Riconoscimento. Dal conflitto al dono. Il terzo studio dei Percorsi di Ricœur

1. Introduzione

Scriveva Paul Ricœur: «che non esista una teoria del riconoscimento degna di questo nome, così come invece esistono una o più teorie della conoscenza, è un fatto».1 Effettivamente, la storia della filosofia è piena di testi sulla conoscenza, mentre il riconoscimento è un tema poco trattato. Nella nostra società del «traffico delle culture», con tutti i problemi che stiamo conoscendo a livello di convivialità delle differenze, analizzare il concetto di riconoscimento rappresenta una questione fondamentale. Questo termine è già nella filosofia politica di Hegel, che per primo ha intuito che la prima relazione tra due coscienze diverse è di tipo ostile e non affettuoso, ed è oggi collegabile alle questioni dei rapporti con i migranti e della cittadinanza: infatti solo con il riconoscimento e l’inclusione di tutti avremo le condizioni per vivere nella società complessa.

L’importanza del riconoscimento è stata tematizzata, tra gli altri, da Charles Taylor che insiste sulla necessità «che tutti riconoscano l’uguale valore delle diverse culture, (e dunque) non lasciarle soltanto sopravvivere, ma di prendere atto che sono preziose».2 E per Habermas realizzare la giustizia significa passare per il riconoscimento solidale dell’altro che non è della mia comunità:

siccome gli individui socializzati possono stabilizzare la loro identità solo a partire dai rapporti di riconoscimento reciproco, la loro integrità risulta particolarmente vulnerabile ed essi vengono a dipendere da una modalità specifica di tutela. Devono potersi appellare a una istanza posta ‘al di là’della propria comunità.3

Axel Honneth4 ha elaborato una teoria in cui il riconoscimento è inteso come primo motore del progresso umano, legando la realtà storica dell’eguaglianza e dell’autonomia individuale moderne con la solidarietà di base che tiene insieme la società.

In questo contributo seguiremo le analisi che Ricœur dedica al tema del riconoscimento nel terzo studio dell’opera Percorsi del riconoscimento (2004), in cui il filosofo francese si confronta con la concezione hobbesiana dei rapporti sociali e con l’abbozzo della teoria hegeliana del riconoscimento, aprendo una strada verso il tema del mutuo riconoscimento e del dono.

2. Rileggere il rapporto con l’altro

All’inizio del terzo saggio dei Percorsi, dopo aver analizzato nei due saggi precedenti forme di riconoscimento senza la presenza dell’alterità, come quella di Odisseo, per il quale farsi riconoscere significa essenzialmente recuperare il proprio potere, Ricœur dedica alcune riflessioni a due modi diversi di concepire filosoficamente l’alterità, quello di Husserl e quello di Levinas. Anche qui l’antropologia del filosofo francese è quella dell’homme capable in un contesto in cui l’etica è definita «la prospettiva della «vita buona» con e per l’altro all’interno di istituzioni giuste».5 L’opera che stiamo leggendo è naturalmente da collegare con le precedenti, e soprattutto con Sé come un altro (1990), in cui Ricœur insisteva sul fatto che l’apertura all’altro richiede una limitazione del narcisismo dell’io. Il narcisismo si traduce filosoficamente nel tentativo di vedere nell’altro solo un alter ego, una proiezione psicologica dell’io. La posizione ricœuriana vuole evitare sia l’aporia che troviamo nella Fenomenologia di Husserl, in cui l’altro è solipsisticamente derivato dall’ego, sia l’assoluta trascendenza dell’altro che è teorizzata da Levinas.

Per quel che riguarda Husserl, Ricœur pensa che il filosofo moravo

si è posto un compito particolarmente temibile, giacché ha spinto la riduzione dell’ego sino al punto della «sfera del proprio», o «sfera di appartenenza», incentrata sul mio corpo proprio, senza riferimento alcuno a un altro esterno a questa sfera. Esattamente dal culmine di questa riduzione alla sfera di appartenenza […] sorgerà quindi il tentativo di soluzione del paradosso della costituzione in me e tramite me dell’altro in quanto altro.6

Nella Quinta meditazione cartesiana Husserl cerca di non cadere nel solipsismo attraverso la «appercezione analogica» che non è un ragionamento ma «una trasposizione categoriale, preintellettiva, in quanto rinvia a una prima creazione di senso, in base alla quale il rapporto tra me e l’estraneo è un rapporto da modello a copia».7 Pur con molte varianti, questa appercezione non scioglie «l’enigma dell’alterità», ma lo esalta, e l’altro resta solo percepito «come un altro io, un alter ego, nel senso analogico del termine; in tal modo l’analogia protegge la dimensione incognita originaria dell’esperienza per sé dell’altro».8 Il rapporto tra me e l’altro è un rapporto da modello a copia. L’altro non compare veramente, è solo supposto analogo, «rappresentato». Il giudizio di Ricœur sulla fenomenologia è che, pur essendo nata dalla scoperta del carattere universale dell’intenzionalità, non ha seguito fino in fondo questa scoperta riconoscendo che la coscienza ha il suo senso fuori di sé: perciò considera l’ermeneutica la via per evitare il solipsismo della fenomenologia. Come spiega Daniella Iannotta «il programma fenomenologico di costituzione del senso, pertanto, viene messo a confronto con la decifrazione ermeneutica nella misura in cui “questo senso è dissimulato”».9

Nel caso di Levinas, la dissimmetria originaria tra io e altro è interpretata attribuendo all’altro un primato etico, in forza del quale l’altro mi convoca alla responsabilità. Il problema per Ricœur è come questa «asimmetria colta a partire dal primato etico dell’altro possa rendere conto della reciprocità tra partner disuguali».10 Ricœur dedica poche righe al confronto con Levinas, che è stato trattato in opere come Altrimenti11 e Sé come un altro: seguendo Francesca Brezzi possiamo riassumere ricordando che Ricœur si differenzia rispetto a Levinas con il mantenimento di una ontologia e con l’osservazione di come «l’iperbole o radicalità lévinasiana, riscontrabile sia nella passività del Medesimo che nell’esteriorità assoluta dell’Altro, non consente più di ricostruire un’etica della relazionalità, che pure è lo scopo di Levinas».12 La caratteristica, tipica di Levinas, di radicalizzare il linguaggio con categorie come l’ostaggio o la sostituzione, si traduce per Ricœur nell’impedire la capacità di accoglimento della persona, nella mancanza di comunicazione: «non è forse necessario che una dialogica sovrapponga la relazione alla distanza, che si pretende ab-soluta fra l’io separato e l’Altro insegnante?».13

