Complessità ontologica e riduzione metodologica. Una prospettiva della libertà basata sul processo

In un saggio pubblicato recentemente, Vincenzo Tagliasco e Riccardo Manzotti affrontano il problema della libertà umana in un’ottica che, almeno nei propositi iniziali, presenta risvolti non privi di una certa originalità.1

In effetti, alcune affermazioni, che compaiono nello scritto in questione, riguardanti questioni solitamente lasciate in ombra dagli autori che si occupano della libertà, sembrano prospettare scenari sostanzialmente nuovi, alimentando notevoli aspettative nel lettore. Tagliasco e Manzotti, ad esempio, si soffermano ad osservare che la relazione causale esistente tra la mente e il mondo si esplica in due direzioni distinte (dal mondo alla mente e dalla mente sul mondo) .2 Il che implica l’esistenza di due forme principali di coscienza: una fondamentalmente passiva, alimentata soprattutto dalle sollecitazioni percettive che provengono dall’ambiente, e una attiva, che riguarda invece la nostra capacità di compiere scelte e di avere un controllo volontario sulle azioni intraprese. Si tratta di una distinzione che si rivela di fondamentale importanza non appena si consideri che la volontà, massima espressione del nostro essere liberi, in fondo, non è altro che coscienza nella sua forma attiva. Tagliasco e Manzotti mostrano di condividere, almeno nelle sue linee essenziali, questa concezione, spingendosi anzi ancora più in là, con il riconoscimento esplicito che non può esservi libero arbitrio al di fuori della coscienza: «la libertà è, per molti aspetti, strettamente in relazione con la coscienza. Non crediamo ci siano esempi di scelte libere che non siano anche scelte coscienti».3

Dal punto di vista del senso comune, il legame della libertà con la coscienza è del tutto ovvio: si può forse considerare libero, e quindi responsabile delle proprie azioni, un individuo che scelga e agisca senza essere cosciente? Tuttavia, dal punto di vista della psicologia cognitiva e delle neuroscienze, come pure della riflessione filosofica contemporanea, un simile legame non solo non è affatto scontato, ma, quasi di regola, non viene neppure preso in considerazione. Ecco perché il riconoscimento di una relazione tra la coscienza e la libertà, effettuato dai due autori, si presta a essere interpretato come un chiaro segnale di “rottura” rispetto alla maggioranza dei tentativi di render conto della libertà posti in atto finora.

Purtroppo, alle aperture fatte balenare qua e là da Tagliasco e Manzotti, i quali sembrano accogliere in qualche misura le istanze poste dal senso comune, in contrasto con l’orientamento dominante che caratterizza la scienza e la riflessione filosofica attuale, non corrisponde alcuna reale novità nelle proposte. Il lettore, giunto al termine del saggio, scopre con una certa delusione che tali aperture non erano altro che mere velleità retoriche alle quali non viene dato alcun seguito nella trattazione.4

1. La libertà tra metodologia e ontologia

Tagliasco e Manzotti prendono avvio da una serrata critica al riduzionismo, inteso come strategia esplicativa che ritiene di poter spiegare ogni fenomeno sulla base dei sottofenomeni che lo compongono, dove la somma di tali sottofenomeni è in grado di rendere completamente conto del fenomeno nel suo complesso. Il riduzionismo implicherebbe inoltre una separazione tra il soggetto e il mondo esterno, nonché una separazione tra lo stato del soggetto a un certo istante e lo stato del soggetto a un istante successivo.5 Una simile riduzione scomporrebbe il soggetto in parti diverse che, operando in maniera deterministica (ossia essendo governate da leggi fisiche necessarie e universali), escluderebbero ogni possibilità di esercitare la libertà.6

A tale concezione Tagliasco e Manzotti oppongono la proposta di una ontologia basata sul processo. Secondo le ontologie basate sul processo, il fondamento della realtà non è costituito da sostanze, ossia da oggetti più o meno statici che entrano in relazione tra loro, bensì da processi causalmente rilevanti.7 Un approccio di questo tipo consentirebbe, secondo i nostri autori, di evitare la dissoluzione dell’agente in una molteplicità di parti, inevitabilmente deterministiche. Se il soggetto venisse considerato un processo, sarebbe infatti dotato di una sua intrinseca unità e quindi di una sua autonomia: «Pur essendo determinato, sarebbe effettivamente determinato da se stesso e questo se stesso avrebbe un’unità reale».8

Per far comprendere meglio ciò che hanno in mente quando parlano di ontologie basate sul processo, Tagliasco e Manzotti propongono l’esempio del triangolo di Kanizsa:

