’origine, più che la sovrabbondanza di speculazione, consente un inverato accesso al sapere. Per questo, Heidegger afferma che si può ‘fare’teologia solo se la riflessione verte sulla cristologia e in particolare sulla staurologia. La principale fonte ispiratrice di una simile prospettiva si può individuare nella teologia crucis di Martin Lutero.32 La necessità, per Heidegger, di rifarsi alla teologia luterana nasce dal suo obiettivo di liberare la teologia dalla metafisica tradizionale sorta in ambito ellenistico-scolastico. Infatti, dalla riflessione speculativa che ha oggettivato il dato evangelico cristallizzandolo in concetti e, successivamente in dogmi, Lutero auspica un ritorno della riflessione teologica sull’esperienza salvifica, concentrandosi quindi sull’aspetto soteriologico dell’evento Gesù Cristo. Secondo quanto afferma Capelle-Dumont,

Rivendicando una «teologia della croce» di contro alla scolastica «teologia della gloria», il giovane Lutero ha posto la teologia nel suo luogo originario — la promessa della salvezza — e ha combattuto l’infiltrazione della metafisica speculativa. Lungi dall’appropriazione tipicamente scolastica del divino, la teologia si è allora rinnovata su di una base soteriologica. Attraverso un potente paradosso, Lutero ha messo in rapporto la questione della trascendenza divina con la problematica del soggetto in cerca di salvezza.33

Tuttavia, qui si ferma il riconoscimento di Heidegger nei confronti di Lutero: poiché l’interesse del Nostro è volto allo studio della fatticità, egli si distacca infine anche dalla teologia luterana, in quanto questa è stata considerata insufficiente circa la questione del rapporto tra vita fattizia e temporalità. Infatti, secondo Capelle-Dumont,

Lutero non è andato fino in fondo nella sua ricerca della fatticità, sacrificandola in un al di là dell’esperienza come fa ogni metafisica. […] Heidegger prende così congedo da Lutero, poiché, oltre Lutero, si tratta di considerare e di pensare il carattere storico della fatticità. L’esperienza fattizia si dà nella temporalità di un compimento che nessuna teologia e nessuna metafisica possono oggettivare.34

6. Sant’Agostino e il concetto di tempo

Alla luce di quanto emerso dal confronto tra Heidegger e Lutero, pur distanziandosi dalla teologia luterana, il Nostro utilizza la prospettiva del monaco agostiniano per leggere la riflessione di Agostino sulla fatticità originaria. Secondo Heidegger, infatti, il sistema agostiniano

rivela uno scarto, un’infedeltà verso la fatticità propriamente cristiana. Un tale scarto si manifesta nel modo in cui è intesa la fruitio Dei: ponendo una gerarchia tra le cose visibili e quelle invisibili, essa strappa la vita fattizia alla sua inquietudine ontologico-temporale e le offre il soggiorno in Dio, il Summum Bonum. Utilizzando l’apparato concettuale neoplatonico e sostenendo l’idea di una comune misura tra l’uomo e Dio, Agostino, al contrario di quanto abbia creduto, non ha posto i termini dei preambula fidei, ma ha deviato il messaggio cristiano dalla fatticità originaria. I principi di questa lettura agostiniana — Heidegger non lo nasconde — gli derivano da Lutero.35

Tuttavia, la riflessione di Heidegger non è così marcatamente definita rispetto al sistema antropologico-esistenziale di Agostino. Anzi, quello che si rileva è che il rapporto tra il pensiero del vescovo di Ippona e del padre dell’esistenzialismo ha elementi di continuità e, contemporaneamente, di discontinuità. A tal proposito, Capelle-Dumont afferma:

si noterà dunque la relazione doppiamente problematica tra Heidegger e pensiero agostiniano. Da un lato, Heidegger legge Agostino all’interno della teologia protestante: rendendo solidali, come fa Lutero, finitezza umana e corruzione peccatrice, stabilisce un’eterogeneità tra la temporalità quotidiana del «Si» e la temporalità dell’anticipazione laddove Agostino stabilirebbe un’eterogeneità tra il peccato (non la finitezza) e l’intenzione. D’altra parte, si appoggia sulla dialettica cristiana della temporalità per affermare l’inadeguatezza della teologia a pensare la temporalità originaria. […] Ciò che riprende da Agostino — il tempo ricondotto al soggetto umano — determina al contempo ciò che egli contesta, cioè il compimento del tempo umano nel riposo divino. Egli vuole pensare l’accesso a una temporalità originaria che non salti mai verso il «sovra-storico» o l’«immaginario» propri di ogni «visione del mondo», e resti al contrario sul terreno esperienziale dell’esserci.36

