1. L’incantesimo di Socrate
I primi dialoghi platonici hanno l’indubbio merito di cullare il lettore nell’illusione di potersi approssimare alla figura di Socrate, di riuscire, in un fascinoso sortilegio letterario, a riudire l’eco delle sue ammaliatrici parole. Il Carmide è uno di questi: sediamo nel consesso di amici festosi attorno al reduce Socrate. Dai campi di battaglia lontani, egli reca di certo notizie importanti. E il giovane Carmide, dalla testa dolente, gli è avvicinato; il maestro potrà insegnare un rimedio straniero, medicamento efficace nel corpo, se accompagnato da una cura d’anima. Infatti la salute-salvezza appare questione dell’uomo intero e dell’integrità è custode la saggezza. Saggezza non è solo autocontrollo o temperanza, non equivale alla nobiltà d’intenti e non si risolve nella pudicizia. Essa è un sapere, ma senza oggetti separati, che nitidamente armonizza le conoscenze acquisite, prima d’ogni giudizio morale. Essa è dunque lucida intelligenza, che si offre nella gratuità, e sebbene da lei non derivi alcun immediato e palese vantaggio, la sua sequela promette beatitudine. L’attestazione che deriva da questa promessa non è però una sicura giustificazione: nulla garantisce il bene promesso, se non la prova che la saggezza stessa offre di sé.
La prova consiste nell’affidarsi all’incantesimo di cui Socrate è capace: far scaturire dal discepolo le sue doti migliori, attraverso l’assidua frequentazione dialogica col maestro. Questi, il più saggio, il più acuto nella conoscenza di sé e dell’altro, è autentico interlocutore, perché non pretende sapere le cose attorno alle quali solleva domande, ché altrimenti vanterebbe con retorica alterigia un dogmatico possesso del vero e un’arte surrettiziamente pedagogica. Invece, non simulando modestia, Socrate si presenta come verace indagatore che esamina ogni volta ciò che il discepolo gli propone nella comune ricerca di una sempre ulteriore chiarificazione. Un’unica certezza guida il maestro, che coltiva il dono divino della passione per il pensiero, il sapere che l’essere è degno d’amore.
2. Metafisica come desiderio
«Saggezza dell’amore», la passione speculativa, follia per chi la ignori, si muove spinta dal desiderio più alto, al di là di ogni bisogno e di ogni appagamento.1 Questo desiderio, questa tensione verso ciò cui tutto tende, ha l’antico nome di metafisica: ricerca misurata solo dall’infinito e perciò inesauribile.
La storia del pensiero annovera momenti che hanno introdotto istanze di incompibile dicibilità, portando in luce l’impensabile che sospende l’esistenza e il linguaggio. Basti ricordare l’«epekeina tes ousias» di Platone, l’«analogia entis» di Tommaso, la «coincidentia oppositorum» di Cusano, l’idea d’infinito di Cartesio, le scommesse di Pascal o l’«esistenza» di Kierkegaard, la «libertà» di Schelling, l’«Ereignis» di Heidegger. Ciò che sfugge al già dato funziona da motore immobile della speculazione; è il meta-fisico.
Ma sofisti e scettici nell’antichità, nominalisti e fideisti nel Medioevo già sottoposero a disamina la metafisica circa la sua validità gnoseologica, pertinenza ed onestà intellettuale.2 Nella modernità è infine invalso l’uso d’affermare, senza tema di smentite, che non è più possibile una metafisica come scienza, come sapere incontrovertibile.3 Eppure Kant, nonostante la critica formulata da Hume, ardiva ancora dire che senza metafisica non c’è filosofia, negando una conoscenza metafisica, ma legittimando l’idea dell’incondizionato, quale unica e imprescindibile presupposizione per la riduzione ad unità e ordine dell’intera esperienza. L’idea di un’intuizione intellettuale non accresce affatto la conoscenza, tuttavia risulta feconda, poiché senza di essa, destinata a restare inaccessibile, il dogmatismo diverrebbe legge: nessuna interrogazione critica sarebbe formulabile, né alcun giudizio; non sarebbe possibile alcuna libertà o vita del pensiero; senza di lei né pensiero, né umanità, ma il sonno della ragione.4
A debita distanza dai pericoli che la storia ha già presentato sul suo proscenio, quali dogmatismo, integralismo, razionalismo, immobilismo o conservatorismo, e sottraendosi alle lusinghe della incontrovertibilità invocata dal pensiero classico, la filosofia prima prova ora a costituirsi a partire dalla ricusa del pensiero come sede di un’esplicazione definitiva della verità: il pensiero non dice la verità nella sua interezza, perché finito. La filosofia continua ad aver di mira l’intero, ma senza l’avida pretesa di esaurirlo; continua a incontrare il vero, ma come ciò che è altro da sé e la interroga. La metafisica si giustifica così proprio sulla base della non esaustività della certezza positivistica nei confronti del reale, che merita di venir studiato anche sotto l’aspetto non direttamente riconducibile a concettualizzazioni fisse e a sicure categorizzazioni.
