Divagazioni sull’inizio, in margine al presente

1. L’inizio d’attualità

«Come sta solitaria / la città un tempo ricca di popolo! […] Rinnova i nostri giorni come in antico»1. Incipit liber lamentationum Jeremiae Prophetae – è il tono delle cronache quotidiane, che cupamente si ripetono, come se vivessimo continuativamente, maniacalmente, lo stesso giorno. La ripetizione però è negazione dell’inizio, ne è la suprema falsificazione attraverso la trappola dell’illusione. L’inizio ripetuto consuma la sua novità e spegne la vita che avrebbe dovuto sprigionare. L’inizio che attendiamo, come momento di liberazione, in cui sia dichiarata la fine del pericolo incombente, gioca di rimando, in un indugio che certo promette ancora un po’ di sicurezza ma non si allarga a un lungo respiro di vita piena. Non siamo così, dunque, ancora a un inizio, restiamo in difesa, procrastiniamo, rimandiamo o anche retrocediamo. Frattanto riflettiamo, sulla forza spietata di una globalizzazione pandemica, che getta ombre sinistre su tutto, portando a galla in un torbido ribollire vizi vecchi come il mondo: risentimento, malevolenza, quando possibile un po’ di Schadenfreude e il predominio della paura, che con furia ancestrale sottomette tutto a sé, scatenando il gusto perverso della delazione, della chiusura, dell’egoismo. Ancora una volta pare che la tecnocrazia abbia conseguito un vertice, sottomettendo a sé, con buona grazia e un po’ sornionamente, la democrazia. Questo lato oscuro del presente recalcitra rispetto a un’apertura che inauguri possibilità di vita veramente altre rispetto ai modi d’esistenza praticati sin qui. Sembrerebbe urgente ascoltare il monito degli economisti, quelli con una seria coscienza ecologica, che non da poco tempo e senza cadere nell’apocalisse delle distopie, chiedono d’inventare modi di vita comune, completamente altri da quelli sin qui messi in opera.2 Quello sarebbe un inizio significativo: l’inaugurazione di un’economia planetaria salvifica per l’ambiente e conseguentemente per noi umani, sia dal punto di vista della salute fisica, che del benessere economico e sociale. Questo sarebbe l’autenticamente nuovo. Ma non siamo ancora lì, arranchiamo verso un Eden che sarebbe il luogo a noi adatto.3 Dovremmo impegnarci a pensare con categorie adeguate la natura che siamo, considerandola nella sua potenza sorgiva e trasformativa. Occorre dare inizio a una filosofia che osi essere nuovamente tale (non rinunciataria, non pavida, non autoreferenziale), una rigorosa assunzione di questioni e una coraggiosa capacità di risposta; una metafisica che non stia oltre ma dentro e che trasfigurando inveri, così da manifestare la ricchezza dell’interconnessione, anziché la separazione, ovvero l’insieme prezioso, delicato e travolgente delle nostre componenti vitali, delle nostre ispirazioni più sagge.

2. Il primo inizio

Attraversando il tema dell’inizio, ci auguriamo di poter cominciare da capo, ex novo.4 L’inizio ha la freschezza palpitante della primavera, che tutto promette. Anche la prima età è un inizio, quella primissima dell’infanzia, entro la quale pare di scorgere il seme fecondo di ciò che promettevamo d’essere e, riguardando a quell’allora, ci pare che effettivamente lì si celasse una promessa e si rivelasse un’essenza, la nostra autenticità più propria. Generalmente i bambini si mostrano sicuri, fieri, contenti, pieni di vita, carichi d’entusiasmo, come se il vivere fosse da loro colto nella sua immediatezza, quale puro piacere di esserci. Questo inizio rimane, come promessa mantenuta, mediante la sua carica propulsiva, la sua potenza originante. Ne era convinto Romano Guardini, che così scriveva:

L’inizio e la fine sono dei misteri. La distinzione tra l’inizio della vita, la nascita e l’infanzia non significa che la vita prende le mosse da un punto di partenza poi lasciato dietro di sé, ma che questo punto di partenza accompagna la vita nel suo svolgimento. La nascita e l’infanzia sono elementi vitali nell’uomo: per l’individuo esse sono l’analogo di quello che per la storia universale sono le origini e di ciò che si venera nei miti della fondazione e nella figura degli antenati. Questo elemento agisce per tutta la vita, sino al termine definitivo.5

Quando l’inizio appare perduto, cominciamo allora a desiderarlo, a rivolerlo. I numerosi miti di creazione e caduta, di armonia e di catastrofe, conservano traccia di questa sequenza, che liberamente si ripete senza però poter mai essere pensata come necessaria. Ritrovandoci sempre a riconsiderare chi siamo, dopo la fine di qualcosa, ciò che ci ricollega all’inizio è la possibilità della ripresa.6 La fine decade e, se noi siamo ancora presenti nella vita, cerchiamo di riprenderci. L’inizio è già sempre perduto ma ci resta ogni volta la grazia promettente della ripresa, non come edizione minore del capolavoro distrutto, non come accettazione consolatoria di quel che comunque è rimasto, bensì come capacità rinnovata di scoprire il proprio sé e lasciarlo essere al suo meglio, come finora non si era ancora riusciti a fare.

3. Dicibilità dell’inizio

La ripresa è la parola d’ordine del momento presente e insieme ne contiene la speranza. È un concetto magnifico perché inanella sia l’inizio, sia la vita, sia la novità. Ed è appunto nel loro intreccio che insieme possiamo pensare l’incipit, la vita, il nuovo. Per dire dell’inizio e della nostra capacità di connetterci nuovamente ad esso nei tempi di vita, disponiamo di un espediente grammaticale, il prefisso ri- (che si alterna talvolta con ra- o con re-). La lingua ci consegna questo mezzo, offrendoci la possibilità di dire le azioni verbali o i nomi con l’aggiunta (anche questa volta essenziale) di quella breve sillaba: ri-.7 Nel periodo straniante in cui ci troviamo adesso, ogni cosa, per essere espressa, abbisogna del prefisso: ri-apertura, ri-presa, ri-lancio, rin-novamento, et cetera, si tratti di economia o di medicina. Insomma per ri-uscire, occorre invocare una ri-petizione, la re-duplicazione, il ri-torno a una fase anteriore, sia con valore di opposizione, di differente intensità o con funzione derivativa, sia con il conferimento di un valore nuovo. Ad ogni modo, tutto il nostro dire attuale abbisogna di quel piccolo ma per nulla insignificante prefisso. Noi tutti, ovvero gli amanti della cultura, siamo stati iniziati da alcune letture, che hanno segnato il cominciamento del nostro personalissimo itinerario di formazione. Dell’inizio, quello seriamente filosofico, hanno dato preziosa attestazione il filosofo Kierkegaard ne La ripresa e il teologo Bonhoeffer nelle sue lettere dal carcere, l’uno insegnando la straordinaria possibilità di riprendere se stessi, come il compito più serio e irrinunciabile della vita, l’altro lasciando l’altissima lezione della resa al bene. Il valore della ripresa di sé, oltre le derive peregrinanti dell’io, è stato attestato da Kierkegaard nell’elaborazione del suo lutto amoroso, come risposta al senso intero della propria vita; la comprensione del significato dell’inizio è stata testimoniata da Bonhoeffer, con la sapiente interpretazione del proprio percorso esistenziale e finanche con la fiducia eroica nel momento estremo della condanna a morte. L’incrocio delle loro considerazioni inquadra la luce sfolgorante che emana dall’accoglienza del cominciamento:

Kierkegaard: – È necessario il coraggio per volere la ripresa. Chi vuole la ripresa è un uomo, tanto più degno di questo nome quanto più vigorosamente ha saputo proporsela. La vita è una ripresa, in questo consiste tutta la bellezza della vita. Soltanto chi ha scelto la ripresa vive. Se non esistesse la ripresa che cosa sarebbe la vita? Se Dio stesso non avesse voluto la ripresa, il mondo non sarebbe mai stato. Egli avrebbe seguito i facili piani della speranza oppure avrebbe ritratto tutto a sé, conservandone soltanto la memoria. Ma poiché Dio non fece né l’una né l’altra, il mondo esiste ed esiste come ripresa. La ripresa è la realtà della vita, è la serietà della vita.