Nel solco della continuità, per ciò che concerne la struttura stessa dell’esistenza umana, a partire dalla lettura delle Confessioni Heidegger non può fare a meno di constatare che il pensiero di Agostino non è esclusivamente teoretico ma si lega fortemente alla sua esperienza concreta di vita vissuta e, solo successivamente, ripensata alla luce della fede in Dio. In altre parole, come sostiene Salman,

la formula agostiniana, sono diventato questione per me stesso, diventa il contesto dell’esperienza concreta, che non è un problema di oggettività, ma di esistenza autentica. Da questo punto di vista, Heidegger rileva come Agostino mette in gioco la sua propria esistenza nelle confessioni, e impara da lui che l’uomo viene a conoscere se stesso confrontandosi con le tentazioni. L’essere sviluppato in essere e tempo coincide, in questo senso, con la domanda esistenziale che Agostino pone a se stesso e a Dio.37

L’esperienza concreta, o vita fattizia, manifesta in sé una conflittualità in relazione alla verità dell’uomo in senso oggettivo, cioè la verità che l’uomo cerca, e in senso soggettivo, cioè la dimensione veritativa dell’uomo stesso. Infatti, emerge anche nella relazione con il pensiero di Agostino il significato di verità nell’impianto teoretico di Heidegger: la verità, aletheia, è intesa come una dinamica di svelamento e al contempo nascondimento. Infatti, ciò che si vede della verità è il suo nascondimento. Il senso dell’Essere si manifesta e si nasconde, si presenta nel balenare dell’attimo che «gioca» con noi. La relazione Essere-Esserci permette all’uomo di cogliere la verità, ma in modo sfuggente, mai totalmente acquisito: qui si fonda l’onto-teologia,38 il cui centro nodale è l’Essere che si manifesta e si nasconde, che si presenta per una attimo per poi scomparire di nuovo, tanto da non poterlo afferrare in modo definitivo. A questa visione dell’Esserci si collega l’«evento» (Ereignis). Di questo termine Heidegger si serve per caratterizzare l’Essere, evidenziandone i due aspetti fondamentali: in primo luogo la sua essenza storico-epocale, per la quale esso non va pensato, come nella metafisica, in base a categorie e determinazioni statiche e fisse, ma come un accadere; in secondo luogo, il suo costitutivo riferirsi all’uomo. Spiega von Hermann:

La storicità della verità dell’essere s’impone come visione, quando l’apertura è sperimentata come accadere di radura e velarsi. Heidegger chiama la verità dell’essere «radura del velarsi». Il velarsi è sostanzialmente triplice: 1. velarsi come provenienza di tutti i modi storici e storicamente mutevoli di radura o dell’essere-diradato, 2. velarsi come il mettersi in salvo del modo storico della radura nel — e come — svelamento dell’ente e 3. velarsi come rifiutarsi e sottrarsi dalla verità dell’essere qua radura del velarsi.39

Heidegger parla dunque di ex-sistenza. È un termine, questo, che possiede un significato differente rispetto al concetto di existentia che la tradizione filosofica collega ad essentia: questa indica il «che cos’è» di un ente, l’existentia ha il suo effettivo sussistere nella realtà. Se, dunque, per la tradizione filosofica «l’ex-sistentia è l’actus, quo res sistitur, ponitur extra statum possibilitatis»,40 cioè l’atto mediante il quale qualcosa è fatto uscire dallo stato di possibilità e viene a stare, sussiste, per Heidegger il termine ex-sistenza indica unicamente l’ex-sistere della vita umana, il suo «star fuori» ed essere esposta al «poter essere» che essa è, e che esige di essere progettata e decisa: per questo, secondo Heidegger, «l’analisi dell’«in-essere come tale» è guidata dalla chiarificazione del carattere ex-sistenziale di questo «in». Da-sein, Esser-ci significa un essere che «ci» è, che è qui. L’«in» dell’«in-essere» è il «ci» esistenziale dell’Esserci, la sua apertura, la sua autoilluminazione»,41 ovvero, come sintetizza Vattimo, «il termine esistenza, per l’uomo, va inteso nel senso etimologico di ex-sistere, star fuori, oltrepassare la realtà semplicemente-presente in direzione della possibilità».42 Da ciò possiamo dedurre, riassumendo, che il

