Il soggetto (cartesiano) che resta
Nel dibattito culturale attuale, dopo decenni di critica verso il ruolo del soggetto, sospettato, quando non direttamente investito del capo d’accusa di violenza e di sopraffazione sull’altro, diventa quanto mai interessante interrogarci sul soggetto che resta nel tempo presente. Esso appare segnato dalla cifra della tecnologizzazione vorticosa ed eroso, nel suo specifico posizionarsi, da rappresentazioni che si autoqualificano come postume, giacché non esprimono una loro propria specificazione, bensì si autocomprendono solo in riferimento al loro essere posteriore rispetto ad altro già dato, ritenuto quindi anche come superato. Ci troviamo infatti collocati nell’era del prefisso “post”: postmoderno, post-verità, post-secolarizzazione, post-teismo, e così via.
Il soggetto moderno, quello rispetto al quale noi saremmo posteri e finanche postumi, deve a Cartesio - padre della modernità - il proprio atto di nascita. Il soggetto della razionalità, del computo, che trova il proprio apogeo nel tempo delle più avanzate tecnologie, sembrerebbe restare anche al presente quale fondamento della razionalità calcolante e scevro per ciò stesso dagli affetti. Eppure questa determinazione non è del tutto attribuibile all’intento cartesiano, se il pensatore francese, descrivendo la genesi del suo metodo filosofico, la fece derivare da un’ispirazione onirica, già di per sé sfuggente a una riduzione razionalistica.
Oltre allo stesso Cartesio, i suoi primi biografi raccontano con dovizia di particolari, che mentre egli soggiornava a Neuburg an der Donau, al seguito dell’esercito del duca Massimiliano di Baviera, durante la sospensione invernale delle attività militari, nella notte del 10 novembre 1619, ebbe un sogno, ch’egli interpretò come un vaticinio, una profetica missione. Quella visione notturna, come una rivelazione soprannaturale, lo spinse a cercare il fondamento di un nuovo sapere.1 Questo annotò il filosofo, pieno di entusiasmo, nel quaderno che gli era stato regalato lo stesso giorno dell’anno prima, dall’amico matematico Isaac Beeckman, scrivendo che i sogni e le visioni di quella notte agitata lo spinsero a scoprire i fondamenti di una scienza mirabile. L’episodio doveva aver impressionato anche i suoi contemporanei: Pierre Chanut, ad esempio, ambasciatore francese in Svezia, nell’epitaffio dedicatogli, fece menzione di quel riposo d’inverno, in cui Monsieur Descartes si avvicinò ai misteri della natura.2
Da quel momento di profonda ispirazione cominciò il nuovo inizio del pensiero che si radica nel soggetto, il quale proprio in quanto res cogitans, vanta numerose caratteristiche:
Io sono una cosa che pensa, cioè che dubita, che afferma, che nega, che conosce poche cose, che ne ignora molte, che ama, che odia, che vuole, che non vuole, che immagina anche, e che sente. Poiché, come ho notato prima, sebbene le cose che sento ed immagino non siano forse nulla fuori di me ed in se stesse, io sono tuttavia sicuro che quelle maniere di pensare, che chiamo sensazioni ed immaginazioni, per il solo fatto che sono modi di pensare risiedono e si trovano certamente in me.3
Alla sensazione, all’immaginazione, alla volontà sono attribuite una diretta pertinenza con la res cogitans, che risulta caratterizzata proprio dalle molteplici qualificazioni del volere e del sentire. Ciò consente di scoprire che la soggettività già ed anche per Cartesio è qualificabile in relazione alla dimensione affettiva, benché la storia delle idee abbia poi per lo più tramandato una memoria dimidiata, con la quale ancor oggi siamo chiamati a fare i conti.
La citazione sopra riportata rivela la qualità esoterica del metodo cartesiano, come mostrano le righe che la precedono, dedicate a illustrare, non solo l’ispirazione onirica, ma anche la tecnica meditativa.
