1. L’intenzionalità come sfera pre-categoriale di esperienza tra immanenza e trascendenza
Partendo da me, inteso costitutivamente come monade originaria, io ottengo le monadi per le altre o anzi gli altri come soggetti psico-fisici. Questo vuol dire che io non li ottengo solo come quel che sta di contro al mio corpo organico […] io li ottengo piuttosto nel senso di una comunità umana, dell’uomo stesso il quale già come individuo ha il senso di un membro della comunità.1
In questo passo della quinta meditazione cartesiana, Husserl definisce il senso programmatico dell’apertura alla dinamica dell’intersoggettività. In tale passaggio da un orizzonte eminentemente soggettivo a un universo intermonadico, dissipare lo «spettro» del solipsismo, per il recupero del senso autentico dell’esperienza trascendentale-fenomenologica, è questione che, a nostro avviso, si radica su un equivoco di fondo. Il problema del solipsismo, cioè, del suo compiuto o mancato superamento nell’opera husserliana, è stato oggetto di una serie di fraintendimenti.
Che l’esistenza d’altri sia un dato che assume i caratteri dell’evidenza e della verificabilità è dimostrato dal fatto stesso che l’altro entra a far parte della mia sfera percettiva, della mia esperienza vissuta, cioè del mio Erlebnis. È appunto tale esperienza vissuta a presentarmi l’altro come un ente reale, esistente in sé. Ebbene, se per «solipsismo» intendiamo la negazione dell’esistenza di ogni altro ente e, pertanto, la riduzione dell’esperienza alla solitudine ontologica dell’io, allora ci sembra di poter affermare che la tesi dell’indimostrabilità empirica dell’esistenza altrui sia da scartare di principio. Malgrado la mia cognizione dell’alterità sia ancora comunque presuntiva, ovvero passibile di sempre continua e ulteriore verifica, inserita – cioè – in un sistema aperto di esperienze di conferma, il valore oggettivo dell’universo intersoggettivo non necessita di «dimostrazione». Tutt’al più di «descrizione».
Posto che le operazioni della coscienza trascendentale stabiliscono una connessione spaziale tra individui, il punto di partenza dell’interrogativo sul senso di tali operazioni – non già sulla loro effettiva tangibilità – deve essere affrontato da un’altra prospettiva: ciò che deve essere posto in questione è, cioè, in prima analisi la modalità esplicativa della comunicazione e interazione tra individui facenti parte di un mondo circostante comune e, in seconda istanza, l’effettiva valenza fondativa che viene attribuita all’esperienza intersoggettiva in relazione alla costituzione del mondo della vita. Pertanto, la difficoltà procedurale non concernerà la dimostrabilità della possibilità logica di un mondo comune, intersoggettivamente condiviso, quanto piuttosto la legittimità della concreta costitutività di uno spazio comunitario, luogo di incontro tra soggetti che siano in grado di condividerlo, superando la legge eidetica – data per principio – dell’incondizionata e assolutamente irriducibile realtà dell’Io, che solo si dà in assoluta evidenza, «in carne ed ossa».
In questo senso, la dinamica intermonadologica va riformulata e indagata a partire dagli atti egologici della coscienza intenzionale: la relazione dell’Io col mondo è decisiva per esaminare il binomio immanenza-trascendenza e comprendere se e in che termini la dimensione egocentrica possa risolversi nel dinamismo aperto e fluente della vita interrelazionale. Se, cioè, l’unidirezionalità dell’Io, la sua autoreferenzialità, fuoriuscendo dal circuito chiuso dell’immanenza intenzionale, possa trasporsi sul piano di una pluridimensionalità comunicativa tra le monadi e, ancora, se tale comunicabilità possa assumersi come connotante – e non annullante – la costituzione trascendentale del mondo oggettivo.
2. Dal “dato di fatto” alle “cose stesse”
Come si compie, allora, il processo costitutivo della «cosa», in primo luogo, e del mondo, poi? Come, inoltre, il costituirsi della cosa in sé si radica nell’esperienza della coscienza costituente sull’onda dell’epochizzazione del mondo già dato? E ancora, come si coniuga, nella prospettiva di un Weltvernichtung del mondo – che vincola la rappresentabilità eidetica della cosa all’immanenza della coscienza – con l’ipotesi di una fondazione intersoggettiva, dunque trascendente, del mondo stesso? Con l’affermazione della contingenza del mondo, della sua inessenzialità in opposizione alla necessarietà dell’Io rispetto alla costituzione dell’universo egologico, Husserl esibisce il principio invariante, la legge eidetica per eccellenza dell’assolutezza degli atti di vita coscienziali.
«La cosa fondamentale è non mancare di vedere che l’evidenza […] è questa coscienza che guarda per davvero, che coglie direttamente e adeguatamente la cosa stessa, che evidenza non vuol dire altro se non adeguata datità diretta».2 L’indicazione che costituisce il nucleo della fenomenologia husserliana – «Alle cose stesse» – può essere icasticamente compendiata da questo invito a uscire nel mondo «alla luce del visibile». Se, per far questo, risulta necessario svincolarsi da ogni tendenza alla ricerca di una verità che presupponga l’emancipazione dalla dimensione soggettiva, punto di partenza imprescindibile per poter cogliere le essenze ideali, sottese all’esistenza del fenomeno di conoscenza, allora solo con il ricorso all’esperienza vissuta della soggettività costituente, nel riconoscimento dell’originario connubio – necessario e strutturale – della coscienza con ciò di cui fa esperienza, nell’interscambio tra soggetto e oggetto, sarà possibile approdare «alle cose stesse», al senso che le cose mostrano alla coscienza che, dal canto suo, nel «puro guardare», si apre a una relazione vivente con il mondo.
L’«io sono» è il dato di fatto primario che io debbo affrontare, e dal quale io, in quanto filosofo, non posso mai distogliere lo sguardo. Per filosofi apprendisti questo può essere l’angolo oscuro in cui si agitano gli spettri del solipsismo o anche dello psicologismo e del relativismo. Il vero filosofo però, anziché lasciarsene impaurire, preferirà gettare luce sopra questo angolo buio.3
Far luce sull’ «angolo oscuro» in cui si insinua lo «spettro» del solipsismo prima di addentrarsi nella disamina dell’esperienza dell’estraneo, dell’alter, in relazione all’apoditticità dell’io, è quanto ci si propone di fare in questa sede. L’intento sarà quello di comprendere, attraverso l’analisi dell’opera husserliana, in particolare in riferimento al II volume di Idee e alla quinta delle Meditazioni Cartesiane – nella fattispecie in relazione al problema della «costituzione», che in esse diviene centrale – in quale prospettiva inserire il ricorso all’elemento intersoggettivo e sottoporre al vaglio l’effettiva valenza dell’attività fungente che vi viene attribuita.
3. Indubitabilità delle cogitationes per una conoscenza “chiara e distinta”
La «questione del soggetto», tanto quanto quella del senso dell’oggetto, che solo dinanzi a un Io mostra la sua propria essenza, che già gli appartiene ma che solo alla coscienza può svelare la propria legittima struttura d’invarianza,4 saranno – allora – entrambi concetti ineludibili per comprendere l’importanza dell’affrancamento dalla «cecità rispetto alle idee», propria di ogni altro approccio conoscitivo, che rende incapaci di trasferire sul piano giudicativo ciò che si mostra nella sfera della visione. È in questo senso che il ricorso all’intenzionalità, all’a-priorica struttura fondante della coscienza, che ne fa sempre l’esser-coscienza-di-qualcosa, in quanto punto radicalmente congenito alla fenomenologia, risulta imprescindibile per comprendere in che termini interpretare la correlazione originaria tra io e mondo, che fa della fenomenologia la descrizione delle essenze intenzionate dalla coscienza nella sua esperienza vissuta in quanto attività proiettante e, in quanto tale, sempre presente, immanente, attuale.
L’io che abita il mondo e, vivendo, ne pone le strutture di senso, svelando la propria funzione costituente, rappresenta – in tal modo – il protagonista indiscusso del sovvertimento dell’ovvia e naturale credenza nell’esistenza del dato oggettuale, che viene interrogato a partire dall’Io che lo costituisce. Il ricorso all’esperienza, in quanto ambito di manifestatività originario, offre cioè – attraverso il «puro guardare» – le donazioni di senso che gli oggetti manifestano, preservando tanto le strutture intenzionali dell’Io, in quanto fonte e presupposto del senso stesso dell’oggetto intenzionato, quanto il richiamo «alle cose stesse», il cui eidos diviene rappresentabile unicamente in relazione alla struttura trascendentale dell’Io cui si rivolgono.
Dunque, tutto ciò che esiste come realtà oggettuale è pensabile solo in quanto relazionato a una coscienza possibile, e cioè solo correlato a un «Io puro». Ciò vale per lo stesso Io, che – dal canto suo – implica un originario afferramento di sé, nella forma di un’«autopercezione», in virtù della quale l’Io puro si coglie come tale, come Io che pensa, ricorda, valuta, giudica, rivolto intenzionalmente verso la realtà cosale, che – a sua volta – gli si offre. Così la correlazione intenzionale avviene secondo una doppia polarità: con l’interscambio del polo soggettivo dell’Io, come centro di irradiazione da cui convergono tutti i raggi del vissuto coscienziale proteso verso l’oggetto, e del polo oggettivo dell’oggetto da cui irradiano i raggi che tendono verso il punto egologico.
Ogni serie attenzionale, che si riferisce comunque sempre al medesimo vissuto, comporta una serie di afferramenti di volta in volta più accurati e completi, rispetto ai quali la cosa diviene sempre più vicina a me, a prescindere dall’ordinamento spaziale, nell’unità della coincidenza tra io-atto-oggetto che si appartengono reciprocamente per essenza e sono inseparabili gli uni dagli altri. Ciò che viene colto nell’unità di un’esperienza continua è un riempimento motivazionale che progressivamente si arricchisce nell’unità di senso già presupposta. L’Io è, così, costantemente in relazione con la componente ontica delle sue cogitationes: nell’esperire l’oggetto reale, l’ Io percepisce l’intero mondo circostante come mondo proprio, nel quale ogni cosa viene ad essere per-me, e lo stesso Io, come parte costitutiva del mondo reale in quanto centro di ogni intenzionalità.
Ogni mondanità, ogni essere spazio temporale è per me in quanto io l’esperisco, lo percepisco, me ne rammemoro, ne penso qualcosa, lo giudico, lo valuto, lo desidero ecc. Tutto ciò viene designato da Cartesio con la parola 'cogito'. Il mondo non è altro che ciò che è consaputo come ciò che è e vale in tali cogitationes. Il mondo riceve tutto il suo senso ed il valore d’essere esclusivamente da tali cogitationes. In esse trascorre tutto il mio vivere del mondo. Io non posso vivere, esperire, pensare, valutare ed agire che entro questo mondo, e non mai in un mondo che non traesse il suo senso e valore in me e da me. Riguardando tutto questo mio vivere ed astenendomi dal compiere il minimo atto d’una certa credenza d’essere, la quale assume direttamente il mondo come esistente, io ottengo me stesso come ego puro con il corso puro delle mie cogitationes. Ma io non mi ritrovo quasi come una parte del mondo, poiché ho già universalmente posto il mondo fuori valore; io non mi trovo come un uomo singolo, ma come l’io nel cui vivere coscienziale il mondo intero e l’io stesso come oggetto del mondo, ossia come uomo che è nel mondo, ottengono originariamente senso e valore d’essere.5
Solo attraverso l’acquisizione di quest’«Io trascendentale», ovvero mediante la presentazione di una nuova sfera ontica che, insieme all’«Io sono» assolutamente apodittico, traccia le linee di un nuovo genere di esperienza – appunto trascendentale – è possibile aprirsi a una esperienza trascendentale di conoscenza e – pertanto – a una scienza trascendentale.
4. La Lebenswelt come terreno di esperienza originaria del nostro “stare al mondo”
Tra le prime due sezioni del libro I delle Idee e le successive elaborazioni, il termine «costituzione» acquisisce una valenza diversa: se nelle ultime due sezioni del libro I e nel libro II delle Idee esso sta a significare il modo in cui un oggetto si costituisce per la coscienza, nelle prime due sezioni del libro I, esso indica la dipendenza del mondo dalla coscienza, dunque il preludio all’evoluzione idealistica della fenomenologia che Husserl tenterà a più riprese di confutare.