il poter essere è infatti il senso stesso dell’esistenza. Scoprire che l’uomo è quell’ente che in quanto si rapporta col proprio essere come alla propria possibilità, cioè che è solo in quanto può essere, significa scoprire che il carattere più generale e specifico, la sua natura o essenza, è l’esistere43

cioè oltrepassare la realtà presente in direzione della possibilità. Afferma, infatti, Heidegger:

L’Esserci, in qualche modo o più o meno esplicitamente, si comprende nel suo essere. […] La comprensione dell’essere è anche una determinazione d’essere dell’esserci. […] L’Esserci comprende se stesso in base alla sua esistenza, cioè alla possibilità che gli è propria di essere o non essere se stesso.44

L’esistenza dunque è un «progetto gettato»: l’Esserci che progetta il mondo, progetta se stesso. Ma poiché l’Esserci è gettato nel mondo, poiché «esso è all’oscuro circa la sua provenienza e la sua destinazione»,45 il suo progetto ha dei limiti invalicabili: l’uomo si trova ad essere senza averlo deciso, è in un mondo che condiziona radicalmente le sue scelte, ha di fronte la prospettiva della morte. Il problema, per Heidegger, è quello di vedere come tale finitezza può condizionare positivamente l’uomo. Tuttavia, nell’azione stessa del progettare, l’esserci si trova di fronte a possibilità che sono equivalenti, mentre una sola è quella obbligata, che accomuna l’ex-sistenza spazio-temporale di tutti gli Esserci: quella della morte. La differenza tra la morte e le altre possibilità è che la morte stessa rimane una possibilità, un orizzonte ricco di significato,46 poiché nel momento in cui essa diventi realtà, l’esserci non c’è più. Essa cioè rappresenta la «possibilità che rimane permanentemente tale, che non si realizza mai, almeno finché l’esserci c’è. […] Essa è la possibilità dell’impossibilità di ogni altra possibilità, la possibilità della pura e semplice impossibilità dell’esserci».47

Per questo Heidegger introduce il neologismo essere-per-la-morte,48 ulteriore definizione delle caratteristiche esistenziali dell’Esserci. Afferma a tal proposito Vattimo: «Se è solo in quanto gettato che l’Esserci può essere progetto, vuol dire che la Geworfenheit (l’esser-gettato, la gettatezza) è la radice stessa di tutte le strutture esistenziali dell’Esserci».49

L’uomo, dunque, tende continuamente alla verità non come adaequatio ma come fatticità: tuttavia questa tensione è caratterizzata da un rapporto conflittuale tra l’uomo e la stessa verità. Capelle-Dumont così esprime questa contraddizione:

La fatticità si deve collegare al facticia est anima di Agostino, cioè all’originarietà dell’anima fuori di sé e alla non-originarietà costitutiva di ciò che è, e che occorre pensare come tale, come già dato: «c’è». In funzione di quest’acccezione Heidegger interpreta fenomenologicamente il passaggio del cap. XXIII del libro X delle Confessioni di Agostino. […] Qui la vita fattizia è designata dal doppio movimento nel quale l’uomo ama la verità in quanto essa si rivela, ma la odia in quanto lo rivela: il fatto che essi vogliano rimanere nascosti, mentre pure conoscono, non impedisce tuttavia che essi siano conosciuti attraverso un’altra conoscenza che resta loro nascosta. Così la fatticità è «la condizione di ciò che rimane nascosto nella sua apertura, di ciò che è esposto nel suo ritiro».50