3. Hobbes e il misconoscimento

La domanda di riconoscimento è sempre esposta al rischio del suo contrario, il misconoscimento. Il soggetto può riappropriarsi di sé solo riconoscendo e lasciandosi anche guidare dall’altro: Ricœur disegna un itinerario in cui il sé va per il suo altro e poi ritorna a sé non come idem, ma come ipse, che ha preso consapevolezza di sé attraverso il suo altro.

In Sé come un altro Ricœur considera Cartesio e Nietzsche come i due estremi da evitare: il primo disegna un io narcisista che vive di certezze, il secondo distrugge quell’io come falsa certezza, risolvendo nichilisticamente il soggetto in stati psichici che fluiscono disordinatamente. Ricœur non si mette sul piano della sostanza, né su quello di un pensiero debole senza certezze, senza un’identità affidabile. La questione del riconoscimento si lega a quella dell’identità narrativa: l’uomo diventa un sé riconoscendo l’alterità che lo costituisce, riconoscendo l’altro e se stesso attraverso l’altro.

Già in Sé come un altro Ricœur introduce la categoria hegeliana del riconoscimento, in un passo che la critica considera la cellule mélodique14 dei Percorsi: «è una struttura del sé riflettente sul movimento che porta la stima di sé verso la sollecitudine e questa verso la giustizia. Il riconoscimento introduce la diade e la pluralità nella costituzione stessa del sé».15 Il riconoscimento è, insieme all’imputabilità e alla responsabilità, una categoria del sé che porta al ritorno del soggetto a se stesso, dopo essere stato arricchito dall’altro.

Ricœur si concentra sulla sfida che Hobbes porta in quanto esponente del misconoscimento, cioè di quella tendenza dell’uomo che mira ad auto conservarsi e a diventare più potente a danno degli altri. Al filosofo francese non interessa tanto la teoria dello Stato-Leviatano, quanto quella dello stato di natura: «la posta in gioco consiste infatti nel sapere se, alla base del vivere insieme, esista un motivo originariamente morale che Hegel identificherà con il desiderio di essere riconosciuto. La teoria hobbesiana dello “stato di natura” sarà perciò rivisitata sotto l’aspetto di teoria del misconoscimento originario».16 È vero che la descrizione pessimistica di Hobbes di uno stato di guerra di tutti contro tutti è confermata dalle guerre che abbiamo visto e vediamo e dalla dimensione quotidiana della paura. Secondo Hobbes ci sono tre passioni primitive che caratterizzano questo stato di natura così bellicoso: la competizione, la diffidenza, la gloria. La prima spinge ad aggredire per guadagno, la seconda per difesa e la terza per reputazione. Per uscire da questo triste contesto, la ragione umana calcola le possibilità di autoconservazione e produce delle leggi naturali che possono spingere gli uomini ad accordarsi. C’è una distinzione tra diritto — che è ciò che autorizza — e legge, che è ciò che vieta. Le leggi di natura non hanno il potere coercitivo, che è proprio della legge che compare quando ognuno rinuncia al suo diritto su tutto, premessa per il trasferimento dei diritti nel contratto. Nota Ricœur:

Hobbes aveva certamente bisogno di questa idea di deposizione unilaterale del diritto proprio di ciascuno, come anche delle idee di trasferimento di diritto, di contratto e di promessa, per rendere plausibile l’idea di una rinuncia alla totalità dei diritti individuali a beneficio del solo principe a condizione che questa rinuncia sia reciproca».17

Ma basta la paura della morte violenta a sostenere, con il calcolo, tutto l’edificio delle promesse e degli impegni che costituiscono il bene comune? Ricœur ritiene che il difetto dell’argomentazione hobbesiana sia «nell’assenza di una dimensione di alterità nella sequenza dei concetti che culminano nell’idea di covenant».18 Infatti «è il calcolo suscitato dalla paura della morte violenta a suggerire queste misure, che hanno una parvenza di reciprocità ma la cui finalità resta la preservazione del proprio potere. Nessuna aspettativa venuta da altri giustifica la privazione del potere».19 Hobbes pensa al contratto e al patto (covenant) senza inserire la dialettica tra sé e altro, senza un vero riconoscimento dell’alterità.

4. Il confronto con Hegel

Ricœur sceglie di rileggere Hegel come risposta al problema posto da Hobbes, cercando una via d’uscita ad una situazione in cui caos e legge del più forte sembrano invincibili. Come nota Domenico Jervolino

Hegel, che viene dopo Fichte e presuppone, come bene evidenzia Ricœur, la filosofia morale di Fichte, parte da un principio etico: il desiderio di essere riconosciuti. La lotta in Hobbes è distruttiva, mentre Hegel scopre una valenza positiva, dialettica, della lotta tra i soggetti che produce riconoscimento reciproco».20

L’alternativa al misconoscimento originario teorizzato da Hobbes è dunque presente in un concetto fondamentale dello Hegel di Jena: quello di riconoscimento (Anerkennung). Esso ha tre caratteristiche importanti: conferma il legame tra autoriflessione e orientamento verso l’altro; è legato ad un processo che va dal negativo al positivo; si articola in livelli gerarchici che corrispondono ad istituzioni. Perciò «sotto questo aspetto, il concetto hegeliano di Sittlichkeit, di “vita etica” o “eticità”, può essere considerato il sostituto del concetto di artificio in Hobbes».21 Hegel inaugura una storia della lotta per il riconoscimento che ad oggi non è ancora esaurita: «ma la cosa che, più di ogni altra, si preserva in questa storia della lotta per il riconoscimento, è la correlazione originaria tra la relazione con se stessi e la relazione con l’altro, correlazione che infonde alla Anerkennung hegeliana il profilo concettuale della propria riconoscibilità».22