ImageSecondo le ontologie tradizionali basate sulle sostanze — scrivono i nostri autori — [il triangolo] è costituito da tre macchie nere di forma circolare con un settore mancante disposte ai vertici di un triangolo equilatero. Il triangolo di Kanizsa esiste o non esiste? Secondo una strategia puramente riduzionista, il triangolo in quanto intero non esiste: esistono solo le macchie nere. Il triangolo è frutto delle categorie percettive dell’osservatore. L’unità, l’intero, non esiste: è solo un’attribuzione che è fatta da parte di un interpretante. Se invece applichiamo un’ontologia basata sul processo, tanto le macchie quanto il triangolo di Kanizsa corrispondono a un processo. Se non accade alcun processo che ha per oggetto il triangolo di Kanizsa nel suo complesso, in quanto unità, il triangolo non esiste. Al contrario, se istanziato da un processo, il triangolo esiste e non è riconducibile alle sue parti.9

Una prospettiva così enunciata, per quanto a prima vista plausibile, in realtà, nasconde al suo interno una profonda confusione tra il livello ontologico dei fenomeni (la loro effettiva realtà, nei suoi rapporti causali oggettivi che danno luogo a effetti osservabili) e livello metodologico (relativo invece alle scelte operate dal soggetto nella propria attività conoscitiva). Da una parte, Tagliasco e Manzotti definiscono il riduzionismo una “strategia esplicativa”,10 in quanto «frutto delle categorie percettive dell’osservatore». In una simile ottica il triangolo come tale non esiste, trattandosi di un’attribuzione che è fatta da un interpretante.11 D’altra parte, essi affermano che «se invece applichiamo un’ontologia basata sul processo, tanto le macchie quanto il triangolo di Kanizsa corrispondono a un processo», pertanto «il triangolo esiste e non è riducibile alle sue parti».12

Nel primo caso si parla ovviamente della prospettiva osservativa adottata dal soggetto nella propria attività conoscitiva e si fa quindi riferimento al piano del metodo. Nel secondo caso, pur riferendosi inevitabilmente a una strategia posta in atto da un soggetto conoscente di fronte a uno specifico fenomeno — una strategia consistente nel considerare l’osservazione del triangolo di Kanizsa come un processo — si attribuisce ad essa un valore ontologico. L’effetto di questa confusione di livelli è veramente curioso: è come se, mutando la modalità di guardare al rapporto di un soggetto osservatore col suo oggetto, si potesse in qualche modo modificare la natura del rapporto stesso.

Per chiarire meglio il senso di queste osservazioni e rendersi conto fino in fondo del carattere fuorviante del tentativo posto in atto da Tagliasco e Manzotti, è necessario approfondire la nozione stessa di “riduzionismo”, andando poi a verificare se eventuali alternative, collocate sul versante antiriduzionistico, come, ad esempio, l’ontologia basata sul processo, possano concretizzarsi in qualcosa di diverso da una modalità di accesso alla realtà.

Il riduzionismo a cui fanno riferimento Tagliasco e Manzotti può essere assimilato a quello comunemente definito metodologico, consistente nell’isolare specifici fenomeni o aspetti ristretti della realtà per studiarli più agevolmente. Esso presuppone che la rimanente parte del mondo non influisca significativamente sul fenomeno indagato così da inficiare i risultati ottenuti o che comunque detta influenza possa essere prevista e tenuta opportunamente in considerazione nella valutazione dei risultati stessi. Ciò significa che tale metodo d’indagine può essere applicato fruttuosamente solo a sistemi funzionali le cui parti godano di una relativa autonomia reciproca. Mentre esso si dimostra del tutto inadatto per trattare realtà complesse, dove esista una notevole interrelazione tra le parti costituenti, come ad esempio i fenomeni caotici o i sistemi basati su architetture connessionistiche.

Il riduzionismo metodologico viene talvolta contrapposto a un altro tipo di riduzionismo, chiamato, a seconda degli autori, causale od ontologico. Esso postula che molti fenomeni possano venire descritti, cioè ridotti, nei termini dei fenomeni sottostanti, fino ad essere completamente identificati (in senso ontologico) con questi ultimi. Ciò implica che uno stesso fenomeno possa, in certi casi, presentarsi sotto forme diverse, a seconda della prospettiva da cui viene osservato. Un esempio spesso utilizzato per illustrare tale tipo di riduzionismo è quello della temperatura di un corpo, oggettivamente misurabile con un semplice strumento (il termometro), la quale, osservata a livello microscopico, si rivela essere null’altro che l’energia cinetica media delle molecole costituenti il corpo. Alcuni studiosi hanno approfittato di questa corrispondenza tra fenomeni fisici per avanzare la proposta di trattare nella stessa maniera anche i fenomeni mentali, considerandoli come espressioni a livello superiore (soggettivo) dell’attività nervosa che ha luogo a livello cerebrale (fisico). Si tratta di tentativi riconducibili alla cosiddetta teoria dell’identità, sostenuta, in particolare, da autori come Place, Smart e Armstrong,13 per la quale tutti gli eventi mentali, qualora osservati da un livello inferiore, sarebbero identici agli stessi processi cerebrali.