Bonhoeffer: – Ieri [10 aprile 1944 ] ho sentito un tale dire che gli ultimi anni per lui erano stati anni perduti. Sono contento di non aver ancora avuto nemmeno per un istante una sensazione simile; né finora mi sono mai pentito della decisione che ho preso (di tornare dagli USA). S’è trattato, nella mia vita, di un ininterrotto arricchimento della mia esperienza, e di ciò posso davvero essere soltanto riconoscente. Se la mia condizione attuale dovesse rappresentare la conclusione della mia vita, la cosa avrebbe un senso che crederei di capire; d’altra parte, tutto questo potrebbe anche rappresentare una preparazione radicale per un nuovo inizio, contrassegnato da un compito nuovo.

Kierkegaard: – Sono di nuovo me stesso Ecco la ripresa. Le macchine sono di nuovo in moto. La mia barca disincagliata ha ripreso il largo.

Bonhoeffer: – È la fine [8 aprile 1945] – per me l’inizio della vita.8

L’indeducibilità dell’inizio esige un salto per il passaggio all’innovazione assoluta, a un fatto nuovo, alla vita nuova.

4. L’iniziare

Di quale inizio parliamo ora? Gli inizi possono essere molti, tanto che li possiamo computare nel corso della storia – in quella dei popoli e nella nostra personale vicenda umana – come tappe che segnano l’esaurimento di un percorso e nominano il sorgere di un periodo successivo. In quale inizio ci collochiamo adesso? Ne abbiamo forse uno che inaugura un periodo nuovo con la sua particolare coloritura, come Picasso ha avuto il suo periodo blu o quello rosa? Quel che intanto sappiamo è che i nomi sono sempre successivi all’inizio, come le denominazioni di un tempo storico, che viene dato ex post. Ciò che è umanamente straordinario, e per tanti versi quasi insopportabile, è il fatto che conosciamo sempre e solo nuovi inizi, ricominciamenti, mentre ci è preclusa l’esperienza e il pensiero del principio, quello di cui non abbiamo memoria e che pure, esso solo, squaderna tutti gli inizi. Quel che seduce del primo inizio, dell’origine, è che esso è già per l’appunto inizio e in quanto tale implica un suo essersi posto, un’originazione. La scaturigine assolutamente prima resta inindagabile, inattingibile, eppure la presupponiamo a partire dal fatto che l’inizio si sia posto, per l’appunto in principio. Troviamo un’analogia nel cosmo, quando nominiamo il primo inizio, di fronte a cui la ricerca si ferma o si limita all’inutile soluzione stoica della ripetizione ciclica dell’inizio; abbiamo un’analogia nella nascita, dato che l’inizio della nostra vita personale è già preceduta dall’inizio fetale, che comincia nel concepimento, il quale arresta il ripercorrimento all’indietro sfumandosi nella catena illimitata delle generazioni. Eppure, proprio l’insondabile originazione del principio assolutamente primo conferisce a ogni inizio le caratteristiche che lo qualificano come nuovo e come vita. È in quanto scaturigine che l’inizio è inizio e, se tale, è nuovo e ha la stoffa della vita. Il teologo Eberhard Jüngel ha provato a pensare Dio come colui che propriamente inizia in senso assoluto, qualificandolo dunque come il vero principiante.

Ogni principio è difficile, saper iniziare lo è ancora di più. La facoltà di iniziare da sé uno stato, infatti, è l’essenza della libertà. E chi è mai davvero libero e, in questo senso, un principiante genuino? Solo a proposito di Dio lo si potrà affermare in modo assoluto. Per natura la libertà è un predicato di Dio: nella sua creatività Dio è l’autentico principiante. Ma Dio non si è riservato solo per se stesso la splendida facoltà di saper iniziare. La sua libertà è libertà liberatrice e rende veri principianti anche noi esseri umani. Saper iniziare caratterizza perciò l’uomo che corrisponde a Dio: costui è un uomo che inizia. Egli proviene dall’evento della libertà liberatrice e il regno a venire della libertà è la sua meta, cosicché lo attende un inizio anche alla «fine delle cose»9.