La riconosciuta differenza rispetto all’intenzionalità scientifica non implica affatto la rinuncia alla razionalità, dal momento che è sempre la medesima volontà di conoscenza e di riconduzione del caos all’ordine che guida e i sistemi scientifici e le tensioni metafisiche. La metafisica non è deputata al campo dell’irrazionale né è abiurata dalla cerchia dei dotti. Il desiderio metafisico, che sfugge alla presa del senso comune e alla raffinata conquista della scienza, non è rapimento mistico ma faticosa e inesausta ricerca, cui è affidata l’indagine estrema della sovrabbondanza dei significati dell’esistenza, sottratti liminarmente e di volta in volta all’ineffabilità.
La metafisica, che assume modi diversi nelle diverse epoche, persiste imperturbata, quanto meno come «tendenza naturale», quand’anche «in quanto scienza» sia in crisi.5 Fu Dilthey a interrogarsi per primo, nel periodo postidealista, sul destino della metafisica di fronte allo sviluppo delle scienze dello spirito. Egli asserì da un lato la non-scientificità della metafisica e dall’altro la persistenza, sotto forma di esperienza personale, ossia di verità morale o religiosa, di quel che vi è di «metafisico» nella nostra vita.6 Di poi, Heidegger, con ineguagliabile efficacia, dismise l’uso di nomi antichi, logorati, compromessi o comunque resi equivoci dalla loro storia. Ma ora, dopo essere passati nel crogiolo della critica più acuta, quei nomi, così purificati, possono forse venir recuperati non foss’altro che per motivi di ricchezza storica.
Ora, dopo Heidegger, grazie a lui e ai padri della filosofia ermeneutica contemporanea, siamo forse meno vulnerabili agli strali di certa acrimoniosa critica e le categorie tradizionalmente filosofiche non ci paiono più irrimediabilmente compromesse. Oltrepassato il varco del sistema dialettico e liberati dall’impegno cogente alla fondazione in filosofia e in teologia, possiamo provare a lasciar-essere la metafisica.Con largo anticipo rispetto alle dispute che sarebbero seguite, aveva già preso questa decisione Husserl, nella consapevolezza che il pensiero non può rinunciare a farsi carico della funzione propriamente metafisica:
Se riprendo l’espressione coniata da Aristotele (di filosofia prima) è proprio perché traggo profitto e vantaggio dal fatto che è caduta in desuetudine e che a noi evoca solamente il suo significato strettamente letterale e non i numerosi vari sedimenti, deposti dalla tradizione storica, che mescolano confusamente sotto il concetto vago di metafisica i ricordi dei diversi sistemi metafisici del passato.7
Metafisica o filosofia prima sono l’indicazione, la titolazione di un certo tipo di sapere connesso, anche storicamente, allo sviluppo della scienza, ma irriducibile ad un razionalismo di tipo scientifico. La rinuncia alla pretesa di un’elaborazione razionale del desiderio metafisico, e dunque della ricerca di costruzioni teoretiche capaci di ordinare e di rendere ragione dell’umano nella complessità della sua interezza, se attuato, equivarrebbe alla capitolazione della filosofia stessa. Il mancato riconoscimento del momento metafisico, quale irruzione dell’inatteso che interrompe il continuum del sapere acquisito, e acquisito anche coi mezzi sempre più potenti della scienza, determinerebbe non solo la perdita della tensione propriamente filosofica alla verità dell’uomo, ma anche la caduta nell’insignificanza delle conoscenze particolari, perciò il sapere della filosofia merita di venir conservato e ripreso, pena il suo eclissarsi nell’immaginario fantastico e mitico. La metafisica vale come compimento dell’esercizio filosofico, non perché trascenda la ragione nell’irrazionale o nell’inesperibile, ma perché si interessa di ciò che è prima o oltre la ragione, di ciò che come originario costituisce e informa la ragione stessa.
Con l’intento di screditare la metafisica, quale vana conoscenza di un mondo ideale, Nietzsche scriveva che del mondo metafisico non si potrebbe predicare null’altro che un essere-altro inaccessibile e incomprensibile.8 Egli aveva ragione e contro le sue stesse intenzioni: la metafisica resta un’eredità preziosissima per il pensiero, perché è il suo andare oltre l’identico nella consapevolezza che l’alterità merita d’essere salvata e indagata. La metafisica che cerca il fundamentum inconcussum, l’immutabile e l’assoluto, risulta vana, ma la metafisica che dice il tutto nel frammento conosce il tempo e la caducità come luoghi privilegiati d’indagine speculativa; conosce il mistero nell’ambiguità del quotidiano e il divino nell’ovvio dell’umano; conosce la verità nello spessore ontologico della metafora; è in quanto vertice d’ogni filosofia, e la filosofia è in quanto metafisica.9
Risulta definitivamente impraticabile la metafisica come sistema dottrinale — ce lo hanno insegnato Kant e i neopositivisti; appare ormai desueta la metafisica della continuità, che misconosce le differenze e corona il sapere dell’identità sovrano assoluto — ce lo hanno dimostrato loro malgrado Hegel e i pensatori dei vecchi e nuovi totalitarismi; si mostra inutile la metafisica come promessa di mondi migliori, fondati sulla Causa Ultima e sul Sommo Bene — come affermarono Heidegger e «i maestri del sospetto». Ma l’inquietudine metafisica permane e chiede di non venir cantata solo dai poeti o proclamata dai profeti, chiede di restare onestamente e degnamente nei domini della ragione.