Anche questo tipo di riduzionismo, a dispetto del nome con cui viene indicato, non si riferisce tuttavia alla natura della realtà nei rapporti causali che le sono propri, bensì ai modi di presentarsi della stessa realtà in relazione ai diversi angoli visuali da cui essa può essere osservata. Il riduzionismo ontologico (o causale), come ogni altro tipo di riduzionismo, costituisce invariabilmente una strategia conoscitiva, una modalità di spiegazione che viene attuata a livello di soggetto osservatore.

È ipotizzabile che un diverso approccio, che rifiuti il riduzionismo, cioè la suddivisione della realtà in parti, proponendo invece un’indagine rivolta ai fenomeni nella loro globalità e unitarietà, sia in grado di modificare le relazioni interne dei fenomeni così da spezzare le catene del determinismo e rendere possibile l’espressione di una libertà autentica?

Così posta, la domanda appare del tutto assurda. Ma essa non è che una conseguenza del prendere sul serio la tesi di Tagliasco e Manzotti, i quali contrappongono un metodo di conoscenza della realtà (il riduzionismo) a quello che essi vorrebbero un modo di essere della realtà stessa (l’ontologia fondata sul processo), senza rendersi conto che stanno parlando di categorie radicalmente diverse e non confrontabili.

Come riportare, allora, l’esempio del triangolo di Kanizsa nella sua corretta prospettiva?

Esiste un unico processo, ed è quello posto in atto dal soggetto conoscente. Le tre macchie, separate da una certa distanza spaziale, che il soggetto vede come un triangolo, sono oggettive: un animale meno evoluto di noi potrebbe vedere in esse ciò che sono in realtà — soltanto delle macchie — in quanto sprovvisto dell’area di elaborazione nervosa che le presenta come unità. Il triangolo di Kanizsa non è altro che il risultato di una specifica organizzazione neuronale, sviluppatasi nel corso dell’evoluzione al fine di migliorare l’adattamento all’ambiente. Come la psicologia della Gestalt ha ben messo in luce, esiste una tendenza ad organizzare gli insiemi percettivi in forme determinate, a dare ad essi un ordine, così che acquistino un significato per il soggetto. Ma l’ordine e il significato non sono nelle cose: vengono attribuiti dal soggetto stesso. La comparsa del triangolo di Kanizsa nel campo fenomenico dell’osservatore è un evento deterministico, in quanto il soggetto non può fare a meno di vedere il triangolo nelle tre macchie a lui presentate. L’unità è raggiunta tramite modalità prestabilite di organizzazione dei dati percettivi, le quali non sono finalizzate alla conoscenza per puro amore del sapere, bensì a facilitare la soddisfazione di bisogni biologicamente importanti.

Tale attività di organizzazione dei dati percettivi in insiemi dotati di senso, in accordo con le necessità adattative del soggetto, è presente fin dalle prime fasi di elaborazione che seguono la raccolta dei dati elementari da parte delle cellule fotosensibili dell’occhio (bastoncelli e coni). Come le ricerche, ormai classiche, di Hubel e Wiesel hanno dimostrato, esistono neuroni specializzati che si attivano solo per segnalare la presenza di linee orizzontali, altri per le linee verticali, altri sensibili al movimento, altri che rendono i contorni più marcati, ecc. .14 Tutte queste “determinazioni” con cui la realtà si presenta al soggetto osservatore non appartengono all’ontologia del mondo, ma sono costruite dal soggetto perché precisamente in quella forma esse sono utili dal punto di vista adattativo.