Nella lingua della filosofia – quella greca – sono almeno tre i vocaboli per dire «vita»: bios (βίος), psyché (ψυχή), zoé (ζωή). In questa plurivocità l’orizzonte si allarga e i significati risuonano amplificati. Bios è letteralmente l’arco, metafora della forma di un’esistenza, tesa tra il suo inizio e la sua fine. La vita come bios è narrabile, contenibile nella misura della grafia. Essa esprime i contorni dei ruoli sociali, s’incastona nella struttura politica di una determinata storia comune; fuoriesce dalla misera chiusura della mera vita, quale datità biologica, che pretende un primo riconoscimento di dignità. Psyché denomina invece la vita personale, quella alla quale si aderisce mentre si respira con il proprio corpo. Questa vita fatta di respiro è concessa a termine, si esaurisce. Perderla implica il morire. Eppure nel dire vita la compromissione con la morte risulta illogica. Se n’era accorto Platone, dichiarando inconciliabili i due termini: il concetto di vita non può avere un contrario nella sua estinzione; ciò che chiamiamo vita, per essere detto coerentemente deve restare inesauribile. Non è dunque il corpo il sacello di morte, perché, il soma resta vivente fin tanto che c’è psyché, ovvero tra il primo vagito e l’esalazione dell’ultimo respiro. Per essere detta in maniera coerente al suo significato, la vita esige pertanto un altro nome e questo è zoé: vita piena, sorgiva, zampillante, eccedente. Ne era convito Aristotele, per il quale il principio primo è energia di vita (zoé); l’aveva insegnato Platone, osservando come psyché sia portatrice di zoé quando s’impossessi di un corpo; lo aveva compreso Plotino che nomina zoé la prima sorgente, inesauribile e prodigiosamente feconda.10 Anche Giovanni, l’evangelista, chiama zoé la vita che era in principio, che era nel Logos, che è il Figlio. Questa vita trabocca, eccede, è sempre e smisuratamente. La vita che si può lasciar andare, per essere ripresa, è psyché, e questo in forza dell’appartenenza assoluta e originaria alla zoé. Il passaggio dall’essere semplicemente in vita all’essere pienamente vivi segnala lo scarto tra la chiusura e l’apertura, tra l’esaurirsi e il rigenerarsi, tra l’annullamento e la vitalità sovrabbondante. Incipit vita nova ogni qual volta la vita riprende se stessa nella propria novità (fisica, emotiva, esistenziale, soteriologica, escatologica)11. E novità di vita è quella della ripresa; se la ripetizione consuma senza dare respiro, la ripresa attesta invece la joie de vivre come possibilità di salvare se stessi dallo smarrimento nel deserto della sterile ripetizione.