Ora, come conciliare la trascendentalità dell’oggetto – costituito – con l’immanenza degli atti egologici centripeti – costituenti – senza negare l’idea della trascendenza tout court? In Idee I si afferma con risolutezza l’assoluta centralità e autosufficienza dell’Ich-Pol quale necessario e invariante propulsore del senso del mondo. L’accusa di pervenire a una concezione solipsistica del vissuto coscienziale viene espressamente confutata da Husserl inserendo l’Io-empirico in un universo contenente molteplici Io del medesimo tipo, monadicamente distinti, con i quali la coscienza si relaziona costituendo un orizzonte di connessioni oggettuali intersoggettive, attraverso l’entropatia: «Questa scienza si presenta già come la prima filosofia trascendentale […] alla quale appartiene naturalmente l’ulteriore processo che parte dal solipsismo trascendentale e perviene all’intersoggettività trascendentale».6
Il problema dell’altro viene, dunque, affrontato da Husserl nei termini di un nuovo «oggetto» che entra nella sfera conoscitiva di un soggetto, nel suo campo percettivo, allo scopo di fondare una sorta di comunanza di senso che sia il preludio alla messa in atto della vera costituzione, che è quella che resta identica seppure nella molteplicità delle possibili percezioni intersoggettive. In tal senso, il discorso sull’inter-soggettività è propedeutico alla messa in evidenza del processo mediante il quale l’oggetto di verità sul piano della costituzione necessita di essere inserito in un mondo che va co-inteso nella sua struttura di senso, in quanto terreno di radicamento costitutivo delle cose, sfera pre-categoriale in cui l’intenzionalità è la vita che esperisce il mondo. In questi termini è l’esser-comune del mondo a comprovare lo statuto conoscitivo dell’intersoggettività7 preservando, nel passaggio dal «per-me» al «per-noi», il principio intenzionale in base al quale il mondo, le cose sono sempre per-qualcuno, seppure all’interno di un orizzonte condiviso, che – nella sua finitezza – si apre alla relazione «vivente» con i soggetti che ne esperiscono il senso.
La tematizzazione del mondo-della-vita, della Lebenswelt, sottende la necessità di fondare una nuova scienza che rappresenti la «cura» al processo di svuotamento di senso messo in atto dalla «tecnicizzazione» delle scienze naturali che ha fatto sì che la scienza perdesse il nesso con i suoi fondamenti primi, vanificando il significato più proprio del suo metodo. Ne La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale Husserl enuncia – dunque – la portata della profonda connessione tra il mondo e la vita, unione che, appunto, la crisi interrompe.
Il senso storico della fondazione originaria va riacquisito procedendo a ritroso in vista del riottenimento di una forma di contatto con le origini dell’esperienza umana, il cui significato risiede nel concetto di mondo-della-vita, in quanto conoscenza pre-scientifica, essenziale e necessaria, connubio vivente, inscindibile, pre-categoriale tra la vita e il mondo che costituisce il terreno di base di ogni ricerca di senso che voglia definirsi scientifica.
La fenomenologia inizia lì dove tutte le esistenze cominciano: nel coinvolgimento del tutto acritico, inconsapevole, in qualche modo ignaro, immediato e – per ciò stesso – solidissimo col mondo che ci viene consegnato dalla storia a cui apparteniamo, nel dispiegamento degli orizzonti di senso che la coscienza illumina nel suo movimento inesauribile, costantemente progressivo, diveniente verso le cose che, dal canto loro, nel loro darsi e manifestarsi, rappresentano il fenomeno essenziale. La paradossale contestualità di soggettività e oggettività dell’Io fungente correlato al mondo, in quanto soggetto per il mondo e – al contempo – oggetto nel mondo rinvia costitutivamente al senso ultimo del fenomeno puro:
L’epoché e lo sguardo puro che mira al polo egologico fungente, e quindi alla totalità concreta della vita e delle sue formazioni intermedie e finali, non rivelano eo ipso nulla di umano, né l’anima, né la vita psichica, né gli uomini reali psicofisici – tutto ciò rientra nel «fenomeno», nel mondo in quanto polo costituito.8
Non esiste, cioè, la soggettività da un lato e la parzialità del mondo obiettivo, posto da essa, dall’altro. È la polarità tra umanità e mondo, il continuo interscambio insito alla loro peculiare relazione immediata, fluente, fondata sul nesso necessario tra la molteplicità dei punti di vista dell’Io e i multiformi modi di darsi della realtà, a costituire l’auto-obiettivazione della soggettività nel fenomeno «umanità». Intenzionando le cose del mondo, Io e realtà oggettuale si arricchiscono reciprocamente in una progressiva formazione di senso.
5. Riduzione eidetica e “messa fuori gioco” del mondo obiettivo
Ora però, se la cosa è «vuota possibilità», in quanto soggetta a riempimento, come potrebbe un tale riempimento – se fondato intersoggettivamente – acquisire i connotati di un’univoca identità invariante e collocarsi, dunque, sul piano di un’univocità epistemologica? Se il mondo circostante «non è il “mondo in sé”, ma un mondo “per me”, è, appunto mondo circostante del suo soggetto egologico»,9 allora lo statuto di senso di questo mondo – introiettato e, per ciò stesso, intuito immanentemente – come potrebbe soggiacere a una costituzione intersoggettiva (trascendente) determinante la sua validità? Come può, cioè, la bilateralità del rapporto Io-mondo risolversi in una polivocità funzionale ed epistemologicamente attestabile?
L’obiezione solipsistica, da Husserl tenuta in grande considerazione tanto da dichiararne apertamente la spinosità, viene superata ponendo l’Io puro e il suo flusso di coscienza, con la molteplicità delle relazioni fenomeniche che costruisce, con un’aperta molteplicità di altri Io, con le proprie cogitationes, presentificandoli entropaticamente nell’ordine dell’ambiente circostante in quanto Io-reali: in tal senso l’Io puro, posto posizionalmente nel mondo oggettivo, appare come un Io-reale, che coglie se stesso come Io-uomo inserito in un universo di significazione, in quanto correlato posizionale dell’Io-puro. È in questo senso che va interpretato il «paradosso» dell’obiettivazione dell’io trascendentale che consente il passaggio dal mondo «reale in sé» dell’atteggiamento naturale al «fenomeno mondo» che ottiene senso dall’attività costitutiva dell’Io che, dal canto suo – mediante l’ epoché – si converte dall’ io psico-fisico della psicologia al fenomeno obiettivato «Io trascendentale». È solo considerando la possibilità di una partecipazione aperta di ciascun io alla vita degli altri, ognuno obiettivato come Io trascendentale, che si produce una «compartecipazione intersoggettiva» nella comunità, che spiega l’affermazione husserliana secondo cui «l’umanità è innegabilmente una parte del mondo».
Soltanto l’idealismo, in tutte le sue forme, cerca di impossessarsi della soggettività in quanto soggettività, e di venire a capo di un mondo che non è mai dato se non al soggetto e alla comunità dei soggetti; poiché in quanto mondo che vale per essi, soggettivamente e relativamente, con singoli contenuti di esperienza, che nella soggettività e a partire da essa subisce sempre nuove evoluzioni di senso (per cui anche la convinzione apodittica che esista un unico mondo che si presenta soggettivamente in modi diversi ha una motivazione puramente soggettiva; il cui senso è il mondo stesso), esso è mondo realmente essente, e la soggettività, che produce questo senso, non può mai travalicarlo. Ma l’idealismo si abbandonò sempre troppo in fretta a teorie e in genere non riuscì mai a liberarsi da segreti presupposti obiettivistici; oppure, abbandonandosi allo speculativismo, trascurò il compito di indagare concretamente e analiticamente la soggettività attuale, la soggettività per la quale il mondo attualmente fenomenale è valido e intuibile; cioè […] non giunse mai ad operare la riduzione fenomenologica e ad avviare la fenomenologia trascendentale.10
L’epochizzazione è allora necessaria per annullare il mondo già dato, non già nel senso di un totale annichilimento, bensì in vista di una prospettiva in cui la filosofia che si fa vita, la filosofia in quanto vita, partendo dall’eliminazione di dati di fatto già compiuti, si riproietta su questi congiungendoli al senso che ad essi dà il fine. E, nel medesimo tempo, data l’innata tendenza umana a obiettivare il contenuto di coscienza per poi tornare su di esso, la riduzione sarà sempre ancora reiterata, non potrà mai definirsi compiuta.
La non esauribilità della riduzione è l’intenzionalità della vita, della storia, della filosofia: è la scoperta che la realtà non è mai organicamente compiuta ma deve sempre essere riconquistata secondo una rinnovata visione del fine dell’uomo e dell’universo. In quanto superamento di ogni oggettività data, in quanto non è mai riposo sull’obbiettività assolutizzata, la filosofia è il senso stesso della vita che si esprime come fenomenologia trascendentale.11
Quando io, ponendomi riflessivamente nel mondo, mi riconduco – mediante l’epoché – al mio essere assoluto, immediatamente dopo sono in grado di cogliere, nell’ego, l’alter ego, ottengo – cioè – esperienza dell’altro non solo come esistente insieme alla natura, ma come congiunto ad essa in un tutto unico: io percepisco la presenza d’altri non solo in quanto psicologicamente vincolati e connessi al mondo spaziale, ma in quanto sono già essi stessi questo mondo che esperisco e in quanto essi a loro volta hanno di me la medesima esperienza. Sicché il mondo non viene più assunto come mondo mio, come sfera eminentemente privata, ma come mondo intersoggettivo, esperibile nei suoi oggetti da ogni altro io. In questo senso, il fondamento inconcusso della conoscenza filosofica risiede nell’ottenimento – mediante il metodo fenomenologico – della universale conoscenza di sé, e nel passaggio dalla conoscenza monadica a quella intermonadica.
Dunque, se nella costituzione del «mondo materiale» la cosa si presenta come unica e medesima dinanzi al singolo soggetto, nell’apertura al «mondo spirituale» –intersoggettivamente costituito – il soggetto esperiente-costituente diviene la comunità dei soggetti comunicanti tra loro. Ovvero, laddove nella «costituzione della natura» al mondo materiale corrisponde, correlativamente, il singolo soggetto di esperienza, che consta di corpo e psiche, ma non si è ancora realizzato nell’«unità uomo», successivamente – nell’appercezione del corpo altrui – viene a costituirsi il soggetto estraneo e, in relazione a una tale appercezione, la natura come intersoggettivamente comune e – pertanto – oggettivamente determinabile: «Noi diciamo comunicativo quel mondo circostante che si costituisce nell’esperienza dell’altro, nella comprensione reciproca e nell’accordo».12
In Idee II assistiamo, cioè, al passaggio dal solus ipse, dal polo egologico fungente, alla sfera intersoggettiva nella costituzione della comunità inter-coscienziale. L’ esito di questo movimento dovrebbe condurre a una fattiva equipollenza funzionale tra solipsismo e intersoggettività in relazione all’«oggetto» fondato. Ci sembra, tuttavia, di poter asserire che, in questi termini, o verrebbe meno la funzione costituente dell’Ego, per cui l’Io non sarebbe più in grado – secondo questa prospettiva – di costituire un mondo condivisibile, dunque un mondo tout court, o – qualora lo fosse – questa costituzione comunitaria non avrebbe ragion d’essere, in quanto l’autoreferenzialità dell’Io la risolverebbe interamente e compiutamente in sé. Occorre, a questo punto, fare un passo indietro.
6. Il corpo come la “fatticità” dell’Io. L’ego e l’alter
Ora, da dove deriva l’esigenza di declinare la costitutività del mondo nella forma di una dimensione trascendente che attribuisca validità epistemologica alle intuizioni eidetiche solo se condivisibili e interagenti? La Krisis, che possiamo considerare – in qualche modo – il testamento spirituale di Husserl, si conclude con l’auspicio che una nuova forma di spiritualità, intesa nei termini di una rinnovata interiorità la quale – conseguentemente – si traduce in una riformata umanità, risorga come una fenice dalle proprie ceneri in forza dell’immortalità dello «spirito». Ma in che modo possiamo definire propriamente il «mondo dello spirito»? Come avviene il passaggio dalla costituzione del «mondo materiale» in cui il soggetto – in guisa dell’assunzione di una presa di posizione «naturalistica» – prescindendo dall’inserimento degli «oggetti» costituiti in un determinato ambiente storico-culturale, può ammantarsi ancora di un’esperienza limitatamente solipsistica, alla costituzione del «mondo dello spirito» dove l’Io, che diventa persona, vive come soggetto in un mondo di soggetti? Come si articola, cioè, questo movimento che conduce dall’isolamento solipsistico alla pluralità degli individui in ragione del quale l’Einverständnis tra i soggetti assume un ruolo costitutivo nell’esperienza «oggettiva» tale da garantire unità alla molteplicità?
Afferma Husserl: «nell’esperienza solipsistica noi non raggiungiamo mai la datità di noi stessi quali cose nello spazio simili a tutte le altre […], e non perveniamo all’oggetto naturale “uomo”. […] Per giungere a ciò dobbiamo […] andare al di là del nostro soggetto e rivolgere la nostra attenzione agli altri esseri animali che incontriamo nel mondo esterno».13 Pertanto, la «fuoriuscita» dal sé, il raggiungimento di una dimensione extra-coscienziale, avrebbe lo scopo programmatico della conquista di uno stadio superiore alla comprensione di sé. Abbiamo, dunque, ottenuto una prima informazione: l’apertura alla propria datità si rende possibile solo con il ricorso alla soggettività estranea per mezzo della costituzione entropatica di una comunità intermonadica.