Di contro ai molti che sostengono l’universale dominio della metodologia scientifica moderna, altri, come gli ermeneuti ad esempio, additano e giustificano una ricerca di verità non coincidente con l’area conoscitiva delle scienze.10 Liberano così, come hanno iniziato a fare Ricœur ed Henrich, i concetti metafisici dalla prigionia dell’oggettività del sapere consolidatosi e dalla fissità dell’ovvio senso comune.11 La filosofia accoglie la sfida propria dell’essere finito che sapendosi esistente non può che interrogarsi e volersi. Per questo la filosofia prima è finanche teologia, perché chi si conosce esistente desidera permanere in tale autocoscienza vivente e amante. Scriveva Wittgenstein:
Intuire il mondo sub specie aeterni è intuirlo quale tutto-limitato». Ma aggiungeva: «Sentire il mondo quale tutto limitato è il mistico». E come si sa, per il filosofo del linguaggio, il mistico è l’ineffabile, ciò su cui si deve tacere, sempre, tanto da mostrare ogni qual volta «altri voglia dire qualcosa di metafisico» che costui «a certi segni nelle sue proposizioni non ha dato significato alcuno».12 Chi voglia però indagare anche il mistico, chieder conto del mistero e dire l’ineffabile, quale provocazione per l’esercizio solerte del pensiero, dovrà tenersi a debita distanza dall’accanimento terapeutico contro quel malanno tante volte diagnosticato come «horror metaphysicus».^[13]
3. L’abbandono
Passata attraverso la dura e salutare lezione del disincanto e al vaglio del sospetto, la filosofia, resistita ai tanti dichiarati superamenti, ridice oggi la sua costitutiva inclinazione a esprimere il tutto nella forma della riduzione razionale, dell’argomentazione critica. La metafisica resta, come irrefrenabile desiderio conoscitivo, e la filosofia, come inesausta tensione chiarificatrice, non muore; dunque il pensiero speculativo è ancora affar nostro. Lo ha mostrato Heidegger, dopo aver percorso la strada dell’oltrepassamento della tradizione filosofica d’Occidente.
Un tempo la metafisica ha indagato nel senso dell’altezza, ora il destino del pensiero indica nella direzione della profondità. Il finito, la terra, l’umano attingono ricchezze di sapienza nel profondo di sé, mentre l’altezza è di altri regni. Si può allora forse cominciare a interpretare il meta-fisico non come ciò che è sopra, giacché quae supra nos, nihil ad nos,13 ma come ciò che è essenziale al finito, seppur irriducibile a uno sguardo oggettivante. Scriveva Nietzsche in Aurora:
La realtà più vicina, quel che è intorno e dentro di noi, comincia a poco a poco a mostrare colori e bellezze ed enigmi e ricchezze di significato — cose, queste, che l’umanità più antica non sognava neppure.14
Quanto Nietzsche suggestivamente affermava segue un discorso sull’irrilevanza dell’origine, eppure risulta di per sé estremamente significativo proprio se riletto alla luce di un’interpretazione dell’origine. Con l’origine infatti abbiamo imprescindibilmente a che fare, è il dato primo che ci costituisce e che rimane inappropriabile nella sua inesauribilità e separatezza. Ma poiché l’origine risulta inattingibile in maniera pura dal pensiero, compito della filosofia non è quello di saltare il fossato verso un’improbabile conquista di mondi superiori, bensì quello di accorgersi finalmente della realtà più vicina, di ravvisare l’originario nell’epifania del presente, limitato e fugace.
La metafisica non è finalizzata all’alto ma al profondo e così all’in-finito; non abbiamo infatti che il finito da indagare e l’unica misura che gli rende ragione è la dimensione metafisica. La filosofia degli antichi si spingeva lontano, la filosofia della tarda modernità indugia nella prossimità e ne scopre il fascinosum e il tremendum. L’ultimità non-detta rimanda alla finitezza come all’unicum dicibile e pensabile. Scriveva Heidegger nella Lettera sull’umanismo:
Il pensiero non supera la metafisica col sorpassarla e sollevarla in una qualche direzione, salendo ancora più in alto, bensì scendendo vicino al prossimo. La discesa, tanto più dove l’uomo si è smarrito nella soggettività, è più difficile e più pericolosa della salita: la discesa conduce nella povertà dell’esistenza dell’homo humanus.15
In Heidegger la questione importante non è più il proseguimento del progetto di metafisica nella sua plurimillenaria compromissione con l’ontoteologia, ma l’inaugurazione di un’ermeneutica dell’impensato della filosofia e ciò è parso realizzabile attraverso una discesa verso la prossimità: l’homo humanus è l’homo hermeneuticus che unisce l’uso della ragione alla passione per il finito.16
La metafisica, ripresa nell’età ermeneutica, si costituisce nell’andare oltre ogni pretesa chiusura gnoseologica per delineare spazi d’ordine e di nitore. Ciò che la qualifica non è lo sfondamento verso scenari nascosti, ma l’avvicinamento a ciò che ci è più prossimo. Heidegger aveva intuito che la metafora del pensare contemporaneo non è l’ascesa ma la discesa nella direzione dell’umanità, fosse anche l’umanità di Dio.17 La filosofia, nel suo essere essenzialmente prima, si dispiega nel movimento dell’approssimarsi. Tale lungo percorso verso quanto si mostra essere più intimo di me a me stesso, verso il proprio della umana finitezza segnata da un’inquietudine infinita, è un continuo trascendere. Anche i saperi scientifici progrediscono perché guidati dalla logica dell’inarrestabile oltrepassamento. Eppure l’essenza pensante che qualifica l’uomo non si riduce alla matematizzazione dell’esistente.