5. Il riprendersi

Quale sia l’inizio possibile per noi non è affatto deducibile in una catena causale, esso resta sorprendente; forse possiamo lavorare alla ripresa, affinché l’inizio possa dipanarsi. La ripresa ci è consegnata come compito, faticosissimo, grave come l’esperienza della libertà. Quando ci riprendiamo, ci scopriamo guariti, sentendoci d’un tratto nuovi, capaci del nuovo, che imprevedibilmente ci ricollega al più antico, a quell’io davvero mio cui sapevo di somigliare. Scopriamo qui l’intreccio di passivo e attivo, di passione e azione. Occorre molta forza, una potenza di nascita, per venire di nuovo al mondo, per essere generati ancora un’altra volta. Allora il passivo si trasforma in attivo, come nel codice bancario, ma ancor più di così, mediante l’assunzione del dato divenuto azione. Questo nostro tempo ha già segnato una battuta d’arresto, cupa, brusca, mortifera. Ora possiamo assumere la sospensione mutandola in ricominciamento. Il punto d’inizio non è da porre poiché è già segnato, ma dipanare la potenza dell’inizio resta affar nostro. Riflettiamo nel tempo sospeso, come quello che si distende tra la Pasqua e la Pentecoste, tra la ripresa del Figlio, il primo, e l’uscita dei molti cinquanta giorni dopo. Lì in mezzo sta l’Ascensione, segnando un tempo di tensione estrema, quella tra cielo e terra, secondo la profonda spiegazione bonhoefferiana.12 Siamo immersi in una tensione trasformativa tra il passivo della catastrofe e l’attivo della ricreazione, che ha sempre pure un che di ludico. Avvezzi a sostare dentro tensioni senza risoluzioni (come in tanti brani della musica colta contemporanea), potremmo/vorremmo ricominciare – servirebbe un ottativo per dirlo – come creatori del nostro inizio attuale, con la potenza fattasi acutissima dei nostri desideri. Li possiamo mettere al mondo, rimettendoci nel mondo che desideriamo veder sorgere.13 Ne abbiamo colto le avvisaglie, tanto da poterle facilmente elencare, senza una classifica che valuti le precedenze: ripartire da una ripresa più sicura di noi stessi, desiderosi di vita; gustare la vita dentro una natura risanata e non corrotta dal nostro folle sistema di sfruttamento delle risorse; cominciare a stare bene insieme, oltre l’intimità privata, nella sfera pubblica, senza ostacoli. Vorremmo riprenderci. Non appare però una vera ripresa quella narrata nel libro di Giobbe, giacché essa risarcisce l’eroe di tante tragedie, donandogli altro da ciò che quegli aveva perduto, non i suoi possedimenti, ma altri e anche altri figli. Perciò il risarcimento di Giobbe non consola fino in fondo. Desideriamo il nostro e ancora di più, senza hybris, mentre ci ha stancato il nuovo, del moderno e del post-moderno, che ripete la sostituzione, senza mai osare abbracciare il sorprendente. Siamo logorati dalla sudditanza alla legge implacabile dell’innovazione, per giungere alla tanto conclamata eccellenza. Questo troppo pieno della tarda modernità, che sembra adesso marcire nella putrefazione delle epidemie, suscita l’esigenza di una catarsi, di una disubriacatura, e non per vivere poi da assennati, moderati, perbenisti, ma da entusiasti innamorati della vita che è terrestre, delicatissima, fascinosissima, bisognosa di inarrestabili cure. Non possiamo rifare il già fatto – questo resta semmai opera divina – possiamo però dedicarci a quel quasi nulla di cui ben poco sappiamo ma che è il nostro meraviglioso tutto.14. Cominciamo a vivere, nella consapevolezza della situazione-limite, da cui fuoriuscire, e della condizione d’inizio, da far sbocciare.15 Molto dipenderà dalla potenza matura del nostro desiderio, che non si accontenta, non si rassegna, ma si accresce nella sua progressiva riuscita.


  1. Lamentazioni 1,1; 5, 21. ↩︎

  2. G. Giraud, Transizione ecologica. La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia, tr. it. di P.M. Mazzola, Emi 2015. ↩︎

  3. Incantevoli i versi della poetessa E. Dickinson sulla dimora edenica: Paradise is of the Option – / Whosoever will/ Own in Eden notwithstanding /Adam, and Repeal – (F1125 (1866) / J1069 (1866). Continua a darci da pensare la questione tommasiana sul giardino edenico come la terra adatta all’uomo, cfr. Tommaso, Summa Theologiae, I, q. 102: De loco hominis, qui est Paradisus↩︎

  4. Sul tema dell’inizio, in particolare riguardo al soggetto della modernità, cfr. U. Perone, Nonostante il soggetto, Rosenberg & Sellier, Torino 1995; sul cominciamento come incipit filosofico M. Cacciari, Dell’inizio, Adelphi, Milano 2004; sull’appartenenza naturale, che precede l’ordine di ogni discepolato intellettuale, L. Irigaray, All’inizio, lei era, tr. it. di A. Losardo, Bollati Boringhieri, Torino 2013. ↩︎

  5. R. Guardini, Die Lebensalter. Ihre ethische und pädagogische Bedeutung, Im Wekbund, Würzburg 1953, p. 44; tr. it. a cura dell’editrice, con pref. di V. Melchiorre, Le età della vita. Loro significato educativo e morale, Vita e pensiero, Milano 1992, pp. 73s. ↩︎

