Antropologia filosofica del dono: uno scambio «simbolico»

1. Un tracciato semantico

Ricercare il significato che il concetto di dono custodisce è riflettere sulla «circolazione delle cose» nella società, comprendere cioè l’importanza dell’esistenza di una «relazione funzionale tra il dono e lo scambio» così come traspare dal famoso saggio Essai sur le don di Marcel Mauss (1923-24).1

Il dono rappresenterebbe l’elemento di un sistema di reciproche prestazioni a un tempo libere e costrittive, nel senso che il dono spontaneamente concesso obbligherebbe il donatario a ricambiare attraverso un controdono, dando luogo ad un continuo andirivieni di doni offerti e di doni compensativi. È l’alternanza di questi passaggi che origina lo scambio; uno scambio che non si limita al rapporto tra i singoli individui ma si estende ad una relazione più vasta che interessa l’intera società. Lo scambio deve, dunque, essere inteso come un circuito di doni e non come un’operazione economica e commerciale.

Il transitare delle cose non avviene funzionalmente a contratti opportunamente stipulati. Lo scambio di doni e quindi l’alternarsi tra il dare, il ricevere ed il ricambiare accenna all’esistenza di una relazione sociale la cui origine è da ricercarsi nel concetto stesso di dono. Il dono, infatti, non si dispiega in forma unilaterale, come mera cessione, ma aziona un movimento di reciproche prestazioni, uno scambio continuo che è possibile cogliere non solo empiricamente, ma anche semanticamente.

Nelle lingue indœuropee (Benveniste, 1971)2 il significato di «dare» è espresso dalla radice . In seguito, uno studio sul verbo ittita «dâ», che avrebbe significato di «prendere» e non quello di «dare», ha generato un po’ di confusione in merito a questa delicata quanto interessantissima questione linguistica: Quale tra questi due verbi doveva essere l’originale? E, se fosse stato possibile stabilirlo, come giustificare la derivazione di «dare» da «prendere» e viceversa? Ma soprattutto, sarebbe stato possibile rassegnarsi a uno dei due costrutti?

La questione, se strutturata secondo queste interrogazioni, rimane irrisolta. Il problema, infatti, interessa un’altra prospettiva, quella secondo la quale «dô» non significa propriamente «prendere» o «dare», ma uno o l’altro a seconda delle costruzioni.

Prendendo in considerazione il termine stesso di «dono», è possibile notare che questo, pur mantenendo in generale la radice «dô», si differenzia in forme nominali che acquistano significato variabile a seconda del contesto. Queste sono: dôs, dósis, dôron, dôreá, dôtínê, cinque parole tra loro distinte, ma tutte uniformemente traducibili con «dono, regalo».

La prima, dôs, è il modo più semplice di esprimere il dono, l’idea del dono, cioè, nella sua forme più astratta: «donare è bene, sottrarre è male» si legge in Esiodo. Dósis è, invece, l’atto del donare suscettibile di attuarsi in dono, è il dono in potenza, è il dono promesso in anticipo come ricompensa di un atto di audacia. È possibile scorgere in questo caso l’indiretto riferimento ad entrambi i significati della radice verbale dôs: infatti perché si possa concretizzare il dono promesso (affinché si possa dare), deve essere esaudita la condizione di partenza, si deve, cioè, ricevere qualcosa in cambio (si deve poter prendere). Dôron e dôreá presi insieme, indicano, il primo, il dono materiale, il dono stesso, il secondo, il fatto di portare, di destinare in dono, l’azione di donare che si dispiega in forma gratuita e senza obbligo di ricambiare. Dôtínê, infine, indica il dono che obbliga a un controdono; la dôtínê ha lo scopo di provocare un dono in cambio, qualcosa che compensi un dono precedente. Tale nozione consiste, dunque, nell’attualizzazione dell’idea di reciprocità, di rapporto, di scambio, nella circolazione di doni che ricambiano e che chiedono d’essere ricambiati.

La parola dôtínê, più delle altre, ha chiaro nel suo significato il concetto di scambio reciproco esplicitato sotto forma di patti, alleanze, amicizie, ospitalità.

2. Il dono: uno scambio altro

Quando si parla di scambio di doni si deve pensare ad uno scambio di mercanzie? Esiste tra dono e mercanzia un rapporto di tipo analogico o una radicale differenziazione rispondente ad una logica bipolare? O ancora, ci si trova di fronte a due poli distinti ma suscettibili di appartenere ad una stessa realtà? La risposta si rivela assai ardua.