Attraverso l’entropatia, la «condivisione di uno spazio» intesa come incontro tra un «corpo fisico» con altri corpi fisici, incontro che crea le condizioni affinché la psiche si congiunga in unità a un corpo vivo, realizzando la «conchiusa unità Io-uomo» – rilevata nell’altro e quindi trasposta su sé stesso – lo psichico viene a ottenere un posto nello spazio e nel tempo. Per stabilire una relazione con l’altro occorre instituire una connessione corporea tra gli individui, attraverso quell’unità tra psiche e corpo proprio in virtù della quale lo psichico viene ad avere un posto nel mondo. L’unità vivente di spirito e corpo così localizzata e temporalizzata si realizza nell’incontro col soggetto estraneo.
Per quel che riguarda l’esperienza di altri, ogni uomo, per la sua corporeità, sta nel contesto spaziale, tra le cose, a ogni corpo vivo, di per sé, inerisce una sua vita psichica complessiva e posta entropaticamente, tanto che, quando il corpo vivo si muove e viene a trovarsi in luoghi sempre nuovi, si muove, insieme, anche la sua psiche: la psiche è infatti costantemente fusa al corpo vivo. […] Per stabilire un rapporto, una relazione tra me e un altro, per comunicare a un altro qualche cosa ecc., deve stabilirsi una relazione corporea, una connessione corporea attraverso processi fisici. Io devo andare da lui e parlargli. Sicchè lo spazio svolge un ruolo importante, e così il tempo: ma ciò va sempre inteso secondo il suo senso e la sua funzione. […] Così localizzati e temporalizzati ci si presentano i soggetti estranei. Nell’ambito di ciò che viene rappresentato insieme col corpo vivo visto rientrano anche i sistemi di manifestazioni attraverso i quali a questi soggetti si dà un mondo esterno. In quanto noi, rendendoli oggetti di enteropatia, li cogliamo come analoghi del nostro sé, il loro luogo ci è dato come un «qui», rispetto al quale tutto il resto è un «là». Ma insieme a questa analogicizzazione, che non produce un che di nuovo rispetto all’io, abbiamo il corpo vivo estraneo come un «là», identificato col fenomeno del corpo vivo-qui. […] Io ora ho una realtà obiettiva, come connessione di due lati, l’uomo articolato dentro lo spazio obiettivo, nel mondo obiettivo.14
Attraverso la manifestazione del «qui» dell’altro, cioè, il mio corpo vivo può essere «là», divenendo – così – un oggetto del mondo naturale. In questi termini l’appercezione del corpo estraneo, che mi si presenta entropaticamente, rende reale l’intera vita psichica, portando alla costituzione dell’obiettività intersoggettiva dell’uomo. Dell’inerenza reciproca tra io-altro-mondo viene quindi, ora, privilegiato il polo oggettivo, vale a dire la relazione tra soggetti facenti parte di un mondo circostante comune, dal momento che l’Io richiede un rapporto con un mondo di cose. Nella sfera della costituzione originaria l’esperienza si dà originariamente nell’incontro con una molteplicità di elementi nello spazio e nel tempo che comprendono un mondo di oggetti e soggetti: «Con l’appercezione dell’uomo si dà eo ipso anche la possibilità di certe relazioni reciproche, della comunicazione tra uomo e uomo».15
Nel mio mondo fisico circostante io trovo corpi vivi, cioè cose materiali del tipo di quella cosa materiale che è il «mio corpo vivo», costituito nell’esperienza solipsistica, e li apprendo come corpi vivi, cioè io attribuisco loro per via enteropatica un soggetto egologico con tutto ciò che gli inerisce […]. Così facendo […] quella «localizzazione» che io realizzo attraverso i vari campi sensoriali […] viene trasferita ai corpi vivi estranei insieme con la mia localizzazione indiretta delle attività spirituali.16
Mediante una tale localizzazione si realizzerebbe, cioè, un subitaneo sincronismo di elementi psichici da Io a Io. In tal senso la manifestazione dell’altro-uomo comporterebbe contestualmente l’insorgenza dei suoi atti psichici:
Una volta che si profila una comprensione della vita psichica altrui, vengono ad agire tutte insieme diverse e indeterminate attribuzioni enteropatiche appresentate; viene compreso quell’essere psichico che per lo spettatore è dato nella compresenza insieme con i movimenti del corpo vivo.17
Col dirigersi dell’esperienza verso la vita psichica rappresentata nel corpo vivo estraneo si concretizza, cioè, la «conchiusa unità uomo», con la conseguente trasposizione dell’unità conseguita dall’altro, in quanto soggetto-di-atti, al mio proprio Io. Sussiste, pertanto, una sostanziale distinzione tra la percezione delle realtà oggettuali e la percezione dell’altro: l’appresentazione dell’altro, la modalità della sua particolare presenza in uno spazio condiviso, attraverso la mediazione di quella peculiare forma di percezione che è l’Einfühlung, consente al soggetto di intuire fattivamente che il corpo vivo altrui consta di una vita psichica quanto il mio. L’esperienza intersoggettiva è, cioè, funzionale al riconoscimento della compresenza di soggetti diversi all’interno di un universo comune.
Lo scopo è quello di dimostrare che la percezione analogica dell’altro consente al sé di fuoriuscire dalla propria immanenza e completarsi come trascendenza. L’Ego, in quanto soggetto trascendentale, non può – cioè – pensare l’alter Ego, l’altro, come oggetto tra gli oggetti, come mero correlato oggettuale della mia coscienza, bensì come punto di vista altro sul mondo, che va quindi – a sua volta – ricondotto alla soggettività conoscente-costituente dell’Ego cogito, incarnata in un corpo. L’accesso a quest’ambito comunitario di presenza originaria si ottiene mediante il ricorso alla corporeità. Il corpo è, così, il luogo a partire dal quale lo spazio si apre, divenendo percorribile, dove lo spazio è la localizzazione di ogni movimento possibile, è un luogo vissuto, assolutamente originario, in quanto potenza di movimento del corpo proprio, del corpo in situazione. Il Leib costituisce, dunque, la centralizzazione di tutti i fenomeni sensibili, territorio di appartenenza qualificante, polo d’identità temporale del flusso di vissuti, nel suo legame carnale col mondo.
L’esperienza che l’io ha di sé stesso non è più, allora, polarizzata verso un io che è soltanto meramente possibile, ma riguarda un io che è effettivamente concreto, reale – appunto – trascendentale. Il ricorso all’«estraneità» avrebbe, in tal senso, il fine precipuo di «rendere reale» la vita psichica dei singoli soggetti – nel vicendevole riconoscimento dell’appartenenza all’originaria sfera della natura umana – e, da ciò, la costituzione di «un unico mondo di cose per tutti: quell’unico mondo di cose che può essere originariamente presente per tutti».18 La relazione entropatica consentirebbe, in questi termini, l’attribuzione di uno statuto egologico al soggetto estraneo, «perché le dipendenze di ciò che è localizzato dalle sue basi fisiche […] consentono pure […] di realizzare anche una coordinazione».19
Dopo aver distinto tra l’«Erleben», ovvero l’«esperienza vissuta» nella «percezione originaria», e l’«appresenza» della «percezione non-originaria», che rimanda all’«originale», Husserl descrive l’atto empatico come il dirigersi della vita psichica del soggetto verso l’unità psico-fisica dell’«estraneo» nella costituzione dell’unità «uomo», che viene poi trasposta su sé stesso. Affermando che «se chiamiamo percezione originaria il vissuto in cui il soggetto ha l’oggetto percepito in una presenza originaria»20 ciò significa che «l’oggetto è “realmente” presente, “nell’originale” e che non è semplicemente “copresentato”21», Husserl mira a dimostrare che se l’oggetto è originariamente presente a un soggetto, una tale presenza originaria possa idealmente darsi a qualunque altro soggetto nella misura in cui esso si costituisce in quanto Io trascendentale.
Tuttavia, se il substrato di una tale com-presenza si radica nell’esperienza solipsistico-trascendentale, allora l’investitura all’altro-da-sé di un soggetto egologico si compie attraverso un procedimento deduttivo che – di fatto – eccede l’immediatezza dell’intuizione eidetica. Il mio Ego monadico è, cioè, rinviato a sé stesso attraverso un alter Ego che è un rispecchiamento di me stesso, in un «gioco di riflessi» che ha nel superamento di ogni relativismo percettivo – in luogo di una intuizione originaria che sia identica per l’intero universo intermonadologico – il proprio terminus a quo.
Non di meno, se è lo stesso Husserl ad affermare che di una tale coordinazione «non si possa fare esperienza»,22 poiché «anche di fronte a un cervello estraneo, io non posso “vedere”, attraverso un’appresenza immediata, gli inerenti processi psichici»,23 si può pensare che una tale trasposizione risulti coerente con il principio dell’evidenza originaria che si dà nell’intuizione eidetica? O si deve concludere, piuttosto, che essa sia dedotta arbitrariamente – minandone, anzi, l’assoluta inviolabilità? Se rispetto al mio «qui» l’altro è «là», con le proprie percezioni del mondo esterno, e – una volta spazialmente e temporalmente localizzato – il suo «là» nello spazio obiettivo diviene «qui», unificando la molteplicità delle manifestazioni, sembrerebbe, piuttosto, che attraverso l’entropatia l’altro sia, in realtà, spogliato del proprio sé e ricondotto all’hic et nunc del mio Io posizionale: il polo prospettico altrui, espropriato del proprio sé, è ridotto ad analogon del mio Ego, riflesso della mia soggettività costituente.
Inoltre, malgrado Husserl definisca il corpo come il sostrato fondante una costituzione di grado superiore, modulantesi nello «spirito oggettivo», tuttavia la barriera della somaticità sembra porsi come limite al superamento del piano spaziale della superficie corporea. L’incisività dell’Einfühlung sfuma, si risolve nella percezione di un «di-fronte» speculare, piuttosto che in una introiezione reciproca e profonda. L’esperienza enteropatica, radicandosi su una «originaria coscienza del corpo vivo-spirito», sull’ipseità ontologica degli atti di vita coscienziali, nel rimando all’alter, all’altro-soggetto esperito in unità vivente col suo corpo vivo, nel tentativo di imporsi come fonte con-validante l’unità delle manifestazioni, sembra – tuttavia – risolversi in un indefinito «gioco di rimandi». Cerchiamo di comprendere in che termini.
7. Intersoggettività trascendentale e “seconda riduzione” ne le 'Cartesianische Meditationen'
Nella quinta delle Meditazioni Cartesiane l’astrazione solipsistica è presentata come preludio necessario e obbligato alle funzioni intenzionali della dinamica intersoggettiva. In questo senso, l’universo intersoggettivo costituirebbe il fondo intenzionale ultimo di donazione di senso del mondo che, piuttosto che garantire l’insopprimibile inviolabilità del polo egologico, mostrerebbe apertamente la necessarietà di una intercostitutività del mondo oggettivo.
