Genesi e sviluppo della riflessione mouneriana sul concetto di persona

1. Introduzione

Il concetto di persona elaborato da Emmanuel Mounier è frutto della riflessione maturata sulle pagine della rivista Esprit da lui stesso fondata nel 1932. Gli anni Trenta del secolo scorso erano anni caratterizzati da una crisi globale che coinvolgeva tutti campi: dall’economico al culturale. In questo contesto Mounier assieme ad un gruppo di amici, decide di prendere l’iniziativa per offrire uno strumento culturale capace di offrire risposte alla crisi. Attorno alla redazione della rivista Esprit Mounier riunisce un gruppo di collaboratori animati da questo stesso obiettivo. Il concetto di persona nasce, allora, e si sviluppa all’interno delle pagine di Esprit, come frutto maturo delle riflessioni che Mounier andava realizzando alla ricerca di risposte alla crisi generale dell’epoca nella quale viveva. È importante sottolineare questo aspetto perché leggendo l’opera di Mounier ci troviamo dinanzi ad una filosofia contestualizzata, vale a dire una riflessione fortemente condizionata dal contesto sociale, politico e culturale nel quale Mounier vive. Ecco perché riteniamo importante, prima di addentrarci nell’analisi del concetto di persona proposto da Mounier, presentare alcuni elementi biografici che aiuteranno a comprendere meglio il senso del suo pensiero.

È stato detto più volte,1 ed anche lo stesso Mounier lo ha affermato,2 che la rivista “Esprit” è sorta come risposta costruttiva alla crisi economica e culturale degli anni trenta. Questa analisi senz’altro vera, trascura, però, quella che è stata la spinta iniziale, la forza propulsiva di un movimento che negli anni trenta e quaranta ha saputo essere punto di riferimento costante ed efficace per cattolici e non. Gli anni della giovinezza di Mounier sono stati abbastanza calmi, trascorsi prevalentemente negli sudi. Ciò, secondo Albert Béguin,3 gli ha permesso di riflettere molto e di immagazzinare quella carica interiore che si farà particolarmente sentire negli anni trascorsi attivamente come direttore della rivista “Esprit”. Comunque, nonostante la pacatezza di questi anni, vi sono stati avvenimenti particolarmente significativi che hanno contribuito a formare la personalità del giovane Mounier.

Il periodo tra il 1924 e il 1925 è un momento particolarmente triste. Mounier si trova ad affrontare studi scientifici, che non rispondono assolutamente ad una sua inclinazione, ma alla volontà dei suoi genitori. “È la prima cocente delusione della mia vita”4 confessa all’amico Jacques Lefrancq. Nonostante i sentimenti di disperazione e di abbandono che si aggrovigliano nel suo animo, Mounier non si dà per vinto: “vi leggo a lettere di fuoco la necessità di mutare direzione”.5 Fu durante un ritiro spirituale per studenti cattolici,6 che Mounier maturò la decisione di cambiare percorso, per seguire la propria inclinazione alla riflessione. Lo troviamo, così, a seguire i corsi di filosofia presso l’università di Grenoble, in particolare quelli di Jacques Chevalier con il quale consolida un’amicizia che si incrinerà solo nel 1936 a causa delle posizioni discordanti nei confronti della guerra di Spagna.7 Sono, questi, anni estremamente attivi per Mounier, il quale si trova impegnato a preparare conferenze, incontri, gruppi di studio, contatti con personaggi illustri della cultura del suo tempo. La morte repentina del suo migliore amico Georges Barthélemy,8 venne a turbare e a sconvolgere questo periodo così positivo:

Non puoi immaginare quello che è crollato in me con la perdita di quella amicizia spontanea. Era per me l’amico, il solo fra quelli della mia età, che fosse penetrato profondamente nella mia intimità, il solo al quale avessi aperto certi santuari.

Chi mai avrebbe potuto aiutarlo a superare questo momento triste e difficile? “Appena giunti a Parigi, alle prese con le prime solitudini, perdevo il migliore dei miei amici … fu l’inizio di una grande crisi di angoscia. Péguy mi salvò”.9 A questo punto si apre nella vita di Mounier un capitolo destinato a chiudersi solo con la sua morte. Péguy è stato per Mounier non solo un maestro spirituale, ma anche la fonte costante alla quale ha attinto per interpretare gli avvenimenti della sua vita e del suo tempo. Anche se sul rapporto tra Péguy e Mounier molto è già stato scritto,10 ci pare, però, importante, per continuare a comprendere l’evoluzione di una vocazione, sottolineare che cosa il giovane Mounier ha principalmente “ascoltato” da Péguy.

Due, a nostro avviso, sembrano essere le tematiche dominanti di questa feconda lezione: la critica al mondo borghese, che trova nelle abitudini il suo substrato esiziale; la presa di coscienza che lo spirituale si trova perennemente sdraiato nel letto del temporale.

Del discorso sulle abitudini, profuso da Péguy nelle sue opere, Mounier sofferma la sua attenzione principalmente per sottolineare le caratteristiche negative: “L’abitudine è un immenso e universale parassitismo, un torpore che si insinua in tutte le forze (ressorts) della nostra anima e del mondo”.11 Sono parole chiaramente rivolte all’uomo borghese, a quell’uomo che ha seppellito i propri impulsi vitali per sedersi comodamente sulla poltrona delle abitudini. Fortemente tediato dall’ambiente universitario nel quale scorgeva il rischio del facile accomodamento, del futuro ben delineato “quasi come una curva geometrica”, Péguy diventa per Mounier la chiave ermeneutica del mondo circostante.12 A questo proposito è certamente significativa la lettera che Mounier scrive alla sorella Madeleine il 12 gennaio del 1928: “Oh, gli spiriti limitati, le persone sedute in cattedra, in tribuna, nelle loro poltrone, le persone soddisfatte; gli intelligenti, gli u-n-i-v-e-r-s-i-t-a-r-i! Vedi è assolutamente necessario che diamo un senso alla nostra vita”.13

L’occhio attento del giovane studente di filosofia scorge nel cosiddetto uomo arrivato, la più sottile minaccia alla vita, che per sua natura è dinamica e creativa. È un indiretto rifiuto dell’educazione proposta dalla società capitalistica nella quale egli vive. Società, che, a suo parere, impegna tutti i suoi mezzi per produrre individui omologati. Così, l’uomo borghese, sinonimo di individualismo, con i suoi pseudo valori di sicurezza e benessere materiale, diventa il nemico numero uno contro cui rivolgere tutte le proprie forze.14 La presa di coscienza, poi, di trovarsi di fronte ad un male, che si sta progressivamente propagando anche nel mondo cattolico, conduce Mounier ad interrogarsi sul ruolo del cristiano nel mondo. In particolar modo, entra in gioco un argomento fortemente sentito nella Francia degli anni Trenta del secolo scorso, vale a dire il rapporto tra spiritualità e temporalità. Il problema si sposta, così, sul ruolo dell’individuo nel mondo e, più specificatamente, di un individuo che porta con sé il credo cristiano.