La vita fattizia non si esaurisce in se stessa ma è apertura alla morte, non secondo un’accezione negativa ma, secondo Heidegger, come la massima possibilità dell’autenticità dell’esistenza. Infatti, mentre gli altri esseri viventi periscono, solo l’uomo muore: è lo stesso atto del morire che lo rende persona. Per questo, Heidegger definisce l’uomo come essere-per-la-morte. Anche per questa tematica possiamo individuare dei collegamenti tra i due filosofi pur evidenziando una importante differenza: se per Agostino l’orizzonte esistenziale dell’uomo si apre alla dimensione escatologica, nella quale il chronos viene riempito dalla Grazia divenendo kairos, per Heidegger il Dasein non ha davanti a sé un’apertura altra che non sia la morte stessa, la quale dunque diviene la caratteristica principale dell’Esserci in quanto essere-per-la-morte. Così si esprime a tal proposito Capelle-Dumont:

Se Agostino intende per intentio la tensione verso la promessa di Dio dell’eternità, Heidegger intende per Vorlaufen la tensione verso il destino mortale dell’esserci. Anche questo spostamento agisce sulla confusione tra due nozioni perfettamente distinte in Agostino: distentio e aversio. Nelle Confessioni, «l’intenzione» costituisce un atto di conversione radicale rispetto all’aversio che è la temporalità nel peccato, ma di certo non rispetto alla distentio che è la temporalità della finitezza umana. Entrando nel tempo di Dio, che è propriamente l’eternità — intentio — l’uomo rigetta l’aversio e supera la distentio. In Heidegger, la temporalità dell’intentio, una volta liberatasi dal suo rapporto con l’eternità, è quella dell’estrema possibilità dell’esserci: il suo «essere-per-la-morte». […] Il passaggio dall’intentio agostiniana al Vorlaufen heideggeriano indica allo stesso tempo una ripresa formale dell’«anticipazione» agostiniana e uno spostamento essenziale che va dall’ermeneutica dell’appello divino a un’ermeneutica dell’appello della morte.51

Secondo von Hermann,

per Heidegger l’orizzonte dell’essere si determina come dimensione orizzontale del «ci» dell’esser-ci, cioè come l’essenziarsi orizzontale dell’essere, o come la verità orizzontale dell’essere. Orizzontalmente, però, la verità dell’essere è diradata per l’esistenza trascendente in quanto progetto progettato dell’essere, esistenza che è l’essere del «ci», cioè la verità dell’essere in generale, diradata in modo estatico-orizzontale.52

7. Conclusione

In questo lavoro abbiamo cercato di cogliere e definire la struttura del Dasein nella sua relazione con la dimensione verticale (Dio), e orizzontale (l’altro-da-sé, mondo). Per superare la struttura metafisica tradizionale dell’essere, occorre oltrepassare l’oblio dell’essere nel senso oggettivo del genitivo. Infatti, l’essere non ha in sé la caratteristica dell’oblio ma solo quella del disvelamento, nel quale appunto risiede la sua verità (a-letheia). Solo l’esser-ci può annullare la dimensione obliante l’essere, determinata secondo Heidegger dall’ermeneutica filosofia classica e cristiana, poiché sua caratteristica strutturale è, primariamente, proprio l’essere. Se il termine persona risentiva della categorizzazione della metafisica divenendo ens, l’esser-ci è l’oltrepassamento di questa ermeneutica ontologica, in quanto è l’unico ‘ente’in grado di domandare intorno all’essere. È il ‘ci’dell’esser-ci che opera lo «sfondamento del fondamento»53 ontologico dell’ente-persona, laddove per ‘sfondamento’si intende il ‘porre sullo sfondo’la dimensione temporale dell’essere, poiché ne è la struttura trascendente: è, cioè, il tempo dell’essere, cioè l’eterno presente. Ecco perché, come abbiamo cercato di mostrare, Heidegger fa un percorso a ritroso alla ricerca della relazione originaria uomo-Dio-tempo. Per far ciò, non può evitare di considerare la tradizione teologica cristiana in quanto è l’unica che testimonia l’evento storico dell’incarnazione di Dio, cioè dell’essere che si rende finito nel tempo, trasformando il chronos in kairos. L’oltrepassamento (Verwindung), però, non è superamento (Aufhebung) della metafisica ma ripensamento originario del pensiero sull’essere, determinato dalla dinamica di trasmissione (Überlieferung) — insieme dell’invio (Geschick). Secondo tale interpretazione, dal concetto di oltrepassamento non possono rimanere esclusi l’essere e l’esser-ci, cioè, secondo la metafisica, Dio e la persona. L’esser-ci è la verità stabile ma nello stesso tempo dinamica, perché storica, che è sullo ‘sfondo del fondamento’dell’essere il quale, a sua volta, è la verità dell’esser-ci, perché lo determina ontologicamente nella sua dimensione orizzontale. Questa risulta, quindi, strutturata secondo una riflessione orientata alla prossimità ‘esistenziale’, definita dai due poli dell’esser-ci come ‘gettatezza’e come ‘essere-per-la-morte, piuttosto che sul fondamento dell’essere.