Riflettere criticamente sul concetto di dono esula sia da una logica di tipo analogico, sia da una logica di tipo bipolare. Rispetto alla prima impostazione il concetto di dono e quello di mercanzia verrebbero caratterizzati come sostanzialmente identici, rispetto alla seconda come radicalmente distinti. Il concetto di dono non risponde a nessuna delle due costruzioni di pensiero. È indispensabile, quindi, ricorrere ad una terza via che sorpassi le prime due e fornisca una chiarificazione più attendibile di tale concetto senza ricadere nei classici principi di somiglianza e contrasto. Affinché si possa pervenire all’ammissibilità di un nuovo modello esplicativo del concetto di dono è opportuno comprendere, valutare le precedenti teorie: l’analogismo e il polarismo.

Relativamente ad una riflessione di tipo analogico il dono apparterrebbe allo stesso universo fondamentale di quello della mercanzia. Dono e mercanzia sarebbero, cioè, caratterizzati secondo un analogismo economico. Il punto di partenza logico e cronologico di tale struttura di pensiero consisterebbe nell’identificazione del baratto con il dono e di quest’ultimo con la mercanzia. Il dono rappresenterebbe, dunque, una mercanzia in potenza e lo scambio di doni uno scambio di mercanzie, uno scambio calcolato. In un universo così omogeneizzato la funzione cognitiva e normativa dell’idea di baratto è chiara: fare del mercato un assoluto. E dell’uomo un essere calcolante volto esclusivamente al raggiungimento dei propri fini e al soddisfacimento dei propri interessi. Uno tra i maggiori autori ad aver rappresentato una tale visione individualista ed utilitarista dell’uomo è sicuramente Adam Smith (1973). L’uomo, secondo quanto si legge in una sua celebre formula, sarebbe caratterizzato da «una particolare inclinazione a trafficare, a barattare e a scambiare una cosa con un’altra. […] Dammi la tal cosa di cui ho bisogno e te ne darò un’altra di cui hai bisogno tu»3 proporrebbe chiunque offra ad un altro un contratto.

Senza dubbio l’opera di Mauss e di Polanyi — così come lo documenta Gérald Berthoud — sono ciascuna a loro modo delle risposte alle visioni smithiane. […] Per Mauss non c’è niente di più falso che la nozione di baratto. Tutta la speculazione di Adam Smith parte da un errore […] . La nozione di baratto è nata tra il XVIIIesimo e il XIX esimo secolo dal nostro utilitarismo.4

Scrive, infatti, Mauss:

I doni non hanno lo stesso scopo del commercio e dello scambio nelle nostre società più elevate. Lo scopo è prima di tutto morale, l’oggetto è quello di produrre un sentimento di amicizia tra le due persone interessate e se l’operazione non ottenesse questo effetto tutto verrebbe meno.5

Sia Mauss che Polanyi rifiutano il ricorso ad una rappresentazione delle società primitive fondata su un’ economia di sussistenza o un’economia naturale. Scrive Polanyi:

nessuna società potrebbe, naturalmente, sopravvivere per un qualsiasi periodo di tempo senza avere una economia di qualche genere, tuttavia prima del nostro tempo non è mai esistita un’economia che anche in linea di principio fosse controllata dai mercati.6

La convinzione smithiana di una naturale propensione dell’uomo al baratto, al commercio e allo scambio di una cosa con l’altra, ha ottenuto un elevato consenso perché rispondente alla figura dell’uomo del XIXesimo secolo cioè, di quell’uomo che, qualunque sia l’attività intrapresa (economica, politica, intellettuale, spirituale), si muove secondo questa propensione.

L’assioma smithiano si rivela, dunque, più consono all’immediato futuro che non all’oscuro passato. Puntualizza ancora Polanyi:

Una schiera di autori in economia politica, storia sociale, filosofia politica e sociologia generale avevano seguito le orme di Smith e avevano stabilito il suo paradigma del selvaggio barattante come un assioma nelle loro rispettive scienze. In realtà i suggerimenti di Adam Smith sulla psicologia economica dell’uomo primitivo erano […] falsi, […] la presunta disposizione dell’uomo al baratto, al commercio e allo scambio è quasi del tutto apocrifa.7