“La degradazione è la legge della materia. Lo spirito, indipendente nel suo principio, è ugualmente trascinato in questa caduta lenta dovunque sia incarnato in un supporto temporale”.15 Non esiste sulla terra la spiritualità disincarnata, in quanto “noi non conosciamo naturalmente lo spirito che non abbia il supporto di qualche corpo”.16 Corpo e spirito non sono due elementi antitetici. Il corpo dell’uomo diventa portatore dello spirito, presenza vivificante nel tempo presente. La rassegnazione, intesa come inchino al destino potente che segna indelebilmente il nostro futuro, non sembra essere per Mounier la categoria per eccellenza del cristiano. La presenza nel temporale, richiede che lo spirito non sia custodito nel proprio intimo come un tesoro da nascondere e conservare gelosamente contro chissà quali rischi. Anzi, è proprio il contatto con il materiale che, se da una parte minaccia e degrada lo spirituale, dall’altra lo cesella progressivamente ad essere presenza illuminante. Se, inoltre, il corporeo separato dallo spirituale non può che produrre inedia e morte, lo spirituale, dal canto suo, rischia di inaridire i suoi frutti se non sa aprirsi e gettarsi fra le braccia della bisognosa terra. L’incarnazione, intesa come luogo d’incontro di queste due realtà complementari, non può che produrre e farsi da garante di quella risorsa capace di infondere vita e fiducia: la speranza. “ La speranza è essenzialmente e diametralmente la contro-abitudine, il contro ammortizzamento e la contro morte … Costantemente essa rifà ciò che l’abitudine disfà. È la sorgente di ogni nascita spirituale, di ogni libertà, di ogni novità”.17

Le due tematiche sopra enunciate vengono, così, ad intrecciarsi.18 Già nel giovane Mounier è quindi possibile notare una caratteristica che si farà dominante nella sua maturità. Per il nostro, infatti, non basta soffermarsi ad analizzare e criticare una situazione storica e culturale, che diventa vertiginosamente sempre più preoccupante. Prendere coscienza di un fatto implica lo sforzo di trovare ed elaborare soluzioni costruttive, che siano in grado di risolvere il problema.19

E’ con questo materiale che il giovane studente parigino si appresta a fare una scelta, che si rivelerà decisiva e senza ritorno, nella quale proietterà tutto il proprio dinamismo interiore. Ci rendiamo perfettamente conto di cadere nel banale affermando che, la fondazione della rivista “Esprit” rappresenti, nella vita di Mounier, una svolta fondamentale. È altrettanto vero, però, che quando si parla di Mounier, lo si fa quasi esclusivamente partendo dal 1930, cioè dall’anno in cui gli viene prospettata l’idea di fondare la rivista dimenticando il profondo contributo che, come abbiamo visto, è possibile ricavare dagli anni della sua giovinezza. In questa prospettiva non si può certo dimenticare l’atteggiamento di ascolto nei confronti degli avvenimenti del suo tempo, che caratterizzò la vita di Mounier. Già in un scritto del dicembre del 1930, Mounier esprime i criteri ermeneutici da lui usati per muoversi nel tempo:

[…] Occorre non lasciar perdere nel mondo una particella dell’energia che Dio abbia potuto affidarci per trarre da ogni avvenimento il massimo di luce e fecondità. Occorre essere prima di tutto attenti nei confronti del mondo di coloro che volgono il sguardo verso di noi.20

La persona si trova costantemente immersa nei messaggi che il fluire del tempo porta con sé. L’impegno che ne deriva è quello di mettersi in ascolto, di tentare di percepire dei suoni significativi per la propria esistenza. Mounier ha saputo fare questo, ha saputo ascoltare gli avvenimenti, tentando di cogliere anche ciò che di trascendente essi portavano. Non bisogna, dunque, stupirsi se la decisione di diventare direttore di una rivista, come ce la testimonia il suo amico George izard, è stata così repentina:

Noi (Izard, Galey, Déléage), vorremmo fondare una rivista. Te la sentiresti di abbandonare tutto per venire a dirigerla? Non abbiamo un soldo … D’accordo, lascio tutto, abbandono la mia carriera universitaria.21

Non è stata la decisione di uno sconsiderato. “Esprit” è stato per Mounier l’avvenimento topico. La sua abitudine a leggere tra le righe della storia, gli ha fatto intuire che quella proposta – avvenimento s’inseriva perfettamente nella riflessione che stava maturando in quel periodo. “Ciò che conta – scrive in una lettera indirizzata alla sorella Madeleine – è che in tal modo sfuggirò alla carriera e darò sfogo al bisogno di esplosione che si accumula sotto la superficie calma agli occhi dei miei amici”.22

A questo punto parlare della rivista “Esprit” come luogo teologico nel quale si è espressa la vocazione di Mounier, non è certamente fuori posto. Occorre stare attenti, però, a non cadere nel facile equivoci che il termine vocazione comporta. Vocazione non è sinonimo di predestinazione; non significa lasciarsi travolgere da un destino già minuziosamente segnato. “Non credo che la vocazione – scrive Mounier al suo amico Emile – Albert Niklaus – sia un progetto tracciato completamente da Dio in anticipo, non credo di essere stato destinato a diventare direttore di “Esprit” fin da Adamo o anche dal primo aprile 1905 … Penso che Dio ci inventa con noi”.23

Vivere costantemente nel presente con gli occhi attenti a cogliere le tracce della presenza di Dio nella storia, per costruire con lui e in lui il proprio futuro. Questa sembra essere stata la dinamica esistenziale che ha guidato prima il giovane studente, poi il maturo e profondo filosofo, a diventare un encomiabile testimone di un cristianesimo vissuto in prima linea. Ed allora, nelle pagine di Esprit che lentamente e progressivamente matura un’idea che diventerà centrale nella riflessione mounieriana, vale a dire, che la crisi globale che stava devastando l’Europa poteva trovare una soluzione positiva solamente rimettendo al centro della vita pubblica e culturale la persona con il peso della sua dignità. Nelle pagine che seguono tenteremo di esporre le intuizioni principali di Mounier su questo delicato tema.

2. Alla ricerca dei valori smarriti

Secondo Mounier è necessario, in via preliminare, recuperare alcune problematiche del ragionare filosofico da tempo smarrite. Sì deve perciò partire da una rivalutazione della persona non come semantema, ma come valore in modo tale da sottrarlo alla equivocità che comunemente lo caratterizza.

2.1. Persona e uomo

Secondo Virgilio Melchiorre “una tradizione linguistica molto antica nell’occidente tende al identificare il concetto di persona con quello di uomo”.24 Tale identificazione è, però, giustificata? E se lo è, in quale senso? Empirico od ontologico? La cultura anarchica, individualista e borghese, lascia trasparire la poca chiarezza e lucidità sul valore autentico della persona, accompagnata da una carente riflessione in questa prospettiva. Infatti, riferendosi concretamente ad essa, non ne chiarisce tuttavia il senso e lo statuto ontologico. In contrapposizione a queste concezioni, Mounier concepisce il termine uomo come genere che contiene al proprio interno anche quello di persona. Del genere si può argomentare in qualsiasi modo, anche il più inconsueto, pur rispettando le attribuzioni logicamente possibili. La persona, diversamente, è già segno di differenza all’interno dell’uomo (come concetto). Essa è quella parte di me stesso che mi distingue da tutti gli altri enti contingenti e fa sì che io sia Paolo Bianchi e non Francesco Rossi od un tavolo o qualcosa d’altro. Così, la persona, se da un lato differisce dall’uomo come concetto generico, allo stesso tempo sfugge all’oggettivazione della cosa. La persona, essendo soggettività ed oggettività, sfugge alla completa percezione. Per questo carattere indefinibile ed impercepibile nella totalità, Mounier afferma che “la persona non è un oggetto”.25

2.2. Persona: totalità centrata ed unitaria

Per affermare il valore centrale della struttura della persona, Mounier si colloca all’interno del dibattito culturale a lui contemporaneo che, su questo aspetto, proponeva diverse teorie antropologiche. Da una parte lo spiritualismo, che nega la corporeità come elemento costitutivo fondamentale dell’uomo; dall’altra il naturalismo, che nega la spiritualità come essenziale nella costituzione ontologica dell’uomo. Infine, dualismo di tipo cartesiano, che afferma l’anima ed il corpo come due realtà separate all’interno dello stesso individuo. In contrapposizione a queste posizioni, che esaltano una parte a scapito dell’altra, Mounier afferma che “l’uomo è un corpo allo stesso titolo che è spirito, tutto intero corpo e tutto intero spirito”.26