  1. Questa affermazione deriva dalla prospettiva teoretica fenomenologica steiniana, in particolare relazione con il concetto di entropatia. Cfr. E. Stein, Il problema dell’empatia, Studium, Roma 19982↩︎

  2. Per il concetto di oltrepassamento (Verwindung) cfr. M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Id., Saggi e discorsi, a cura di G. Vattimo, Mursia, Milano 1991, 45-65; Id., Identità e differenza, a cura di G. Gurisatti, Adelphi, Milano 2009, 2-10. ↩︎

  3. «La presa in esame del periodo marburghese (1923-1927) consente di mostrare i tratti decisivi della provenienza teologica e filosofica di Heidegger. Tematizzando la fatticità, all’interno di un ambiente teorico protestante, egli radicalizza ben presto le sue prime posizioni teoriche. Il paradosso risiede nell’elemento teologico di questa radicalizzazione; quest’ultimo deve essere compreso su due piani: 1. Un’appropriazione degli schemi teologici protestanti; 2. Un’uscita dalla teologia, attraverso la teologia, verso l’ontologia. Al centro di questo paradosso c’è l’incontro con Bultmann e la “contro-lettura” della temporalità agostiniana. Il duplice rifiuto bultmanniano — della teologia liberale, caratterizzata dall’antropologizzazione della fede, e della teologia barthiana, caratterizzata da una figura monologica dell’Assoluto — implica una via di mezzo: quella della comunità trascendentale tra la fatticità dell’uomo e Dio. Il lungo dialogo tra Bultmann e Heidegger segna la convergenza tra una costituzione insieme trascendentale e teologica dell’uomo e l’esigenza, propria dell’ermeneutica della fatticità, di pensare l’“indicazione formale” del Dasein», P. Capelle-Dumont, Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, Queriniana, Brescia 2011, 198-199. ↩︎

  4. Circa il rapporto tra un pensare filosofico di stile heideggeriano e la problematica teologica, secondo Penzo «Heidegger sposta il problema di un’autentica soluzione di tale rapporto oltre l’orizzonte del pensiero metafisico, in un pensare che sia capace di superare il rapporto soggetto-oggetto e che non abbia di fronte a sé un fine stabilito, cioè un pensare che sia ad un tempo da sperimentare. Si tratta, com’è noto, di un pensiero che è sempre ‘in cammino’ (unterwegs) e che procede in modo circolare. In tale procedimento circolare, la fede e la teologia non si troverebbero più distinti, così che il pensare teologico, risolvendosi in ermeneutica e quindi in linguaggio, potrebbe forse trovare un terreno comune con il pensare filosofico che è come tale linguaggio», G. Penzo, Pensare heideggeriano e problematica teologica. Sviluppi della teologia radicale in Germania, Queriniana, Brescia 1970, 180. ↩︎

  5. F. Volpi, «Heidegger», in AA.VV., Enciclopedia Filosofica, Bompiani, Vol. VI, Milano 2006, 5215. ↩︎

  6. F.W. von Hermann, La Metafisica nel pensiero di Heidegger, a cura di A. Molinaro, Urbaniana University Press, Roma 2004, 33. ↩︎