2. Il tempo e il rapporto causale tra gli eventi

La confusione tra livello metodologico e livello ontologico appare con ancora maggiore evidenza se rivolgiamo la nostra attenzione all’esame condotto da Tagliasco e Manzotti sulla dimensione temporale dell’ontologia basata sul processo. Secondo i nostri autori, se considerassimo il passato come causa e il presente come effetto, rappresentandoli come due momenti separati, sarebbe assurdo ritenere che il presente possa esercitare una qualsiasi influenza sul passato. L’ontologia basata sul processo permetterebbe di superare tale vincolo adottando una diversa prospettiva che considera, come punto di partenza, «processi che si distribuiscono nel tempo».15 Questo modello consentirebbe dunque una sorta di “revisionabilità del passato”, in quanto, pur basandosi su elementi deterministici, «suggerisce una relazione tra presente e passato».16 Detto in termini estremamente sintetici: «Il passato determina il presente, ma il presente definisce il passato».17

Si può essere d’accordo, in linea di principio, con quest’ultima affermazione, a patto di specificarne con chiarezza il significato e gli ambiti di validità. Cosa vuol dire esattamente che il presente definisce il passato?

Il passato è passato e non può essere oggettivamente modificato; il presente viene determinato dal passato attraverso una lunga catena di rapporti causali che appartengono al piano dell’ontologia. Il passato può tuttavia essere reinterpretato dal soggetto in seguito a una riorganizzazione delle proprie categorie conoscitive, dovuta a eventi successivi; qui la modificazione del passato agli occhi del soggetto non può essere considerata oggettiva, poiché dipende dalle modalità con cui il soggetto stesso si rappresenta (o costruisce) la realtà (piano metodologico). Ancora una volta veniamo posti di fronte a una specifica determinazione della realtà che dipende dalle modalità conoscitive utilizzate dal soggetto, alla quale viene si pretende di assegnare una natura ontologica.

3. La complessità e il sorgere della libertà

Definire un agente in termini di processo si rivela, in definitiva, una inutile “complicazione ontologica”, in quanto incapace di aggiungere ulteriori elementi di valenza causale alla realtà dei fenomeni indagati. Tale tipo di approccio, non solo è del tutto implausibile, in quanto frutto di un’indebita trasposizione di caratteristiche appartenenti al piano del metodo a quello dell’ontologia, ma il legame indistricabile tra soggetto e oggetto che esso vorrebbe stabilire attraverso un discutibile processo di natura ontologica non può essere sostenuto da alcuna evidenza empirica. Come se non bastasse, un simile approccio non migliora affatto la nostra comprensione della libertà nei suoi diversi aspetti e problematiche: non offre nuovi spunti alla riflessione in merito alla nostra capacità di autodeterminarci, né suggerisce nuove ipotesi per la ricerca; non prevede l’esistenza di fenomeni o comportamenti non ancora osservati, come avviene per le più interessanti teorie scientifiche. In realtà, l’ontologia della libertà basata sul processo si limita a rendere più complicato l’insieme dei fattori da prendere in considerazione, senza offrire alcun contributo dal punto di vista conoscitivo.

Si delineano così i presupposti (ma, forse sarebbe più corretto dire, le motivazioni nascoste) che si trovano sullo sfondo della proposta avanzata da Tagliasco e Manzotti. Nelle loro argomentazioni questi sembrano dar per scontato che, raggruppando un certo numero di elementi in un processo unitario, si possa dar origine a qualcosa di fondamentalmente diverso rispetto alla somma degli elementi costituenti, qualcosa in grado di esibire caratteristiche del tutto nuove, come ad esempio l’affrancamento dalla necessità delle leggi fisiche. Tale idea, non priva di un certo fascino, in realtà non è che l’ennesima riproposizione, sotto una veste leggermente differente, di un concetto che gode di molta considerazione tra coloro che si occupano dei fenomeni mentali: quello di “proprietà emergente”, secondo il quale, le molteplici interazioni che hanno luogo a vari livelli in sistemi molto complessi sarebbero in grado di dar vita a nuove proprietà e caratteristiche, non spiegabili in base alle proprietà e alle caratteristiche delle parti costituenti.

Quanto la nozione di “proprietà emergente” sia problematica qualora venga applicata ai fenomeni mentali, si comprende facilmente non appena si consideri che essa viene spesso utilizzata come una vera e propria categoria esplicativa: il semplice presentare la mente come un “fenomeno emergente” viene da alcuni autori ritenuto un risultato di grande rilievo conoscitivo. In realtà tale nozione, nelle modalità e nei contesti in cui viene di solito utilizzata, si rivela essere semplicemente un’etichetta applicata a determinati tipi di fenomeni per far fronte a un vuoto conoscitivo. Essa, infatti, non è in grado di aggiungere alcunché alla nostra conoscenza dei fenomeni mentali, né, tantomeno, di render conto della comparsa di specifiche proprietà che appaiono irriducibili agli ordinari fenomeni fisici. In effetti, essendo privo di valore esplicativo intrinseco, il concetto di proprietà emergente può essere visto come un sostituto moderno, inevitabilmente metafisico, che viene a prendere il posto di obsoleti concetti esplicativi del passato, in particolari quelli legati a una visione dualistica della realtà .