Ora io chiuderò gli occhi, mi turerò le orecchie, distrarrò tutti i miei sensi, cancellerò tutte le immagini delle cose corporee anche dal mio pensiero, o almeno, poiché ciò può farsi difficilmente, le riputerò vane e false; e così intrattenendo solamente me stesso e considerando il mio interno, cercherò di rendermi a poco a poco più noto e più familiare a me stesso.4
Solo allora potrei, secondo Cartesio, asserire che io sono una cosa che pensa. Il mio pensare è un atto d’esistenza, capace di scoprire la mia condizione ontologica: «Ego cogito, ergo sum, sive existo».5 Tuttavia Cartesio sarebbe imputato di aver definito nel moderno la scissione tra mente e corpo, con la grave conseguenza della definizione di supremazia della ragione, calcolante e strumentale, e dell’obnubilamento delle potenzialità ben più vaste del soggetto umano, che nella sua totalità si sperimenta dato a se stesso, non autoprodotto, ma autoaffetto, ovvero segnato in prima istanza dalla capacità di sentire se stesso e di sapere di sentire. Il soggetto si colloca coestensivamente nella dimensione della passività e dell’attività: sono dato a me stesso col potere di raccogliere gli affetti, giacché sono le percezioni a raggiungermi in primo luogo; quindi, di rimando, divento capace d’azione, nella raccolta cosciente e intelligente delle affezioni.6
Cartesio, col suo entusiastico convincimento di poter dare un nuovo inizio al pensiero, non aveva affatto presupposto la radicale scissione tra razionale (calcolante, cognitivo) ed affettivo (senziente, patico), bensì la loro inscindibile interconnessione, la loro unitaria consistenza, come attestato dal passo sopra citato, che sta al centro della terza Meditazione metafisica, ove descrive il metodo atto a condurre alla scoperta della res cogitans: «Ora io chiuderò gli occhi…».7 Si tratta con tutta evidenza di una tecnica meditativa, cui Cartesio era avvezzo, in virtù della formazione spirituale ricevuta nel collegio gesuita, e che in antico è attestata nell’opera di Plotino, il cui insegnamento mira a ridestare la pienezza delle facoltà sensibili. Insegnava il filosofo che ancora scriveva in lingua greca:
Basta solamente distaccarsi da tutto e non guardare più, ma per così dire, con gli occhi ben serrati, riattivare quell’altra vista che tutti hanno, ma che in pochi usano e ricorrere a essa.8
Da quel metodo, che procede dalla meditazione, ebbe inizio anche il lavoro innovatore del moderno Cartesio: penso esistendo, quindi penso a partire da una condizione che mi è data. Al centro della sua “Terza Meditazione”, scopriamo il soggetto - che proprio a partire da qui sarà così chiamato - attraverso la spiegazione di come si medita.
L’edizione latina mancava dell’importante inciso, inserito nel testo francese circa la res cogitans «qui aime, qui hait» (che ama, che odia). Questo soggetto “cosa pensante” si svela vivente, patico, dato a se stesso, in cerca di se stesso. Ben lungi dal ridursi a funzione ordinatrice, esso pensa perché è capace di sentire, di immaginare, di amare, di odiare, dunque di avere affetti. La soggettività affettiva è incarnata, essendo il soggetto che sente e pensa, agente mediante un corpo, descrivibile come una macchina, in cui è dato lo spirito per pensare.
Cartesio doveva essersi compiaciuto dei sorprendenti giardini barocchi, se nel Trattato sull’uomo, descrisse la scena di figure semoventi come
[…] oggetti che causano i loro movimenti, secondo il capriccio degli ingegneri che hanno fatto quelle fontane. Insomma quando l’anima ragionevole sarà in questa macchina, avrà la sua sede principale nel cervello e sarà come l’idraulico.9
I movimenti meccanici delle fontane barocche destavano sorpresa negli spettatori, che guardavano stupefatti quelle figure plastiche, obbedienti al progetto dei loro costruttori. Lo spettatore, calpestando una mattonella lungo il cammino, avrebbe causato la fuga di Diana, l’emergere di Nettuno o il soffio d’acqua di un mostro marino. Dinanzi a questi artifici, Cartesio si domandava allora se forse
quando l’anima ragionevole sarà in questa macchina, avrà la sua sede principale nel cervello e sarà lì come il fontaniere che deve essere nei castelli ove vanno a rendersi tutti i tubi di queste macchine, quando vuole provocare o impedire o cambiare in qualche maniera i loro movimenti.10
La questione di Cartesio, di fronte alla sorpresa del movimento delle macchine idrauliche, poste nei magnifici giardini a lui coevi, ridiventa in maniera analoga un quesito importante in questo nostro tempo di tecnologie raffinatissime. Ovviamente al presente ci interroghiamo intorno all’identità umana nei confronti degli automi che sono macchine pensanti dotati di un’intelligenza più veloce di quella naturale. Ma dinanzi a Diana al bagno – antesignana di un avatar – Cartesio avrebbe spiegato che quegli artefatti «non agiscono in base a conoscenza, ma solo in base alla disposizione dei loro organi»,11 che per muoversi hanno bisogno di qualche particolare dispositivo. Benché l’analogia tra i meccanismi barocchi e le tecnologie odierne non possa reggere in toto, tuttavia il richiamo a macchine che non sono cose umane ci tramanda un valido spunto. Cartesio spiega infatti il cogito, in maniera intrigante, attraverso il verbo cum-agitare (agitarsi): quando pensiamo ci agitiamo, e se, l’agitarsi senza coscienza dei contenuti pensati non è pensiero, si tratta di introduzione di calcolo. Sarà poi Leibniz a definire “ciechi o sordi” i pensieri senza contenuti a nostra disposizione, appunto come quelli delle macchine che pensano (se pensare è assimilabile a calcolare) e che sono più veloci dell’umana res cogitans ma a differenza di questa non “si agitano” assieme a noi.