  7. M. Heidegger, Essere e tempo, Longanesi & C., Milano, 197615, 72. ↩︎

  8. Secondo Vattimo, «l’itinerario che conduce Heidegger all’impostazione del problema dell’essere che guida Essere e tempo si svolge tra due poli: da un lato la questione della «validità» della conoscenza, che egli riprende dalla polemica neokantiana contro lo psicologismo, e che, attraverso il problema della verità, dell’applicazione delle categorie all’oggetto, etc., lo avvicina ai grandi temi della tradizione metafisica; dall’altro, sia l’originaria formazione religiosa che si sviluppa in un interesse esplicito per il Nuovo Testamento e i Padri, sia il problema della storicità e in genere della «vita» che trova nella cultura del tempo, lo conducono a porre sempre più radicalmente in questione le nozioni di validità, di realtà, di essere, ereditate dalla metafisica», G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, Laterza, Bari-Roma 200115, 16. ↩︎

  9. Heidegger ne dà questa definizione: «L’analitica esistenziale studia dunque l’Esserci nel carattere assolutamente singolare del suo essere (esistenza), non nei caratteri che esprimono la diversità fra individuo e individuo (essa ha portata esistenziale, non esistentiva); perciò non può risolversi nell’antropologia, nella psicologia, nell’etnologia, nella biologia. Essa studia la realtà umana nella sua struttura e non nel suo apparire», M. Heidegger, Essere e Tempo, IX. ↩︎

  10. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, 22. ↩︎

  11. Nella lingua tedesca comune Dasein equivale ad «esistenza» (Existenz) intesa nel senso della «realtà effettiva» (Wirklichkeit) o dell’«essere lì davanti» (Vorhandensein) di qualcosa. Heidegger conferisce al termine un significato particolare e lo trasforma in un concetto cardine sul quale impernia tutta la sua prospettiva filosofica: esso indica quindi il peculiare modo di essere della vita umana, radicalmente distinto dal modo d’essere di tutto ciò che non è umano. ↩︎

  12. Nel sistema filosofico di Heidegger l’Esserci ha le seguenti caratteristiche ontologiche: Befindlichkeit: il «sentirsi situato», la «situatività». È la prima delle determinazioni esistenziali co-oroginarie che costituiscono l’Esserci. È analizzata in Essere e Tempo, parr. 29-30, 40, 68b, e indica che l’Esserci si trova sempre in una certa disposizione nella quale si sente collocato. In altre parole è la quintessenza ontologica della funzione dell’esistenza che nella dottrina tradizionale dell’uomo è svolta dalle passioni. Con la differenza che per Heidegger lo stare in una determinata disposizione emotiva, il sentirvisi situati, quindi gli elementi inferiori tradizionalmente afferenti della sensibilità, cioè le affezioni e le passioni, di cui la Befindlichkeit è, nella struttura dell’Esserci, la condizione ontologica di possibilità, sono costituitivi dell’esperienza umana. Ciò implica una messa in questione del privilegio solitamente accordato agli atti intellettuali superiori della razionalità, e suggerisce l’idea che anche quelli «inferiori» della sensibilità e dell’emotività rientrino nell’identità dell’Esserci. Rede: «discorso»: nell’essere del «ci» il linguaggio viene pensato come das Reden, il parlare cooriginario al trovarsi e al comprendere e come questi si fonda nell’Esserci. Ad esso appartengono il sentire che genuinamente è l’ascolto (l’ubbidire) della chiamata ridestante della coscienza ed il tacere all’ascolto di essa. Verstehen: «comprendere», «comprensione». Questa determinazione fondamentale dell’Esserci non è intesa da Heidegger come atto conoscitivo di tipo teoretico, ma in un senso eminentemente pratico: indica il carattere progettuale, spontaneo e produttivo dell’Esserci in quanto esso è un «poter essere», e dunque si progetta e si attua secondo possibilità assunte di volta in volta come proprie. Per questo Heidegger può dire che esso è «l’azione originaria dell’esistenza umana». Cfr. M. Heidegger, Che cos’è Metafisica, Adelphi, Milano, 2001, 137; 160. ↩︎

  13. M. Heidegger, Essere e Tempo, IX. ↩︎

  14. Ibidem,160. ↩︎

  15. Ibidem, 30. ↩︎

  16. G. Reale, D. Antiseri, M. Laeng, Filosofia e Pedagogia dalle origini ad oggi, III, Editrice La Scuola, Brescia 1998, 411. ↩︎