Heidegger distinse tra «pensiero calcolante» (rechnende), proprio dei progetti scientifici, dal «pensiero meditante» (besinnende), che inerisce al senso di tutto ciò che è. Quest’ultimo è accomunato al primo dalla fatica della ricerca, giacché né l’uno né l’altro sorgono velleitariamente, senza sforzo e attesa. Ma è il pensiero meditante quello che caratterizza l’essere dell’uomo e che gli attiene propriamente.
Pensiero meditante è la filosofia, la quale, per essere adeguata allo spirito del tempo, deve riuscire ad elaborare il dato della pervasività della ragione tecnico-scientififica, che ha superato ogni illuministica previsione di gloria. Ma la filosofia rischia di non trovarsi all’altezza dello sfarzoso e raffinatissimo imperio della avanzata cultura tecnologica e di porsi in fuga, impoverendosi, invece di corrispondere e anticipare.
Il tempo del disincanto rende arduo e turbato il riconoscimento pieno nella nostra tradizione religiosa e filosofica, mentre il meraviglioso mondo della razionalità scientifica e della consumata secolarizzazione richiede una comprensione teoretica nuova, capace di affrontare anche le possibili derive di un sapere mal applicato: la modificazione della sostanza vivente, ancor più insidiosamente del terrore atomico, vale oggi come esempio, dell’urgente problema della protezione della vita.18 Inquietante non è il successo della scienza, ma l’inadeguatezza della filosofia a divenire nel presente ragione critica e prospettiva etica.
Un pensiero meditante ha l’alto e urgente ufficio di farsi carico delle trasformazioni epocali, più celeri dei tempi lunghi cui è avvezzo il filosofo. La nottola che arriva sul far del crepuscolo rischia questa volta di attardarsi imperdonabilmente. Con la baldanza di un canto diurno la filosofia, come meditazione metafisica, dovrebbe invece andare in cerca di nuovi radicamenti per la nostra cultura.
L’ambiguità del mondo, del qui e ora, carico di speranze e di incertezze, lancia la sfida; raccoglierla non significa produrre sogni antimoderni, misconoscendo la situazione per destituirne la potenza, tutt’altrimenti significa accogliere la seduzione e la minaccia del mondo tardo moderno per vagliare il senso che da esso deriva. Proponeva Heidegger in un suggestivo discorso:
Si tratterà di lasciar entrare nel nostro mondo di tutti i giorni i prodotti della tecnica e allo stesso tempo di lasciarli fuori, di abbandonarli a se stessi come qualcosa che non è nulla di assoluto, ma che dipende esso stesso da qualcosa di più alto. Vorrei chiamare questo contegno che dice al tempo stesso sì e no al mondo della tecnica con un’antica parola: l’abbandono di fronte alle cose (die Gelassenheit zu den Dingen = l’abbandono delle cose e alle cose).19
La parola è antica e di pertinenza spirituale, indicando l’atteggiamento di presa di distanza dalle cose per trarvi, in posizione di liberante distacco, il loro mistero o, addirittura, secondo il linguaggio mistico-teologico, la voce, la volontà di Dio. Il rimando heideggeriano è a Meister Eckhart, che nel XIV secolo insegnava il distacco come la più alta e migliore virtù.20 Essa non è frutto di un pauperismo ascetico, non equivale alla rinuncia, definisce invece una posizione verso l’esistente, ivi compreso il soggetto proprio.
In questo quadro lo sguardo di chi contempla e medita è teso a cogliere e a decifrare la comunicazione che viene dalle cose stesse. Dunque la lezione fenomenologica si riconferma preziosa per Heidegger e per noi come proposta di metodo speculativo: l’atteggiamento di abbandono di un pensiero incessante e appassionato implica la curiosità teoretica, l’apertura della domanda metafisica, il rispetto dell’alterità e l’assunzione di responsabilità. Infatti
l’abbandono di fronte alle cose e l’apertura al mistero (die Offenheit für das Geheimnis) si appartengono l’uno all’altra.21
Il compito filosofico qui annunciato chiede di abbandonarsi, ovvero di allontanarsi, di distanziarsi dagli sguardi dell’ovvio senso comune o dell’irenico fideismo come da quelli acutissimi del pensiero calcolante e della violenta totalizzazione, per assumere un’ottica contemplante, che cerchi pazientemente e umilmente il disvelamento del vero senza sovraccarichi ideologici precostituiti, e che sappia suscitare creazioni inedite.
La suprema disponibilità del soggetto contemplante, che ha davanti a sé tutte le cose, era descritta da Meister Eckhart come conoscenza intellettiva che intuisce le verità essenziali e che equivale alla beatitudine suprema. Lo sguardo contemplante, che ambisce farsi pensiero rivelativo, ricalca lo sguardo divino di apprezzamento della creazione. E gli artisti esemplarmente spiegano la genesi delle loro opere come un togliere, un levare per far risplendere la bellezza di forme e materie: Kronos disvela Aletheia.