In Cartesio la mozione affettiva, che il suo sogno tedesco gli aveva lasciato, così come la verità del sentimento, o l’esperienza della percezione sensibile, quale “passività” riconosciuta, sono state accolte nell’esercizio della “meditazione metafisica”.12 Ciò attesta dunque che all’inizio del moderno era ben noto e riconoscibile l’intreccio sapienziale tra pensiero e affetto, il nesso tensivo ma indissolubile tra pensiero che ama e una capacità affettiva che non rinuncia a sapere di sé. Poi, via via, quegli intrecci sembrano essersi sciolti col declinare del moderno nel post-moderno. E si è contemporaneamente messa a tacere la tensione metafisica del pensare, del sentire, dell’esistere. Di conseguenza si fatica ora a delineare lo specifico dell’umano in relazione alla raffinatezza del pensiero calcolante, nel momento in cui la medesima res cogitans non è più ravvisata come quella cosa che dubita, che ama e che odia, che immagina e sente, ma è assimilata alla imponente potenzialità delle riduzioni algoritmiche.13
L’intreccio di passività e attività come esperienza di grazia
L’incipit cartesiano sopra considerato consente di ravvisare l’intreccio tanto tensivo, quanto indissolubile, di passivo e attivo, atto a dire di noi umani come viventi, pensanti, amanti. Il moderno ha mostrato che il soggetto c’è e agisce ma ha poi messo in ombra il fatto primo, ossia che il soggetto è dato a se stesso e che può diventare sempre più se stesso, che può dunque umanizzarsi via via, nella scoperta progressiva delle facoltà che si trova ad avere.14 Ed è il soggetto, che conoscendosi come dato a se stesso e non autoprodotto, scopre nella propria capacità affettiva il suo naturale. Se la passività è tutto ciò che mi è dato, qualunque mia capacità, qualunque mio potere, non può essere compreso come autoprodotto, bensì come ricevuto.
Questo intreccio di passività e attività si attesta già nella constatazione dell’esser nati e dunque nell’avere un corpo, che pensa e che sente individualmente. Tale datità, o costitutiva donazione, mi rimanda a un’origine che mi fa essere. Dunque attività sarà l’assunzione del dato fatta liberamente dal soggetto che mi trovo a essere, dotato coscientemente di capacità senziente, autoaffetto da se stesso e da ogni elemento. Sono “soggetto”, letteralmente, in quanto dato dato a me stesso: persino la mia azione di essere libero me la trovo come “data”. La mia costitutività deve essere presa in carico ma è già lì, non avendola io posta in essere. Il mio psichismo sa di sé come di un io patico, che sente sé e gli altri.
Tale intreccio di passività e attività - che esprime il proprium dell’umano, qualificabile come soggettività affettiva, ovvero la condizione di chi è dato a stesso sentendo sé - può essere narrativamente espresso dal mito greco della charis. In Omero charis è dono divino che trasfigura l’individuo beneficato nel suo meglio. Chi è unto dalla charis si scopre trasformato, ma non in un altro, bensì in se stesso nella maniera più piena, radiosa e potente. Allorché Atena versa charis sul capo del naufrago Odisseo, questi torna vigoroso, diventa pienamente se stesso, tanto da far innamorare Nausicaa al primo sguardo.15
Sono innumerevoli e deliziosi gli esempi poetici che raccontano dell’azione di grazia sull’essere umano. Ed è proprio questa presenza della grazia l’espressione rivelativa dell’intreccio di passività e attività, perché qualcosa accade in me senza che io ne sia l’artefice primo, eppure, al contempo, tale accadere mi rende a me stesso, mi esprime al meglio. All’intreccio di passivo e attivo possono essere aggiunti altri nessi, come quello di ispirazione e creazione, di passione e responsabilità, di naturale e artificiale o tecnologico, declinabili su vari piani. In ogni caso il passivo sorregge e informa l’attivo. Per questo è significativa l’idea della grazia, che raccoglie l’agire che supera la volontà dell’individuo.
Nella tradizione cristiana il saluto angelico a Maria si presenta come l’espressione più splendida di tale idea di grazia: «Chaire kecharitomene» (Χαῖρε, κεχαριτωμένη).16 Il latino con la traduzione «Ave, gratia plena» ha smarrito la ricchezza dell’allitterazione, ha introdotto un saluto marziale e sciolto in due termini la pregnanza dell’unico participio passivo. Il saluto greco invece era un augurio di gioia e di pienezza, rivolto a colei che è già appellata secondo l’effetto della charis. Maria potrà dunque magnificare l’attraversamento della grazia che la rende artefice di grandi cose.