Mounier non si preoccupa di sviluppare una critica storico – teoretica di tali posizioni. Il suo intento è evidentemente quello di centrare l’attenzione sull’unità – totalità della persona, in chiaro riferimento alla tradizione cristiana: “l’unione di anima e di corpo è il perno del pensiero cristiano”.27 A questo proposito, si intuisce molto chiaramente come il problema fondamentale che Mounier intende sviluppare non sia quello di costruire un sistema filosofico sull’universo personale, bensì di salvaguardare e rivalutare la persona da qualsiasi tentativo di falsificazione e depauperazione. Considerare la persona dal punto di vista della sua unicità, e non della frammentarietà, apre una strada destinata a rivalutarne la dignità. Così, solo se si arriva ad affermare l’unicità della persona è possibile percepirla come centralità dalla quale partono tutte quelle energie e quelle forze che da essa provengono. Perciò, in una determinata azione, “non è il mio corpo od il mio spirito che interviene, ma è la persona nella sua unità e totalità che agisce”.28

2.3. Il corpo: un valore o un limite?

In base a ciò che finora si è detto, Mounier, contrariamente alle varie forme d’idealismo e di spiritualismo deteriore, che intendono la materia e la corporeità come semplice negazione dello spirito, tende ad una globale rivalutazione del corpo come autonomia e radice dell’esperienza mondana dell’uomo. Il corpo non è negatività semplice ed alterità rispetto allo spirito, non è nemmeno informe strumento dello spirito. Il nostro pensare è dunque strettamente legato al nostro corpo: “sollecitando i miei sensi [il corpo] mi lancia nello spazio, invecchiando mi fa conoscere il tempo, morendo mi mette di fronte all’eternità”.29

Senza il corpo noi saremmo per sempre destinati alla solitudine più assoluta, non potremmo in alcun modo partecipare e gustare tutta la bellezza che avvolge il mondo nel quale noi siamo storicamente situati. È quindi, solo attraverso la corporeità che la persona è nel mondo e nel tempo. Mondo e tempo, che da un lato limitano l’uomo, ma proprio limitandolo lo definiscono come essere aperto al mondo e testimone del tempo, anche del tempo futuro come speranza. I limiti che il corpo ci fa sperimentare, rientrano nella dimensione del dono, che va accettato così come è senza nessuna pretesa. Mounier, pur non sviluppando una fenomenologia del corpo vissuto, ci ricorda che il primo modo in cui la persona si fa presente a sé ed agli altri è il corpo: “il corpo fa pesare la sua schiavitù, ma è alla base di ogni forma di coscienza e di dignità spirituale, mediatore onnipresente della vita dello spirito”.30 Così, grazie all’ esteriorità del corpo, noi non rimaniamo chiusi in noi stessi rischiando, come Mounier ci dirà più avanti a proposito dell’interiorità, la pazzia, ma “per mezzo suo sfuggo alla solitudine di un pensiero che sarebbe soltanto il pensiero del mio pensiero”.31

Nonostante questo ammirevole sforzo di recupero del corpo come valore, nella cultura contemporanea questi rimane bistrattato, non perché dimenticato, bensì perché posto su quel piedistallo che gli illuministi avevano riservato alle capacità razionali dell’uomo. Nell’arco di tre secoli assistiamo così ad un completo ribaltamento del discorso sulla persona umana a scapito, però, della stessa.32

2.4. La personalizzazione della natura

L’uomo non è il solo essere vivente ad abitare questa terra. Accanto a lui si muovono e vivono milioni di specie animali e di piante. Tutti sappiamo le differenze esistenti tra noi e loro. Mounier, però, parlando del rapporto tra la persona e la natura, non si sofferma tanto sulle diversità dei due mondi presi in esame, ma piuttosto sul frutto dell’utilizzazione delle differenze della persona sul mondo. Egli, infatti, dopo aver notato come l’uomo sia l’unico essere vivente dotato di coscienza e quindi, pienamente cosciente di abitare l’universo, afferma citando Marx, che “l’uomo è un essere naturale, ma un essere naturale umano”.33 Questa sua umanità, questa sua diversità, non la può tenere chiusa in sé, ha bisogno di sperimentarla trasformando in umano ciò che incontra.

La natura offre all’uomo la possibilità di sfruttare le sue capacità creative. Nasce così, quello che Mounier chiama “la personalizzazione della natura”,34 che sta a sottolineare il caratteristico ed unico rapporto della persona con la natura. Perché questo si attui, occorre prima di tutto smettere di considerare la natura come dato “per affermarla come opera: opera personale a sostegno di ogni personalizzazione”.35 Solo in questo modo la persona può lasciare la sua impronta costruttrice sulla natura, che certamente non sarà più la stessa, ma arricchita, trasformata, personalizzata.

In questa prospettiva Mounier può parlare senza ambiguità di “sfruttamento della natura”, poiché questo termine, nell’universo personale, perde ogni carica negativa assumendone una positiva. Le cose però, non sono così semplici e logiche come possono apparire. La materia, infatti, non è solo inerte e ferma, disposta a lasciarsi dominare in ogni istante. Spesso si presenta come ostile ribelle, minacciando continuamente di investire l’universo personale. È evidente che anche la personalizzazione della natura, intesa come rapporto tra due entità non perfette, ma finite, non è beato ed armonico. Richiede perciò, un continuo sforzo di lotta, che ci aiuta a perseguire il processo di personalizzazione anche dopo aver sperimentato l’insuccesso. Creatività, sforzo, lotta, queste sono le principali categorie utilizzate da Mounier per indicare il delicato rapporto persona – natura. Il sentiero poi, che la persona deve intraprendere è definito dal nostro “ottimismo tragico, in cui egli, trova la sua giusta misura e un’atmosfera di grandezza e di lotta”.36

3. Soggettività

Parlare di persona, significa non solo ripescarne il valore, ma anche coglierne i movimenti, le dinamiche interne ed esterne. Mounier descrive il livello soggettivo della persona nelle sue tre dimensioni: raccoglimento, trascendenza e libertà.

3.1. Il raccoglimento

La capacità di riflettere nel senso di raccogliersi, è chiamata dall’autore “esperienza vitale”,37 segno che, se la persona non passa per questa via, è destinata a morire. In quale senso è però da intendere quest’ultima? Appunto perché noi non siamo soli nel mondo, ma viviamo in continuo contatto con altre persone in una realtà sociale, il pericolo della dispersione e del disgregamento delle forze vitali dell’individuo in differenziati livelli di esperienza, è sempre presente. Ecco quale morte prevede Mounier, quella di una persona fagocitata nel modo più totale dal suo continuo fare, senza capirne il perché. Di conseguenza afferma che: “la vita personale comincia con la capacità di rompere i contatti con l’ambiente, di riprendersi, di ripossedersi per riportarsi ad un centro e raggiungere la propria unità”.38 La riflessione così intesa da Mounier, è, quindi, il momento della vita personale in cui la persona torna in sé stessa per comprendere il significato del suo agire. Per fare questo può sembrare sufficiente e necessario sradicarsi dal contesto sociale, per lasciarsi andare in tutta serenità e spontaneità. Il ripiegamento inteso dal nostro non è un “vegetare chiuso ed asserragliato in sé”.39 Inizia, infatti, con un atto libero e volontario della persona, che decide di vivere in modo degno del genere al quale appartiene.

Quando Mounier parla di raccoglimento come “conquista attiva”,40 si rende certamente conto di come esso non sia un qualcosa di dato e quantomeno immediato movimento del soggetto, ma appunto perché costituisce la prima disponibilità dell’uomo verso il valore, ha bisogno di essere voluto. L’importanza di questo atteggiamento volitivo, che nasce da una coscienza personale e responsabile, viene chiarito da Mounier quando si sofferma a descrivere le possibilità di naufragio presenti nel raccoglimento.