Che, a fondamento dell’ontologia basata sul processo ci sia l’esigenza di spiegare l’inspiegabile facendo ricorso alla complessità, traspare in tutta la sua evidenza nel momento in cui Tagliasco e Manzotti mettono in relazione l’emergere graduale dell’autonomia prendendo in considerazione sistemi via via più complessi: gli automi cellulari, la caduta di una biglia all’interno di un gioco elettromeccanico, una rana e infine un essere umano.18 Si tratta di una strategia esplicativa che ha stretta analogia con quella utilizzata da Daniel Dennett in L’evoluzione della libertà,19 opera, del resto, più volte citata dai nostri autori. Secondo Dennett, la libertà è una caratteristica che si sviluppa progressivamente negli esseri viventi man mano che aumenta la complessità della loro organizzazione: dai primi esseri monocellulari ai più elementari organismi pluricellulari, passando poi agli anfibi, ai rettili, ai pesci, ai mammiferi, per giungere infine all’uomo. Ad ogni passaggio, quello che a livelli molto primitivi non è altro che un meccanismo fortemente deterministico e rigido nelle riposte, assume a poco a poco i caratteri di una flessibilità sempre più spinta, fino a sfociare in quella che chiamiamo libertà.20

Dennett riduce la libertà semplicemente alla capacità degli organismi di adattarsi in maniera efficace alla varietà delle condizioni ambientali;21 Tagliasco e Manzotti, almeno nelle loro dichiarazioni programmatiche, sembrerebbero voler rifiutare una prospettiva tanto limitata che rischia di fare della libertà una vera e propria caricatura. Dobbiamo purtroppo riconoscere che la loro proposta di un’ontologia basata sul processo si muove in una direzione analoga. Essa sembra infatti non avere altro scopo che quello di accrescere genericamente la complessità dell’insieme dei fenomeni da considerare, conferendole una connotazione ontologica, così da sottrarla “per decreto” a qualsiasi tentativo di suddividerla in parti minori. Concepito in tale maniera, il processo di scelta e di decisione che caratterizza l’autonomia della volontà umana non può più essere posto in relazione con le leggi fisiche ordinarie, la cui natura si presenta in netta antitesi con la stessa idea di libertà, ma va considerato in modo “globale”. Ecco quindi che grazie a questa strategia, esattamente come avviene con la nozione di “proprietà emergente”, è possibile render conto, senza apparente contraddizione, di tutte le proprietà della mente che si desidera veder spiegate.

Il problema della libertà umana non può però essere risolto con simili artifici concettuali, i quali alimentano tra l’altro la pericolosa illusione che si possa giungere a una soluzione soddisfacente con marginali ritocchi a qualcuna delle proposte esistenti, introducendo correzioni o integrazioni che comunque non mettano in discussione i fondamenti della concezione naturalistica del mondo. Posto che la libertà esiste, ritengo che i problemi da essa sollevati derivino in buona parte dalla convinzione che una spiegazione debba essere trovata necessariamente all’interno della cornice concettuale che contraddistingue le scienze della natura. D’altra parte, allo stato attuale delle nostre conoscenze, non riusciamo minimamente a immaginare come affrancarci da tale cornice senza ricadere immediatamente in obsolete forme di dualismo. Può però confortarci nella nostra ricerca la considerazione che, nella storia della scienza, di fronte a situazioni di impasse più o meno prolungate, la soluzione si è presentata molto spesso sotto forma di concezioni fortemente innovative, capaci di operare un’autentica rottura con le concezioni del passato.

4. La libertà come espressione della coscienza

Spunti capaci di promuovere una profonda trasformazione dell’apparato categoriale a cui oggi facciamo riferimento, favorendo così l’elaborazione di proposte originali e magari rivoluzionarie, potranno venire con tutta probabilità solo da importanti scoperte in campo neuroscientifico. Nel frattempo, invece che continuare a mortificare le nostre doti intellettuali nel tentativo di conciliare l’inconciliabile, cioè la nostra libertà con la necessità delle leggi fisiche, credo sia assai più proficuo assumere provvisoriamente obiettivi di portata più limitata, che costringano però a un costante confronto con la realtà empirica. Uno di questi obiettivi potrebbe essere quello di capire un po’più da vicino, e più concretamente, in cosa consista lo stretto legame che la libertà mostra di avere con la coscienza.