Ricœur sceglie di basarsi sui frammenti dell’epoca di Jena per cercare di fare «riaffiorare alla luce quelle risorse di senso che non sono state elaborate dalle opere ulteriori e più compiute».23 Il lettore può restare sorpreso dalla scelta di non esaminare la dialettica servo-padrone della Fenomenologia del 1807, ma scritti decisamente meno noti. Così Jervolino spiega la scelta ricœuriana: «Ricœur non ama i sistemi compiuti e ritiene che nei movimenti filosofici ci siano spesso in potenza ricchezze di senso che vengono solo in parte utilizzate negli sviluppi sistematici».24 Basarsi su questi scritti ha il vantaggio di un Hegel non ancora condizionato dal Sapere Assoluto. Gli scritti di Jena testimoniano una «inaspettata collusione» tra Hegel e Fichte perché senza la rilettura della tradizione del diritto naturale operata da quest’ultimo non ci sarebbe stato il concetto di riconoscimento. Ricœur cita il Sistema dell’eticità25 avvertendo però che il riferimento hegeliano alla Totalità limita l’attendibilità del testo per il lettore contemporaneo:

la fanno da padrone le parole «indifferenza» (nel senso della non-differenziazione), «universalità» e «particolarità», infine ritorno alla totalità. Se il tema della lotta per il riconoscimento può rivendicare una ascendenza in questo testo frammentario, ciò è dovuto al ruolo assegnato alla scissione nel processo speculativo.26

In questo scritto hegeliano il termine «riconoscimento» compare perché con lo scambio e il contratto si parla di riconoscimento di una persona, ma — afferma Ricœur seguendo il commento di Jacques Taminiaux — è un riconoscimento ancora formale che non prevede la differenza: per colmare la lacuna Hegel introduce il rapporto di signoria e servitù:

l’inquietante instabilità di questo riconoscimento, contemporaneo al piano speculativo del rapporto di signoria-servitù (la cui fortuna nella Fenomenologia dello spirito è nota), è sottolineato dall’espressione «disuguaglianza della vita» a proposito della quale il commento dice: «Essere fissato nella differenza significa essere servo; essere libero nei confronti della differenza significa essere signore.27

Nel resto dell’opera hegeliana, il riconoscimento appare con la sua ombra negativa, il crimine, che è negazione del riconoscimento: ma, avverte Ricœur,

l’aspetto per il quale la problematica di Hegel si mantiene a distanza dalla nostra è il riferimento speculativo, senza contropartita empirica, all’identità, alla totalità; con, per giunta, i suoi corollari: intuizione versus concettualità, indifferenza versus differenza, universalità versus particolarità. Questa forma di ontoteologia impedisce infatti alla pluralità umana di apparire come l’elemento referente insuperabile delle relazioni di mutualità, scandite dalla violenza, che il discorso hegeliano percorre, dal livello della pulsione e dell’amore sino al livello della fiducia in seno alla totalità del popolo.28

Ricœur passa poi ad un secondo testo dell’Hegel di Jena, la Realphilosophie (1805-1806).29 Qui Hegel concorda con Hobbes sull’uscita necessaria dalla natura, e il concetto di riconoscimento «è non soltanto menzionato; esso viene infatti anche articolato con una precisione che nel sistema dell’eticità era ancora assente»,30 tanto che Hegel lo inscrive definitivamente nell’alveo della filosofia politica. Il riconoscimento compare con le relazioni di diritto, che lo presuppongono. Scrive Hegel che nel riconoscere il Sé cessa di essere un singolo Sé perché esiste giuridicamente. Di nuovo torna il ruolo del crimine, come rottura del contratto che lede la persona più che la cosa. La sanzione deve restaurare l’essere-riconosciuto che è stato leso, cioè la persona.

Così Marco Castagna riassume i due momenti principali della lettura che Ricœur fa del testo hegeliano:

1) la correlazione originaria tra la relazione con se stessi e la relazione con l’altro, correlazione che infonde alla Anerkennung hegeliana il profilo concettuale della propria riconoscibilità; 2) la lotta per il riconoscimento come desiderio di essere riconosciuto: in questa lapidaria espressione, la forma passiva del verbo «riconoscere» è essenziale nella misura in cui il riconoscimento di sé da parte di ciascun individuo si configura come un risultato secondo la grande dialettica che articola tra loro negatività e istituzionalizzazione.31

5. Il confronto con Honneth

Dopo il confronto con i due testi hegeliani, Ricœur dedica una sezione alla riattualizzazione dell’argomento del filosofo tedesco, con un debito esplicito verso l’opera di Axel Honneth, con la quale inizia un dialogo a distanza, che però non vuole esaurire il confronto sul tema della lotta ma deve cercare un esito pacifico. Con Honneth Ricœur condivide «l’accusa di monologismo che egli rivolge contro una filosofia della coscienza in cui il sé, differenziandosi, si oppone fondamentalmente a se stesso […] di Hegel, Honneth salva il progetto di fondare una teoria sociale di tenore normativo».32 Commenta Vereno Brugiatelli:

per il filosofo francese, si tratta di portare avanti la riflessione sulla problematica della lotta per il riconoscimento esponendo i momenti di quelle esperienze di pace che segnano la fine della lotta e il superamento del diniego di riconoscimento. In definitiva, si presenta la prospettiva di far sfociare il discorso relativo alla lotta per il riconoscimento nel contesto della tematica riguardante gli «stati di pace.33

Honneth ricava dagli scritti di Hegel tre modelli di riconoscimento, riconducibili agli ambiti dell’amore, del diritto e della stima sociale, ai quali corrispondono tre forme di negazione, e Ricœur apprezza molto questo modo di procedere considerando i tre modelli come la struttura speculativa, e i tre sentimenti negativi come il cuore della lotta.