Bisogna badare bene al momento in cui la pesantezza vegetativa soffoca la vivacità dello spirito, perché allora tutto ciò che nell’intimità personale era semplice e accogliente, diventa chiuso ed esclusivo.41

Non è difficile entrare in questo clima di “pesantezza vegetativa”. È sufficiente. infatti, staccare ed isolare il momento di riflessione dal rapporto con l’altro da sé, considerando quest’ultimo negativo e limitativo, per travisare tutto. Mounier mostra sempre una forte preoccupazione in questa prospettiva. Vede spesso in agguato il tentativo di considerare il movimento soggettivo di riflessione e quello oggettivo di apertura al mondo come divisi, separati. Per lui invece, sono due movimenti inscindibili ed inseparabili, anzi formano un rapporto dialettico Solo se si rimane in questa prospettiva personale è possibile comprendere la validità del momento riflessivo, che non ha nulla a che vedere con la falsa sicurezza, la depressione frutti questi ultimi di un travisamento del primo.

Sono pagine, queste di Mounier, rivolte a coloro che intendono vivere nell’esistenza personale assumendo tutta la responsabilità necessaria per condurre una vita degna. Sulla strada appena aperta dall’autore, prendono vita e significato alcuni termini di sapore antico, ma estremamente attuali quali il pudore, il sentimento d’intimità ed il privato.

Il pudore – sostiene Mounier – è il sentimento che la persona ha di non essere pienamente esaudita dalle proprie espressioni e di essere insidiata nel suo intimo da colui che cambierebbe la sua esistenza manifesta per la sua esistenza totale.42

Il pudore è un primo frutto positivo di colui che è entrato in sé stesso. Certamente chi percorre questa strada sfugge nel modo più totale, da tutti coloro che tentano di classificarlo, di renderlo un numero assieme a tanti altri. La riflessione della persona, intesa dall’autore come momento di entrata in se stessi, porta a scoprire nella propria interiorità dei tesori nascosti, che una volta portati alla luce ed incarnati nella vita personale, non accettano di essere maltrattati. La persona che cammina in questo senso si rende pienamente conto del valore che acquista il suo esistere, che non può essere paragonato e parificato a qualsiasi altro oggetto. È il cammino della riflessione che porta a recuperare il significato profondo della propria dignità personale e dell’irriducibilità della persona alla materia.

Un altro frutto dovuto alla riflessione è “il sentimento di intimità che esprime la gioia di ritrovare le proprie sorgenti interiori e di ristorarsi ad esse”.43 Mounier dice “ristorarsi ad esse” e non fermarsi in esse come potrebbe essere facilmente interpretato. Questo sta a significare che è fondamentale la riflessione per la vita personale, ma non ci si può adeguare in essa. Potrebbe “voler dire che è intervenuto un pervertimento”.44 Ci si raccoglie per potere poi meglio essere in mezzo agli altri, dove cioè la persona è chiamata a vivere. Il sentimento di intimità nasce, quindi, quando viviamo la riflessione nel suo significato originale dato dall’autore “per spiccare meglio il salto”45 e non per “soffocare la vivacità dello spirito”.46

In questa prospettiva, acquista significato ed interesse il discorso che Mounier realizza sulla dimensione del privato. Può sembrare piuttosto ambiguo ed incoerente parlare di questa zona della nostra vita a questo punto del discorso. Le perplessità però, nascono soprattutto per la carica fortemente negativa che oggi la cultura gli ha attribuito.47 L’autore lo definisce come:

lo spazio fra la mia vita intima e quella pubblica, in cui io mi sforzo di mantenere anche nella socialità del mio essere, la quiete dell’interiorità, l’intimità comunicata da persona a persona.48

Non chiusura in sé stessi, ma possibilità di riflessione anche se si vive immersi nella vita sociale. Essere in grado di trovare uno spazio privato nella nostra vita di ogni giorno significa, secondo il nostro, aver capito un punto importante del vivere. Significa inoltre, la condizione di possibilità per cui noi rimaniamo integri nell’azione e non totalmente mutati col bisogno poi, di ricercare la nostra identità. Infine, è solo nella dimensione di questo spazio privato che possiamo comprendere il nostro essere in mezzo e con gli altri, per rilanciare le possibilità di esistenza.

Le idee contenute in queste pagine non sono nuove, ma vanno senz’altro ricollegate alla più antica tradizione cristiana. Lo stesso Gesù Cristo, nel “Discorso della montagna”,49 chiede agli ascoltatori della sua parola di essere sale, di avere perciò un sapore per poi poter essere luce. Su questa linea non si può certamente dimenticare quel grande padre della Chiesa che è Sant’Agostino. Egli sosteneva che “in interiore homine veritas est”50 e se queste parole sono uscite dalla bocca di una persona, che per tutta la vita non ha fatto altro che cercare questa verità, forse vale davvero la pena se non di ascoltarlo alla lettera, almeno di porsi il problema come ha tentato di fare il nostro.

3.2. L’aspirazione trascendente

Questo movimento riflessivo della persona, se si conclude in esso, non rischia di diventare un veleno mortale, trasformandosi nel più radicale narcisismo o individualismo? Questa domanda non assilla molto Mounier poiché, continuando con estrema coerenza il discorso sull’universo personale, non dimenticando mai l’impronta cristiana dalla quale prende spunto, chiama in causa la trascendenza. Se si vuole uscire dal proprio guscio, se si vuole smettere di disprezzarsi od esaltarsi, per trovare la giusta dimensione di sé occorre aprirsi al trascendente. “Il senso più adeguato della persona può trovarsi solo nella totalità dell’essere solo in un orizzonte di universalità”.51 Non c’è bisogno di andare a cercare chissà dove quello che già abbiamo, in quanto l’aspirazione trascendente, quella che i neotomisti chiamano apertura all’essere, fa parte della nostra stessa struttura ontologica. A proposito di questo anche Coreth ci ricorda che:

il nostro spirito, sebbene finito ed in grado di conoscere e di concepire solo in modo finito, già da sempre mira all’illimitatezza dell’essere in generale, significa che l’orizzonte dell’essere gli è per principio aperto.52

È vero, però che, dalla presa di coscienza di questa particolare qualificazione della struttura personale, alla sua piena ed adeguata utilizzazione c’è molta differenza. Infatti, per poter raggiungere la trascendenza occorre quello che l’autore chiama un “salto dialettico ed espressivo”.53 Mounier non spiega molto che cosa lui intenda con questa affermazione. Appare però evidente che occorre uno sforzo volitivo da parte della persona per poter rimanere in sintonia con la trascendenza. Quest’ultima non rimane al di fuori della nostra esistenza concreta, o solo pensare a sé stessa. Si manifesta, invece e si rende percepibile nell’attività produttrice, dove cioè la persona è impegnata in tutta la sua complessità. La trascendenza sfugge, quindi, ad ogni tentativo di fissazione e di dimostrazione empirica: “la sua certezza si esprime nella pianezza della vita personale e crolla con le sue cadute”.54 Questo discorso, che appare molto significativo, rischia di rimanere astratto e poco attinente alla realtà se non vi si aggiunge una caratteristica fondamentale: la direzione. Che senso può avere, infatti, la vita personale, non istintiva come quella dell’animale, senza un fine? In questa prospettiva l’azione dell’uomo rischia di disperdersi e di disintegrarsi. Dove trovare, però, questo scopo? Mounier indica come direzione della trascendenza la persona suprema, cioè Dio. Da qui appare molto evidente che per il nostro autore dire trascendenza non è la stessa cosa che dire Dio. Con il primo termine, infatti, egli intende la capacità che la persona ha di cogliere ciò che è al di là del reale, di spaziare nell’infinito senza però, arrivare a guastarlo e percepirlo in modo totale. È per mezzo di questa particolare caratteristica, che lo distanzia in modo qualitativo da tutti gli altri essere viventi che egli può camminare verso Dio. La trascendenza ha quindi per Mounier, lo scopo di mettere la persona in cammino verso l’infinito, liberandola da ogni tentativo di fissazione e di assolutizzazione del suo carattere finito.55

Parlando di trascendenza non si può certo lasciare inosservato il discorso sui valori, che a Mounier sembra stare piuttosto a cuore, vista la quantità di pagine che ad essi dedica. L’autore li considera come il termine di movimento di trascendenza, che si raccolgono nell’appello della persona suprema. Essi denotano che la persona non è una realtà a sé stante, “ma che può dal punto di vista proprio della sua condizione, abbracciare l’universo e prolungare in definitivamente il vincolo che lo avvince ad esso”.56 I valori sono quindi, degli impersonali, che tendono ad incorporarsi in un soggetto concreto, il quale li fa suoi trasformandoli. I valori, in definitiva, danno un senso alla nostra apertura all’essere: li possiamo considerare come delle piste, dei fari, che ci aiutano a camminare verso la meta.