Dare validità al modello analogico significherebbe per il dono poter essere riconosciuto a partire da una realtà puramente mercantile. Il dono rappresenterebbe la forma primitiva della mercanzia. Si attesterebbe, in questo modo, che la mercanzia è sempre presente, in ogni luogo e in ogni tempo, in forma latente o mascherata. Se l’identificazione tra il dono e la mercanzia si fonda su un’originaria natura umana tendente ad accrescere la ricchezza di uno spirito profondamente razionale, l’assunto di base sul quale, dunque, poggerebbe il modello analogico consisterebbe nel pervenire all’idea di un concetto di uomo incline ad un calcolo utilitario. «L’insieme dei fenomeni sociali — dovrebbero riferirsi — esclusivamente alle decisioni ed ai calcoli dei singoli individui»8 ed ogni azione individuale ad ogni singolo interesse e ad ogni razionale motivazione. L’istituzione conformemente rispondente alla comune natura umana sarebbe il mercato e il contratto mercantile il criterio di misurazione dello scambio. La mercanzia elevata, così, a categoria di pensiero diviene la chiave di comprensione del mondo.

Contrariamente ad una logica di tipo analogico, in una prospettiva osservata attraverso l’ottica degli opposti, la logica bipolare considera dono e mercanzia come due concetti tra loro profondamente distinti, come due forme sociali irriducibili l’uno all’altra. La divisione tracciata tra dono e mercanzia colloca questi due concetti all’interno della «Teoria delle grandi divisioni» dono e mercanzia vengono cioè a sommarsi alla serie di categorie binarie che hanno segnato la storia dei rapporti umani. La grande divisione propriamente antropologica divide l’esperienza umana in due estremi: la comunità primitiva da una parte e la società moderna dall’altra. Per ritrovare l’archetipo di tale dicotomia bisogna risalire fino alla Grecia antica, con la distinzione fondamentale tra ethnos (tribù) e polis (città-Stato) ma è sicuramente con Tönnies (1887)9 che la rappresentazione degli opposti si farà più evidente attraverso i due concetti idealtipici di Gemeinschaft e Gesellschaft.

Pensare per dicotomie consiste nell’operare una sorta di separazione del mondo, ordinandolo secondo raggruppamenti di caratteristiche tra loro omogenee; ogni gruppo sociale verrebbe, cioè, distinto rispetto ad un altro per usi, costumi e implicazioni normative proprie. L’arcaico si distinguerà dalla civilizzazione, la parentela dalla proprietà privata e così di seguito. Anche il dono e la mercanzia poggiano su tale costruzione teorica, al punto da essere considerati l’uno corrispondente al clan e l’altro alla classe sociale.

Accettare una tale bipartizione dell’umanità conduce non solo ad escludere ogni possibile esistenza sociale di carattere intermedio, ma si limita ad analisi sociali che si sviluppano secondo percorsi unilaterali e quindi comprensibili attraverso ottiche assolute.

Seguendo dunque il filone delle grandi divisioni il dono apparterrebbe ad uno stadio che si potrebbe definire arcaico e la mercanzia ad uno stadio che si potrebbe definire moderno; nel primo caso ci si troverebbe di fronte ad un mondo conosciuto per i suoi modi di pensare magici, l’unanimità dei comportamenti e la forte ritualità delle abitudini di vita, nel secondo la società sarebbe strutturata invece in forma aperta e razionale in modo tale da regolare i rapporti tra soggetti liberi e pensanti differentemente tra loro. Tuttavia, che dono e mercanzia non rappresentino due realtà analoghe non giustifica l’ammissibilità della loro relazione oppositiva. Distinguere dono e mercanzia può sicuramente dare maggiore specificità ai due concetti presi singolarmente, ma una tale specificazione non richiede necessariamente scissioni monadistiche. Tra lo scambio di doni e lo scambio di mercanzie esiste certo una grande differenza ma non tale da doverla considerare sostanziale. Lo scambio di mercanzie si basa su una logica di mercato che si interessa più delle cose che circolano che delle persone. La persona è funzionale all’oggetto; il rapporto che si instaura tra soggetti si costituisce relativamente alla possibilità di circolazione delle cose; il legame sociale tra le persone è ridotto, cioè, a strumento di circolazione delle cose. Contrariamente a questa impostazione economicista, «interessarsi al dono è occuparsi della questione della circolazione delle cose in rapporto al legame sociale».10 Dal punto di vista del legame sociale, il mercato è l’insieme di regole che permettono a degli stranieri di contrattare rimanendo il più possibile degli stranieri. È un modo di comunicare con lo straniero quando si vuole che resti, dopo lo scambio, uno straniero; quando ciò a cui si è interessati non è lui, ma i suoi beni e così viceversa. Il mercato struttura un legame minimo, sufficiente cioè affinché le cose vengano scambiate. Il legame sociale in questo caso non rappresenta il fine di ogni possibile scambio, ma il mezzo, lo strumento affinché lo scambio e quindi l’acquisizione dell’oggetto si realizzi. Nel dono, al contrario, si tende ad osservare la relazione inversa: ciò che circola è al servizio del legame, è il dono che costituisce il mezzo di congiunzione sociale. Un’analisi di tipo bipolare avrebbe concluso tale distinzione col rappresentare due realtà tra loro irriducibili: una realtà in cui prevalgono relazioni oggettive (società moderna) e un’altra in cui prevalgono relazioni personali (comunità primitiva), in altre parole, come direbbe Tönnies, da una parte una comunità mossa da una volontà naturale e dall’altra una società regolata da una volontà razionale.