  17. Secondo Capelle-Dumont, «stupisce che, nel corpo dei testi sui quali Heidegger lavora, non compaiano numerosi esempi prestigiosi della tradizione teologica cristiana occidentale: Tertulliano, Ireneo di Lione, Ilario di Poitiers, Guglielmo di Saint-Thierry, Riccardo di San Vittore e i “vittorini”, san Bernardo… senza dubbio la considerazione di questi soli autori e della loro impresa speculativa avrebbe evitato ad Heidegger quella caratterizzazione troppo affrettata di cui sembra essersi compiaciuto», P. Capelle-Dumont, Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, 81. ↩︎

  18. Cfr. Ibidem, 40-41. ↩︎

  19. Ibidem, 158-159. ↩︎

  20. Ibidem, 159. ↩︎

  21. Ibidem, 195. ↩︎

  22. Cfr. G. Penzo, Introduzione, in M. Eckhart, Una mistica della ragione, Messaggero, Padova 1992, 117, ↩︎

  23. Ibidem, 102. ↩︎

  24. P. Capelle-Dumont, Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, 144. ↩︎

  25. Chiarisce Capelle-Dumont: «Heidegger non opta, dunque, per il progetto dell’immanenza contro il progetto scolastico della trascendenza. Non sceglie nemmeno tra un razionalismo che delimiterebbe il campo propriamente filosofico e l’irrazionalismo della mistica. Ai suoi occhi, “immanenza e trascendenza sono concetti relativi”. Se occorre stigmatizzare la “filosofia cristiana del Medioevo”, è proprio perché essa ha rotto con la mistica. Qui, al contrario, si tratta di tenere fermi due poli: il progetto translogico ispirato dalla consistenza trascendentale dell’esistenza, e la storicizzazione hegeliana dello Spirito». Ibidem, 139. ↩︎

  26. «La differenza posta da Eckhart tra la Deità e il Dio trinitario e creatore, lascia il posto a una differenza ben più radicale: la differenza ontologica. In questo modo, Heidegger innalza il legein dell’Essere allo statuto di una trascendenza che trascende i dualismi che condizionano ancora la teologia scolastica e, in fin dei conti, anche la teologia mistica eckhartiana». Ibidem, 195. ↩︎

  27. Ibidem, 193. Spiega ulteriormente Cappelle-Dumont che «Heidegger volta così deliberatamente le spalle alle tradizioni di pensiero che attribuiscono un’“essenza” all’uomo: “animale razionale”, con Aristotele e poi con i medievali; “immagine di Dio” secondo la teologia. Tali essenze, introducendo le coppie “corpo-anima”, “peccato-grazia”, “naturale-soprannaturale”, non hanno reso giustizia all’unità umana. Ciò non significa che con l’analitica del Dasein la questione dell’appartenenza dell’uomo alla natura sia ormai soppressa, ma che essa deve iscriversi nell’ambito originario della “fatticità”». Ibidem, 22-23. ↩︎

  28. Ibidem, 191. ↩︎

  29. Cfr. Ibidem, 196, nota 116. ↩︎

  30. Annota Capelle-Dumont: «Insieme alla tradizione protestante, Heidegger legge Lutero e, attraverso Lutero, San Paolo, sant’Agostino e Kierkegaard. Da Lutero apprende l’articolazione della corrispondenza tra la concettualità ontologica e la fede originaria. Riprendendo da Lutero il gesto del “passo indietro”, egli sposta l’originario positum della fede cristiana verso la vita fattizia, liberandola da ogni rivelazione religiosa. Allo stesso tempo, instaura, ancora in linea con la fede protestante, una relazione ambivalente con la tradizione cristiana. Da una parte, Heidegger elabora in essa gli schemi d’intelligibilità della fatticità: l’originario luterano, la follia paolina contro ogni sapienza, il kairos paolino, la temporalità dell’essere umano secondo Agostino e l’angoscia kierkegaardiana. D’altra parte, a partire da ciò che gli sembra indicato formalmente nella fatticità cristiana, egli rifiuta la soluzione teologica», Ibidem. 172. ↩︎