  6. Sul tema della ripresa di sé, escludente la ripetizione del già esperito, cfr. S. Kierkegaard, Gjentagelse (1843), tr. it. a cura di A. Zucconi, La ripresa. Tentativo di psicologia sperimentale di Costantin Constantius, SE, Milano 2013; sulla possibilità di riprendersi per iniziare di nuovo, cfr. F. Jullien, Une seconde vie, Éditions Grasset & Fasquelle, Paris 2017; tr. it. di M. Guareschi, Una seconda vita, Feltrinelli, Milano 2017. ↩︎

  7. Sull’ontologia dell’aggiunta, cfr. la proposta teorica di E. Guglielminetti, Troppo. Saggio filosofico, teologico, politico, Mursia, Milano 2015 e La logica dell’aggiunta, Mursia, Milano 2020. ↩︎

  8. Le intense e coraggiose parole di Dietrich Bonhoeffer e di Sören Kierkegaard sono tratte rispettivamente da: Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft, hrg. von E. Bethge, Kaiser, München 1970; tr. it. di A. Gallas, Resistenza e resa. Lettere e scritti dal carcere, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, pp. 341; 501 e La ripresa. Tentativo di psicologia sperimentale di Costantin Constantius, tr. it. a cura di A. Zucconi, Edizioni di Comunità, Milano 1983, pp. 16s.; 102s. ↩︎

  9. E. Jüngel, Anfänger. Herkunft und Zukunft christlicher Existenz, Radius, Stuttgart 2003; tr. it. di A. Bologna, Principianti. Origine e futuro dell’esistenza cristiana, Queriniana, Brescia 2005, p. 7s. ↩︎

  10. Sulla vita (zoé) ottima ed eterna, cfr. Aristotele, Metafisica, Libro XII (Lambda), 1072 b 25-30; sull’anima (psyché) portatrice di vita (zoé), Platone, Fedone 105 d-e; la nozione di vita (zoé) trascorre trasversalmente l’opera di Plotino, cfr. C. Lo Casto, «Teleia Zoe». Ricerche sulla nozione di vita in Plotino, Pisa University Press, 2017. ↩︎

  11. «Così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (Rm 6,4). Interessante il greco: «οὕτως καὶ ἡμεῖς ἐν καινότητι ζωῆς περιπατήσωμεν». Questa novità – di vita nascente, potente, sorgiva – è una stranezza e ci riguarda nel nostro peripatein. Sulla valenza del sintagma “vita nuova”, fortemente connotato in ambito cristiano, cfr. il saggio dantesco, A. Casadei, Incipit vita nova, in “Nuova Rivista di Letteratura Italiana” XIII, 1-2 2010, pp. 11- 18. ↩︎

  12. D. Bonhoeffer, Resistenza e resa, cit., p. 321. ↩︎

  13. Sul concetto di una nuova cultura mondiale, cfr. L. Irigaray, To be born. Genesis of a New Human Being, Palgrave Mcmillan, Lodon 2017; tr.it. di A. Lo Sardo, Nascere. Genesi di un nuovo essere umano, Bollati Boringhieri, Torino 2019. ↩︎

  14. Sull’impossibilità per l’essere umano – apprendista stregone nell’esercizio della libertà – di disvolere ciò che ha voluto, cfr. V. Jankélévitch, Le Je-ne-sais-quoi et le Presque-rien, Seuil, Paris 1980, p. 211; tr. it. di C. a. Bonadies, Il non-so-che e il quasi-niente, Einaudi, Torino 2011, p. 381. Per Bonhoeffer il dolore passato, ma non superato e dunque vivo e tormentoso per la memoria, trova il suo superamento solo nella preghiera; cfr. Resistenza e resa, cit., p. 94. ↩︎

  15. Cfr. T. Fuchs, L. Iwer, S. Micali, Das überforderte Subjekt. Zeitdiagnosen einer beschleunigten Gesellschaft, Suhrkamp, Berlin 2018. ↩︎