Sicuramente ognuna di queste riflessioni caratterizza le due forme di scambio con specificazioni imprescindibili, ma non sarà certo attraverso le vie segnate dal pensiero classico che si perverrà alla significazione del concetto di dono e del suo sempre presente rapporto con il concetto di mercanzia. Una terza via di riflessione si impone.

3. Verso una terza via

Per uscire dall’empasse generata dai punti di vista analogici e bipolari, affinché si possa comprendere comparativamente la natura del dono e della mercanzia, una terza via s’impone.

L’ideale è di poter analizzare, in uno stesso approccio, sia l’identità che le differenze dei fenomeni messi in prospettiva. Pretendere di mettere in evidenza in modo coerente ciò che il dono e la mercanzia possono avere in comune e simultaneamente di profondamente differente, suppone una concezione allargata della condizione umana, richiede cioè di rapportarsi all’esperienza umana in forma generale.

Dono e mercanzia sono entrambi «prodotti»11 dall’uomo; nel produrli l’uomo esteriorizza la propria persona, si proietta al di fuori di sé oggettivando e dando forma ai propri pensieri e alle proprie azioni; uscire fuori da se stessi significa per il soggetto rapportarsi a ciò che rappresenta il suo fuori, entrare in relazione con gli altri; ciò che l’uomo produce è costitutivo del legame sociale che si genera; il legame, una volta oggettivizzato (concretizzato per mezzo di ciò che l’uomo produce), acquisisce forma sociale. Ogni soggetto pone parte della propria interiorità al di fuori di sé, all’interno cioè di un ruolo dell’essere sociale. In questo modo ogni uomo esteriorizza funzioni e saperi propri che oggettivizza attraverso gli strumenti, i mezzi di scambio di cui dispone (che gli sono stati donati): dono e mercanzia.

Dono e mercanzia rappresentano le forme sociali attraverso cui è possibile oggettivare particolari relazioni sociali.

Seguire una tale prospettiva necessita di considerare l’insieme dell’umanità come soggetta ad un movimento generale di esteriorizzazione. «Per mezzo di questa doppia oggettivazione […] tecnica e simbolica l’uomo costruisce il suo universo sociale».12 Dono e mercanzia, malgrado le loro differenze, appartengono ad uno stesso «luogo comune»: l’universo dello scambio. «Lo scambio concepito come un universale può essere posto come una caratteristica primordiale della vita sociale».13 Osservando dono e mercanzia, alleggeriti delle specificità che li circoscrivono, apparirà molto più chiaramente il loro movimento scambievole. Lo scambio di doni e lo scambio di mercanzie possono essere comparati. Il concetto di mercanzia, affinché possa acquisire compiutezza, necessita delle due figure del compratore e del venditore, si manifesta cioè solo nel compimento di uno scambio, nella realizzazione di un rapporto reciproco; allo stesso modo il concetto di dono non si esplica semplicemente nell’atto del ricevere o in quello del dare considerati distintamente. Il dono non si manifesta attraverso una cessione unilaterale ma attraverso uno scambio.

Dono e mercanzia sono dunque due forme speciali dello scambio in generale. Il loro carattere comune appare evidente.