4. L’attesa
Il termine eracliteo Anchibasíe è stato spiegato nella traduzione heideggeriana come «andare-nella-prossimità» (In-die-Nähe-hinein-sich-einlassen). Questo nome pare il più adeguato a indicare un cammino notturno, quale è quello della cultura e della spiritualità contemporanee, che brancicano e tuttavia attendono nuove forme. Affinché la meraviglia, racchiusa nella notte, possa di nuovo suscitare echi creativi, chi pensa riceve in affidamento l’attesa. Essa è preziosa perché segnala un movimento di resistenza. L’attesa di veder sorgere forme inedite di pensiero e di vita, lungi dal porsi come disposizione passiva, è occupata dall’abbandono alle cose che consente di approssimarsi ad esse tanto da vederle a partire da un’ottica nuova. Attesa, abbandono, avvicinamento tracciano la costellazione in virtù della quale il pensiero tardo moderno si orienta, nelle sue espressioni teoretiche, morali e teologiche.
Per Heidegger nessuna filosofia e nessuna impresa umana hanno il potere di modificazione del presente, nondimeno esse possono preparare una disponibilità ad un possibile trapasso, stante il nesso tra autenticità dell’essere e del pensare.22 Non sarà una decisione sovrana a inaugurare un’epoca nuova, ma una meditazione preparatoria può disporne la nascita.
Levinas magistralmente ha mostrato nell’abbandono alla prossimità una strada percorribile dalla filosofia che si sa originariamente etica, perché il soggetto pensante è istituito nella relazione con l’alterità, che esso ha già in sé medesimo:23 «Io sono uno e insostituibile — uno in quanto insostituibile nella responsabilità». La relazione con altri è definita come prossimità e questa si spiega nella responsabilità24 per altri assunta fino alla sostituzione, all’abbandono del sé.
Com’è bella questa parola «abbandonarsi» — osservava il teologo Bonhoeffer — «lasciare se stessi per appoggiarsi a Dio».25 Nell’attesa di poter pronunciare in modo nuovo l’annuncio divino, l’essere cristiani nel tempo presente consiste nell’abbandono di parole e gesti ormai inattuali. Nel frattempo resta l’adorazione fiduciosa e la scelta di vita buona.
I termini presi in esame per tentare di definire l’orizzonte del nostro pensare conservano tutti una duplicità nella loro pregnanza di significato: abbandono designa il lasciare, il perdere ma anche l’affidarsi, il consentire di essere; l’attesa esprime un vuoto d’eventi ma pure la preparazione; l’approssimarsi indica la vicinanza del conoscibile e la direzione etica. Così è della passione del pensiero, sofferta trepidazione e amoroso intendimento.
L’atmosfera in cui è calato il nostro pensare è quella del desiderio, non avendo più certezze antiche e aspettando strumenti nuovi di comprensione. Attendiamo, abbandonati al mistero del nostro esistere, coscienti di una mancanza. Molto è stato detto intorno alla povertà del nostro tempo, che si percepisce come intervallo tra tempi e come povertà.26 Mancano oggi categorie esplicative adeguate all’oggetto complessissimo del nostro pensare meditante e interpretante, manca l’Assoluto che pure giunge all’intuizione nella vita cosciente.27 Si attende ciò che è assente. E l’Assente per antonomasia, il Dio che non sia sa dove se ne sia andato, è l’Atteso. Ora conosciamo l’Assente nel modo del desiderio. È un modo estremo, il solo di cui disponiamo e che riconosciamo corrispondente allo spirito del tempo, al nostro essere proprio, al nostro ragionare critico. Altri tempi hanno conosciuto altre modalità conoscitive; oggi, mentre il pensiero calcolante scopre oggetti più sorprendenti di quelli che ipotizzava, il pensiero meditante presume esistente l’essere massimamente desiderato.
Serbando la categoria del desiderio, possiamo tentare di mettere in relazione intelligibilità e trascendenza. Le meditazioni filosofiche di Cartesio hanno mostrato all’inizio della modernità l’intreccio di razionalità umana e infinità divina: la prima scopre in sé la capacità di concepire la seconda e sancisce così il suo valore. Le riflessioni etiche di Levinas, che accompagnano il fiorire di una nuova età, segnalano il trascorrere del trascendens nello psichismo umano, che non si esaurisce nei limiti del cogito autoassicurato. La trascendenza dice la differenza autenticamente metafisica, insinuandosi nella compattezza dell’essere e corrispondendo così all’io umano, che, autocosciente, sospende l’opacità del reale. L’immanenza ontologica non basta a esprimere la trascendenza, che interrompe l’unità dell’appercezione trascendentale; ne può derivare un modello antropologico nuovo, costruito alla luce dell’idea di Rivelazione, sulla base della quale pensare l’uomo come precipuo luogo di svelamento, coscienza aperta sul mondo e su Dio.