5.1. Il primo modello: riconoscimento come amore

Anzitutto l’ambito dell’amore, che comprende i rapporti che implicano forti vincoli affettivi tra poche persone, quello che Hegel definiva «essere se stessi in un estraneo». Ha notato Francesca Brezzi che Ricœur è vicino al concetto greco di philia che comprende

una galassia di relazioni, quali l’amore tra madre e figlio, una sorta di ascesa e discesa verticale — riconoscimento di se stesso nel rapporto di filiazione, ben espresso nella categoria arendtiana della natalità — ed altresì i legami familiari e parentali, tutti rapporti intessuti di un profondo accordo sentimentale ed anche carichi di componenti emotive e sessuali.34

Si tratta di un insieme di relazioni ad alto contenuto di affetti, quindi philia può essere tradotto con amore in senso più lato.

Per il suo percorso di riattualizzazione Honneth cerca nella teoria psicoanalitica della «relazione d’oggetto» il complemento empirico della speculazione hegeliana. Per il bambino rispetto alla madre, e per l’adulto rispetto all’amore, c’è la dura prova della separazione:

tra i due poli della fusione emozionale e dell’affermazione di sé nella solitudine, si instaurano nel corso della storia condivisa tra amanti dei rapporti di dipendenza relativa, i quali bastano a incrinare i fantasmi di onnipotenza provenienti dalla prima infanzia; sotto questo aspetto, il distacco acquisito a prezzo di molte disillusioni può essere considerato come la contropartita della fiducia che fa stare insieme le coppie di amanti.35

Fusione emozionale e affermazione di sé nella solitudine costituiscono i due poli dinamici di un rapporto amoroso maturo. E, citando Simone Weil, Ricœur estende il discorso all’amicizia: amanti e amici hanno due desideri: il desiderio di amarsi a tal punto da compenetrarsi a vicenda e il desiderio di amarsi a tal punto che, se fossero separati radicalmente, la loro unione non soffrirebbe alcuna diminuzione. Per Honneth la forma di disprezzo corrispondente a questa prima forma di riconoscimento è il maltrattamento, la violenza, non solo fisica:

l’umiliazione, avvertita come il ritrarsi o il rifiutarsi di questa approvazione, colpisce ciascuno a livello pregiuridico del suo «essere con» altri. L’individuo si sente in certa misura guardato dall’alto in basso, addirittura non considerato affatto. Privato di approvazione, è come se non esistesse.36

Seguendo Hegel, bisogna annoverare in questa forma di riconoscimento i rapporti familiari ed erotici come quelli genitori-figli e marito-moglie. Il legame coniugale, con qualsiasi statuto giuridico, è il punto di scambio di queste relazioni verticali e orizzontali. Ricœur si concentra sul fenomeno della filiazione:

la mia nascita infatti ha fatto di me un oggetto senza prezzo, fuori prezzo, una cosa al di fuori del commercio ordinario. Il progetto parentale da cui provengo — qualunque esso fosse — ha trasformato la statica del quadro genealogico in una dinamica istituente che si inscrive nella parola «trasmissione» […] insomma, poiché sono stato riconosciuto figlio o figlia di, mi riconosco come tale e, a questo titolo, io sono questo inestimabile oggetto di trasmissione.37

La nascita propone l’enigma dell’origine perché l’inizio della vita è preceduto da antecedenti biologici, da un progetto: diversamente, l’origine non è inizio, rinvia solo a se stessa. E il principio genealogico contrasta qualsiasi spinta incestuosa, come è testimoniato dal mito e dalla tragedia che hanno sempre considerato l’incesto, e il suo corollario parricidio, come il crimine più terribile.

5.2. Il secondo modello: riconoscimento sul piano giuridico

Il secondo punto della riattualizzazione dei temi di Hegel è rappresentato dalla lotta per il riconoscimento sul piano giuridico, l’insieme degli obblighi normativi che dobbiamo rispettare davanti agli altri. Esso ha una doppia struttura che «consiste dunque nella connessione tra l’allargamento della sfera dei diritti riconosciuti alle persone e l’arricchimento delle capacità che questi soggetti riconoscono a se stessi».38 Rispetto all’analisi precedente:

da una parte il predicato «libero» prende il posto della «capacità di stare da solo» a livello affettivo (libero nel senso della razionalità presunta uguale in ogni persona considerata nella sua dimensione giuridica); d’altra parte, il rispetto prende il posto della fiducia; esso è contrassegnato da una pretesa all’universale che eccede la prossimità dei legami affettivi.39

In questo caso il riconoscimento ha due obbiettivi, gli altri e la norma. La norma va riconosciuta valida; gli altri vanno riconosciuti come persone, identificare ciascuna persona come libera e uguale a ogni altra persona. Si parla di riconoscimento giuridico, che Honneth e Ricœur trovano ben sintetizzato in un testo hegeliano più tardo, nell’Enciclopedia:

nello stato […] l’uomo viene riconosciuto e trattato come un essere razionale, come libero, come persona; e il singolo individuo a sua volta si rende degno di questo riconoscimento ubbidendo, con il superamento della naturalità della sua autocoscienza, a una volontà universale, alla volontà che è in sé e per sé, cioè si comporta nei confronti degli altri in modo universalmente valido, riconoscendoli come ciò che lui vuol essere considerato — come libero, come persona.40

Rispetto è un concetto di origine kantiana, considerato come l’unico impulso che la ragione pratica imprime sulla dimensione sensibile degli affetti. Al concetto di rispetto universale della libertà della persona, Honneth affianca il concetto di rispetto sociale, che mette in risalto il valore di un individuo misurabile secondo criteri di rilevanza sociale. Sotto il piano del riconoscimento giuridico si guardano le qualità generali che rendono l’uomo persona; sotto il piano della stima sociale si guardano le qualità che differenziano una persona dalle altre. Per Honneth la modernità ha visto l’affermazione di un sistema giuridico contrapposto a quello tradizionale che è legato alla stima sociale.