Ogni società equivale ad un modello di comunicazione — rappresenta cioè — una rete di scambi alla quale le persone partecipano attivamente e questo come reazione al fatto d’aver paura d’essere relegate nel rango dell’inutilità. […] Lo scambio soltanto può garantire l’ordine sociale, sarebbe a dire la pace, quella del dono e del contro-dono come quella dell’acquisto e della vendita.14

La relazione e la comunicazione, in una parola lo scambio, rappresenta l’esteriorizzarsi umano. Se tale esteriorizzazione costituisce una proprietà caratteristica dell’uomo stesso, è possibile individuare un modello sociale che testimoni tale naturale tendenza?

La comunità primordiale ritratta da Mauss può essere considerata il primo modello sociale da cui prendono forma gli altri sistemi sociali. La comunità primordiale si struttura in base al sistema del dono. Il dono è un «fenomeno complesso, soprattutto nella forma più antica, quella della prestazione totale».15 Il dono arcaico, come fatto sociale totale, indica una totalità relazionale, in breve, una comunità costituita dalla circolazione di doni e contro-doni tra tutti i membri. Scrive Mauss:

Le anime si confondono con le cose; le cose si confondono con le anime. Le vite si mescolano tra loro ed ecco come le persone e le cose, confuse insieme, escono ciascuna dalla propria sfera e si confondono: il che non è altro che il contratto e lo scambio.16 […] Gli scambi non interessano i singoli individui, ma l’intera collettività.17

Ogni aspetto di vita sociale che si consideri sottende ad uno scambio reciproco, ad una relazione, ad una comunicazione che non si limita al mero transitare dell’oggetto mediatore tra due soggetti (come avverrebbe in uno scambio mercantile). Le cose scambiate non sono mai completamente staccate dal loro scambista;

la cosa […] non è inerte. Anche se abbandonata dal donatore è ancora qualcosa di lui.18 […] Nel diritto maori, il vincolo giuridico, vincolo attraverso le cose, è un legame di anime, perché la cosa stessa ha un’anima, appartiene all’anima. Donde deriva che regalare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi; […] accettare qualcosa da qualcuno equivale ad accettare qualcosa della sua essenza spirituale, della sua anima;19 […] esiste, prima di tutto, una mescolanza di legami spirituali tra le cose […], gli individui e i gruppi.20

4. Il dono è dunque unione?

Ciò è vero, ma non in forma assoluta, il dono è anche mezzo di continue differenziazioni e opposizioni. La natura delle relazioni varia a seconda delle condizioni e delle circostanze che la generano, a seconda delle identità soggettive che si rapportano, rispetto alle culture che si confrontano. Lo scambio può dunque considerarsi come un atto che separa gli uomini, che li mette non solo uno di fronte all’altro, ma anche uno contro l’altro. Spesso la rivalità è mascherata dalla coloritura dei costumi rituali, ma la prestazione nella sua totalità rimane di tipo agonistico, così com’è per il potlàc melanesiano.

Se lo scambio si manifesta come atto sia di riunione che di separazione tra gli uomini ciò vuol dire che il dono, quale mezzo di realizzazione dello scambio, sarà caratterizzato da una natura ambivalente.

Nel risalire alle origini del motivo dell’ambivalenza del dono è significativo il nesso indissolubile dôron-dôlos, dono-inganno, come il duplice significato della parola gift: dono da una parte e veleno dall’altra (Mauss e Granet, 1975).21 Mauss ricorda: «Il tema del dono funesto, del regalo o del bene che si muta in veleno è fondamentale nel folklore germanico. L’oro del Reno è fatale a chi lo conquista, la coppa di Hagen è funesta per l’eroe che vi beve».22

L’originalità di questo tema rinvia inevitabilmente alla grande tradizione greca. Da Omero ad Esiodo, da Eschilo a Platone dono è essenzialmente, non congiunturalmente, inganno. Ciò concerne non uno specifico dono, ma ogni dono secondo il mito di Pandora («ricca di ogni dono«) «l’orcio forato» (Platone, Gorgia, 493) donato agli uomini e contenente tutti i mali che, come serpi velenosi, si diffondono per il mondo intero. E d’altra parte, il lungisaettante Apollo non è raffigurato in tutta l’iconografia antica e tardo antica con una mano che reca dona agli uomini e un’altra che contemporaneamente e proprio per questo li trafigge? Dona morte? Ma, come precisa Esposito (1994), c’è di più:

a fondare la contrapposizione oleografica dono/calcolo, dono/violenza, dono/tecnica — il dono come ciò che ripara, protegge, salva dagli effetti malefici della tecnica — c’è il dato incontrovertibile che il dono originario, il primo dono offerto agli uomini, è costituito dalla tecnica stessa.23