Si tratta di un legame che, non solo viene costantemente riproposto dalla nostra esperienza diretta, ma traspare anche con grande chiarezza nella stessa organizzazione della società, nelle sue norme giuridiche e le consuetudini che stanno alla base delle relazioni tra le persone. I modi con cui ci rapportiamo agli altri e i presupposti a cui facciamo riferimento sono profondamente intrisi dell’idea che la coscienza costituisca in qualche maniera una condizione necessaria per l’espressione della libertà. Se analizziamo le diverse circostanze in cui un individuo viene normalmente ritenuto libero, e quindi responsabile delle proprie azioni, vediamo infatti che l’essere coscienti, assieme all’assenza di costrizioni di qualsiasi tipo, vengono considerate come condizioni irrinunciabili perché si possa presupporre una qualche forma di libertà: si reputa forse libero un sonnambulo che cammina con grande perizia su uno stretto cornicione? O lo riteniamo responsabile se, nel suo stato, egli compie azioni che arrechino danno agli altri? Le sue azioni sono involontarie e inconsapevoli, in quanto risultato di meccanismi automatici, anche se molto complessi e non di rado capaci di offrire risposte adeguate alla situazione contingente.

È assai significativo (e, per certi versi inquietante) che tali considerazioni, abbastanza ovvie dal punto di vista del senso comune, non trovino alcuno spazio nel vasto dibattito contemporaneo sulla libertà umana. Nella enorme varietà di posizioni, di argomenti e contro-argomenti, di tesi e di confutazioni, è completamente assente un serio esame circa lo stretto rapporto che la libertà mostra di avere con la coscienza. Tale assenza — a mio avviso — è fortemente indicativa della distanza a cui è giunta la riflessione filosofica rispetto alla concreta esistenza degli uomini e ai problemi ad essa connessi.

Ma cosa significa che la libertà è inevitabilmente legata alla coscienza? O — se vogliamo conferire una connotazione di maggior rilievo scientifico alla nostra domanda — in che modo (o in che senso) l’essere coscienti renderebbe possibile la libertà e quindi, presumibilmente, ci metterebbe nella condizione di esercitare un reale controllo sulle nostre scelte e sulle nostre azioni?

Un primo passo per affrontare tale questione, accogliendo i suggerimenti che ci vengono dall’intuizione, potrebbe essere quello di inquadrare in modo diverso il rapporto di necessità che sembra esistere tra libertà e coscienza. Invece di guardare alla coscienza come condizione per la libertà, potremmo considerare quest’ultima come una modalità di espressione della coscienza stessa. Ciò comporterebbe che la libertà, ovvero l’autonomia della volontà, costituisce la manifestazione più diretta della coscienza nella sua forma attiva. Tale prospettiva conferirebbe un senso a entrambi le “aperture” manifestate da Tagliasco e Manzotti nei confronti della coscienza, anche se non approfondite come sarebbe stato opportuno: quelle relative al riconoscimento di una distinzione tra la coscienza passiva e la coscienza attiva e quella riguardante lo stretto rapporto tra la libertà e la coscienza.

Ma come potrebbe, una simile prospettiva, acquistare una consistenza di valenza scientifica?

Se la libertà reppresenta un’espressione della coscienza e se non è soltanto un modo di dire, privo di conseguenze sul piano operativo, allora l’indagine sulla libertà deve spostare la propria attenzione sulla coscienza, ipotizzando per questa una qualche forma di efficacia causale. Dovrebbe quindi essere possibile dimostrare, sulla base di indizi numerosi e stringenti, che l’attivazione della coscienza è connessa a differenze osservabili a livello comportamentale o, meglio, che i comportamenti coscienti sono, almeno in linea di principio, più appropriati alla specifica situazione di quelli posti in atto meccanicamente e inconsapevolmente.

Effettivamente, tralasciando le attività geneticamente predisposte ad essere eseguite in maniera automatica, e quindi inconsapevole, dirette per lo più al mantenimento dell’integrità funzionale dell’organismo (frequenza cardiaca, temperatura corporea, pressione sanguigna, digestione, ecc.) rileviamo molte altre attività che ricadono sotto il controllo della coscienza.