Alla luce di questo paradigma, possiamo anche noi osservare la nostra soggettività affettiva muoversi nella vitalità goduta dell’azione patica. All’interno dell’esperienza umana ci possiamo accorgere della grazia proprio perché il soggetto che siamo si palesa come estetico, capace innanzi tutto di sentire e dotato di sensibilità a tutto tondo. In quanto soggetti incarnati, quali cose pensanti e amanti, studiamo in primo luogo noi stessi e ci scopriamo estetici, perché dotati di aisthesis, del potere di sentirsi e di sentire: il soggetto nato e divenuto cosciente di sé si sa a partire da altro, mentre si sente capace di scegliere e operare. Il soggetto può chiamarsi “estetico” perché sa di sé attraverso i suoi organi di senso, mediante il corpo che gli è dato e attraverso cui vive, mediante cui respira, soffre, gode. Tutte queste azioni (il respirare, il soffrire, il godere e il sapere di respirare, soffrire, godere) sono passioni, sono affezioni. Tuttavia, senza il pensiero, esse non sarebbero umanizzate, assunte liberamente e coscientemente dal soggetto.17
Perciò il cogito si ritrova deprivato, disumanizzato, reso macchinico, neutralizzato, se pensato soltanto come cogito della mens senza capacità d’affetto, di coinvolgimento, di co-agitazione. Allora l’ego cartesiano resta frantumato nella assolutizzazione della funzione intellettiva ed è condannato alla perdita della soggettività affettiva. E proprio su questo piano si configura la sfida attuale, giacché il soggetto tardo-moderno, essendosi via via illanguidito nelle sue diverse scissioni, si ritrova dimidiato, scomposto, neutro e insensibile. La pluridimensionalità dell’individualità estetica si esprime invece come soggettività patica, il cui principio d’individuazione è il riconoscimento dell’origine come sorgente di grazia, scaturigine del dono che sono a me stesso, di ciò che è dato alla mia soggettività affettiva.
Friedrich Schiller, che fu poeta e medico e filosofo e drammaturgo, ha efficacemente mostrato, in specie nelle sue Lettere sull’educazione estetica dell’uomo, l’interezza dell’umano nell’equilibrio dinamico tra razionalità e sensibilità. Questo equilibrio, esprimente l’intreccio riuscito di passività e attività, deve essere continuamente raggiunto in forza di una progressiva coscientizzazione dell’involontario; l’esempio schilleriano è quello di una bella donna addormentata, che, pur nel sonno si muove in maniera aggraziata. I movimenti involontari, infatti, sono proprio quelli che segnalano la presenza della grazia in una persona; se i movimenti sono spontanei, naturali, appaiono pieni di grazia come espressione di un habitus acquisito, tanto che esso si palesa per l’appunto anche nei movimenti involontari.
Heinrich von Kleist ebbe a mostrare poi tale spontaneità della grazia nel giovane colto nell’attimo in cui tenta di togliersi una spina da un piede.18 La lievità di quel gesto dipende dalla sua spontaneità, tant’è vero che, qualora fosse richiesta una ripetizione, il gesto volontario scadrebbe nell’affettazione di un’azione mimetica. Sappiamo che, ad eccezione dei bambini che sono spontanei e perciò naturalmente aggraziati, l’umano adulto raggiunge la condizione di grazia solo attraverso la costanza dell’esercizio (basti considerare la leggerezza di un danzatore, l’abilità di un musicista o la potenza di un atleta). Occorre molto esercizio volontario per pervenire a quella involontarietà che è grazia raggiunta. Ci aspettiamo così che la donna evocata da Schiller, svegliandosi, si muoverà con grazia, mentre, come sappiamo da Kleist, il ragazzo invitato a ripetere il gesto aggraziato, non potrebbe riuscirci a comando.19 Se la naturalezza non è spontaneismo, ma frutto di educazione e di esercizio, allora la grazia si sprigiona quale espressione della libera costruzione dell’io che sono. Ogni attività, inestricabilmente radicata nella passività, attraversa la conoscenza e la volontà, così da mostrare la connessione indissolubile tra dato naturale e libera creazione personale. Se è riconosciuta la costituzione estetica dell’umano, la sua soggettività patica può ravvisare il proprio principio d’individuazione nel riconoscimento dell’origine come grazia.
Il tempo attuale esige l’attingimento dell’unità nel soggetto, sia per quanto concerne la dimensione teorica, che è contemplazione, sia per quanto riguarda il piano etico, relativamente all’assunzione della passività, esprimentesi nell’attivo dell’io che sono. A tal fine, l’analogia tra grazia e libertà può esprimere l’integrità del soggetto: se la grazia, teologicamente ma anche esteticamente intesa, sta nella natura, risplende nell’apparire, disvelandone l’infinità, allora la natura, non soggiogata, non ontologicamente limitata, si palesa libera.