5. Tecnica intesa come «arte» per la sopravvivenza

La parola tecnica deriva dal greco technikón. Quest’ultima parla di ciò che appartiene alla téchnê. Questa parola ha lo stesso significato, già all’inizio della lingua greca, di epistêmê, cioè presiedere a una cosa, comprenderla. Téchnê vuol dire: intendersi di qualcosa e precisamente della produzione di qualcosa. Produrre non nel senso di fabbricare, manipolare e operare, ma nel senso di ad-durre davanti, vale a dire nella manifestazione, come un qualcosa, ciò che prima non era davanti come presente. Intendersi, dunque, è una modalità del conoscere, dell’aver capito e del sapere. Téchnê non è un concetto del fare ma un concetto del sapere. Nel tempo l’uomo ha affinato la propria intenzione di conoscenza, e dall’originario ad-durre, pro-durre, rendere disponibile gli oggetti della natura è giunto a voler e dover calcolare preventivamente la natura stessa dando priorità al metodo, al procedimento di oggettivazione della natura, come scrive Martin Heidegger «la natura viene provocata a rispondere sotto determinati riguardi: ad essa, per così dire, vien chiesto conto».24 La natura viene così a corrispondere ad un organismo sistematico oggettivamente calcolabile.

La tecnica, da iniziale mezzo di sopravvivenza, diviene il fine sempre più sofisticato da raggiungere. La natura diviene funzionale alla realizzazione di tale fine e l’uomo si riduce ad impiegare le proprie potenzialità nell’esecuzione di programmi preventivamente calcolati. La smania con cui l’uomo desidera la tecnica lo vizia, lo rende voglioso di ottenere ogni cosa. La sua persona si veste d’egoismo e ogni rapporto reciproco assume la forma di contratti opportunamente stipulati. Se la tecnica, inizialmente, dipendeva dall’uomo, adesso è l’uomo a dipendere da essa. La tecnica diviene più forte dell’uomo.

Nel momento in cui la tecnica viene manipolata e alterata rispetto alla sua originaria natura, nel momento in cui la tecnica da mezzo (in quanto donata, proveniente dall’altro) diviene fine, manifesta la sua valenza negativa, la sua forza distruttiva. La tecnica, può dunque essere, come il dono, strumento di salvezza e di dannazione. Di aiuto e di rovina.

L’alternarsi di questa natura ambivalente è opera dell’uomo. È l’uomo che da specificazione al dono; ed è l’uomo che del dono, quale fenomeno totale, specifica l’aspetto utilitario. Attraverso questa forzata specificazione il dono viene trasformato in mercanzia. Come è possibile ciò?

Il dono arcaico, come base antropologica costitutiva della comunità primordiale, si presenta come una combinazione di caratteristiche che noi separiamo: l’interesse e il disinteresse, il piacere e la costrizione, l’utilità e l’obbligo morale. Nonostante queste molteplici distinzioni è possibile tracciare una probabile trasformazione logica dal dono alla mercanzia. Innanzitutto si deve escludere la linea di pensiero economicista che considera il baratto la forma primaria dello scambio, quindi bisogna considerare il dono quale punto di partenza da cui iniziare. Il dono è un fenomeno complesso, una prestazione totale, una forma primaria di esteriorizzazione che è possibile frammentare secondo multiple modalità, a seconda del variare delle situazioni:

il dono può essere allo stesso tempo un atto di costrizione che porta a manifestare la sua appartenenza al tutto comunitario, un’espressione di generosità e di libertà liberamente consentite o infine un’affermazione della sua propria persona nella lotta per il prestigio per mezzo della consumazione ostentata della ricchezza.25

Con l’avvento dei tempi moderni il dono, da forma sociale totale, si è ridotto ad oggettivare solo una parte delle sue prerogative costitutive: l’utilità e l’interesse. Ciò ha generato un progressivo processo di trasformazione al termine del quale non è rimasto altro che una simulazione, una alterazione del dono originario: la mercanzia. Il mercato non è altro che una parte del dono arcaico metamorfizzato; non offre che l’apparenza della comunicazione sociale effettiva. L’ordine economico, imponendosi, subordina ogni altro possibile ordine politico e sociale, generando una condizione di disequilibrio sociale. Accettare una tale realtà dei fatti, credere che il movimento d’esteriorizzazione dell’uomo debba tendere all’estremo, conduce a separare il tutto, a spersonalizzare tutto, per poter tutto manipolare secondo il proprio infinito piacere.