Giacché si tratta ora della costituzione trascendentale dei soggetti esterni, e per una conseguenza ulteriore, d’una storia universale del senso che, emanando dall’interno, rende per me possibile in assoluta originarietà il mondo oggettivo, il senso della soggettività estranea […] bisogna adempiere ad una esigenza metodologica, quella di compiere una specie singolare di epochè tematica al di dentro della sfera trascendentale dell’universalità. […] noi facciamo astrazione da tutti i portati costitutivi dell’intenzionalità riferita mediatamente o immediatamente dalla soggettività estranea, e delimitiamo dapprima l’intera connessione di quell’intenzionalità, attuale o potenziale, in cui l’ego si costituisce nella sua proprietà e in cui esso costituisce unità sintetiche inscindibili dall’intenzionalità che quindi, per ciò stesso, sono da attribuirsi a questa come sua priorità.24
L’estensione delle parentesi neutralizzanti all’esperienza già ridotta dell’Io consentirebbe, così, di riconoscere il non-io, l’estraneo, come quel quid di non-identico nell’immanenza del vissuto coscienziale, nonché il mondo come oggettivamente determinabile da ognuno: «io esperisco in me, entro il mio vivere coscienziale trascendentalmente ridotto, il mondo insieme agli altri; il senso di questa esperienza implica che gli altri non siano […] mie formazioni sintetiche private, ma costituiscano un mondo in quanto a me estraneo, come intersoggettivo, un mondo che c’è per tutti e i cui oggetti sono disponibili a tutti».25 Purificando la mia «proprietà trascendentale» da ogni soggettività estranea, anche il mondo perde il suo senso di «esserci-per-ciascuno», e torna ad essere il mio mondo per-me, oggetto unico al di dentro della mia falda di mondo astrattiva, in cui dispongo il mio corpo ridotto al suo significato di appartenenza, all’essenza appartentiva del fenomeno oggettivo «io in quanto quest’uomo qui».26
La riduzione alla mia sfera trascendentale di proprietà, ossia la riduzione al mio concreto io-stesso trascendentale, mediante l’astrazione da tutto ciò che mi si presenta in costituzione trascendentale come estraneo, ha qui un senso insolito. […] Se astraggo dagli altri, intesi nel senso usuale, io rimango solo. Ma una tale astrazione non è radicale, un tale esser-solo non altera per nulla il senso naturale e mondano dell’ «esser-esperibile-per-ognuno», senso che affetta anche l’io (inteso in maniera naturale) e che non andrebbe perduto se anche una pestilenza universale non avesse lasciato esistere che me solo. Nell’atteggiamento trascendentale e parimenti nella astrazione costitutiva di cui abbiam parlato, sul mio io – cioè l’io di me che medito – preso nella sua proprietà trascendentale, non è invece ridotto ad un mero fenomeno correlato, come un comune uomo-io al di dentro del fenomeno intero che è il mondo. Si tratta piuttosto di una struttura conforme all’essenza della costituzione universale, in cui l’ego trascendentale vive come costitutivo di un mondo oggettivo.27
Il senso precipuo della radicalizzazione dell’astrazione trascendentale alla mia personale, indubitabilmente essente, sfera d’appartenenza è propedeutica alla trasposizione del piano di concretezza guadagnato dall’Ego congiunto in unità vivente ai propri Erlebnisse – mediante l’attualità e la potenzialità dei propri atti – ad ogni alter ego che sperimenta i propri personali vissuti. Una tale analogica trasposizione comporta il necessario passaggio dall’immanenza dell’Ego alla trascendenza dell’altro. L’alter ego assume, dunque, non soltanto i caratteri di un fenomeno offerto alla mia coscienza, ma rappresenta un’altra prospettiva sul mondo, una coscienza simmetrica alla mia, fulcro – a sua volta – di uno squarcio fenomenologico sul mondo, dove i modi ontico-noematici dell’altro divengono guide trascendentali per la teoria costitutiva dell’esperienza dell’estraneo.
Attraverso la «seconda riduzione», per pervenire – in risposta all’obiezione solipsistica – alla scoperta della sfera trascendentale dell’essere come intersoggettività monadologica, riconoscendo la presenza di «altri» nel mondo in quanto essi stessi soggetti di questo mondo, si finisce per liberare astrattivamente la sfera del mio orizzonte di esperienza da ogni forma di «estraneità». Da tale passaggio dovrebbe scaturire l’acquisizione per ogni sé di una propria coscienzialità, che sperimenti i propri personali vissuti in assoluta originarietà.
Tuttavia, l’attribuzione di uno statuto coscienziale al non-io, all’altro-sé, quale preludio alla costituzione comunitaria di un mondo oggettivamente co-determinabile, si compie sempre ancora al di dentro della mia egoità, della mia personale, privata astrazione costitutiva: in questo senso, la comunità intersoggettiva, nella costituzione del mondo oggettivo, passa di necessità attraverso la sfera egologica dell’Io da cui la stessa costituzione dipende. Il solipsismo, ovvero il considerarsi dell’Io come solus ipse prima di venire a contatto con l’alterità, viene così a dileguarsi lasciando il posto a una monadologia che – di fatto – però non muta il principio fondamentale secondo il quale ciò che è per-me può acquisire il suo senso ontico solo ed esclusivamente da me e dalla mia sfera di coscienza.
In quanto trascendentalmente atteggiato io cerco innanzitutto di delimitare la sfera del «mio-proprio» al di dentro del mio orizzonte trascendentale di esperienza. È la sfera del «non-estraneo». […] È ora proprio del fenomeno trascendentale «mondo», che questo sia dato direttamente in esperienza concordante ed è così che si tratta […] di fare attenzione al modo in cui si presenta l’estraneità nel determinare il senso ed intanto di escluderla astrattivamente. In tal modo noi astraiamo dapprima da ciò che dà all’uomo ed agli animali il loro senso specifico come essenza vivente […] del genere dell’io; successivamente astraiamo da tutte le determinazioni del mondo fenomenale che per il loro senso rimandano ad 'altri' come soggetti-io e quindi li presuppongono. […] Potremmo […] dire anche che noi astraiamo da tutte le spiritualità estranee come da ciò che produce il senso specifico di tutta l’estraneità che è qui in questione.28
Solo astraendo completamente dalla mia sfera d’appartenenza ciò che la mia costituzione trascendentale mi dà come estraneo, raggiungendo l’assoluta prossimità con me stesso, in unità vivente al mio corpo, l’altro potrà costituirsi realmente come tale e avere accesso alla mia primordinalità assoluta. La reciproca esclusione dalla propria sfera privata si configura come la paradossale condizione di possibilità dell’esperienza dell’estraneità, il senso pieno del nostro comune fondamento privato e intersoggettivo: l’inaccessibilità dell’irriducibile individualità dell’alter, così come del proprio, è, cioè, garante della sua validità, nonché della nostra reciproca vitalità.
Ora, il ricorso al Leib quale mediatore indispensabile all’acquisizione dell’esistenza dell’estraneità, vincolo insormontabile all’assunzione di un mondo intercomunitario, di una natura oggettiva determinabile dalla comunità intersoggettiva, sembra però esibire l’inefficacia di una profonda, intuitiva, immediata interazione tra individui costruita empaticamente. La necessità della mediazione corporea sembrerebbe in effetti compromettere la possibilità del venire ad essere di un processo epistemologico di costituzione autentica e soggiacere, piuttosto, a un’idea di intersoggettività declinata nella forma di una intercorporeità. Se il Leib costituisce la concretizzazione delle unità percettivo-sensoriali del soggetto, la polarizzazione dei processi volitivi dell’individuo, facoltà orientante – nello spazio e nel tempo – la possibilità concreta dell’azione, allora il radicamento dell’Io nel cogito abbisogna dell’estrinsecazione nella vita fungente mediante il corpo in quanto fulcro di una soggettività concreta e agente. «La mia mano mossa spontaneamente e immediatamente, spinge, afferra, solleva, ecc. Le cose meramente materiali possono essere mosse solo meccanicamente, […] solo i corpi vivi possono essere mossi spontaneamente e immediatamente (“liberamente”), e cioè attraverso l’io libero e la propria volontà che al corpo vivo ineriscono».29 La soggettività individuale si costituisce, dunque, nell’intreccio tra libertà motivazionale (atti volitivi) e corpo proprio vivente, e non come in una relazione di causa-effetto, bensì attraverso l’incarnazione della volontà personale nell’intenzionalità fungente. L’unità comprensiva di corpo e spirito, azioni e volizioni, rende possibile – mediante la «riduzione primordinale», la costituzione di un mondo egoistico quale nucleo essenziale di quello comunicativo, in cui l’espressività è la chiave per l’apertura alla comprensione dell’alter e lo slancio all’interazione tra i vari io monadici.
Ebbene, se mediante l’epoché, si era giunti dalla pluralità ingenuamente presupposta dei soggetti nel mondo alla monadica solitudine della coscienza costituente il mondo, il compimento trascendentale del procedimento riduzionistico – nella risoluzione della molteplicità nell’unità intenzionale, implicando una condivisione valoriale in relazione all’oggetto fondato, a comprovare la sua onnivalidità – vira quasi naturalmente all’articolazione intersoggettiva della costituzione «oggettiva» del mondo spirituale. Il rimando alla dimensione intersoggettiva, come punto di approdo tanto del movimento teleologico della fenomenologia quanto della stessa costituzione trascendentale della «cosa in sé», emerge sin dalle ultime considerazioni esplicitate nel I volume di Idee. Seguiamo Husserl nel suo argomentare:
Ogni grado, e ogni strato di ogni grado, è caratterizzato dal fatto che esso costituisce una particolare unità, che a sua volta è un necessario membro mediano per la piena costituzione della cosa. Se prendiamo ad esempio il grado della costituzione semplicemente percettiva della cosa, il cui correlato è la cosa sensibile provvista delle qualità sensibili, ci riferiamo ad un’unica corrente di coscienza, alle possibili percezioni di un unico io percipiente. Troviamo qui stati d’unità di specie diversa, di schemi sensuali, le «cose visibili» di ordine superiore e inferiore, che devono in quest’ordine venir perfettamente rilevate e studiate nella loro costituzione noetico-noematica, tanto singolarmente che in connessione. Negli strati di questo grado troviamo superiormente la cosa sostanziale-causale, che è già un’unità in senso specifico, ma sempre ancora costitutivamente legata ad un soggetto esperiente ed alle sue molteplicità ideali di percezione. Il grado immediatamente sovrastante è la cosa intersoggettivamente identica, cioè un’unità costitutiva di ordine superiore. La sua costituzione è relativa ad un’aperta pluralità di soggetti che stanno tra loro nel rapporto dell’«accordo».30
Come potrebbe, infatti, acquisire oggettività una natura posta da una soggettività fungente se non mediante la comunicazione e la comprensione tra soggetti costituenti il medesimo mondo?
Il mondo intersoggettivo è il correlato dell’esperienza intersoggettiva, cioè di quella resa possibile dall’entropatia. Il che ci rimanda alle molteplici unità-di-senso-delle-cose già individualmente costituite dai molti soggetti; e successivamente alle corrispondenti molteplicità di percezione, appartenenti cioè ai diversi io e alle diverse correnti di coscienza; ma anzitutto ci rimanda all’elemento nuovo della entropatia e solleva pertanto la questione di come essa abbia un ruolo costitutivo nell’esperienza «oggettiva» e dia unità a quelle molteplicità separate.31
Ora però, in che modo la soggettività altrui assume validità oggettiva se non a partire da me? Ovvero: se l’oggettività richiede una costituzione che sia fondata intersoggettivamente, non è pur vero che la stessa oggettività degli altri deve essere fondata in quanto oggettività degli altri? E non è forse vero che una tale oggettivazione non può essere compiuta se non a partire dal mio Io, che solo si dà in assoluta evidenza «nell’originale», in «carne ed ossa»? Se, invero, comprendere una cosa «nell’originale» vuol dire coglierne tanto l’essenza quanto l’esistenza, vale a dire assumerla nell’esatta maniera in cui la sua stessa essenza esige di essere assunta – non già diversamente – nell’immanenza intenzionale di una percezione continua e perdurante, ciò può compiersi solo e unicamente nella misura in cui l’oggetto d’intenzione e l’atto intenzionale appartengono alla medesima corrente di coscienza.
Ritorniamo, dunque, sempre all’Io. Ci ritroviamo, allora, in un circolo vizioso. In altri termini, se una conoscenza «chiara e distinta» implica che la cosa si dia assolutamente «nell’originale» e sia colta eideticamente in un’intuizione diretta in assoluta originarietà, nell’immediatezza dell’atto di vita coscienziale – dal momento che il soggetto estraneo, che si dà in unità al corpo proprio vivente nella forma della localizzazione spaziale, viene percepito indirettamente, ovvero come un dato spazio-temporalmente definibile all’interno di un mondo naturale – esso ci è dato solo trascendentalmente, in quanto parte della natura, realizzando una peculiare forma di trascendenza.
In tale prospettiva, l’incontro con l’altro altro non ha se non la funzione meramente «tecnica» di coadiuvarci nella fuoriuscita dal fiume in piena del solipsismo, per ormeggiare in direzione di una monadologia che – di fatto – però non sembra riuscire nell’impresa di scavalcare gli ingombranti residui egologici delle operazioni costitutive del singolo soggetto. Del resto, Husserl lo aveva posto in premessa: il senso ultimo dell’intangibilità della sfera dell’«originariamente proprio» di ciascun individuo, di ogni esistenza singolare, risponde all’esigenza di riconoscere l’altro come effettivamente altro. Un’accessibilità diretta, totale alla profondità più recondita dell’intimità altrui comporterebbe la dissoluzione di ogni forma di differenziazione tra i soggetti, pertanto io e l’altro finiremmo per essere un’unica e medesima cosa.
Tuttavia, una siffatta considerazione dell’esperienza enteropatica consente realmente di «penetrare» negli abissi più profondi dell’intimità psicofisica dell’«estraneo», raggirando la naturale tendenza dell’Io a obiettivarlo in quanto contenuto di coscienza? In questa dinamica, cioè, la dimensione intermonadologica acquisita comporta davvero la possibilità di coniugare un’interazione ferace tra l’Io e l’Alter con l’assoluta irriducibilità di ciascuno? di stabilire – cioè – una relazione bilaterale (o pluridimensionale) tra individui scongiurando, al contempo, il profilarsi di un’autoesplicazione solipsistica? O piuttosto, con queste premesse, il meccanismo sembra «incepparsi» e produrre un indefinito gioco di rimandi e duplicazioni? Dovremmo, anzitutto, riuscire a comprendere in cosa consista quella particolare disposizione che consente al soggetto di cogliere intimamente un’esperienza «estranea», di partecipare, cioè, al vissuto altrui e in che modo possa realizzarsi quella convergenza tra i due poli che si attui nella dialettica appartenenza/estraneità, che confluisca nel raggiungimento di una associazione comunitaria di soggetti non più irrelati ma interagenti.