L’approssimarsi di Dio è scorto nella prossimità; la sua manifestazione nella rivelazione dell’uomo a se stesso.28 La meditazione vira anche in questo caso verso il più profondamente vicino, cercando, mediante la continuazione e la prosecuzione della lezione fenomenologica, di pervenire a una höhere Aufklärung, a un più aperto e complesso esercizio speculativo che non escluda aprioristicamente la trascendenza, già troppe volte confinata in un misticismo muto o risolta in un positivismo della Rivelazione. «La fenomenologia — sostiene Levinas — non cessa di ricercare, dietro la lucidità del soggetto e l’evidenza di cui essa si appaga, come un sovrappiù di razionalità».29
Un’apertura della ragione alla trascendenza non si contenta di un soggetto pensante pago di sé e senza desiderio e a distanza dalla vita, ancora non del tutto ridestato dai sonni dogmatici. Per essere tanto desta da osare di nuovo un discorso della trascendenza, come riflessione sull’inesauribilità dell’essere, la ragione, anziché assopirsi in un’esaltazione iniziatica, è chiamata a cimentarsi con più audacia intorno a plessi più profondi rispetto all’intenzionalità dell’intelligenza critica; è chiamata a una vigilanza che superi la lucidità dell’evidenza.
L’idea dell’infinito, la meraviglia che alimenta il desiderio metafisico, dischiude nella coscienza un varco all’alterità assoluta. Nella rottura dell’immanenza i segni della trascendenza divengono pensabili. Levinas nomina la trascendenza nell’altrimenti che essere, appellandosi ad un Bene più originario; Heidegger nel differire inarrestabile di ente ed essere; Bonhoeffer nell’«esserci-per-altri» cristologico. La sfida al pensiero meditante, ovvero alla filosofia che non disdegna ma anzi aspira al titolo di metafisica, consiste nel compito altissimo d’indicare la cooriginarietà e la coappartenenza di intelligibilità e trascendenza, di coscienza di sé e mistero del tutto, senza fermarsi all’annuncio di un Bene ultimamente salvifico ma detto una sola volta e poi consegnato al vissuto.
La notte, come metafora della presente situazione spirituale, per quanto profonda, resta tuttavia magnifica e splendente: fa «traboccare la sua meraviglia sopra le stelle» e «approssima le loro lontananze» tanto all’osservatore ingenuo quanto allo scienziato esperto. La notte che tiene assieme le stelle «lavora soltanto con la prossimità…riempiendo di meraviglia le profondità dell’immenso.30 Questa notte incredibile seduce ed inebria. Si tratta dell’ebbrezza dell’attesa, che rende più disponibili e abbandonati, dunque più sobri.
E lucido e sobrio era il maestro Socrate, quando giudicava preferibile al senno dei più il delirio che viene da un dio. Ma sta al filosofo — egli diceva — dimostrare la forza di questa teoria, giacché appare maggiormente convincente l’argomento contrario, che fa prediligere chi è in senno a chi è appassionato.31L’ebbrezza socratica deriva dalla contemplazione delle essenze degne d’amore, per le quali la percezione non è sufficientemente profonda. Ma nulla vi è di più nobile e desiderabile di ciò cui quella smania, quell’estatico patimento conduce.
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L’espressione è levinassiana e della saggezza del desiderio dice ampiamente Levinas in Autrement qu’être ou au-delà de l’essence, Nijhoff, La Haye 1974, trad. it. a cura di S. Petrosino e M.T. Aiello, Altrimenti che essere, Jaca Book, Milano 1983, v. in particolare le pp. 191, 201-203. Nel Filebo e Convivio platonici il desiderio metafisico è descritto come desiderio dell’invisibile. In particolare il Filebo presenta sul piano etico una precisazione delle dottrine ontologiche. ↩︎
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Secondo Kolakowski, che si associa in ciò a Hume, a Kant e ai neopositivisti, il sapere si ferma al limite della conoscenza empirica, poiché al di là si apre il dominio del mito, di cui farebbe appunto parte la metafisica. Nel suo insieme il mito è un elemento ineliminabile della cultura, prova ne è il fatto per Kolakowski (un tempo giudicato eretico dai marxisti-leninisti), che esso è presente in ogni tipo di società, ivi compreso quello marxista. Kolakowski ha esposto la sua teoria circa la metafisica in un libro, a lungo censurato in Polonia e poi pubblicato in Francia, intitolato Die Gegenwärtigkeit des Mythos, P. Piper und Co. Verlag, München 1977, trad. di Obecnosc mitu, Instytut Literacki, Paris 1972. ↩︎
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Kant ha liberato la metafisica dal modello, matematico ed empirico, delle scienze positive. L’idea di un fondamento sovrasensibile è sviluppata nella Critica del Giudizio come teleologia che compie la metafisica. Al superamento kantiano della metafisica come scienza va aggiunto, nella serie delle più serrate critiche, il superamento empiristico. Sulla base del principio neopositivistico della verificabilità empirica delle proposizioni tutti gli asserti metafisici risultano inevitabilmente privi di senso. Tale critica, benché rimanga significativa come configurazione archetipica di un superamento ispirato da motivi gnoseologici, si è però dissolta, persino all’interno della stesso alveo positivista, perdendo d’interesse per la ricerca. Infatti è ormai considerata impropria la valutazione neoempirista basata su di un riduttivo presupposto verificazionista tratto dalle scienze e conforme ad esse ma inapplicabile in ambito metafisico. La critica neoempirista giudicava le proposizioni metafisiche insensate in quanto empiricamente non-verificabili, ma il principio di verificabilità si è dimostrato autocontraddittorio in quanto a sua volta empiricamente inverificabile. Dopo Wittgenstein e Popper nella filosofia analitica la metafisica è accettata nella sua pretesa di senso come uno delle possibili visioni del mondo. In tal modo alle costruzioni metafisiche è attribuito il merito di anticipare talora la scienza e di valere come importante stimolo intellettuale, mentre rimane loro negato il valore di conoscenza argomentata e razionale. ↩︎