Ricœur non segue Honneth su quest’ultimo punto, ma condivide la prospettiva di un processo storico caratterizzato da lotte per il riconoscimento giuridico che ha allargato la sfera dei diritti. Il risultato delle lotte per il riconoscimento è questo allargamento unito all’arricchimento delle capacità individuali. Il riferimento scelto come teoria dei diritti — con la divisione in diritti civili, politici, sociali — è costituito dalle opere di Alexy, Parsons e ancora Honneth. Questa tripartizione secondo Ricœur offre una griglia concettuale per le analisi sui diritti dell’uomo:

la lotta più antica è quella che investe i diritti civili; risale al XVIII secolo ed è ben lontana dall’essere finita. Dal canto suo, l’instaurazione dei diritti politici risale al XIX secolo ma continua, nel secolo XX e una volta vinta la battaglia per la sovranità del popolo e la sua espressione nell’elezione, nell’ambito dei dibattiti relativi al carattere rappresentativo dei regimi di governo democratico. Ma ciò che nel XX secolo costituisce il problema maggiore è l’apertura di diritti sociali relativi alla equa partizione sul piano della distribuzione di beni commerciali e non commerciali su scala planetaria.41

Tutti soffriamo per il contrasto tra l’uguale attribuzione dei diritti e la disuguale distribuzione dei beni, tutti vediamo aumentare le disuguaglianze non solo tra Paesi, ma anche all’interno della nostra società.

Le figure di misconoscimento relative a questo stadio sono legate alle forme di disprezzo dei diritti civili, all’assenza di partecipazione. Una reazione indignata è la via d’uscita: «l’indignazione costituisce sotto questo aspetto la struttura di transizione tra il disprezzo risentito nell’emozione della collera e la volontà di diventare un attore della lotta per il riconoscimento».42 L’indignazione è in grado di mobilitare, e, storicamente, l’esperienza negativa del disprezzo dei diritti si è tradotta in rivoluzione, guerra di liberazione, decolonizzazione. Vincere queste lotte porta orgoglio, che si lega alla capacità di avanzare rivendicazioni e costituisce la dignità umana.

5.3. Il terzo modello: riconoscimento scambievole, o come stima sociale

Il terzo modello di mutuo riconoscimento è la stima sociale, che richiama il concetto hegeliano di Eticità. Per Honneth gli uomini hanno bisogno non solo dell’investimento affettivo e del riconoscimento giuridico, ma anche di stima sociale, che si poggia sull’esistenza di valori universalmente condivisi. Ricœur è d’accordo: «l’esame del concetto di stima sociale si ritrova così a dipendere da una tipologia delle mediazioni che contribuisce alla formazione dell’orizzonte di valori condivisi, giacché la nozione stessa di stima varia secondo il tipo di mediazione che rende una persona “stimabile”».43

Dopo aver esaminato altri tipi di conflittualità come quelli derivanti dalla competizione sociale, Ricœur dedica alcune analisi al concetto di autorità: «la dimensione verticale implicata dalla contrapposizione tra grande e piccolo, e che sembra essere in contrasto con la dimensione orizzontale del riconoscimento sul piano della stima di sé».44 Il riferimento hegeliano è all’ultima parte della Realphilosophie, dove si parla dell’obbedienza alla Costituzione e si pone il problema dell’alienazione di fronte al potere. «Certo — scrive Ricœur — il diritto di comandare non coincide con la violenza, nella misura in cui il potere è ritenuto legittimo e in tale senso autorizzato o, per meglio dire, accreditato».45 Eppure potere si sposa spesso con violenza. In altre epoche Pascal aveva parlato di «prestigio della grandezza» per cui le miserie provano la grandezza dell’uomo come re spodestato.

In tempi recenti Gadamer ha parlato di «riconoscimento della superiorità» che è un esempio di autorità che si armonizza con l’etica del vivere insieme: l’autorità delle persone non ha il suo fondamento in un atto di sottomissione ma in uno di riconoscimento, «cioè nell’atto in cui si riconosce che l’altro ci è superiore in giudizio e in intelligenza, per cui il suo giudizio ha la preminenza, cioè sta al di sopra del nostro proprio giudizio».46 L’autorità qui si fonda sul riconoscimento che la nostra ragione limitata si affida al miglior giudizio di altri, e non è un caso di sottomissione a un comando.

Questo modello di riconoscimento della superiorità ha l’esempio più completo nel rapporto tra maestro e discepolo come è indicato da Agostino nel De Magistro quando «mette di fronte all’altro due atti, l’atto di insegnare e quello di imparare, collegati tra loro dall’atto di interrogare, di cercare».47

Non può mancare la forma di lotta per il riconoscimento che riguarda l’identità di minoranze culturali sfavorite, che sfocia nel multiculturalismo. Il dialogo è in particolare con Charles Taylor che ha anche usato il termine «politica del riconoscimento». Taylor si è basato sul contesto del Québec francofono legando il problema dell’identità al riconoscimento-misconoscimento. La mancanza di riconoscimento porta all’interiorizzazione della immagine negativa e all’autodisprezzo. Taylor difende una «politica della differenza» e attacca l’universalismo astratto, che perseguendo la neutralità tipica dei liberali è rimasto cieco alle differenze. L’universalismo propugnato dai liberali è solo un particolarismo mascherato da principio universale «giacché l’affermazione di un presunto potenziale umano universale è ritenuta essere la semplice espressione di una cultura egemonica, quella dell’uomo bianco di sesso maschile, al suo apice nell’età dei Lumi».48 Una società liberale, secondo Taylor, va vista su come tratta le minoranze e per i diritti che accorda a ogni membro. Commenta Ricœur: «quest’ultima massima definisce una «politica di riconoscimento» il cui beneficio, sul piano personale, può consistere esclusivamente nella crescita della stima di sé».49

Concludendo il paragrafo, Ricœur accenna ad una ricapitolazione del discorso, ribadendo che l’identità personale si costituisce a livello intersoggettivo attraverso il riconoscimento. Nell’esperienza del riconoscimento dell’amore può derivare la fiducia in sé, in quella di riconoscimento giuridico può nascere il rispetto di sé, in quella di riconoscimento sociale si può avere la stima in sé. Sul piano intersoggettivo questi poteri si traducono nell’aver fiducia, rispettare e stimare gli altri. Ma, con espressione hegeliana, la questione del riconoscimento non sarà irrealizzabile come un «cattivo infinito»? Quando un soggetto è davvero riconosciuto? Come se si affacciasse «la tentazione di una nuova forma di “coscienza infelice”, sotto le specie sia di un inguaribile sentimento di vittimismo, sia di una infaticabile postulazione di ideali fuori portata».50 Per evitare ciò Ricœur propone di tenere conto dell’esperienza concreta degli stati di pace. Secondo Marco Castagna