Noi non esistiamo, che dal momento in cui ci siamo costituiti un quadro interiore di valori o di ideali, sapendo che nemmeno la minaccia della morte potrà prelevare su di essi. È perché disarmano queste cittadelle interiori che le tecniche moderne di avvilimento, i successi dovuti al denaro, le rassegnazioni borghesi e le intimidazioni di parte sono esiziali delle armi di fuoco.57

Secondo Mounier è molto difficile vivere per dei valori autentici, soprattutto perché la nostra società ne offusca la chiarezza, rendendoli travisati e per molti, inaccessibili. Eppure, per noi sono di così vitale importanza che non possiamo permetterci di abbandonarli, ma sempre ed in ogni istante dobbiamo trovare la forza di lottare contro quelle sovrastrutture che ci ostacolano. Inoltre, se come appartenente alla nostra struttura ontologica abbiamo questa aspirazione trascendente, che si muove e si sviluppa attraverso degli impersonali chiamati valori, vale la pena utilizzarla, se non altro per prendere le distanze, in modo qualificativo, dall’animale.58

Tutto questo discorso sull’aspirazione trascendente operato dal nostro autore, acquista significato all’interno della struttura soggettiva della persona. Quest’ultima infatti, nel movimento di riflessione, non ricerca solamente sé stessa nella sua finitezza. In questo modo infatti rischierebbe di danneggiare la sua stessa struttura psicologica arrivando ai limiti della disperazione. La possibilità di aprirsi al trascendente per mezzo dei valori, porta la persona a non rimanere chiusa in sé stessa bensì a proiettarsi nel mondo con gli altri.

3.3. La libertà

L’uomo è portato a considerare la validità delle cose in base alle qualificazioni esterne, alla tangibilità. Dello stesso parere erano i neopositivisti, i quali ritenevano sensata una cosa in virtù della sua dimostrabilità sul piano pratico.59 Si accorsero ben presto, però, come questo pur razionale discorso avesse qualche lacuna. Constatarono, infatti, che vi sono affermazioni dotate di significato che non possono essere verificate scientificamente. Intuirono, così, sulla scia delle loro ricerche in campo linguistico, che occorreva individuare il sistema linguistico, affinché una determinata parola potesse acquisire tutto il suo significato senza cadere in ambiguità. Un esempio concreto di questo loro argomentare è dato dalla parola Dio. Dopo lunghi studi, che in un primo tempo portarono ad affermare il non senso di questa semantema, i neopositivisti arrivarono a concludere che il termine Dio poteva assumere un senso pieno solo ed esclusivamente all’interno di un linguaggio religioso. Lo stesso accade per chi si accinge a parlare di libertà, la quale non è né tangibile e tantomeno palpabile, poiché sfugge ad ogni tentativo scientifico di catalogazione. Anche per il concetto di libertà occorre cercare l’ambito del discorso, l’unità di indagine per cui possa essere possibile parlarne in modo non ambiguo, ma sensato. Mounier trova questo ambito nella persona: “quando si isola la libertà dalla struttura totale della persona si finisce sempre per condurla verso qualche aberrazione”.60 Da questa importantissima osservazione, il nostro procede cercando non tanto di definire la libertà, bensì di scoprirne il legame inscindibile con la condizione totale della persona.

Prima di affermare la libertà occorre che una coscienza la ponga. Questo movimento non avviene nei più profondi meandri della psiche, ma nell’azione. Noi ci accorgiamo di essere liberi, non solo perché prima abbiamo fatto un ragionamento logico, ma soprattutto dal modo in cui viviamo nel mondo con gli altri. Dunque “è la persona che si fa libera, dopo aver scelto di essere libera e nulla al mondo può darle la sicurezza di essere libera, se essa non si slancia audacemente nell’esperienza della libertà”.61 Notare come Mounier sottolinei fortemente l’importanza della volontà, per cui la libertà non rimane qualcosa di esterno all’universo personale, ma ha il suo inizio e assume il suo significato più totale da un atto volitivo di un io che si decide per essa. Con questo tipo di argomentazione il nostro autore si mette in netta contraddizione con alcune correnti filosofiche, come l’anarchia e l’esistenzialismo ateo – tra l’altro molto in voga nel periodo in ci Mounier elabora la riflessione sulla persona – che considerano la libertà un semplice sgorgare attribuendole un valore assoluto, senza limiti. Punta di diamante di questa concezione è Jean-Paul Sartre, che considera l’uomo gettato nel mondo, costretto a dover scegliere la propria vita ed il proprio destino, diviene interamente responsabile di sé stesso. Queste considerazioni sfociano nella sua famosa affermazione: l’uomo è condannato ad essere libero.

In una simile concezione, che eleva la libertà a pienezza totale ed assoluta, che niente può limitare, neppure una coscienza pensante, ci si rende ben conto dell’importanza della riflessione mounieriana. Infatti, se davvero l’uomo è condannato ad essere libero, la libertà preesiste ad ogni coscienza. Allora, diventa alquanto lecita una domanda: nell’universo personale chi è il soggetto, la libertà o la persona? Siamo noi che scegliamo di essere liberi e vivere di conseguenza o è la libertà, che si impossessa di noi facendoci suoi schiavi? A queste impellenti domande Mounier risponde così:

colui che si sente condannato alla propria libertà, una libertà assurda ed illimitata, per potersene distogliere non ha più che da condannarvi gli altri […] La libertà non è legata indissolubilmente all’essere personale come una condanna, ma gli è proposta come un dono: egli può accettarla o rifiutarla.62

Così dicendo, Mounier riconferma l’affermazione fatta in precedenza, riconducendo la libertà ad una persona cosciente. Continuando su questa strada il nostro autore si accorge che il discorso rischia di farsi terribilmente pericoloso e a senso unico, per cui ritiene importante proporre alcune ulteriori precisazioni.

Parlare di libertà riportandone il suo significato esclusivamente alla facoltà di scelta di un io, diventa più che mai riduttivo, significa infatti “incoraggiare quella tendenza dell’individuo a rinchiudersi in sé stesso che lo rende ottuso e non disponibile”.63 Colui che vive in modo libero lo si riconosce, invece, dalla sua disponibilità e apertura che lo portano a vivere in modo responsabile nel mondo con gli altri. Questo fatto ci può aiutare a comprendere come la libertà sia strettamente condizionata e limitata dalla nostra situazione concreta. L’accorgersi che il nostro essere liberi deve fare i conti con i limiti che provengono dalla nostra natura e dal mondo, e che di conseguenza non tutto è possibile, è una grossa conquista. Così, anche la libertà, inserita nell’universo personale, aiuta l’individuo nel suo cammino di “personalizzazione del mondo e di sé stesso”.64

4. Oggettività

Dopo aver osservato la struttura soggettiva della persona, Mounier si sofferma ora a considerare i termini di movimento della stessa verso l’altro da sé.