Proprio il concetto teologico della grazia divina sfugge alla presa riduzionista del soggetto e perciò consente di pensare la soggettività umana in una dimensione di ulteriorità irriducibile, mentre la grazia che è umana, nei suoi tratti di leggerezza e di amabilità, si mostra affidata all’esercizio della libertà personale. Nella cultura d’Occidente si è invece consumata una catastrofica separazione tra grazia e natura, tanto da misconoscere l’una, tutt’al più relegata alla sfera della pietà religiosa, e da condannare l’altra allo sfruttamento più sfrenato. Eppure il pensiero cristiano ha avuto lo straordinario merito di aver ampliato l’orizzonte della grazia, includendovi il momento dello splendore trasformativo (già anche biblico) e collegandovi l’aspetto della gratuità, del dono (già pure presente nel mito delle Cariti).
La grazia infatti si palesa anche come charme, potere di attrarre a sé, di affascinare (come sapeva fare il “carme” antico). Ma tale seduzione della grazia è un’esperienza tutta umana, di affetti, prima ancora di sollevarsi al primum divino. Sebbene la tradizione teologica abbia marcatamente segnato la storia di questa parola, sino a farla propria, continua a sussistere la plurivocità semantica dell’idea di grazia (poetica, estetica, antropologica, giuridica, filosofica), che la rende adatta a mettere a fuoco la soggettività affettiva, la quale, a sua volta, contiene in sé tante diverse valenze. Ma bisogna rintracciare l’autentica ricchezza semantica, tenendo fermo, da un lato, al significato di donazione prima e gratuita, e dall’altro, a quello di lievità e attrazione. I due significati si rifrangono l’uno nell’altro.
Con Paolo fu inaugurato il tempo della grazia che libera, interrompendo la linearità e l’opprimente obbligatorietà del tempo cronologico. L’ordine della grazia dischiude la libertà, a ogni livello, manifestando l’intrinseca limitatezza di ogni regola, ma la storia delle idee nel suo dipanarsi ha paradossalmente contrapposto l’idea di grazia a quella di libertà e ha quindi disperso gran parte della ricchezza evangelica e paolina, separando grazia e natura in due dimensioni differenti: in alto l’una, in basso l’altra. E così è stato anche della storia del soggetto, stretto tra il riconoscimento dell’autonomia, anche a costo della riduzione alla unidimensionalità finita, e l’abbandono nel fideismo, carico di promesse ma sganciato dalla forza del reale. Il nichilismo ha cancellato la grazia e così ha disperso pure la forza della natura. All’opposto, se, fuori dalle limitazioni imposte dalle diverse e parimenti gravose eredità di pensiero, interpretiamo la grazia come dono per antonomasia, riscopriamo che essa è adeguata a dire della passività del soggetto (dato a se stesso) e già anche dell’attività (essa pure potere ricevuto).
Il soggetto si pone e si riconosce nella libertà di fare qualcosa di sé rendendo attivo il passivo, giacché anche la libertà è grazia, affidata al soggetto che sente e che pensa. Nel più genuino solco paolino la grazia solleva dalla sottomissione alla regola e perciò dischiude la libertà. In fondo, riscopriamo in questo nucleo tematico l’essenza del cristianesimo, che conosce la libertà nel nesso causativo con la verità che in modo originario ci costituisce. Ne consegue per il soggetto l’esperienza di una vita che si sente ricca, piena, calma e libera.20
All’ordine libero della grazia corrisponde una logica della gratuità, della gratitudine, della sovrabbondanza, tutto l’opposto del regime economicista della pretesa, del risentimento e della stretta misura. La grazia ha lo splendore della magnificenza e sovverte ogni utilitarismo / letteralismo / fondamentalismo, anche se questo si presenta paludato secondo gli schemi del digitale o se ripresenta imbarbarimenti nelle regressioni sociali e culturali. Di questa trasformazione, secondo la logica donativa della grazia, dovrebbe farsi carico una soggettività che si scopre patica ed estatica, perché capace di sentire e avente il proprio centro costitutivo a partire da altro da sé.
Come sempre la storia segnala degli aut aut: siamo dinanzi a una regressione (anche valoriale) o alla possibilità di un’elevazione verso un’età in cui la grazia valga come idea orientativa. Se fosse la seconda possibilità ad emergere, la soggettività potrebbe ridestarsi dall’assoggettamento, così da trovare la propria riuscita nella libertà personale, rintracciata nella condizione umana patica.