8. Edith Stein: empatia come atto di coscienza 'sui generis'
«Il mondo percepito e quello dato in maniera empatica sono il medesimo mondo dato in modo diverso. Ma qui non si tratta solo del medesimo mondo visto da lati diversi. […] È vero che il passaggio dalla mia posizione a un’altra si attua allo stesso modo, ma è pure vero che la nuova posizione non prende il posto della vecchia, ed io simultaneamente le tengo ferme entrambe».32 In questo passo del saggio di Edith Stein Il problema dell’empatia il senso specifico del fenomeno dell’«esperienza dell’estraneo» portata a datità si definisce con grande chiarezza. L’evoluzione dell’evento attraverso cui «mi approprio» dell’esperienza altrui avviene innanzitutto con l’emersione di un particolare vissuto, durante la quale esso mi è davanti come oggetto, come quando, ad esempio, dall’espressione del volto di un amico percepisco il suo stato d’animo. Nel momento in cui tale vissuto viene esplicato si compie una sorta di riempimento per cui nell’atto di portare a datità il sentire altrui, questo cessa di essere oggetto in senso stretto, poiché, immedesimandomi in esso, ne sono stato in qualche modo catturato, coinvolto e – pertanto – rivolgendomi intenzionalmente al suo oggetto, ne sono diventato il soggetto: “sono presso” di esso.33 Solo a seguito dell’attuazione del vissuto esplicitato questo torna dinanzi a me come oggetto, ovvero recupero una certa distanza tra me e il vissuto stesso, dunque tra il mio io e l’oggetto di esperienza, arricchita però dalla consapevolezza guadagnata al livello precedente. Ora però, malgrado vi sia in questo processo una continuità di vissuti, i soggetti restano reciprocamente separati, l’uno in quanto soggetto del vissuto empatizzato, l’altro come soggetto empatizzante.
Mentre io vivo quella gioia che è provata da un altro, non avverto alcuna gioia originaria: essa non scaturisce in maniera viva dal mio Io, né ha il carattere di essere stata viva in precedenza come la gioia ricordata, tantomeno essa è meramente fantasticata, priva cioè di una reale vita, ma è precisamente l’altro soggetto quello che prova in maniera viva l’originarietà, sebbene io non viva tale originarietà; la sua gioia che scaturisce da lui è originaria, sebbene io non la viva come originaria. Nella mia esperienza vissuta non-originaria, io mi sento accompagnato da un’esperienza vissuta originaria, la quale non è stata vissuta da me, eppure si annunzia a me, manifestandosi nella mia esperienza vissuta non originaria. In tal modo noi perveniamo per mezzo dell’empatia ad una specie di atti esperenziali sui generis.34
Attraverso questo peculiare processo, l’Io partecipa della vita psichica dell’altro. Una tale partecipazione, però, non implica l’acquisizione dell’originarietà del vissuto: esso appartiene al soggetto dal quale sgorga e il riempimento delle tendenze implicite che comporta il terzo livello del processo empatico, lungi dal tradursi nel passaggio dall’esperienza vissuta non-originaria a quella originaria, conduce a un sapere relativo all’ esperienza vissuta dell’altro.
Se l’empatia va considerata in senso stretto nel modo in cui l’abbiamo definita, ossia come esperienza di una coscienza estranea, allora è empatia soltanto il vissuto non-originario, che manifesta un vissuto originario, mentre non lo è un vissuto originario e neppure quello «supposto».35
La Stein, cioè, esclude l’identificazione di un Io con un altro Io,36 propria del co-sentire, vale a dire di un vissuto egualmente originario in entrambi i soggetti (gioiamo insieme e del medesimo avvenimento), ma insiste sul carattere di non-originarietà dell’esperienza empatica in quanto non-originario è il suo contenuto, malgrado originaria sia la sua esperienza attuale, tanto che l’atto empatico non implica necessariamente l’insorgere originario nel soggetto empatizzante di sentimenti corrispondenti a quelli empatizzati: io posso percepire pienamente il sentimento dell’altro circa un determinato avvenimento, immedesimarmici e assimilarlo pur non provando il medesimo sentimento.37 Allo stesso modo in cui posso giungere ad assorbire lo stesso grado di intensità di un particolare vissuto, conservando singolarmente l’ «Io» e il «Tu» come soggetti separati che esperiscono uno stato identico.
Presupposto imprescindibile per l’acquisizione fenomenica del vissuto em-patico è, cioè, la com-presenza dei soggetti in un medesimo atto in cui l’uno sperimenta il sentimento in modo originario, l’altro in maniera non-originaria:38 «ogni vissuto […] è essenzialmente il vissuto di un Io ed ogni vissuto da un punto di vista fenomenico è, in modo assoluto, inscindibile dall’Io».39 Inoltre, empatizzando compio un’apprensione assiologica ascrivendo in un tutt’uno intelligibile una visione riempiente che consente di apportare contributi significativi alla costituzione del mio stesso Io. La conoscenza della personalità estranea assume, cioè, un valore anche rispetto all’«autoconoscenza» in quanto può portare a sviluppo strutture personali sopite, o non ancora esplicitate: «Il fatto di vivere un valore è fondante rispetto al proprio valore. In tal modo, con i nuovi valori acquisiti per mezzo dell’empatia, lo sguardo si dischiude simultaneamente sui valori sconosciuti della propria persona».40 La conoscenza dell’altro, quindi, può aprire la strada – oltre che a un’esperienza comune – a una maggiore comprensione di sé in quanto persona spirituale libera in cui conoscenza e volontà si trovano in un rapporto di reciproca dipendenza.
Spiritualità personale significa vigilanza e apertura. Non solo io sono, non solo vivo, ma sono consapevole del mio essere e del mio vivere. E tutto in un unico atto. La forma originaria del sapere, propria dell’essere e della vita spirituale, non è quella di un sapere a posteriori, riflessivo, in cui la vita diventa oggetto di sapere, ma è come una luce da cui la vita spirituale come tale viene illuminata. La vita spirituale è anche un sapere originario circa l’altro da sé. Ciò vuol dire essere nelle altre cose, guardare dentro un mondo che sta di fronte alla persona. La coscienza di sé è apertura verso l’interno. La coscienza dell’altro è apertura verso l’esterno.41
Nella complessa struttura della vita psichica specifica dell’essere umano il movimento intenzionale di orientamento verso l’oggetto che gli è proprio si articola secondo tre elementi: l’Io rivolto a un oggetto, l’oggetto intenzionato e l’atto attraverso il quale l’Io si propende in direzione dell’oggetto. Con la sua vita intenzionale l’Io ordina il materiale sensibile che gli è di fronte conferendogli una forma e può, altresì, voltarsi indietro e riflettere sugli atti intenzionali della propria stessa vita spirituale secondo l’esercizio della libera volontà: per l’Io libero che si pone degli scopi e, agendo, li realizza, volere e agire, potere e dovere sono – cioè – intimamente connessi in maniera funzionale. Egualmente, conoscenza di sé e conoscenza dell’altro sono congiunte da una reciproca implicazione: esiste una «spazialità interiore» entro la quale si sviluppa una struttura personale. A seconda del grado di «superficialità» o «profondità» dei propri atti, liberamente attualizzati, l’Io trova il suo «luogo», il suo spazio proprio nell’anima.
Non ci può essere un’anima senza l’ io. […] Tuttavia, un io umano deve essere anche un io che ha l’anima, non può esistere senza anima […]. A seconda degli atti in cui, di volta in volta, l’io vive, esso occupa una posizione nell’anima.42
Ciò nondimeno, la vita attuale dell’anima, che ci diviene accessibile mediante le sue manifestazioni, costituisce la via d’accesso privilegiata alla conoscenza della natura dell’altro. Così:
L’essere umano è un essere costituito di corpo vivente e anima, ma essi assumono in lui una forma personale. Ciò significa che in lui dimora un io, che è cosciente di se stesso e che volge lo sguardo ad un mondo vivente e all’anima. Un io che vive a partire dalla sua anima e che, attraverso la struttura essenziale dell’anima, prima e accanto alla formazione volontaria di se stesso, dà spiritualmente forma alla vita attuale e all’essere psico-fisico permanente.43
L’unica condizione di possibilità del verificarsi dell’atto empatico è lo stabilirsi di una connessione essenziale, analogica, tra il mio essere e quello dell’altro. Una tale corrispondenza può avvenire secondo diversi livelli di vicinanza – essendo gli esseri viventi, almeno corporeamente, simili tra loro – ma il massimo grado dell’attuazione del vissuto empatico può verificarsi solo tra typos umani: soltanto chi ha potuto sperimentare completamente e massimamente l’esperienza di sé in quanto persona, il senso della totalità del proprio essere, potrà vivere empaticamente il sentire altrui, senza restare imbrigliato nelle maglie della propria particolarità, di un’individualità scevra dalla contestualizzazione in uno spazio e un tempo condivisibili e comunicanti. È, cioè, solo attraverso l’ottenimento di una piena cognizione di sé che l’altro diviene comprensibile e i suoi stati d’animo accessibili, nella stessa misura in cui – con l’atto stesso del cogliere il vissuto altrui – il mio io diviene integralmente cosciente di sé, del proprio valore o disvalore. Attraverso l’Erfühlen dell’altro, l’analogicizzazione tra soggetti umani, giungono – cioè – a datità campi di valori precedentemente a noi preclusi e si realizza il compimento di quell’«atto d’amore» consistente nel riconoscere l’alter «così com’è» e nell’«afferrare» il suo valore in quanto persona. Se, da un lato, un tale processo non si risolve in una «fusione» de-assolutizzante, conserva – cioè – l’individualità del singolo, in connessione con l’alter; dall’altro il riconoscimento del «simile» e, al contempo, la comprensione del «non-identico» consentono di liberarsi dalla «gabbia» limitante della propria unicità, accogliendo la «diversità» come risorsa offerta in dono.
Tuttavia, se in Husserl la costituzione trascendentale presuppone una già avvenuta costituzione immanente, allora la radicalizzazione dell’attività costitutiva della coscienza immanente riduce il trascendente, l’altro, a riflesso speculare di sé. La trascendenza immanente finisce, cioè, per declinare l’intersoggettività sempre ancora nella forma di una intrasoggettività, “in questo ripetersi sempre diverso, eppure identico, dell’Io”.44 Ovvero, malgrado l’altro venga presentato da Husserl come necessitante in relazione a una comprensione di sé di grado superiore, di fatto esso resta sempre e solo analogon del proprio sé, un esterno ancora interno al mio Io originario. Il confine tra l’Io e l’Alter è, allora, labile. La dialettica intersoggettiva non si realizza nella forma di un rapporto di riconoscimento nella differenziazione. La rifrazione è pregiudicata dal mancato abbandono del centro egologico nel raggiungimento dell’altro: le monadi husserliane hanno «finestre» che affacciano su uno specchio d’acqua.