Come impedire che quanto di più proprio esiste in ogni uomo sia soffocato dalla tecnica e dalla mercanzia, divenute oggi il nostro modo d’essere e d’agire? Come evitare di divenire individualmente e collettivamente gli strumenti e le vittime del sistema da noi stesso costruito?

L’Essai sur le don di Mauss serba in sé la risposta a tali questioni. È necessario ritornare all’arcaico e riprendere consapevolezza del fatto sociale come fatto totale: solo attraverso l’oggettivazione del dono quale fatto sociale dai molteplici aspetti, sarà possibile porre un limite alla mercantizzazione generalizzata. Il ritorno all’arcaico non è dunque un modo per marcare la distinzione tra comunità e società (Tönnies), ma al contrario un modo per evidenziare l’indissolubile intreccio. Comunità e società rappresentano, al limite, i confini di un’unica realtà sociale.


  1. M. Mauss, «Essai sur le don. Forme et raison de l’échange dans les sociétés archaiques» (1923-24), in Id. Sociologie et anthropologie, PUF, Paris, nuova ed. 1985, pp. 145-279 (trad. it. «Saggio sul dono. Forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche», in C. Lévi-Strauss (a cura), Teoria generale della magia e altri saggi, ed. Einaudi, Torino, 1965). ↩︎

  2. E. Benveniste, Problèmes de linguistique générale, Gallimard, Paris 1966 (trd. it. Problemi di linguistica generale, il Saggiatore, Milano 1971); ved. Le vocabulaire des istitutions indo-européennes, ed. de Minuit, Paris 1969, vol. I (trad. it. Il vocabolario delle lingue indo-europee, Einaudi, Torino 1976, vol. I). ↩︎

  3. A. Smith, An Inquiry into the Nature and Causes of the Wealth of Nations, 1776 (trad. it. Indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni, ISEDI, Milano 1973, pp. 17-18). ↩︎

  4. G. Berthoud, «Le marché comme simulacre du don?», in Revue du Mauss, 1991, n. 11, p. 78. ↩︎

  5. M. Mauss, Saggio sul dono, p. 183, cit. alla nt. 1. ↩︎

  6. K. Polany, The Great Trasformation, Holt, Rinehart & Winston Inc., New York 1944 (trad. it. La grande trasformazione, Einaudi, Torino 1974, p. 57). ↩︎

  7. Ibidem, p. 58. ↩︎

  8. A. Caillé, Le tiers paradigme. Anthropologie philosophique du don (trad. it. Il terzo paradigma. Antropologia filosofica del dono, Bollati Boringhieri, Torino 1998, p. 3). ↩︎

  9. F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft, Reislad, Leipzig (trad. it. Comunità e società, Comunità, Milano 1963). ↩︎

  10. J.T. Godbout, «La circulation par le don», in Revue du Mauss, 1992, nn. 15-16, I e II trim., p. 216. ↩︎

  11. Il termine produrre viene qui utilizzato non nel senso di creare originariamente ma solo nel senso di dare specificità. ↩︎

  12. G. Berthoud, «Le marché comme simulacre du don», in Revue du Mauss, 1991, n. 12, p. 80. ↩︎

  13. Ibidem, p. 81. ↩︎

  14. Ibidem, p. 82. ↩︎

  15. M. Mauss, Saggio sul dono, p. 211, cit. alla nt. 1. ↩︎

  16. Ibidem, p. 184. ↩︎

  17. Ibidem, p. 160. ↩︎

  18. Ibidem, p. 170. ↩︎

  19. Ibidem, p. 172. ↩︎

  20. Ibidem, p. 175. ↩︎

  21. M. Mauss e M. Granet, Il linguaggio dei sentimenti, Adelphi, Milano 1975, pp. 67-72. ↩︎

  22. M. Mauss, Saggio sul dono, p. 267, cit. alla nt. 1. ↩︎

  23. R. Esposito, «Donare la tecnica», in MicroMega, 1994, n. 4, p. 151. ↩︎

  24. M. Heidegger, Linguaggio tramandato e linguaggio tecnico, ETS, Pisa 1997, p. 42. ↩︎

  25. G. Berthoud, «Le marché comme simulacre du don», cit., p. 90. ↩︎