4.1. La comunicazione

La persona non può crescere soggettivamente per rimanere chiusa in sé stessa. Essa è per sua natura aperta all’altro, in cammino con l’altro. Ci si potrebbe a questo punto aspettare un lungo discorso sull’importanza del linguaggio nell’universo personale. Mounier invece, per definire il movimento della persona verso l’atro, parla di comunicazione. Questa capacità nasce con la persona stessa e l’uomo non la può rifiutare con il rischio di compromettere la propria esistenza; “la persona non esiste se non in quanto diretta verso gli altri […] Io esisto soltanto nella misura in cui esisto per gli altri”.65

Il suo rifiuto più totale è verso coloro che considerano la persona un mondo chiuso a sé stesso, sola nel suo viaggio, dove l’altro più che un amico e un invito a crescere nell’amore, è sentito come un ostacolo insopportabile. Movendo da tali considerazioni Mounier afferma che:

la prima esperienza della persona è l’esperienza della seconda persona: il tu quindi il noi viene prima dell’io o perlomeno l’accompagna.66

Quando veniamo al mondo il primo incontro (“la prima esperienza”) è con l’altro da sé è con questo che dobbiamo fare i conti, in quanto non possiamo ignorarlo o sfuggirlo. Il nostro considera quindi il tu non un limite, ma costitutivo fondamentale della stessa struttura ontologica della persona. Tuttavia, la comunicazione, appunto perché nasce con la persona, presenta degli ostacoli che non possono essere dimenticati. Troviamo, infatti, dentro di noi e nello stesso tu qualcosa che:

sfugge anche al nostro più volenteroso sforzo di comunicazione. Non solo, ma molto spesso la comunicazione resta bloccata dal bisogno di possedere e di sottomettere. Ogni vicino è necessariamente o un tiranno o uno schiavo. La presenza di un altro impaccia la mia libertà.67

Di fronte a queste grosse difficoltà esistono due tipi di reazione. Ci sono coloro, che per difendersi dal fagocitamento da parte dell’altro, reagiscono rifiutando qualsiasi incontro, trincerandosi perciò in sé stessi, erigendo un muro invalicabile di differenza e di difesa.68 Dall’altra parte, invece, ci sono persone che, accettando anche i limiti che quest’ultima riserva, rispettandosi della propria apertura all’altro, lo cercano per intessere con lui un rapporto personale. Di quest’ultimo modo d’agire si fa portavoce Mounier, che arriverà a delineare le strutture ed i fondamenti di una comunità personalista. Ci pare importante sottolineare, a questo punto, che solo partendo dalla comunicazione riusciamo a comprendere il senso della riflessione. Lo stesso Mounier nel suo libro Il personalismo da noi preso in esame, prima di parlare dell’interiorità, parla della comunicazione.

4.2. L’azione

La comunicazione, come primo movimento di oggettivazione, porta come conseguenza logica all’azione. Parlare di azione all’interno dell’universo personale non è, per Mounier, un’appendice né, tantomeno, una cosa secondaria anzi “occupa in esso una posizione centrale”.69 Non si può pretendere, però, di parlare dell’agire personale se non lo si colloca in una prospettiva di libertà (quest’ultima intesa nel senso appena dato dall’autore). Che senso avrebbe, infatti, richiamarsi all’azione se tutto ciò che avviene nel mondo fosse già predeterminato? È quindi, di fondamentale urgenza riallacciarsi al senso di responsabilità della persona e alla dignità situata in essa. Ogni tipo di azione, la più alta o la più impensata, contiene in sé un carattere storico, in quanto nasce sempre da una coscienza situata qui ed ora, in un determinato contesto sociale. Si può affermare, con Mounier, che un’azione è maggiormente efficace quanto più nasce da una coscienza particolare isolata, fuori, dunque, da una coscienza totale e dal dramma della propria epoca,70 rimane insensata, in quanto completamente depauperata della sua validità. Per la salvezza della persona stessa, riconosciuta ontologicamente aperta all’essere, occorre ricercare un senso verso cui l’azione deve tendere. Il rischio più grosso che corre colui che non trova un senso, è l’insignificanza, l’anonimato, che lo possono portare ad un abbandono sul piano pratico oppure, al contrario, ad una azione senza sosta, disperata. Date queste urgenze, Mounier cerca di delineare le dimensioni che caratterizzano l’azione.

In primo luogo, vi è un’azione economica con la quale l’uomo, in virtù delle sue fatiche e del suo lavoro, trasforma le cose: rientra nel dominio della scienza, della tecnica e dell’industria, il suo criterio e l’efficacia.71 Segue l’azione etica che “mira a formare colui che agisce, la sua abilità, le sue facoltà, la sua unità personale”.72 La sua norma è dunque l’autenticità. L’azione contemplativa, poi, arricchisce l’universo dei nostri valori: ha un carattere profetico e i suoi fini sono la perfezione e l’universalità; risulta dalla sintesi dell’azione economica e dell’azione morale. Ultima è l’azione sociale, intesa nel senso più ampio. Questa trasforma gli uomini avvicinando gli uni agli altri. A questo punto ci pare importante sottolineare che Mounier, individuando queste quattro dimensioni, non vuole assolutamente cristallizzare e fossilizzare l’azione delimitandone lo spazio e le possibilità. Può, invece, rappresentare un tentativo di indicare alcune caratteristiche ed esigenze portanti dalle quali non si può sfuggire. Appunto per quello che abbiamo appena detto “può avvenire che qualche tipo d’azione impegni prevalentemente una sola delle dimensioni considerate, mentre le altre si armonizzano con essa”.73 È significativo notare come il nostro autore, tenti sempre di distogliere il lettore dal considerare la persona come una macchina, facilmente programmabile e di conseguenza prevedibile in ogni suo movimento. Infatti, anche in questo caso, dopo le affermazioni positive intorno all’universo personale, mostra l’atteggiamento dell’uomo che agisce in modo contrario a quello sopra descritto, in virtù della sua unicità e imprevedibilità.

Continuando il discorso nella ricerca di determinare, in modo sempre più preciso ed approfondito l’azione, Mounier ne arriva a coglierne la misura, individuandola nel campo che va dal “polo politico al polo profetico”.74 In virtù di questa intuizione egli afferma che “l’uomo d’azione completo è colui che porta in sé questa duplice polarità e si destreggia fra un polo e l’altro”.75 Questo tipo di uomo così completo lo si può incontrare solo sul piano teorico, ma nella vita di ogni giorno è ben difficile. È solo all’interno della vita sociale che si riscontrano persone le une dotate di un temperamento politico, mentre altra dotate di un temperamento profetico. È, per il nostro fondamentale che questi due tipi di uomini esistano non isolati, bensì “articolati reciprocamente: in caso contrario il profeta, lasciato a sé stesso, si volge all’imprecazione inutile ed il tattico si perde nel suo manovrare”.76 Ci chiediamo ora: quale struttura attribuire all’azione? L’autore ce la mostra incalcolabile ed imprevedibile sul piano pratico:

le situazioni di partenza che sollecitano la nostra azione non le scegliamo; anzi esse ci provocano quando meno ce l’aspettiamo e in modo diverso da come prevedevano i nostri schemi.77

La libertà, che appartiene all’universo personale, deve affrontare anche questi ostacoli umani senza accasciarsi ed avvilirsi. Infatti “la forza creatrice della persona nasce dalla tensione feconda che esso suscita fra l’imperfezione della causa e la sua fedeltà assoluta ai valori che sono in gioco”.78

Questo carattere dialettico dell’impegno dell’uomo, che non è lineare e prevedibile come quello dell’animale, lo aiuta a non cedere nel fanatismo verso la sua causa e a liberarsi da tante ingenuità e illusioni per sforzarsi di camminare anche su vie irte di imprevisti. L’insicurezza, il rischio e la privazione: sono queste le caratteristiche che fanno grandi le azioni umane. Mounier definisce la struttura dell’azione appena descritta, drammatica. È, infatti, un continuo movimento di alti e di bassi, un continuo impiego di nuove energie creative capaci di non fermarsi mai, ma di proseguire sempre verso l’adempimento di un’azione veramente umana.79

Dalla lettura di queste pagine la realtà che balza più agli occhi è la forte disapprovazione che Mounier ha verso coloro che si ritirano dall’azione. Di questi l’autore individua due categorie: in primo luogo coloro che in nome di un assoluto, non compreso appieno, rifiutano un’azione sociale attiva per ricercare la perfezione. Per Mounier

spesso questa inquieta preoccupazione di purezza esprime anche un narcisismo superiore, una preoccupazione egocentrica di integrità individuale, staccata dal dramma della collettività.80

D’altra parte vi sono i vili, gli immaturi, coloro che in virtù del loro perenne rifiuto ad un impegno concreto ed attivo, sono destinati a rimanere per sempre bambini. Mounier, da vero uomo d’azione sembra volerci dire che la realtà va affrontata così come è, nella sua bellezza, ma anche per la sua durezza e drammaticità, anzi è in virtù di questa che noi abbiamo la possibilità di crescere come adulti, togliendo dalla nostra mente le illusioni e i castelli creati in un momento della vita in cui questa realtà era la sola possibile.