9. Lo specchio-altri: la tematica dello sguardo in J.-P. Sartre
«Abbiamo potuto chiamare emorragia interna il deflusso del mio mondo verso altri-oggetto: infatti il deflusso era trattenuto e localizzato, per il fatto stesso che io fissavo in oggetto del mio mondo quell’altro, verso il quale il mondo scorreva; così neanche una goccia di sangue andava perduta, ognuna di esse era recuperata, individuata, localizzata, benché in un essere che non potevo penetrare. Qui, invece, la fuga è senza termine, si perde nell’esteriorità, il mondo fluisce fuori dal mondo e io fluisco fuori da me».45 Nell’opera di Jean-Paul Sartre –46 dalla quale questo passo è tratto – la tematica dell’alterità assume dei connotati diametralmente opposti: quelli di un «infernale», insuperabile incomprensibilità tra esseri umani, al punto da fare dell’altro colui rispetto al quale mi sento espropriato del senso proprio del mio essere: «Quale io appaio all’altro, tale io sono».47
Il primo incontro con l’altro si instanzia ancora sul terreno della relazione soggetto-oggetto: l’altro mi appare in prima istanza ancora nella sua oggettità, come inserito nel mio sistema di relazioni e valori. È un altro-oggetto che io colgo come parte di un mondo che ha assunto il suo senso dal mio io che, per il fatto stesso di essere, esclude l’altro. Io lo guardo e lo percepisco come oggetto tra gli oggetti, immerso in un universo che io ho posto, con i miei valori e i miei significati: l’«emorragia» si arresta nella «fissazione» dell’altro nel mio universo significante, coagulata perché ancora introiettata. E, tuttavia, lo sguardo dell’altro mi rivela che io stesso posso esser visto da lui e – dunque – svuotato della mia soggettività divenendo puro oggetto. Guardandomi, l’altro compie una disintegrazione delle mie relazioni col mondo. In esso vengono ora a dispiegarsi le distanze che l’altro stabilisce, e rispetto alle quali io divento oggetto tra gli oggetti di un universo in cui non posso più darmi come unica e assoluta individualità, come isolata e solipsistica libertà. Così:
L’apparizione tra gli oggetti del mio universo di un elemento di disintegrazione di questo universo, è ciò che io chiamo l’apparizione di un uomo nel mio universo. Altri, dunque, è prima di tutto la fuga continua delle cose verso un termine che colgo come oggetto ad una certa distanza da me, ed insieme mi sfugge in quanto distende intorno a sé le proprie distanze.48
L’epifania dell’altro comporta, allora, lo scivolamento del mio sistema di relazioni e il decentrarsi della mia posizione privilegiata in rapporto all’universo di significazione che ho definito, in cui non ho più un ruolo centripeto: sono oggetto-per-altri.49 L’esser visto da altri implica il riconoscere l’altro come soggetto oggettivante, «padrone» di un mondo nel quale il mio Io è ridotto a «schiavo». Ma Sartre va oltre: la relazione per-sé/per-altri è sempre comunque destinata allo scacco a causa della costitutiva negatività che abita la coscienza e che attiene alla sua stessa struttura ontologica. Se per la Stein l’esperienza dell’altro ci consente di approdare a una vera e propria conoscenza del soggetto estraneo, nonché di ottenere una maggiore consapevolezza di sé, per Sartre, il per-sé – in quanto è ciò che non è e non è ciò che è – nel suo tentativo di ottenere il modo d’essere dell’in-sé senza perdere il proprio modo d’essere, la sua peculiare natura, fallisce inesorabilmente. L’alienazione di me che comporta l’esser-guardato implica, contestualmente, l’alienazione del mio mondo, che defluisce e scorre verso l’altro. Ma non solo: l’altro possiede un’arma puntata su di me. Col suo sguardo coglie di me ciò che mi manca per completarmi, il mio essere-in-sé, la cui conoscenza mi è sempre incontrovertibilmente interdetta.
Altri è la morte nascosta delle mie possibilità in quanto vivo questa morte come nascosta in mezzo al mondo. […] È insieme l’oscurità dell’angolo buio e la mia possibilità di rifugiarmici […] quando, prima che io abbia potuto fare un gesto per rifugiarmici, rischiara l’angolo con la sua lampadina.50
È in tal senso che interpretiamo l’insopprimibile senso di inquietudine e frustrazione dell’uomo sartriano, icasticamente compendiato dalla celebre espressione «l’ enfer c’est les autres!51». Gli altri sono il nostro inferno, guardandoci ci trascendono fino a giungere negli abissi più remoti della nostra interiorità, al segreto della nostra verità: «Io per me sono un puro rinvio ad altri».52 La tendenza a sfuggirmi che io sono la leggo nello sguardo dell’altro, attraverso il quale «io mi vivo come fissato in mezzo al mondo, come in pericolo, come irrimediabile».53 Una volta guardato e oggettivato, «la mia possibilità di rifugiarmi nell’angolo diventa ciò che l’altro può superare verso la propria possibilità di smascherarmi».54 Condizione disperata, poiché l’affacciarsi dell’altro nel mio universo provoca un’inevitabile incontro-scontro che però, di fatto, si rivela inconcludente. L’insuperabilità dello sguardo si risolve, allora, nell’incomunicabilità tra esseri umani. È in questi termini che si esprime Aldo Masullo:
Sartre, volendo sfuggire al purgatorio senza potersi salvare in un paradiso di nulla, una volta negata l’idealistica prospettiva della società perfetta, prospettiva infinita e mai quindi raggiungibile ma sempre orientante l’approssimazione ad essa, non può che restar prigioniero di un’intersoggettività ridotta ormai ad inferno: la mia finitudine è chiusa nella particolarità così rigidamente che gli altri ci sono, accanto a me, ma io non posso né potrò mai comunicare con loro, loro ed io condannati ad opprimerci scambievolmente con le nostre mere presenze senza capirci.55
Eppure: «Senza dubbio io sento che l’oggetto-altri si rapporta a me con delle intenzioni e degli atti, ma per il fatto stesso che è oggetto, lo specchio-altri si oscura e non riflette più niente».56 L’analisi sartriana mette dunque in luce come la dialettica sé-altro risulti inconcludente in quanto viene meno la sua stessa condizione di possibilità: l’infrangibilità del binomio soggetto-oggetto, in cui l’altro resta sempre altro-oggetto per-me, alla stessa stregua in cui io resto ancora oggetto per-l’altro, interdice ogni armonica conciliazione e ogni possibile cooperazione. Il decentramento del sé, reificato in quanto intenzionato dall’altro, la sua conseguente trasposizione sul piano cosale, meramente oggettuale, impedisce la condivisione di un piano d’azione e – pertanto – la relazione. Non può verificarsi, in questi termini, alcuna simultaneità di vissuti tra trascendenze-trascendenti. L’unica condizione esperibile è quella di riconoscersi vicendevolmente come trascendenze-trascese. Infattibile, con queste premesse, l’attualizzazione di un «Noi», di un essere-con-l’altro: l’esperienza si riduce a un invalicabile essere-per-l’altro. La potenzialità di una interazione realmente feconda, attuale, autentica viene risucchiata nel vortice impenetrabile dell’Ego, scudo alla reciprocità, allo scambio, alla compartecipazione. Non vi è più dialettica, ma opposizione. Inaggirabile l’ostacolo ontico alla comunicazione in un claustrofobico «inferno» senza via di scampo.
10. L’Einfühlung: il mondo intersoggettivo come correlato dell’esperienza dell’altro
Per lo stesso Husserl, d’altro canto, sullo sfondo della mia percezione spaziale l’altro non può che essere appercepito indirettamente e parzialmente attraverso l’Appräsentation. In questo senso, la mediazione dell’Einfühlung assume il ruolo decisivo di «facilitare» il riconoscimento del mio Leib nella sua interezza, nel suo senso oggettivo ottenebrato dalla mia carenza autopercettiva unilateralmente adombrata: Il processo empatico sembrerebbe, cioè, necessario al superamento di una modalità percettiva adombrante, mediante la quale l’altro verrebbe colto alla stregua di un qualunque oggetto materiale posto al di dentro del mio campo d’azione. Dunque, anche per Husserl l’altro ha il valore fondamentale di cogliere il mio Io nella sua interezza e non attraverso una serie di visioni prospettiche. La visione esaustiva del mio corpo nella sua completezza è accessibile solo all’altro, a sua volta incapace di autopercepirsi integralmente – in mancanza di una tale analogicizzazione – attualizzabile mediante il riconoscimento dell’appartenenza a un mondo percettivo comune. Tuttavia, la necessità di presentare un modello extra-coscienziale e, pertanto, extra-fenomenologico, non significa – di fatto – negare la validità dello statuto eidetico e, pertanto, dello stesso procedimento fenomenologico? Husserl ne dichiara espressamente la problematicità:
Tutto si complica, appena rileviamo che la soggettività è ciò che è, cioè un io costitutivamente fungente, soltanto nell’intersoggettività. […] L’intersoggettività universale in cui si risolve tutta l’obiettività, tutto ciò che è in generale, non può essere che l’umanità, la quale, a sua volta, è innegabilmente una parte del mondo. Ma come può una struttura parziale del mondo, la soggettività umana del mondo, costituire l’intero mondo, costituirlo quale sua formazione intenzionale? – Il mondo: una formazione che è già sempre divenuta e che continuamente diviene, una formazione della connessione universale della soggettività trascendentale operante – ma i soggetti che operano in comune come possono essere soltanto fattori parziali della loro operazione totale?57
Il complesso problema dei soggetti, la possibilità di pensare contestualmente Ego e pluridimensionalità intermonadologica, risulta – allora – essenziale per conferire allo stesso io un’attività fattivamente fungente, ma – al contempo – rimanda inesorabilmente all’ irriducibile individualità del singolo.
L’intersoggettività trascendentale ha con questa formazione di comunità una sfera d’intersoggettività, in cui si costituisce intersoggettivamente il mondo oggettivo, di modo che come noi trascendentale essa è già soggettività per il mondo e anche per il mondo umano, forma nella quale l’intersoggettività ha già realizzato sé stessa oggettivamente.58
La radicalità astrattiva della «riduzione primordinale» della quinta Meditazione, che anticipa l’apertura alla dimensione fenomenologica dell’intersoggettività, è funzionale alla de-assolutizzazione del singolo: l’appropriazione dell’esperienza dell’estraneo come comunità di io, di uomini psicofisici armonicamente interagenti, è configurata come la condizione di possibilità stessa del conferimento di un senso oggettivo al mondo spirituale. Tuttavia, l’esigenza di dover raggiungere prima il senso personale, privato, individuale del mondo per poter poi guadagnare quello del mondo interpersonale, finisce per mettere in luce la caratteristica essenziale, assolutamente personale, dell’esistenza individuale. La possibilità di una scambievolezza intenzionale, diretta, comunitaria, preludio a una dinamica corrispondenza in un unico e identico mondo in cui i singoli soggetti partecipano attivamente alla messa in essere di un’oggettività condivisa, in forza della quale ciò che prima era in sé estraneo diviene ora l’altro-io, è messa alle porte dal senso insormontabile, sconfinato, impenetrabile del mio essere temporale nel mondo. L’assoluta priorità dell’«originariamente proprio» nella nostra sfera egologica resta ancora l’intangibile, esclusiva garante dell’oggettività del mondo.
Seppure Husserl si premura di far emergere la necessità dell’integrazione intersoggettiva, della comunicazione tra i diversi universi monadologici, in ultima analisi sembra che l’orizzonte dell’Ego, nel suo nucleo di inviolabilità, resti insuperabile. I vari Io trascendentali, in quanto co-soggetti dell’intersoggettività trascendentale, rimandano sempre all’Io originario:
Sono io che attuo l’epoché, anche quando con me ci sono gli altri, altri uomini che operano con me l’epoché in una comunità attuale; perciò con la mia epoché tutti gli altri uomini, e la vita di tutti i loro atti, rientrano nel fenomeno del mondo che, nella mia epoché, è esclusivamente mio. L’epoché crea una singolare solitudine filosofica, che è l’esigenza metodica fondamentale di una filosofia realmente radicale. […] L’intersoggettività trascendentale e il suo accomunarsi trascendentale possono venir rilevati soltanto a partire dall’ego, dalla sistematica delle sue funzioni e delle sue operazioni trascendentali, nelle quali, sulla base del sistema fungente dei poli egologici si costituisce per ogni soggetto il 'mondo per tutti' in quanto mondo per tutti.59
Ora, se per la Stein l’atto empatico si risolve in termini propositivi, risolutivi, di un rapporto in sé proficuo e arricchente tra io e tu, in Sartre esso si estrinseca nell’espressione drammatica e conflittuale, escludente ogni armonica possibilità di coincidenza e pacificazione, dell’irrisolta e sempre inattuabile convergenza tra sé e l’altro. Ma dove collocare a questo punto la posizione husserliana?
11. Il “mondo dello Spirito” e il recupero della dimensione intersoggettiva
È nel II volume di Idee che Husserl chiarifica il passaggio dall’analisi della natura «ad un altro campo dell’essere e della ricerca», che costituisce il varco verso il problema dello spirito e della sua costituzione.
I soggetti non possono risolversi in natura, perché allora mancherebbe ciò che conferisce senso alla natura. La natura è un campo di integrali relatività, e può essere tale perché esse sono sempre appunto relative a un assoluto, il quale perciò sostiene tutte le relatività: lo spirito.60
È in questa sede che si comprende come l’atteggiamento tipicamente umano, spontaneo e naturale, non sia in realtà l’ingenuo approccio «naturalistico», messo in parentesi al primo stadio dell’epoché, bensì l’«atteggiamento personalistico», in forza del quale il soggetto si scopre in una relazione fluente e creativa con un mondo che gli appartiene. Come acutamente illustra ancora Masullo:
La fenomenologia, epochizzando l’atteggiamento equivocamente «ingenuo», quell’atteggiamento cioè di cui sono espressioni anche le scienze naturali e la filosofia metafisica e la religione dommatica, e rintuzzandone l’ingiustificata credenza nell’in-sé, vuol ricondurre l’uomo al suo atteggiamento «naturale» ma questa volta nella sua originarietà, depurato di ogni mescolanza con le sovrastrutture prodotte dal fungere soggettivo, e che come oggettività non vanno affatto confuse con la soggettività che fluisce e produce.61
La fenomenologia si assume, perciò, il compito di ricondurre l’ingenua credenza nell’esperienza all’autentica intenzionalità fungente, rigettando ogni falso naturalismo per un pieno recupero di una razionalità critica, dove il «mondo dello spirito» diviene il campo della pura esperienza, svelata nella sua originaria e spontanea disposizione vitale, nell’unità intenzionale di correlazione a-priori tra soggetto e oggetto. Il «mondo dello spirito» è, allora, il mondo-della-vita-che-esperisce-il-mondo, vale a dire il mondo della vita intenzionale, che è un mondo che si pone in unità col flusso di vita dell’Io, nella spontaneità del suo trascendere intenzionale, «un mondo posto con un suo particolare statuto di senso attraverso i vissuti intenzionali del soggetto stesso»62 e – pertanto – costantemente aperto e diveniente.