L’interpretazione della grazia come verità del sentire vuol protendersi oltre la realtà dimidiata del presente, tenendo fermo all’originario, nella manifestazione di una vita che si fa sempre più umana. L’irruzione della grazia deificante esalta, rende il soggetto individuato capace del narcisismo sano del Magnificat, portandolo fuori dalle secche malinconiche dell’insensatezza, mentre lo fa risplendere nella sua forma migliore. Dentro questo mirabolante intreccio di grazia-natura-libertà, ovvero nell’esperienza dell’interconnessione indisgiungibile di passività e attività, il soggetto scopre la libertà di fare qualcosa di sé rendendo attivo il passivo, dunque scopre la libertà per grazia, il potere di pensare liberamente attraverso un sistema corpo-mente che sente e sa di sé e che non è autodeterminato ma accolto. Il soggetto si sente e si pensa, percepisce e riflette. In tal modo la capacità di sentire ci consente di tener fermo all’originario, che, di per sé inafferrabile, pure ci costituisce e insieme ci manca. La ricerca del sé e del senso dà continuativamente espressione al desiderio della sorgente, non scissa da noi ma nemmeno in noi risolvibile.
L’affezione dell’individualità come estasi
I medievali conoscevano il nome del desiderio, diverso dalla tensione motivata dalla mancanza, piacere che continuamente si accresce gustando ciò che ha trovato (delectatio).
Era come se la capacità di amare non nascesse dalla mancanza, ma dallo splendore della gioia di vivere, dalla sua espansione, come se prendesse origine in una sovrabbondanza, in uno straripamento di vita. […] Forse è questo che Gregorio di Nissa nel suo Commento al Cantico dei Cantici chiamava epektasis, che significa non il desiderio del desiderio, ma il desiderio che sgorga dalla pienezza e dalla stessa sazietà.21
Nelle parole di un’allieva di Lacan ritroviamo efficacemente espressa l’esperienza della soggettività affettiva, che si nutre della gioia di vivere e di amare nel sentimento dell’appagamento, della soddisfazione, della pienezza mai sazia. Descrivendo la sua vicenda amorosa, l’autrice così prosegue:
Fu un momento di grazia e d’innocenza, la grazia che abbisogna per aprirsi all’occasione (chance) e che mi sembrava circonfondere con una aureola tutto quel che incontravamo. […] Era una forma di innocenza […] il suo naturale. […] Ero sotto lo charme.22
Le parole teologiche sono quelle più adeguate per dire l’esperienza vissuta nella sua esuberante pienezza: lo slancio (epektasis), lo charme (grazia), il tempo opportuno (kairós/occasio). Come è lì descritto, l’euforia qualifica la soggettività che ha scoperto la valenza della grazia quale potenza della passività che fa essere e che dunque non illanguidisce nello sfiorire ma si rafforza come slancio di potenziamento e di crescita.
«Sento in me una pazienza infinita, come uno stato di grazia».23 L’annotazione, che è di Simone de Beauvoir, risale a tempi di guerra, non di felicità, eppure l’autrice allora riscontrato dentro di sé una forza non proveniente dalla sua volontà, una pazienza smisurata, nonostante sé. Pazienza dice ancora una volta della capacità patica, dell’auto-affezione: mi sento vivente. Provando così a intendere la passività come dato, e dunque letteralmente come irruzione della grazia, l’attività si lascia scoprire come la capacità tutta umana di diventare sempre maggiormente se stessi attraverso una propria capacità di sentirsi e di sentire ciò che ci fa essere vivi.
La nostra soggettività affettiva, che procede dall’esperienza dell’essere affetto innanzi tutto da me stesso, mi colloca in una posizione estatica: sto a partire da una costituzione che mi inerisce. Esisto, sto già da sempre a partire da un fuori di me che mi fa essere il me che sono. Mi ricentro mentre mi so eccentrico. Sono pienamente me, senza arroccamenti che mi limiterebbero, solo nel fuori di me.
Si può aggiungere, nella logica mai esausta della sovrabbondanza, che la soggettività estatica si riconosce dell’intimità dell’ispirazione. Vede in sé, intuisce, ciò che la fa essere viva e che la orienta. Come ben sanno i poeti di tutti i tempi e di ogni lingua, i versi sono miei e non miei, e così può dirsi d’ogni opera artistica. Analogamente le azioni del soggetto integro sorgono da un’ispirazione ch’egli scorge sorgere in sé ed egli sa che le azioni che ne derivano sono sue, ma senza ch’egli le abbia causate deliberatamente.
La radiosità del volto di Mosé o lo splendore della metamorfosi taborica esprimono esemplarmente la soggettività nella sua pienezza.24 Nondimeno, pure nella semplice quotidianità è esperibile la radiosità conseguente da una soddisfazione molto intensa, tale da rendere chi la prova raggiante, ed è così che quell’intensità si fa visibile; di contro, la tristezza oscura. Nella piacevolezza o nella disperazione noi sentiamo noi stessi e riconosciamo il sentimento d’altri.