è sul tema delle mediazioni sociali che Ricœur propone il proprio originale sviluppo della lotta per il riconoscimento, ribaltandone la prospettiva nelle esperienze pacificate di mutuo riconoscimento. Queste si basano su mediazioni simboliche che si sottraggono tanto all’ordine giuridico quanto all’ordine degli scambi commerciali. È il caso dello stato di pace dell’agape e della logica del dono e del controdono a esso correlata.51

6. Gli stati di pace. Il dono

Nella nostra cultura esistono modelli di stati di pace come quello aristotelico della philia, quello platonico dell’eros, quello biblico dell’agape, che, non essendo vincolato alla restituzione, sembra slegato dal tema del riconoscimento. Tra l’altro, come nota giustamente Brugiatelli

un’altra tematica da chiarire è quella data dal fatto che risulta essere significativo che tra i modelli di stati di pace, Ricœur non prende in considerazione la giustizia, che pure, in virtù della sua logica dell’equivalenza e del suo principio di dare ad ognuno ciò che gli è dovuto, sembra avere tutte le carte in regola per esserlo.52

Ricœur si sofferma inizialmente sulla questione dell’agape, che porta ad un’idea particolare di prossimo: «il prossimo non come colui che si trova accanto ma come colui al quale ci si avvicina. La prova di credibilità del discorso dell’agape consiste allora nella dialettica tra l’amore e la giustizia, dialettica inaugurata da questo avvicinamento».53 Amore e giustizia seguono due logiche diverse, quella della sovrabbondanza e quella dell’equivalenza. Il paradigma dell’amore è l’inno all’amore dell’Epistola di Paolo ai Corinzi (cap. XIII), e l’amore fa un passo verso la giustizia quando si esprime in comandamento, come avviene col Rosenzweig della Stella che considera il «tu amerai» contrapposto alla costrizione morale della legge. Invece la giustizia è fatta di argomentazioni, non di dichiarazioni come l’amore. La giustizia è legata alla sentenza, che deve rendere proporzionale la pena al delitto. Ma la sentenza non porta necessariamente a uno stato di pace.

Serve dunque un collegamento tra amore e giustizia, che Ricœur trova nel dono:

è la tematica del dono a consentire il collegamento tra amore e giustizia, essa permette di gettare un ponte tra la sovrabbondanza dell’amore e l’equità della giustizia. In tal senso, agape e giustizia, pur conservando la loro autonomia e diversità, possono incontrarsi dando luogo ad una sorta di «categoria mista».54

Come nota Francesca Brezzi, «il dono, come possibile ponte tra la poesia dell’agape e la prosa della giustizia, viene a completare il travaglio della riflessione portando a compimento il profilo del riconoscimento, in quanto si mostrerà che la mutualità del dono è fondata sull’idea del riconoscimento simbolico».55

Riferendosi a quella che potremmo chiamare una «pedagogia dei gesti» Ricœur cita il caso dei gesti di grande valore simbolico, quelli che rompono la logica del politicamente corretto e aprono orizzonti nuovi, come la richiesta di perdono del cancelliere tedesco Brandt che si è inginocchiato a Varsavia: gesti che

non possono costituire una istituzione ma, portando in luce i limiti della giustizia di equivalenza e aprendo uno spazio di speranza nell’orizzonte della politica e del diritto sul piano postnazionale e internazionale, […] producono un’onda di irradiazione e di irrigazione che, in maniera segreta e obliqua, contribuisce all’avanzare della storia verso gli stati di pace.56

In una società in cui tutto ha un prezzo, chi segue la logica della sovrabbondanza, l’uomo dell’agape, si sente smarrito perché ignora l’obbligo di contraccambiare il dono: egli è stato magnificamente simboleggiato dall’Idiota di Dostoevskij, con la sua «stupefacente intelligenza delle situazioni, che lo rende presente ovunque ci sia disputa o contestazione».57 Il Principe Myskin non segue il criterio della giustizia e dell’equivalenza, e perciò gli altri non lo capiscono: è l’esperienza del malinteso che accade tra chi dona per amore e chi segue la logica dell’equivalenza e del dono ricambiato.

L’idea di equivalenza che costituisce la giustizia può produrre altri conflitti, perciò è l’agape, che porta al di là della logica dell’equivalenza, che porta allo stato di pace. È il momento di confrontarsi filosoficamente con il dono e i suoi paradossi. Un passaggio obbligato, che è stato fatto anche da Jacques Derrida impegnato a riflettere sul tema del dono, è la lettura del Saggio sul dono di Marcel Mauss.58 Secondo l’antropologo francese il dono ricade nella categoria degli scambi, come dimostrato dai suoi studi presso i Maori della Nuova Zelanda che evidenziano l’obbligo di ricambiare. Questo crea un paradosso: «in che modo il donatario è obbligato a ricambiare? E se questi, nel caso in cui sia generoso, è obbligato a ricambiare, in che modo il primo dono ha potuto essere generoso? In altre parole: riconoscere un regalo contraccambiandolo non significa forse distruggerlo in quanto regalo?».59 C’è il rischio di un circolo vizioso tra donare e ricambiare.