Noi scopriamo gli altri in quanto soggetti proprio grazie alla loro appartenenza al medesimo mondo, solo in quanto rivolti intenzionalmente al mondo a cui co-apparteniamo: la comprensione dell’esserci dell’altro avviene mediante il suo esser-rivolto alle medesime oggettità cui noi stessi ci riferiamo e – altresì – non potremmo scoprirci come persone-per-altri se non appartenessimo a un comune mondo proprio nell’associazione comunitaria della nostra vita spirituale. Ora però, se pure attraverso la mediazione dell’Einfühlung perveniamo al mondo della «spiritualità comune», della soggettività sociale, non sembra tuttavia superata risolutivamente la dicotomia kantiana tra «esperienza interna» ed «esperienza esterna», proprio in quanto si dà esperienza puramente «interna» solo del proprio Io e del proprio vissuto coscienziale e – contestualmente – l’altro, che mi si dà trascendentalmente, non può esperire direttamente i miei Erlebnis in una forma immanente.
Inoltre, se ogni mio Erlebnis risulta indubitabilmente essente in forza della purezza fenomenologica delle cogitationes, la cui in-questionabilità è data dal loro darsi nella pura immanenza, allora il ricorso alla dimensione intersoggettiva è davvero imprescindibile per la costituzione di un «mondo oggettivo»? Pare, in realtà, che l’affrancamento dall’ipoteca solipsistica risulti essere – in una tale prospettiva – soltanto apparente. Se, cioè, Husserl fà della «natura» il relativo e dello «spirito» l’assoluto, e se nel «mondo dello spirito» che viene a costituirsi come mondo di soggetti, mondo intersoggettivo, la soggettività estranea si delinea ancora sempre come trascendenza rispetto all’immanenza della singola coscienza, sembra allora che lo stesso «mondo dello spirito» risulti costituito in ragione del suo essere trascendente per la singola coscienza trascendentale. Del resto, è lo stesso Husserl ad affermare che:
Se eliminiamo dal mondo tutti gli spiriti, non esiste più nemmeno una natura. Ma se cancelliamo la natura, la «vera» esistenza obiettivo-intersoggettiva, resta ancora sempre qualcosa: lo spirito come spirito individuale; va perduta soltanto la possibilità della socialità, la possibilità di una comprensione, la quale presuppone l’intersoggettività del corpo vivo.63
Va, inoltre, precisato che – essendo la «costituzione», come ci viene presentata nel II volume di Idee, funzione operante dell’«intenzionalità» – nella misura in cui essa è «contratta» nella forma dell’«intenzione», appare circoscritta nella funzione puramente scoprente e descrittiva dell’articolazione fenomenologica di un mondo di oggetti correlati a un soggetto; dove invece l’intenzionalità che si esplicita in quanto «atto creativo» di un mondo «umano» e «sociale» non è più limitata alla sua portata descrittiva, rischiarante il senso dell’oggetto di conoscenza, il suo eidos, ma assume valenza «costruttiva» per la creazione di una concreta storicità. Assistiamo, così, al passaggio da una considerazione logico-gnoseologica dell’atto intenzionale alla sua evoluzione in senso ontologico.
12. L’Io puro come centro funzionale degli atti nell’apparente superamento del solipsismo trascendentale
In Logica formale e trascendentale64 il requisito per la fondazione di una logica che escluda tanto il mero formalismo quanto lo psicologismo, implica il ricorso al piano trascendentale: è l’Io «ridotto», che esiste prima e fuori del mondo, prima del suo auto-costituirsi come «io mondano», in quanto è il fondamento tanto dell’«io mondano» quanto del mondo stesso, a con-tenere idealmente la trascendenza del mondo.
In tale contesto Husserl tenta di dimostrare che il solipsismo, proprio in quanto trascendentale e – pertanto – extra-mondano e pre-mondano, sia solo apparente. A noi sembra, piuttosto, che apparente sia il suo superamento. Cerchiamo di comprendere in che termini: se, afferma Husserl, l’Io trascendentale è, adesso, produttore e non più semplicemente disvelatore di ogni oggettività naturale, allora l’esistenza di ogni altro «io-mondano» viene a costituirsi non diversamente dal mio proprio «io-mondano», vale a dire sulla base di un’intenzionalità costituente. Pertanto, nell’auto-conversione del mio Io trascendentale nella sua forma mondana, l’individuazione di ulteriori io-mondani deve necessariamente presupporre il riconoscimento del loro rinvio a una soggettività trascendentale originaria e costituente: ogni intenzione particolare rinvia, cioè, a un’intenzionalità originaria e assoluta, come assoluto era considerato lo spirito in Idee II.
Tuttavia, se l’intenzionalità è la forza motrice di un movimento fondato su intenzioni che vengono a stratificarsi nel fluire vivente e diveniente della vita intenzionale stessa nella sua correlazione originaria con il mondo, e se il «mondo spirituale» è pur sempre subordinato e posposto rispetto alla costituzione del «mondo materiale» fatto di intenzioni, che implicano un’esperienza solipsistica, allora così come l’intenzionalità rimanda naturalmente alle intenzioni, allo stesso modo l’intersoggettività rimanda al solipsismo. Osserviamo quanto, a tale proposito, afferma Carlo Sini:
Il paradosso della soggettività di cui parla Husserl riprende in fondo il tema della inerenza reciproca tra parte e tutto […] ma ne offre un’impostazione che ne impedisce una totale risoluzione, come invece Husserl crede di fare nel par. 54 della Crisi. […] Husserl vuol metterci in guardia da filosofie che neghino il soggetto umano in nome dell’essere o di un’astratta categoria. Come filosofi, vuole ricordare Husserl, non dobbiamo obliare noi stessi in quanto uomini; di qui il richiamo alla prima persona, all’unico io fungente e indeclinabile.65
Inoltre, se anche potesse il mio Io trascendentale cogliere la soggettività altrui nell’originale, dovrebbe coglierla dall’interno, in un’esperienza puramente immanente, il che implicherebbe il risolversi della soggettività estranea alla mia sfera di appartenenza, dunque – ancora – al mio Io trascendentale. Non sembriamo – quindi – usciti dal circolo. Ci sembra di dover riconoscere, allora, che il rapporto tra me e l’altro non può che ridursi a un rapporto di tipo intenzionale, alla stregua della relazione che intercorre tra la coscienza e l’oggetto d’esperienza: l’intenzionalità dell’altro, che pure gli è riconosciuta, è cioè relativa sempre ancora alla mia soggettività costituente. Non riscontriamo, dunque, in questo senso, quella dialettica che per la Stein si realizza, nell’empatia, come dinamica fruttuosa e feconda tra sé e l’altro, tale da garantire una reciproca comprensione e uno scambievole arricchimento.
Non vi è, altresì, alcuna drammaticità nella constatazione dell’inattuabilità di un epilogo siffatto. Non vi è l’opposizione che ci investe, quasi travolgendoci, nella visione tragica e irrimediabile, inesorabile di quella «passione inutile» che è, infine, l’uomo sartiano, nel perpetuo vanificarsi di ogni suo sforzo verso il compimento del progetto originario di ricerca del proprio fondamento: un processo auto-appropriativo destinato, già in partenza, allo scacco. Ma se, come afferma Sartre, lo specchio-altri, ad un tratto, «si oscura e non riflette più niente», allora forse – infine – tale posizione e quella di Husserl risultano complementari: l’una conduce all’isolamento percettivo del sé, rischiarato dall’altro ma sempre oscuro a sé stesso; l’altra non produce che il riflesso, il rimando alla propria egoità essenziale: lo specchio d’acqua che a Narciso rimanda il suo riverbero, mentre Eco gli restituisce il suo lamento.
Il problema dell’intersoggettività appare, dunque – a nostro avviso – ancora insoluto e non destinato a ottenere nell’opera husserliana una giustificazione compiuta. Lo stesso Husserl, del resto, non presenta mai il metodo fenomenologico come un sistema dottrinale, assertivamente orientato verso una definizione conchiusa. Proprio in quanto metodo, e non apparato di teorie, la fenomenologia mai si ammanta della pretesa di pervenire a risultati compiutamente definiti né rigidamente strutturati.
L’epochè è l’atto di aprirsi alla vita, alla filosofia che si fa vita, nel suo continuo oltrepassarsi e superarsi, nel suo rifiuto di chiudersi in forme pre-determinate, la vita che si snoda in possibilità sempre nuove, che nega tutto ciò che si dà come già compiuto, come preventivamente organizzato. L’annichilimento del mondo già dato, e dunque non vivo, non diveniente, fatto di forme stereotipate, non comunicanti, è perciò necessario alla messa in essere di quel processo insito alla vita, che – proiettandosi nelle essenze – rende possibile la vita stessa. Respingendo ogni dogmatismo, ogni asserzione nozionistica e ogni irrigidimento in un sistema di forme chiuse, la fenomenologia consente di riscattare la dialettica interna al mondo-della-vita, al di fuori di ogni staticità morfologica, aprendosi all’intreccio di mondo e vita e affrancandosi dal vincolo dell’ovvietà.
Il pensiero non è né il soggetto né l’oggetto del filosofare. Soggetto e oggetto del filosofare è l’uomo, ed il pensiero non è che il mezzo singolarissimo, in forza del quale un soggetto diviene oggetto di sé e, ogni cosa trasfigurando attraverso questo suo divenire oggetto di sé, assurge alla pienezza dell’esser soggetto: da soggetto-di-vita si leva a soggetto-del-mondo.66
La Krisis si chiude col riferimento a uno «spirito immortale». È in tal modo che la ragione, fuoriuscendo dalla teoresi per addentrarsi nella praxis, si assume il compito di inserire il soggetto in un universo comunicante, uomo tra gli uomini, uomo nel mondo. Ma fondando l’oggettività sull’inter-soggettività, Husserl finisce per risolvere quest’ultima nella trascendentalità dell’Io. La conseguenza è che l’intersoggettività, le cui operazioni restano ancora puramente intenzionali, non convertite nella forma di un movimento reale, è ridotta a mero ideale, al di fuori della realtà, ipostasi dell’assoluto. La fenomenologia appare così «risucchiata» dalle sue stesse premesse.