Secondo i loro stilemi, i Padri greci spiegavano l’irraggiarsi delle “energie divine” come possibilità di cogliere attraverso i sensi la presenza dell’irrappresentabile.25 Il discepolo, se è capace di cogliere e apprezzare la luminosità del volto del maestro, è già a sua volta radioso, pur non sapendo d’esser tale. Ovvero, se il discepolo non fosse già anche lui trasformato, non vedrebbe la luminosità che emana dal maestro. Di fronte a questi volti trasfigurati, dinanzi ai sensi che irradiano la radiosità individuale, si manifestano le capacità umane nel loro più fulgido splendore e sempre ancora nel divenire del loro potenziamento.
In tale processo d’individuazione, le passioni non sono tolte ma trasformate; perciò una tale elevazione di sé a sé esprime una soggettività che è capace d’autoaffezione e così di affetti, o per dirla con Jaspers, una soggettività abbracciante (umarmende, umgreifende) che si prende cura delle tante lacerazioni a cospetto della frattura dell’essere (Zerrissenheit des Seins).26 Questa soggettività, riguardata nella sua origine come eccentrica è quella di un io che è pienamente in sé, allorché si scopre fuori di sé. In questo incastro si staglia un altro intreccio, quello con l’idea di Dio, che sta o cade nel mantenimento del concetto di unicità personale, cosicché proprio l’idea d’individualità permette di pensare sia la soggettività umana nella sua integrità sempre diveniente, sia l’idea di Dio quale costitutiva ipostasi. Forse anche questa è eredità cartesiana.
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Il soggiorno bavarese è ricordato dallo stesso Cartesio al termine della prima parte del suo Discorso sul metodo del 1637 (in Opere filosofiche, vol. 1, a cura di E. Garin, tr. it. di G. Galli, M. Garin, Laterza, Roma-Bari 2009): «A quel tempo mi trovavo in Germania, dove mi aveva chiamato la guerra e […] trascorsi l’inizio dell’inverno in un quartiere dove, non distratto da intrattenimento alcuno e fortunatamente anche senza preoccupazioni e passioni che m’inquietassero, stavo tutto il giorno solo, chiuso nella mia stanza accanto alla stufa, e qui avevo tutto l’agio di dedicarmi ai miei pensieri». Sul tema, cfr. il romanzo in versi di D. Grünbein, Vom Schnee oder Descartes in Deutschland, Suhrkamp, Frankfurt a. M. 2003; tr. it. di A.M. Carpi, Della neve ovvero Cartesio in Germania, Einaudi, Torino 2005. ↩︎
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Cfr. J.F. de Raymond, Pierre Chanut, ami de Descartes: un diplomate philosophe, Beauchesne, Paris 1999. ↩︎
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R. Descartes, Meditazioni metafisiche, III, tr. it. di A. Tilgher, Giappichelli, Torino 1954, p. 37. Questo il testo originale latino (Meditationes de prima philosophia, 1641): «Ego sum res cogitans, id est dubitans, affirmans, negans, pauca in- telligens, multa ignorans, volens, nolens, imaginans etiam et sentiens; ut enim ante animadverti, quamvis illa quae sentio vel imaginor extra me fortasse nihil sint, illos tamen cogitandi modos, quos sensus et imaginationes appello, quatenus cogitandi quidam modi tantum sunt, in me esse sum certus». Cartesio pubblicò la traduzione del suo testo in francese (Paris 1647), Méditations sur la philosophie première: Je suis une chose qui pense, c’est-à-dire qui doute, qui affirme, qui nie, qui connaît peu de choses, qui en ignore beaucoup, qui aime, qui hait [queste due ultime qualificazioni mancano nel testo latino], qui veut, qui ne veut pas, qui imagine aussi, et qui sent. Car, ainsi que j’ai remarqué ci-devant, quoique les cho ses que je sens et que j’imagine ne soient peut-être rien du tout hors de moi et en elles-mêmes, je suis néanmoins assuré que ces façons de penser, que j’appelle sentiments et imaginations, en tant seulement qu’elles sont des façons de penser, résident et se rencontrent certainement en moi». ↩︎
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Ibidem. ↩︎
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Meditazioni metafisiche, III; in latino 1641, in francese 1647. ↩︎
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Sul nesso di passività e attività, cfr. L. Pareyson, Esistenza e persona, il melangolo, Genova 2002, in particolare Parte Seconda e Parte Terza. ↩︎
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Cartesio, ibidem. ↩︎
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Plotino, Enneade I 6,8, ll. 20-25, tr. it. di R. Radice, Mondadori, Milano 2002. ↩︎
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Cartesio, Trattato sull’uomo, XI (1630, pubblicato postumo), in Œuvres, a cura di Ch. Adam e P. Tannery, Vrin, Paris 1974, pp. 130s., tr. it. del passo a cura di A. Pastore e U. Perone, in Filosofia, 2, SEI, Torino 2005, p.178. ↩︎