La soluzione ricœuriana si basa sul concetto di mutuo riconoscimento simbolico tratto da Marcel Henaff. Si tratta di pensare una relazione di scambio che non sia pienamente catalogabile nel commercio. Differentemente da Mauss, il dono reciproco cerimoniale non è un antenato dello scambio commerciale, ma si colloca sul piano del senza prezzo. Per Mauss la spiegazione dei complicati rituali di dono rituale, dominati dalla triade donare-accettare-ricambiare, passa per una forza magica, un’anima che è nella cosa donata e viene dal donatore. A Lévi-Strauss questa spiegazione è sembrata figlia di un eccessivo coinvolgimento dell’antropologo nella Weltanschaung dell’indigeno, ma Hénaff nota che invece Mauss ha colto un aspetto molto importante, che sta nella consapevolezza che nel bene donato c’è l’essere del donatore. Il donatore mette se stesso nell’oggetto che dona, e così stabilisce con l’altro una relazione esclusiva. Colui che deve ricambiare non è nella logica commerciale del debito contratto, ma in una logica antropologica che assomiglia più ad una sfida sociale. Il famoso caso del potlàc, in cui il capo tribù ingaggia con un capo rivale una sfida di doni che può portare a donare tutto ciò che possiede, è un fatto che include tutte le dimensioni della vita sociale, crea legami tra le persone che si estendono anche ai morti. Hénaff riconosce che questo dono rituale non è economico (come invece pensa anche un autore del calibro di Max Weber), né può essere collocato sul piano morale o giuridico: infatti non è significabile in termini di scambio o carità, anche perché ha un’evidente dimensione pubblica che contrasta con la prudenza di un aiuto caritatevole; e nemmeno può essere tecnicamente considerato un contratto che presuppone un piano egualitario.

Il dono cerimoniale si basa dunque su un riconoscimento reciproco che rafforza il legame sociale: nota Ricœur che

la rivoluzione di pensiero proposta da Henaff consiste nello spostare l’accento della relazione sul donatore e sul donatario e nel cercare la chiave dell’enigma nella mutualità stessa dello scambio tra protagonisti e nel definire questa operazione condivisa con il termine di mutuo riconoscimento.60

L’enigma della forza che starebbe nella cosa si dissolve se la cosa che viene donata è considerata il sostituto del processo di riconoscimento, ed è un estensione del donatore. Dopo aver seguito Hénaff, Ricœur comincia a differenziare la sua posizione: «per lui si tratta di vedere il dono cerimoniale nel contesto della società contemporanea come un prolungamento dell’agape e come portatore di uno stato di pace».61 Ricœur pensa che il dono cerimoniale sia presente in diverse circostanze della odierna vita civile, ed ha lo stesso fine della relazione tra uomini all’insegna del mutuo riconoscimento.

A questo punto Ricœur può riprendere il suo discorso precedente sull’agape e sul dono senza aspettativa di restituzione: «nel contesto dell’agape, anziché di obbligo di contraccambiare occorre parlare di risposta a un appello che proviene dalla generosità del dono iniziale».62 Il secondo dono non è un contraccambio. Nella triade donare-ricevere-ricambiare il filosofo si sofferma sul ricevere: «la maniera in cui il dono viene accettato decide della maniera in cui il donatario si sente obbligato a contraccambiare».63 La gratitudine solleva dall’obbligo di ricambiare e pareggia la generosità del dono iniziale: scompone e ricompone il rapporto dono-controdono perché «essa mette da parte la coppia donare-ricevere e dall’altra ricevere-ricambiare. Lo scarto che essa produce tra le due coppie è uno scarto di inesattezza, relativamente all’equivalenza della giustizia, ma anche relativamente all’equivalenza della vendita».64 Con la gratitudine i valori dei doni non sono misurabili con parametri commerciali, hanno il marchio del «senza prezzo», e il tempo adeguato per contraccambiare non ha misura. Lo scarto tra la coppia donare-ricevere e ricevere-ricambiare è prodotto e superato dalla gratitudine.

Con l’agape l’idea di equivalenza fallisce perché c’è un piano di mutuo riconoscimento in cui uno dona, l’altro riconosce sé e l’altro. Ma il carattere cerimoniale del dono, che sottrae lo scambio dei doni dagli scambi quotidiani, protegge il carattere festivo che è diverso dalle iniziative di beneficenza organizzate: c’è qualcosa di festivo nelle pratiche del dono (e, pensando a La memoria, la storia, l’oblio, a quelle del perdono) che si traduce in gesti eccezionali, fuori dalla logica dell’equivalenza, che avviano verso gli stati di pace. Commenta Brugiatelli:

in definitiva, il dono simbolico cerimoniale, per avere un felice esito, chiede l’incontro tra la capacità di donare e la capacità di ricevere, esige che il donatario non metta in atto strategie finalizzate al conseguimento di vantaggi personali, necessita che il beneficiario sia veramente capace di ricevere. In questa dinamica, il dono simbolico cerimoniale costituisce il tramite del mutuo riconoscimento.65

7. Conclusione

Così Francesca Brezzi sintetizza questo itinerario ricœuriano:

cifra significativa dell’analisi ricœuriana è il passaggio dal riconoscimento inteso come identificazione di sé — identificazione che si fa carico di tutte le fluttuazioni di cui il filosofo è stato l’interprete acuto — al riconoscimento mutuale, scambievole, reciproco fino all’ultima equazione tra riconoscimento/riconoscenza (che la lingua francese è una delle poche che manifesta), mettendo in risalto il passaggio dal verbo attivo al passivo: «sono riconosciuto».66

Nella coniugazione passiva il riconoscimento di sé permette a Ricœur di riprendere alcuni dei suoi temi più significativi (l’alterità, la differenza) e di spostarsi poi sul piano etico-politico.

L’itinerario che Ricœur ha tracciato ci ha portato ad uscire dalla logica narcisistica ed identitaria del soggetto autoreferenziale, dalla considerazione del legame sociale solo per fini egoistici, per lanciare «una scommessa, rischiosa e incerta, se si guarda al dono proprio per le sue caratteristiche di multidimensionalità e il risultato sarà una visione e un paradigma alternativo alla cultura utilitarista ed efficientista».67 Secondo Domenico Jervolino «il suo colpo d’ala consiste nel legare il tema fenomenologico-hegeliano della lotta per il riconoscimento a quello del dono, con un uso sapiente delle sue molteplici letture, dai classici ai contemporanei».68 Il percorso del riconoscimento di sé e dell’altro procede parallelamente con una vita etica, sempre esposta però alla tentazione del misconoscimento. Il percorso approda al dono, dove non è fondamentale l’oggetto donato ma il fatto che nel dono c’è anche il donatore. Di fronte al relativismo e all’utilitarismo imperanti Ricœur ci invita a percorrere una strada di uscita dalla chiusura in noi stessi e di apertura totale all’altro.