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Nella parola latina intuitio non c’è l’idea mistica di una comprensione estatica, bensì quella del lavoro dello sguardo, della cura. ↩︎
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V.I. Kant, Prolegomena zu einer jeden künftigen Metaphysik, die als Wissenschaft wird auftreten können, in Werke, III, Akad. Ausg. IV, W. de Gruyter, Berlin 1968; trad. it. di P. Carabellese, riveduta da R. Assunto, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che si presenterà come scienza, Laterza, Bari 1988. ↩︎
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«L’elemento metafisico del nostro vivere come esperienza personale, vale a dire come verità religioso-morale, resta», in W. Dilthey, Introduzione alle scienze dello spirito, La Nuova Italia, Firenze 1974, p. 492 (trad. it. a cura di G.A. De Toni condotta sul I vol. dei Gesammelte Schriften, Teubner, Stuttgart e Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1966). Secondo l’opera di Dilthey è solo questo il residuo metafisico (das Metaphysische) che continua a sussistere anche dopo i programmi di superamento e di dissoluzione. ↩︎
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E. Husserl, Erste Philosophie, Husserliana vol. VII, p. 3. Con la dichiarazione dell’intenzione di liberarsi dei sistemi del passato, attraverso la fenomenologia trascendentale, senza per questo separarsi dalla traiettoria metafisica, Husserl inaugurò le sue lezioni di filosofia prima all’Università di Friburgo nel 1923-24. ↩︎
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V. in particolare le riflessioni di F. Nietzsche, Umano, troppo umano, in Opere, a cura di G. Colli e M. Montinari, Adelphi, Milano 1964 e sgg. ↩︎
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Esibendo l’esaurimento della filosofia prima, c’è anche chi accetta la sopravvivenza e la legittimità di una filosofia seconda, equivalente non più alla fisica come in antico ma alla dimensione pratica (V.M. Riedel, Für eine Zweite Philosophie. Vorträge und Aufsätze, Frankfurt, Suhrkamp 1988. La filosofia seconda ha per Riedel la forma di una ermeneutica a finalità pratica). Qualsivoglia filosofia seconda però si nomina come tale perché attiene alla filosofia in quanto tale, che non può che essere data innanzitutto, una prima volta. Se filosofia c’è, essa è prima. ↩︎
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Tra i primi ricordiamo ad esempio Hans Albert e Richard Rorty, tra i secondi Gadamer, Ricœur e Pareyson. ↩︎
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Nella fedeltà a Kant, Pareyson era dell’opinione che si debba dimostrare d’avere buon senso pensando e dicendo cose ragionevoli e meditate e non appellandosi al senso comune come ad un oracolo quando non si dispone di nulla d’intelligente per giustificare le proprie asserzioni. V. in il capitolo Filosofia e senso comune in L. Pareyson, Verità e interpretazione, Mursia, Milano 1971 (19823), pp. 211-233. ↩︎
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L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, trad. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1964, 6.45 6.53. Preoccupato di delimitare i confini della filosofia dinanzi alla soglia del mistico, Wittgenstein avvertiva: «Soprattutto niente chiacchiere trascendentali, quando tutto è così chiaro come un ceffone!» (Ibidem, 6.54) — consapevole che solo in forza di una previa elucidazione critica è giustificato il ricorso al termine più alto: «Credere in Dio vuol dire comprendere la questione del senso della vita, vuol dire vedere che i fatti del mondo non risolvono tutto, vuol dire che la vita ha un senso» (ID., Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914-1916, trad. it. di A.G. Conte, Einaudi, Torino 1983); v. anche Diari segreti, a cura di F. Funtò, introd. di A.G. Gargani, Laterza, Roma-Bari 1987). Ne L’âge herméneutique de la raison, Cerf, Paris 1985, p. 264, J. Greisch ha biasimato il ricorso in teologia all’argomento del senso, proprio perché «il senso è una merce che si vende piuttosto bene alla fiera delle illusioni». Ma il Dio della ragione ermeneutica, pensato nella sua assoluta gratuità, non si riduce al Dio del senso costruito secondo lo schema della correlazione che confina Dio nel ruolo di rispondente e mortifica l’uomo in quella di richiedente. Occorre stare in guardia contro gli equivoci categoriali e i conseguenti abusi speculativi. ↩︎
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È questo il Dictum Socraticum, v. M. Lutero, De servo arbitrio (1525), WA 18, 605, 20s. (=BoA 3, 100, 17). ↩︎