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Id., Discorso sul metodo, V, tr. it. di S. Arcoleo, SEI, Torino 1983, pp. 89s. ↩︎
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Cartesio, Trattato sull’uomo, cit. ↩︎
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L’affezione (pathos, passio) dice in prima istanza della condizione di passività, ovvero della capacità/possibilità di subire un’azione e di venirne modificati. Se aristotelicamente l’affezione concerne tutto ciò che ciò che all’anima accade, stoicamente essa diventa, se fatta coincidere con le emozioni, una minaccia dell’autonomia razionale. Ma la modificazione subita, già effetto e conseguenza dell’azione, si qualifica quale alterazione e quindi anche guarigione o come perfezionamento (dalla potenza all’atto). In tale solco Cartesio nelle sue Passioni dell’anima I, 1 insegna che azioni e affezioni non cessano di essere sempre una stessa cosa. Stante tale legame, gli affetti non vengono contrapposti semplicemente, quale condizione confusa della sensibilità, alle idee, come chiarezza razionale. ↩︎
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Cfr. la celeberrima conferenza, annunciatrice di queste tematiche, M. Heidegger, L’abbandono, tr. it. di A. Fabris, il melangolo, Genova 2004. ↩︎
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Non a caso intendiamo che sia “dis-umano” qualsivoglia comportamento che nega il proprium dell’umano identificato con la benignità, la compassione, la misericordia. ↩︎
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Omero, Odissea, tr. it. di R. Calzecchi Onesti, Torino, Einaudi 1989, Libro VI, vv. 232ss. Anche qui il saluto è “Chaire”. ↩︎
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Luca 1, 28. ↩︎
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Tommaso ha definito in maniera puntualissima la distinzione tra atti dell’uomo (actus hominis) e atti propriamente umani: i primi semplicemente dati, come a ogni vivente, gli altri assunti, fatti propri, portati all’altezza dell’umano (sui actus est dominus). cfr. Quaestiones de virtutibus, q. 1, a. 4 e Summa Theologiae I-II, qq. 6-21. Sarebbe utile riflettere su come portare a libera coscientizzazione anche gli acta hominis. ↩︎
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Cfr. H. von Kleist, Über das Marionettentheater, tr. it. di M. Sabbadini, Sul teatro di marionette, La Vita Felice, Milano 2011. ↩︎
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Cfr. Stendhal, sul naturale pensato come l’autentico, De l’amour (1822), Flammarion, Paris 2014; tr. it. di M. Bertelà, Dell’amore Garzanti, Milano 2007; già F. de La Rochefoucauld, Maximes (1665-1678), in Œuvres complètes, Gallimard, Paris 1964; tr. it. Massime, Rizzoli, Milano 1978, §431: «Niente impedisce di essere naturali, quanto l’intenzione di sembrarlo». ↩︎
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Circa il naturale, da recuperare, dopo il discredito operato dalla dottrina della grazia, cfr. D. Bonhoeffer, Etica, tr. it. di C. Danna, Opere vol. 6, Queriniana, Brescia 2005. Su grazia e libertà, cfr. il volume dal titolo eloquente E. Jüngel, Indikative der Gnade. Imperative der Freiheit, Mohr Siebeck, Tübingen 2000. ↩︎
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C. Millot, Ô solitude, Gallimard, Paris 2011, p. 65 (mia la trad. della citazione). ↩︎
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Cfr. Ead., La vie avec Lacan, Gallimard, Paris 2016, pp. 23s. (mia la trad. della citazione); trad. it. di R. Prezzo, Vita con Lacan, Raffaello Cortina Editore, Milano 2017. ↩︎
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S. de Beauvoir, La force de l’âge, Gallimard, Paris 1960, p. 413; tr. it. di B. Fonzi, L’età forte, Torino Einaudi, 20065 (la traduzione della citazione è mia). ↩︎
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Esodo 34, 29-30.33; Marco 9, 2-10. ↩︎
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Il frammento di Serafino di Sarov è ripreso da V. Lossky, à l’image et à la ressemblence de Dieu, Aubier-Montaigne, Paris 1967; tr. it. di N. Toschi Vespasiani, A immagine e somiglianza di Dio, EDB, Bologna 1999. In prossimità con quegli antichi testi, può essere letta la filosofia della percezione di Merleau-Ponty, che intreccia l’elemento fisico a quello spirituale; oltre alla sua Fenomenologia della percezione, tr.it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2003, sul chiasmo visibile-invisibile nella percezione, cfr. la raccolta postuma Il visibile e l’invisibile, tr. it. di A. Bonomi, Bompiani, Milano 2007. ↩︎
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Cfr. K. Jaspers, Der philosophische Glaube angesichts der Offenbarung, München, 1984; tr. it. a cura di R. Garaventa, La fede filosofica a confronto con la rivelazione cristiana, Orthotes, Nocera inferiore (SA), 2014. ↩︎