  1. P. Ricœur, Percorsi del riconoscimento, Raffaello Cortina, Milano 2005, p. 3. ↩︎

  2. C. Taylor, La politica del riconoscimento, in J. Habermas-C. Taylor, Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 51-53. ↩︎

  3. J. Habermas, L’inclusione dell’altro, Feltrinelli, Milano 1998, p. 43. ↩︎

  4. A. Honneth, Lotte per il riconoscimento. Proposte per un’etica del conflitto, Il Saggiatore, Milano 2002. ↩︎

  5. P. Ricœur, Sé come un altro, Jaca Book, Milano 1993, p. 129. ↩︎

  6. Ricœur, Percorsi…, cit., p. 177. ↩︎

  7. Ibidem↩︎

  8. Ivi, p. 178. ↩︎

  9. D. Iannotta, Frammenti di lettura. Percorsi dell’altrimenti con Paul Ricœur, Aracne, Roma 1998, p. 44. ↩︎

  10. Ricœur, Percorsi.., cit., p. 181. ↩︎

  11. P. Ricœur, Altrimenti, Morcelliana, Brescia 2007. ↩︎

  12. F. Brezzi, Introduzione a Ricœur, Laterza, Roma-Bari 2006, p. 104. ↩︎

  13. Ricœur, Sé come un altro, cit. p. 456. ↩︎

  14. J. Greisch, Vers quelle reconnaissance?, «Revue de métaphysique et de morale», 2006/2, p. 153. ↩︎

  15. Ricœur, Sé come un altro, cit., 407. ↩︎

  16. Ricœur, Percorsi…, cit., p.186. Corsivi dell’autore ↩︎

  17. Ivi, p. 191. ↩︎

  18. Ivi, p. 194. ↩︎

  19. Ibidem↩︎

  20. D. Jervolino, L’ultimo percorso di Ricœur, in M. Piras, Saggezza e riconoscimento. Il pensiero etico-politico dell’ultimo Ricœur, Meltemi, Roma 2007, pp. 30-31. ↩︎

  21. Ricœur, Percorsi.., cit., p. 196. ↩︎

  22. Ivi, p. 197. ↩︎

  23. Ibidem↩︎

  24. Jervolino, L’ultimo…, cit., p. 31. ↩︎

  25. G.W.F. Hegel, Sistema dell’eticità, in Scritti di filosofia del diritto (1802-1803), Laterza, Bari 1971, pp. 161-301. ↩︎

  26. Ricœur, Percorsi.., cit. p. 199. ↩︎

  27. Ivi, p. 201. ↩︎

  28. Ivi, p. 203. ↩︎

  29. G.W.F. Hegel, Filosofia dello spirito jenese, Laterza, Roma-Bari 1984, pp. 67-175. ↩︎

  30. Ricœur, Percorsi…, cit., p. 204. ↩︎

  31. M. Castagna, Raccontare la comunità. Percorsi ricœuriani di riconoscimento collettivo, in Piras, cit., pp. 75-76 ↩︎

  32. Ricœur, Percorsi…, cit., p. 211. ↩︎

  33. V. Brugiatelli, Potere e riconoscimento in Paul Ricœur. Per un’etica del superamento dei conflitti, Tangram, Trento 2008, p. 88. ↩︎

  34. F. Brezzi, Riconoscimento e dono, una tessitura complessa, in D. Iannotta (a cura), Paul Ricœur in dialogo, Effatà Editrice, Cantalupa (To), pp. 116-117. ↩︎

  35. Ricœur, Percorsi…, p. 214. ↩︎

  36. Ivi, p. 216. ↩︎

  37. Ivi, p. 218. ↩︎

  38. Ivi, p. 223. Corsivi dell’autore. ↩︎

  39. Ivi, p. 222. ↩︎

  40. G.W.F. Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche, Laterza, Bari-Roma 1984. Il passo però non è compreso nell’edizione italiana, ma è riportato da Honneth, Lotta per il riconoscimento.., cit., p. 132. ↩︎

  41. Ricœur, Percorsi…, cit., p. 225. ↩︎

  42. Ivi, p. 225. ↩︎

  43. Ivi, p. 228. ↩︎

  44. Ivi, p. 237. ↩︎

  45. Ibidem↩︎

  46. H.G. Gadamer, Verità e metodo, Bompiani, Milano 1983, p. 328. ↩︎

  47. Ricœur, Percorsi…, p. 239. ↩︎

  48. Ivi, p. 242. ↩︎

  49. Ivi, p. 243. ↩︎

  50. Ivi, pp. 244-245. ↩︎

  51. Castagna, Raccontare…, cit., p. 78. ↩︎

  52. Brugiatelli, Potere…, cit., p. 114. ↩︎

  53. Ricœur, Percorsi…., p. 250. ↩︎

  54. Brugiatelli, Potere…, p. 121. ↩︎

  55. Brezzi, Riconoscimento…, p. 121. ↩︎

  56. Ricœur, Percorsi…, p. 273. ↩︎

  57. Ivi, p. 253. ↩︎

  58. Rinvìo al mio saggio Decrescita, dono, sobrietà: idee per un’economia solidale, in M. Mantovani-A. Pessa-O. Riggi, Oltre la crisi. Prospettive per un nuovo modello di sviluppo. Il contributo del pensiero realistico dinamico di Tommaso Demaria, Las, Roma 2011, pp. 183-202 ↩︎

  59. Ricœur, Percorsi…, p. 127. ↩︎

  60. Ivi, p. 264. ↩︎

  61. Brugiatelli, Potere.., cit., p. 136. ↩︎

  62. Ivi, p. 271. ↩︎

  63. Ivi, p. 271. ↩︎

  64. Ivi, p. 272. ↩︎

  65. Brugiatelli, Potere…, cit., p. 138. ↩︎

  66. Brezzi, Riconoscimento…, cit., p. 110. ↩︎

  67. Ivi, p. 121. ↩︎

  68. Jervolino, L’ultimo…, cit., p. 30. ↩︎