  31. Ibidem, 163. ↩︎

  32. Secondo Capelle-Dumont, «rivelandosi vicino a Lutero, Heidegger richiede alla teologia di prendere una duplice decisione: essa deve diventare interamente Cristologia e la cristologia deve diventare interamente discorso sulla croce, Staurologia. Come per Lutero, la teologia per Heidegger deve diventare ciò a cui essa è chiamata: “teologia della croce”», Ibidem, 23. E, in un altro passo, sottolinea ancora l’autore francese, «la “svolta” che ispirò consiste nella “teologia della croce”: contro la “teologia scolastica”; questo tipo di teologia si è impegnata a dire la donazione di pura grazia, senza “merito” e come la sola giustificazione dell’uomo al di là del peccato. Heidegger ha iscritto la propria preferenza “teologica” proprio in una tale tradizione teologica e in particolare nel suo primo ispiratore, Lutero», Ibidem, 82. ↩︎

  33. Ibidem, 162 ↩︎

  34. Ibidem, 162. ↩︎

  35. Ibidem, 160. La stessa interpretazione è espressa da Wasin Salman nei seguenti termini: «Agostino appare come il pensatore che afferma il problema dell’esistenza a livello ontico, richiamandosi proprio agli stessi problemi centrali dell’angoscia e della fondazione della temporalità. Tuttavia, il giovane Heidegger sottolinea pure quanto sia inadeguato l’apparato concettuale neoplatonico ad esprimere realmente i contenuti della tematica religiosa cristiana». W. Salman, Memoria e tentazioni. Heidegger e Agostino, in «Rassegna di Teologia 55(2014), 92. ↩︎

  36. P. Capelle-Dumont, Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, 181-182. ↩︎

  37. W. Salman, Memoria e tentazioni. Heidegger e Agostino, 109. ↩︎

  38. Onto-theo-logie: «onto-teo-logia». È il termine con cui Heidegger designa la struttura fondamentale della metafisica quale indagine dell’ente in quanto ente: la metafisica è infatti ricerca sia di ciò che è comune ad ogni ente, cioè ontologia, sia dell’ente sommo, cioè teologia. Diversamente dalla «cosmoteologia», l’«ontoteologia» intende conoscere l’esistenza di Dio per mezzo di soli concetti, senza ricorrere all’esperienza. Cfr. M. Heidegger, Che cos’è Metafisica, 153. ↩︎

  39. F.W. von Hermann, La Metafisica nel pensiero di Heidegger, 28. ↩︎

  40. F. Volpi, Segnavia, Adelphi, Milano 1987, 422-423. ↩︎

  41. M. Heidegger, Essere e Tempo, X. ↩︎

  42. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, 21. ↩︎

  43. Ibidem, 20. ↩︎

  44. M. Heidegger, Essere e Tempo, 28-29. ↩︎

  45. Id., Che cos’è Metafisica, 148. ↩︎

  46. «Il concetto di “orizzonte” […] deve essere inteso a partire da ciò che Heidegger definisce il «carattere ex-statico della temporalità». Lungi dal rappresentare l’ambito della visione teorica (teologica o anntropologica), esso indica la fatticità del Dasein progettante se stesso. Tale è l’“ex-stasi” che caratterizza l’oltrepassamento dell’essere attraverso e oltre se stesso e tuttavia nel suo stesso flusso temporale. […] Quanto appena detto permette di superare due ostacoli: da una parte, una lettura “immanente” del pensiero heideggeriano, subito assimilato a un processo di degradamento della trascendenza; dall’altra parte, una lettura “trascendente”, che riassorbirebbe la temporalità immanente in un al di là del tempo. Al contrario, l’estasi orizzontale deve essere compresa come gesto di oltrepassamento e di apertura all’illimitato indeterminato». P. Capelle-Dumont, Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, 197. ↩︎

  47. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, 47. ↩︎

  48. M. Heidegger, Essere e Tempo, 307. ↩︎

  49. G. Vattimo, Introduzione a Heidegger, 44. ↩︎

  50. P. Capelle-Dumont, Filosofia e teologia nel pensiero di Martin Heidegger, 160. ↩︎

  51. Ibidem, 181. ↩︎

  52. F.W. von Hermann, La Metafisica nel pensiero di Heidegger, 25. ↩︎

  53. Cfr. G. Vattimo, La fine della modernità, Garzanti, Milano 1985, 91-91. ↩︎