5. Dialettica tra interiorità e oggettività

La persona acquista la sua pianezza quando rientra in sé stessa o quando esce da sé incontrando l’altro? A questa domanda Mounier risponde che:

l’esistenza personale è sempre contesa fra due movimenti: uno di interiorizzazione l’altro d’esteriorizzazione; entrambi le sono essenziali, entrambi possono sia soffocarla sia dissiparla.81

Non contrapposizione, quindi, ma reciprocità. È nella integrazione dei due movimenti che l’uomo ritrova la sua giusta dimensione. È facile intuire le degenerazioni che possono provocare l’esaltazione del primo o dell’altro fattore in questione, e cioè o la chiusura più totale o la perdita completa delle proprie capacità riflessive. La persona è sempre in ricerca di un equilibrio che gli dia la possibilità di vivere nel mondo pienamente responsabile della sua propria azione personalizzante. L’interiorità e l’oggettività segnano i poli estremi dell’universo personale; è all’interno di questi che la persona vive la propria realizzazione. Questo stretto rapporto dialettico lo abbiamo riscontrato in ogni elemento dell’universo personale, segno che il rischio di valorizzare un aspetto, a scapito dell’altro, è sempre in agguato. Appunto per questo, Mounier ci avverte che:

non bisogna disprezzare troppo la vita esteriore, perché senza di essa la vita interiore diventa assurda; così come, senza la vita interiore, anche quella esteriore delira.82

Come fare, però? Come conciliare all’interno del proprio mondo personale queste due realtà, questi due movimenti? In virtù di quella singolarità ed imprevedibilità tanto decantata, che caratterizza la persona, sarebbe risultato estremamente incoerente formulare delle “ricette” su come si possa raggiungere il giusto equilibrio nel minor tempo possibile.

È questo un obiettivo che solo la vita ci può insegnare. Sono moltissimi i richiami e gli appelli che nel corso dell’opera Mounier invia alla persona per invitarla a non fermarsi al tavolino della vita, ma a prendere seriamente la propria esistenza vivendo.


  1. In modo particolare cfr. Unità e pluralità. Mounier e il ritorno della persona, Città Nuova, Roma 1984 p. 243; J.L. Del Bayle, I non conformisti degli anni Trenta, Cinque Lune, Roma 1972 p. 11; Campanini, G., Il pensiero politico di Mounier, Morcelliana, Brescia 1983 P. 11; ID, Personalismo e democrazia, Dehoniane, Bologna 1987 pp. 33-39. ↩︎

  2. Lettera di Mounier a Jéromine Martinaggi del 1/4/1941 in Œuvres IV, Editions du Seuil, Paris 1963 p. 476, tr. it. “Lettere e diari”, Città Armoniosa, Reggio Emilia 1981 p. 93. ↩︎

  3. Albert Béguin, Ritratto dell’amico Mounier, in La fiera letteraria; n°25 22/6/1952. ↩︎

  4. Lettera a Jacques Lefrancq del 7/2/1928, O. IV, p. 417, tr. it. P. 107. ↩︎

  5. Ibidem↩︎

  6. Cfr. A. Béguin, cit. p. 37. ↩︎

  7. Per quanto riguarda l’influenza di Chevalier su Mounier cfr. Guitton, J., Scrivere come si ricorda, ed. Paoline, Alba 1975 p. 214. Per la definitiva rottura fra i due pensatori cfr. Vignaux, P., Cattolici francesi di fronte ai fascismi e alla guerra di Spagna”, sta in “Cristianesimo nella storia”, 1982, n° 2, p. 338. ↩︎

  8. Georges Barthélemy mori nel 1928 all’età di 22 anni. Cfr. O. IV pp. 426-432, tr. it. p. 37-44. ↩︎

  9. Lettera a Jéromine Martinaggi 18/5/1930, O. IV, p. 468, tr. it. P. 83. ↩︎

  10. Cfr. AA. VV. Péguy Vivant, Milella, Lecce, 1978; Campanini, G., Il pensiero politico di Mounier, cit. pp. 31-40; Campiti, M., La presenza di Charles Péguy nel pensiero di Emmanuel Mounier, in Mounier, E., Il pensiero di Charles Péguy, Ecumenica, Bari, 1987. ↩︎

  11. O. I, cit., p. 59, tr. it. Cit. p. 101. ↩︎

  12. Cfr Domenach, J., Emmanuel Mounier, Seuil, Paris 1972 p. 36. ↩︎

  13. O. IV p. 430, tr. it. P. 41. Occorre osservare che, mentre nei diari e nelle lettere giovanili la presa di posizione nei confronti di tutto ciò che è segno di abitudine viene descritto con connotati fortemente negativi, nelle opere successive, in modo particolare in “manifesto al servizio del personalismo”, I toni si faranno significativamente più pacati. Subentra, infatti, un aspetto nuovo, vale a dure la presa di coscienza che l’adattamento ha una sua importanza vitale, anche se “fino ad un certo limite; al di là di questo esso è un processo di morte” (Manifeste au service du personnalisme in O. I. p. 578 tr. it. Manifesto al servizio del personalismo, Ecumenica, Bari 1975 pp. 109-110). La stessa affermazione è riportata anche in un articolo apparso nell’ottobre del 1935 “Déclaration collettive”, firmato semplicemente “Esprit”, anche se non è difficile individuare la mano di Mounier (cfr. p. 10). ↩︎

  14. l’individuazione dell’individualismo come avversario principale verso il quale coinvolgere le proprie forze, è presentato per la prima volta nel “prospetto di presentazione di Esprit”, apparso verso la fine del 1933 (riportato da L. Del Bayle, cit. pp. 592-593). Anche Michel Vinock, nel suo tentativo di ricostruzione storico – politico – ideologico della rivista “Esprit”, si esprime in questi termini: “Si un seul mot pouvait désigner l’ennemi, ce mot – là serait sans dout individualisme”. Vinock, M., Histoire politique de la revue Esprit 1930-1950, Seuil, Paris 1975, p. 77. ↩︎

  15. La pensée O. I. cit. p. 100, tr. it. pp. 157-158. ↩︎

  16. Ibidem↩︎

  17. Ivi, p. 118, tr. it. p. 183. ↩︎

  18. La speranza diventa, di questa prospettiva galante di una tensione spirituale che permette all’individuo di superare lo scacco del presente strutturalmente abitudinale. Occorre inoltre osservare che, proprio perché tale insegnamento è ricavato dalle lezioni di Péguy, il termine speranza non ha solo un significato spirituale, ma porta con sé una implicazione sociale. ↩︎

  19. A questo proposito, da un punto di vista prettamente metodologico, la differenza con Nietzsche, con il quale in “Affrontement chrétien” entra in dialogo diretto, è netta. La presa di coscienza di un fatto scatena Nietzsche, il desiderio di costruirne la genesi, attraverso un procedimento storico e psicologico per evidenziarne gli errori. Così, mentre per Mounier la presa di coscienza diventa produttrice di prospettive future, in Nietzsche ciò diventa motivo per scandagliare i fondali dei fondali del passato. ↩︎

  20. E. Mounier, Lévénement et moi, apparso in BAM n°3, aprile 1953, pp. 7-12, tr. it., L’avvenimento, in “Humanitas n°5, maggio 1970 pp. 522-527. ↩︎