Queste ultime, almeno quelle che si prestano ad essere ricondotte a schemi di azione che si ripetono sostanzialmente immutati nel tempo, presentano una caratteristica molto particolare: all’inizio, soprattutto nella fase di apprendimento, hanno bisogno dell’attenzione cosciente per poter essere svolte correttamente; successivamente, in special modo se standardizzabili e ripetute in tempi ravvicinati, tendono ad essere svolte con modalità sempre più automatiche e inconsapevoli. Pensiamo, per esempio, ai tanti nostri comportamenti quotidiani che poniamo in atto sotto la spinta dell’abitudine, guidati per lo più da meccanismi appresi. Detti comportamenti spesso non richiedono alcun impegno della coscienza per essere portati a termine con esiti soddisfacenti. Se tuttavia, nel corso dell’azione, emerge una qualche difficoltà o imprevisto, se ciò che, inconsapevolmente, ci attendiamo di istante in istante, non si verifica, ecco che la nostra attenzione viene prepotentemente richiamata; il meccanismo automatico s’interrompe bruscamente e l’azione stessa torna sotto il controllo cosciente.

Immaginiamo di camminare per un tragitto ben conosciuto, percorso magari centinaia di volte. Non c’è bisogno di prestare attenzione — attenzione cosciente — per muovere i passi nella corretta direzione, magari pensando ad altro o chiacchierando con un nostro accompagnatore. Se però il nostro piede s’imbatte in una qualche irregolarità della superficie d’appoggio o un ostacolo ci si para improvvisamente davanti, si può essere certi che l’intero processo del camminare verrà immediatamente ricondotto sotto il dominio della coscienza.

Possiamo rappresentarci innumerevoli esempi analoghi a quello citato, traendoli direttamente dalla nostra esperienza di tutti i giorni. Essi sembrano condurre a una conclusione ben precisa, e cioè che l’attivarsi della coscienza sia da mettere in relazione al presentarsi del nuovo, dell’imprevisto, di tutto ciò che non è affrontabile con una sequenza di operazioni talmente familiari da poter essere portato a termine in maniera automatica. L’intervento della coscienza sarebbe, in altre parole, connesso alla necessità di attuare strategie comportamentali più flessibili, non riconducibili a quelle acquisite in passato tramite la ripetizione; i comportamenti posti in atto meccanicamente e senza il concorso della coscienza, benché capaci in genere di risposte più immediate, sarebbero invece largamente stereotipati, caratterizzati da scarsa plasticità e adattabilità al mutare delle condizioni ambientali.

Ciò è perfettamente in linea con quanto ci suggerisce la nostra intuizione, per la quale solo i comportamenti che si trovano sotto il controllo della consapevolezza possono essere autenticamente liberi, poiché svincolati in qualche misura dalle catene causali che contraddistinguono gli eventi del mondo naturale.

Tali considerazioni non sono prive di conseguenze sul piano della ricerca scientifica, vale a dire delle neuroscienze. In particolare, esse suggeriscono con forza l’esistenza di aree nervose differenziate per quanto riguarda il controllo dei due tipi di attività, automatiche e coscienti. Particolare rilievo assumerebbe, in tal senso, l’osservazione, tramite le moderne tecniche non invasive di monitoraggio cerebrale, delle differenze rilevabili a livello neuronale in corrispondenza della transizione da un comportamento automatico a un comportamento controllato coscientemente, oppure da un’azione svolta inizialmente in modo consapevole a un’azione che diventa a poco a poco automatica in seguito alla ripetizione. Ciò consentirebbe di acquisire informazioni di notevole interesse circa il rapporto dell’esperienza cosciente con le caratteristiche della base neuronale, gettando nuova luce sulla questione se il sorgere della coscienza sia da porre in relazione con specifiche organizzazioni dei circuiti neuronali oppure non dipenda piuttosto dalle caratteristiche della struttura interna dei neuroni costituenti.

La prospettiva di un legame tra la libertà e la coscienza, che vede la libertà come una conseguenza della coscienza, ovviamente, è ben lontana dall’offrire una soluzione al problema della libertà umana. Svilupparne alcune conseguenze empiriche, come quelle accennate, permetterebbe tuttavia di acquisire nuove e importanti conoscenze sulla nostra mente. Essa sarebbe dunque proficua sotto il profilo del progresso scientifico. E ciò persino nel caso in cui tale legame non dovesse ricevere alcuna conferma di tipo empirico o si dimostrasse addirittura inconsistente.