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E.Husserl, Cartesianische Meditationen und pariser Vorträge, M. Nijhoff, Den Haag 1950, trad. it. di F. Costa Meditazioni cartesiane discorsi parigini, Bompiani, Milano 1989, pp. 147-8. ↩︎
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E. Husserl, Die Idee der Phänomenologie, Fünf Vorlesungen, 1907, trad. it L’idea della fenomenologia: 5 lezioni, a cura di E. Franzini, 2, Mondadori, Milano 1998, p. 124. (corsivo mio). ↩︎
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E. Husserl, Formale und transzendentale Logik. Versuchtein er Kritik der logiche Vernunft, Halle, 1929, trad. it. di G. D. Neri, Logica formale e logica trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, Laterza, Bari 1966, p. 293. ↩︎
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Su questo tema cfr. Roberta De Monticelli, Il dono dei vincoli, Garzanti, Milano 2018. Seguiamo quanto argomenta la filosofa: «Che ogni tipo di cose abbia un’essenza, cioè delle qualità senza le quali non sarebbe il tipo di cosa che è – come voi non sareste persone umane se non foste viventi almeno potenzialmente ragionevoli – è una tesi che la maggior parte dei filosofi del Novecento rigetta […]. Ma […] il rinnovamento di una vecchia idea a partire dalle sue fonti sempre vive è scoperta di aspetti nuovi, che le vecchie dottrine non contenevano affatto. Anche la ricerca sulle essenze diventa ricerca vera, che ci induce a considerare sempre nuovi aspetti delle cose». Ivi, p. 76. ↩︎
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E. Husserl, Cartesianische Meditationen und pariser Vorträge, trad. it. cit., pp. 8-9. ↩︎
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Ivi, p. 12. ↩︎
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Per una «riapertura» al problema dell’intersoggettività dell’«ultimo» Husserl, cfr. E. Filippini, Ego ed alter-ego nella «Krisis» di Husserl, in E. Paci, Omaggio a Husserl, Il Saggiatore, Milano 1960. ↩︎
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E. Husserl, Die Krisis der europäischen Wissenschaften und die transzendentale Phäenomenologie, trad. it. cit., p. 206. ↩︎
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E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution, Kluwer Academic Publishers B.V. 1952, trad. It. Di E. Filippini, a cura di V. Costa, Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, libro secondo, Ricerche fenomenologiche sopra la costituzione, Einaudi, Torino 1965 e 2002, p. 190 (il primo corsivo è mio, il secondo dell’autore). ↩︎
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Ivi, p. 286-7. ↩︎
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E. Paci, La filosofia e il mondo della vita, in La filosofia contemporanea, Garzanti, Milano 1957, p. 185. ↩︎
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E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, libro II, Phänomenologische Untersuchunger zur Konstitution, trad. it. cit., p. 197. ↩︎
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Ivi, p. 163. (corsivo mio). ↩︎
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E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, libro II, trad. it. cit., pp. 169-170 (corsivi miei). ↩︎
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E. Husserl, Ideen zu reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosphie, libro secondo, Phänomenologische Untersuchungen zur Konstitution, trad. it. cit., p. 164. ↩︎
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Ivi, p. 166. ↩︎
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Ivi, p. 168. ↩︎
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Ivi, p. 165. ↩︎
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Ivi, p. 166. ↩︎
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Idee II, p. 164. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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E. Husserl, Cartesianische Meditationen und pariser Vorträge, Quinta meditazione, trad. it. cit., p. 143(il primo corsivo è mio, il secondo dell’autore). ↩︎
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Ivi, p. 115 ↩︎
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Ivi, p. 147. ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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E. Husserl, Cartesianische Meditationen und pariser Vorträge, trad. it. cit., p. 145 (il primo corsivo è mio, il secondo di Husserl). ↩︎
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Ivi, p. 154. ↩︎
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E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, libro I, trad. it. cit., p. 338 (i corsivi sono miei). ↩︎
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Ivi, pp. 338-9. ↩︎
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E. Stein, Zum Problem der Einfühlung, Buchdruckerei des Waisenhauses, Halle 1917, trad. It. A cura di E. Costantini ed E. Schulze Costantini, Il Problema dell’empatia, Studium, Roma 1985, p. 157-8. ↩︎
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L’«essere presso» il vissuto altrui va inteso alla stregua del rivolgimento intenzionale all’oggetto di esperienza: non avviene, in tal senso, una fusione tra me e l’altro soggetto, nel senso che io posso partecipare del dolore altrui, così come della gioia, del fastidio, dell’imbarazzo, pur non provandoli a mia volta. Li avverto, ma ne resto a distanza nell’esperienza. Il fatto che io possa immedesimarmi nel vissuto altrui tanto da vivere la medesima emozione o sentimento, non implica altresì l’acquisizione originaria del vissuto altrui. Cioè: per quanto il vissuto estraneo sia per me «presente», io non lo «possiedo». ↩︎
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E. Stein, Zum Problem der Einfühlung, trad. it. cit., p. 79. ↩︎
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Ivi, p. 83-84. ↩︎
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In una tale contraddizione sembra cadere Theodor Lipps, il quale stabilisce un’unità tra l’Io estraneo e l’Io proprio, confondendo l’«unipatia», la quale – intesa in modo rigoroso – comporta l’identificazione dell’Io con il Tu, ovvero con il soggetto dell’esperienza originaria – grazie alla quale io ho esperienza del vissuto altrui come originariamente mio (il mio Io ne diviene soggetto) – con la partecipazione al sentire altrui, propria dell’esperienza empatica, in cui l’ Io e il Tu non si fondono in un «Noi», alla stregua di un soggetto di carattere superiore, ma l’Io empatizzante e l’Io empatizzato restano distinti, separati, pur co-partecipando ad un atto unitario in cui io prendo coscienza del sentimento dell’altro. In questo senso, il vissuto suscitato è il medesimo, ma diversa è la maniera di sentirlo. Così, il carattere di non-originarietà di me che faccio esperienza del vissuto altrui, dunque dell’Io che partecipa della gioia, del dolore, dell’emozione dell’altro, viene accostato all’originarietà del vissuto estreneo, che pur diventando anche mio, «nostro», è esperito sempre in modo non-originario: la gioia, il dolore non scaturiscono da me, ma ne faccio esperienza in quanto gioia e dolore dell’altro. Tra le opere da cui la Stein attinge per il confronto con la teoria lippsiana dell’empatia cfr. in particolare T. Lipps, Psychologische Studien, Lipsia 1885. ↩︎
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«Chi non ha mai guardato in faccia lui stesso un pericolo, può tuttavia, mediante la presentificazione empatizzante della situazione altrui, vivere se stesso come coraggioso o pusillanime. Al contrario non posso portarmi a riempimento ciò che si oppone alla mia propria struttura di vissuto, posso però averlo a datità al modo della vuota rappresentazione. Posso essere io stesso un miscredente e tuttavia capire che un altro sacrifichi tutto quel che possiede in beni terreni per la sua fede. Vedo che lui agisce in questo modo ed empatizzo un’apprensione assiologica, il cui correlato non mi è accessibile come motivazione per lui del suo agire, e gli ascrivo uno stato personale che io stesso non posseggo. Empatizzando riesco a capire il tipo dell’'homo religiosus' che mi è estraneo, e lo capisco, quantunque quel che là per me si presenta nuovo, rimarrà sempre non riempito. Se altri ancora impostano tutta la loro vita nel guadagno di beni materiali che io stimo poco […] allora io vedo che ad essi sono precluse le sfere superiori del valore in cui io volgo lo sguardo, e li capisco pure benché essi appartengano ad un altro tipo». E. Stein, Zum Problem der Einfühlung, trad. it. cit., p. 227. ↩︎
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La stessa «percezione interna» attraverso cui Max Scheler intende spiegare l’appropriazione del vissuto estraneo non riesce a dar prova della fondamentale condizione di possibilità per il coglimento attuale del vissuto altrui, vale a dire la permanenza dell’Io originario che accompagna l’esperienza vissuta non-originaria dell’Io che gli si accosta nell’atto em-patico, pur non confondendosi o annullandosi in esso. Sulla trattazione del problema dell’empatia e per il riferimento ai concetti di «post-sentire» e «co-sentire», cfr. M. Scheler, Zur Phänomenologie und Theorie der Sympathiegefühle, Halle 1913. ↩︎
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E. Stein, op. cit., p. 105. ↩︎
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Ivi, p. 228. ↩︎
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E. Stein, Der Aufbau der menschlichen Person, in «Edith Steins Werke», vol. XVI, a cura di L. Gelber e M. Linssen, Verlag Herder, Freiburg i. Br. 1994, trad. it. di M. D’Ambra, La struttura della persona umana, Città Nuova Editrice, Roma 2000, p. 124 (corsivo mio). ↩︎
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Ivi, p. 132. ↩︎
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Ivi, p. 139. ↩︎
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M. Ciccarella, Idee per una fenomenologia dell’immanenza. La costituzione intersoggettiva della validità in Husserl, Il Mulino, Napoli 2011, p. 35. ↩︎
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J.-P. Sartre, L’ être et le néant, Gallimard, Paris 1943, trad. it. di G. Del Bo, L’Essere e il nulla, saggio di ontologia fenomenologica, Il Saggiatore, Milano 2014, p. 314. ↩︎
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Nel «saggio di ontologia fenomenologica», Sartre opera una distinzione ontologica fondamentale tra le due condizioni antitetiche dell’essere, distinguendo tra l’essere del fenomeno, o essere in-sé, che è semplicemente ciò che è, il che equivale a dire che coincide con sé in una piena adeguazione, e l’ essere della coscienza, o essere per-sé, che è ciò che non è e non è ciò che è, risultando – in tal modo – privo di una tale adeguazione con sé stesso. Il percorso tracciato dal filosofo ne L’Essere e il nulla muove dal riconoscimento dell’originario costitutivo desiderio di essere intrinseco alla realtà umana, che si esprimerà nella forma di un processo volto al raggiungimento – che infine si rivelerà fallimentare – della coincidenza tra le strutture ontologicamente distinte del per-sé e dell’in-sé, della coscienza e del fenomeno. Desiderio vano, che si risolverà nello scacco della coscienza, nell’impossibilità di ottenere quella conoscenza totalizzante di sé come soggetto e come oggetto, come per-sé e come in-sé. ↩︎
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J.-P. Sartre, L’ être et le néant, trad. it. cit., p. 281. ↩︎
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Ivi, p. 301. ↩︎
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In questo contesto Sartre utilizza, a titolo di esempio, il sentimento della vergogna: la vergogna non è un fenomeno di riflessione, ma è vergogna di fronte a qualcuno: «Faccio un gesto maldestro o volgare: quel gesto aderisce a me, non lo giudico né lo biasimo, lo vivo semplicemente […]. Ma ecco che improvvisamente alzo gli occhi: qualcuno era là e mi ha visto. Subito realizzo la volgarità del mio gesto e ho vergogna». La vergogna, allora, subentra in rapporto all’esistenza d’altri: ho vergogna di me di fronte all’altro e – cioè – di come appaio agli occhi dell’altro. ↩︎
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Ivi, p. 311. ↩︎
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Nell’opera teatrale A porte chiuse i personaggi si ritrovano in una stanza chiusa senza né porte né finestre, per poi scoprire – alla fine del dramma – che la porta era sempre stata aperta. Il vero inferno sono gli altri: è all’altro che non posso sfuggire poiché io sono l’oggetto che l’altro guarda e giudica, sono quel «sé che un altro conosce», altro inteso come limite alla mia libertà personale, come la «morte» delle mie possibilità. È lo sguardo dell’altro, infine, a disarmarmi e a causare la disintegrazione delle mie distanze. Il mio sguardo-guardato comporta lo scivolamento dalla mia posizione di padrone a quella di servo, da soggetto di un mondo da me realizzato a oggetto in un mondo in cui vengono dispiegate le distanze dell’altro e le sue possibilità. Il mio divenire oggetto per l’altro rende prova della sua infinita libertà, in virtù della quale soltanto i mie possibili possono subire una limitazione e un arresto. Qualunque ostacolo materiale mi farebbe, infatti, solo scivolare verso nuove possibilità, mentre l’altro è, in sé, soggetto puro, proprio come io lo ero prima d’esser stato guardato e – dunque – oggettivato. E allora «altri è in vantaggio su di me», in quanto nell’altro si compie quella scissione tra riflessivo-riflesso che fa sì che «altri sia il mediatore indispensabile tra me e me stesso». Io sono, cioè, il «conosciuto da altri»: è all’altro che appaio nella mia oggettità, in quanto sé oggettivato, dunque nella mia nudità. Una dimensione a me incontrastabilmente negata, a causa della mia tendenza a oggettivarlo a mia volta, che mi impedisce di cogliere l’altro in quanto soggetto oggettivante, dunque di assimilare ciò che di me solo l’altro conosce, poiché l’essere-oggetto dell’altro ai miei occhi rende impossibile, per me, la percezione di me-oggetto agli occhi dell’altro. A questo proposito cfr. J.-P. Sartre, Huis Clos, Gallimard, Paris 1945, trad. it. A porte chiuse, in Le Mosche, Bompiani, Milano 1947. ↩︎
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J.-P. Sartre, L’ être et le néant, trad. it. cit., p. 307. ↩︎
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Ivi, p. 315. ↩︎
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Ivi, p. 311. ↩︎
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A. Masullo, Lezioni sull’intersoggettività Fichte e Husserl, a cura di G. Cantillo e C. de Luzenberger, Editoriale scientifica srl, Napoli 2005, p. 26. ↩︎
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Ivi, p. 208. ↩︎
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Ivi, p. 206. ↩︎
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E. Husserl, Meditazioni cartesiane, p. 128. ↩︎
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Ivi, p. 212. ↩︎
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Ivi, p. 295. ↩︎
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A. Masullo, op. cit., p. 104. ↩︎
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E. Husserl, Ideen zu einer reinen Phänomenologie und phänomenologischen Philosophie, libro II, Phänomenologische Untersuchunger zur Konstitution, trad. it. cit., p. 190. ↩︎
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Ivi, p. 296 (il corsivo è mio). ↩︎
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E. Husserl, Formale und transzendentale Logik. Versucht einer Kritik der logiche Vernunft, Halle, 1929, trad. it. di G. D. Neri, Logica formale e logica trascendentale. Saggio di critica della ragione logica, Laterza, Bari 1966. ↩︎
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C. Sini, Recensioni, in Il Pensiero, vol. IX – n. 1-3 S.T.E.U., Urbino 1964. ↩︎
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A. Masullo, Struttura soggetto prassi, Edizioni scientifiche italiane, 1994, p. 256. ↩︎