  21. Dialogo riportato da G. Izard in “Arts”, 28 marzo – 3 aprile 1956, presente in J. L. Loubet Del Bayle cit. p. 159. ↩︎

  22. Lettera a Madeleine Mounier del 27/2/1931 in O. IV. P. 478, tr. it. p. 94. ↩︎

  23. Lettera del 3/1/1939, in O. IV. p. 627, tr. it. p. 271. ↩︎

  24. Melchiorre, V. Pubblico e privato: aspetti ideologico culturali, in “La famiglia crocevia della tensione fra pubblico e privato”, Vita e Pensiero, Milano 1979, p. 49. ↩︎

  25. Mounier, E., Il Personalismo, AVE, Roma 1980, p. 12 A questo punto riteniamo importante sottolineare che, anche dopo questa chiarificazione sui termini uomo e persona (tra l’altro non così marcata dall’autore), Mounier continua ad usarli in modo indifferente. ↩︎

  26. Il Personalismo, cit. p. 29. ↩︎

  27. E. Mounier, Che cos’è Il personalismo? Einaudi Torino 1977, p. 30. ↩︎

  28. Oggi, certamente anche grazie a Mounier, questo discorso è fortemente rivalutato e recuperato all’interno dell’antropologia filosofica. Molto significativa, a questo proposito, è l’espressione che Emerick Coreth utilizza per spiegare l’interazione tra la vita corporea e la vita spirituale: “spirito come anima del corpo e corpo come mezzo dello spirito” (in Coreth, E., Antropologia filosofica Morcelliana Brescia 1978). ↩︎

  29. Il Personalismo, cit. p. 39. ↩︎

  30. Ibidem. Per comprendere il peso di queste affermazioni così ricolme di significato, basta confrontarle con quello che ci dice l’antropologo Emerick Coreth e lo stesso Papa Giovanni Paolo II. Il primo considera il corpo il “luogo dove opero, mi accresco, mi affermo … Il corpo rivela lo spirito agli altri” (in “Antropologia filosofica” cit., p. 144). Giovanni Paolo II, nei suoi discorsi del mercoledì ed in alcune sue encicliche (vedi “Redemptor Hominis” e “Laborem exercens”) afferma che l’uomo è quel corpo e che esso è la manifestazione dello spirito. Lo stesso Concilio Vaticano II si è pronunciato in favore della presa di coscienza del corpo come valore: “l’uomo sintetizza in sé, per la stessa sua condizione corporale, gli elementi del mondo materiale, così che questi attraverso di lui toccano il loro vertice e prendono voce per lodare in libertà il Creatore. Allora non è lecita all’uomo disprezzare la vita corporale” (Gaudium et Spes 14). ↩︎

  31. Il Personalismo, cit. p. 39. ↩︎

  32. Ibidem↩︎

  33. Ivi, p. 32. ↩︎

  34. Che Cos’è il personalismo?, cit. p. 39. ↩︎

  35. Ivi, p. 40. ↩︎

  36. Il Personalismo, cit. p. 44 A proposito di questo discorso così complesso, un pensatore marxista contemporaneo, Roger Garaudy, ha manifestato qualche perplessità. Lo considera infatti, piuttosto confuso, perché prima viene esaltata la materia ed in un secondo momento la stessa viene considerata passiva ed inerte (Cfr. Garaudy, R., Prospettive dell’uomo, Borla, Torino 1972 p. 173). A nostro avviso questa critica è eccessiva. Infatti lo sforzo che Mounier fa è quello di presentare entrambi gli aspetti del problema per poter trarne delle conclusioni più obbiettive possibili. Non confusione, quindi, ma piuttosto tentativo di valorizzare un rapporto, quello tra la persona e la materia. ↩︎

  37. Ivi, p. 64. ↩︎

  38. Ivi, p. 64. ↩︎

  39. Ivi, p. 67. ↩︎

  40. Che cos’è il personalismo?, p. 65. ↩︎

  41. Ivi, p. 68. ↩︎

  42. Il Personalismo, p. 66. ↩︎

  43. Ivi, p. 67. ↩︎

  44. Ivi, p. 65. ↩︎

  45. Che cos’è il personalismo?, p. 64. ↩︎

  46. Ivi, p. 68. ↩︎

  47. A proposito del privato e del suo significato all’interno della cultura contemporanea, consigliano di vedere AA.VV., La famiglia crocevia della tensione fra pubblico e privato”, Vita e Pensiero, Milano 1979, in particolare l’articolo di Pietro Scoppola sugli aspetti storico-politici di questo problema alle pp. 24-43. ↩︎

  48. Il Personalismo, cit., p. 67. ↩︎

  49. Virgilio Melchiorre “Linee di fondazione del concetto di persona”, in A.A.V.V., Mounier trent’anni dopo, Vita e Pensiero, Milano 1981, p. 105. ↩︎

  50. Cfr. De vera religione↩︎

  51. Coreth, E., Antropologia Filosofica, cit., p. 85. ↩︎

  52. Il Personalismo, cit. p. 101. ↩︎

  53. Ivi, p. 105. ↩︎

  54. Ibidem ↩︎

  55. Ivi, p. 107. ↩︎

  56. Ivi, pp. 108-109 ↩︎

  57. Ibidem ↩︎

  58. Che cos’è il personalismo?, 87. ↩︎

  59. Cfr. AA.VV., La concezione scientifica del mondo, Laterza, Bari 1997 ↩︎

  60. Il Personalismo, cit. p. 89. ↩︎

  61. Parole dette da Sartre in “L’esistenzialismo è un umanesimo” citato da P. Dalle Nogare in “Umanesimi ed antiumanesimi” COINES, Pavia 1980, p. 171. ↩︎

  62. Ivi, p. 91. Cfr. anche Mounier, E., Manifesto al servizio del personalismo, Ecumenica, Bari 1975, p. 137. ↩︎

  63. Ivi, p. 99. ↩︎

  64. Che cos’è il personalismo?, p. 96. ↩︎

  65. Ivi, p. 49. ↩︎

  66. Ibidem ↩︎

  67. Il Personalismo, pp. 45 – 46. ↩︎

  68. Un atteggiamento abbastanza simile a questo e quello dello Spirito Libero, figura presentata da Nietzsche in “Umano troppo umano”. Egli, infatti, in virtù della propria ricerca della conoscenza, vive prevalentemente in solitudine sradicato dalla storia (Cfr. Nietzsche, F., Umano troppo umano, Adelphi 1982, af. 429, 427, 291). ↩︎

  69. Manifesto al servizio del personalismo, p. 43. ↩︎

  70. Ivi, p. 125. ↩︎

  71. Mounier trent’anni dopo, cit. p. 124. ↩︎

  72. Il Personalismo, p. 127. ↩︎

  73. Ivi, p. 126. ↩︎

  74. Ivi, p. 132. ↩︎

  75. Ibidem ↩︎

  76. Ivi, p. 133. ↩︎

  77. Ivi, p. 134. ↩︎

  78. Ibidem↩︎

  79. A proposito di questo discorso sulla struttura dell’azione, Roger Garaudy ha qualcosa da obbiettare. Secondo lui, infatti, “l’azione che deve compiere questa duplice “rivoluzione”, materiale e spirituale, non è mai indicata” (in “Le prospettive dell’uomo”, op. cit., p. 177.) Noi non sappiamo che cosa Garaudy cercasse tra le pagine di Mounier. Certo che, dopo aver affermato la drammaticità dell’azione con tutto quello che comporta, a nostro avviso rimane ben poco da dire sul piano dell’azione concreta. Certamente a livello teorico sono molte le cose per le quali ci si può permettere di disquisire. Ci sembra, però, che il tentativo fatto da Mounier in questa sua opera sia quello di riflettere sull’universo personale non disincarnato dalla storia, ma più che mai inserito in essa. ↩︎

  80. Manifesto a servizio del personalismo, p. 133. ↩︎

  81. Ivi, p. 74. ↩︎

  82. Il Personalismo, p. 76. ↩︎