Proposte come quella avanzata da Tagliasco e Manzotti si rivelano invece del tutto sterili dal punto di vista di una migliore conoscenza dei fenomeni mentali, poiché non offrono alcuno spunto per ulteriori approfondimenti, sia sul piano teorico che su quello empirico. La loro principale finalità non sembra essere la crescita del sapere, bensì la conservazione dell’esistente attraverso “strategie dilatorie” tese a rendere meno evidente il conflitto tra i modelli naturalistici di spiegazione e le caratteristiche salienti della nostra mente. Simili strategie — che ricorrono solitamente a concetti esotici, tra cui il già citato che si richiama all’esistenza di “proprietà emergenti”, ma anche ad altri come quello di “causalità dall’alto verso il basso” (bottom-down),22 di “mente distribuita” (o “mente estesa”),23 ai quali può essere aggiunta senza forzature l’ontologia della libertà basata sul processo — si mostrano in genere scarsamente interessate a favorire un confronto con la realtà del dominio a cui fanno riferimento. Rendendo, anzi, più difficile e problematico tale confronto attraverso un ampliamento del contesto dei fenomeni da prendere in considerazione, esse tendono a ritardare indefinitamente un controllo puntuale delle loro affermazioni su base empirica, sottraendo di fatto il nucleo teorico di cui sono portatrici da quel “principio di falsificazione” che viene in genere considerato fondamentale per distinguere una autentica teoria scientifica da una formulazione metafisica.


  1. Vincenzo Tagliasco - Riccardo Manzotti, “Libertà e coscienza: un approccio basato sul processo”, in Sistemi intelligenti, n. 2, 2006, pagg. 259-281. L’articolo è presente anche sul web all’indirizzo: http://www.consciousness.it/manzotti/publications/PDF/Manzotti%202006%20Sistemi%20Intelligenti.pdf. La numerazione delle pagine indicate nelle citazioni si riferisce ovviamente all’edizione cartacea. ↩︎

  2. Op. cit., pag. 260 e sgg. ↩︎

  3. Op. cit., pag. 277. ↩︎

  4. A meno che non si voglia considerare un argomento importante sulle complesse problematiche riguardanti la relazione tra coscienza e libertà questa breve (quanto oscura) affermazione: «Essere liberi […] è analogo all’essere coscienti: è il processo attraverso il quale la realtà costituisce unità processuali sempre più rilevanti» (Vincenzo Tagliasco - Riccardo Manzotti, Op. cit., pag. 278). ↩︎

  5. Op. cit., pag. 267. ↩︎

  6. Ivi↩︎

  7. Op. cit., pag. 270. ↩︎

  8. Op. cit., pag. 272. ↩︎

  9. Op. cit., pag. 271. ↩︎

  10. Op. cit., pag. 267. ↩︎

  11. Op. cit., pag. 271. ↩︎

  12. Ivi↩︎

  13. Ullin T. Place, “Is Consciouness a Brain Process?”, in British Journal of Philosophy, XLVII, 1956, pagg. 44-50; rist. in V. C. Chappell (a cura di), The Philosophy of Mind, 1962, pagg. 101-109; John Smart, “Sensations and Brain Processes”, in Philosophical Review, LXVIII, 1959, pagg. 141-56; trad. it., “Sensazioni e processi cerebrali”, in Armando De Palma, G. Pareti (a cura di), Mente e corpo. Dai dilemmi della filosofia alle ipotesi della neuroscienza, Bollati Boringhieri, Torino, 2004, pagg. 27-45; David M. Armstrong, The Nature of Mind, in Arts: Proceedings of the Sydney University Arts Association, III, 1966, pagg. 37-48; trad. it. “La natura della mente”, in Armando De Palma, G. Pareti, cit., pagg. 46-62. ↩︎

  14. David H. Hubel - Torsten N. Wiesel, “Receptive Fields and Functional Architecture in Two Non-Striate Visual Areas of the Cat”, in Journal of Neurophysiology, XXVIII, 2, 707 (1969). In lingua italiana si può leggere Hubel-Wiesel, “I meccanismi della visione”, in Le Scienze, n. 135, (nov. 1979). ↩︎

  15. Vincenzo Tagliasco - Riccardo Manzotti, Op. cit., pag. 274. ↩︎

  16. Ivi↩︎

  17. Ivi↩︎

  18. Op. cit., pag. 277. ↩︎

  19. Daniel Dennett, L’evoluzione della libertà, Raffaello Cortina, Milano, 2004. ↩︎

  20. Op. cit., capp. I e II. ↩︎

  21. Op. cit., pag. 18. ↩︎

  22. Cfr. Roger Sperry, “Il problema della coscienza a una svolta: un nuovo paradigma per la causazione”, in Giulio Giorello - Piergiorgio Strata (a cura di), L’automa spirituale. Menti, cervelli e computer, Laterza, Bari, 1991, pagg. 98-100. ↩︎

  23. Andy Clark, Dar corpo alla mente, McGraw-Hill, Milano, 1999. ↩︎