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F. Nietzsche, Aurora, in Opere, ed. cit., vol. V, t. 1, p. 44. ↩︎
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M. Heidegger, Brief über den Humanismus (1946), pubblicato con lo scritto su Platone Platons Lehre von der Wahrheit, Bern 1947, trad. it. La dottrina di Platone sulla verità, Lettera sull’umanismo, di A. Bixio e G. Vattimo, Sei, Torino 1975, p. 37. ↩︎
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A questo proposito v. U. Perone, Le passioni del finito, Edizioni Dehoniane Bologna, collana Serie Ricerche n. 2, 1994. ↩︎
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Le ultime riflessioni barthiane (ad es. L’umanità di Dio, Claudiana, Torino 1975 — testo del 1956) sono riprese da E. Jüngel che ragiona intorno alla umanità di Dio (Menschlichkeit Gottes) in Gott als Geheimnis der Welt, Mohr, Tübingen 1977, trad. it. di F. Camera, Dio, mistero del mondo, Queriniana, Brescia 1982. ↩︎
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Richiama la filosofia all’obbligo della responsabilità e alla sua vocazione etica H. Jonas, Technik, Medizin und Ethik. Zur Praxis des Prinzips Verantwortung, Insel, Frankfurt am Main 1985, trad. it. di P. Becchi e A. Benussi, Tecnica, medicina ed etica. Prassi del principio responsabilità, Einaudi, Torino 1997; Id., Philosophie. Rückschau und Vorschau am Ende des Jahrhunderts, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1993, trad. it. di C. Angelino, La filosofia alle soglie del Duemila. Una diagnosi e una prognosi, Il Melangolo, Genova 1994. ↩︎
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M. Heidegger, Gelassenheit,, Günther Neske, Pfullingen 1959, trad. it. di A. Fabris, L’abbandono, Il Melangolo, Genova 1989, p. 38. ↩︎
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V. il sermone Qui audit me in Deutsche Werke, I B., Predigten, Kohlhammer, Stuttgart 1958, trad. it. di G. Faggin in Maestro Eckhart, Trattati e prediche, Rusconi, Milano 1982 o di M. Vannini, in Meister Eckhart, Opere tedesche, La Nuova Italia, Firenze 1982. Cfr. anche il trattato Die Rede der Unterscheidunge, in Deutsche Werke, V.B. Traktate, Kohlhammer, Stuttgart 1963. ↩︎
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M. Heidegger, L’abbandono, cit., p. 39. ↩︎
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Id., L’epoca dell’immagine del mondo, in Sentieri interrotti, trad. it. a cura di A.P. Chiodi, La Nuova Italia, Firenze (19681) 1984, (ed. or. Holzwege, V. Klostermann, Frankfurt a. M. 1950, 19806); Id., Ormai solo un Dio ci può salvare, trad. it. a cura di A. Marini, Guanda, Parma 1976. ↩︎
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Sull’alterità costitutiva dell’identità personale cfr. P. Ricœur, Soi-même comme un autre, Seuil, Paris 1990, trad. it. di D. Iannotta, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993; A. Rigobello, Autenticità nella differenza, La Scuola, Roma 1989; U. Perone, Nonostante il soggetto, Rosenberg & Sellier, Torino 1995. ↩︎
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E. Levinas, Altrimenti che essere, cit. p. 129. ↩︎
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D. Bonhoeffer, Brautbriefe Zelle 92. Dietrich Bonhoeffer, Maria von Wedemeyer, 1943-1945, C.H. Beck, München 1992, trad. it. di M.C. Murara, Lettere alla fidanzata. Cella 92, Queriniana, Brescia 1994, p. 169. V. anche ID., Widerstand und Ergebung. Briefe und Aufzeichnungen aus der Haft, Kaiser, München 1970, 19853, trad. it. di A. Gallas, Resistenza e Resa. Lettere e scritti dal carcere, Paoline, Cinisello Balsamo (Milano) 1988, p. 370. ↩︎
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Così Hölderlin e Heidegger. Cfr. K. Löwith, Heidegger Denker in dürftiger Zeit, Vandenhoeck & Ruprecht, Göttingen 1960, trad. it. di C. Cases e A. Mazzone, Saggi su Heidegger, Einaudi, Torino 1966. ↩︎
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V.D. Henrich, Selbstbewußtsein. Kritische Einleitung in eine Theorie, in Hermeneutik und Dialektik. Festschrift für H.G. Gadamer, a cura di R. Bubner, K. Cramer, R. Wiehl, Tübingen 1970, pp. 257-284. Il tema della ripresa della nozione di autocoscienza è centrale nei lavori di Henrich: v. anche Selbsteverhältnisse, Reclam, Stuttgart 1982, 1993, nonché, i due saggi teoreticamente più significativi, Selbstbewußtsein und spekulatives Denken, in Fluchtlinien. Philosophische Essays, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1982 e Was ist Metaphysik — was Moderne? Zwölf Thesen gegen Jürgen Habermas, in Konzepte. Essays zur Philosophie in der Zeit, Suhrkamp, Frankfurt am Main 1987, pp. 11-43. ↩︎
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Su questo anche il documento conciliare Gaudium et Spes, n. 41. ↩︎
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E. Levinas, De Dieu qui vient à l’idée, Vrin, Pari 1982, trad. it. di G. Zennaro, cura di S. Petrosino, Jaca Book, Milano 1986, p. 33s. (Dalla coscienza alla veglia a partire da Husserl). ↩︎
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M. Heidegger, L’abbandono, cit., pp. 76-77. ↩︎
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V. Platone, Fedro, in Opere Complete, 3, trad. it. di P. Pucci, Laterza, 1985, pp. 235ss. ↩︎