1. Introduzione
Argomento di questo contributo vuol essere l’apporto dell’intersoggettività al coglimento del vero. In particolare ci preme riflettere su un corretto modo di intendere tale dimensione intersoggettiva, la cui trascuratezza ha contribuito non poco, a nostro avviso, a motivare la parabola antirealistica del pensiero postmedioevale che può essere letta come reattiva a un precedente “ottimismo” gnoseologico unilateralmente accentuatore di una facilità di accesso al vero. D’altro lato però ci sembra occorra evitare una flessione relativistica dell’intersoggettività, a cui può portare un certo tipo di recezione del pensiero “dialogico” ed ermeneutico.
Ci permettiamo di anteporre subito (senza giustificarlo in questa sede1) il quadro di riferimento complessivo a quanto diremo, ossia che la verità sia attingibile, e con certezza, ma solo attraverso una sinergia di fattori non esclusivamente teoretici. In particolare occorre che la totalità del soggetto conoscente, dunque non la sola intelligenza, ma inscindibilmente anche la libera affettività, sia coinvolta, sostenuta da una dinamica intersoggettiva adeguata. In questo contributo è su una maggiore precisazione di quest’ultimo fattore che vogliamo soffermarci.
Ci sembra anzitutto indiscutibile che l’intersoggettività abbia a che fare con la verità. Nel senso che essa è una condizione del darsi effettivo della verità con quella qualità che la rende esistenzialmente certa e capace di mobilitare concretamente il soggetto umano.
Si potrebbe osservare che per chi crede è evidente che senza una comunicazione di testimoni la Verità rivelata da Dio non sarebbe giunta a noi: fides ex auditu. Non c’è fede puramente individuale, solitaria, illuminata solo dall’alto. Ma anche per la stessa verità filosofica, razionalmente attingibile, l’intersoggettività afferisce direttamente e pertinentemente al coglimento della verità. Il rapporto con gli altri influenza il mio attingere la verità, sia per ciò che concerne i contenuti della verità,2 sia anche, e forse ancor più, per quello che si potrebbe chiamare il clima mentale, o la qualità contestuale del vero.3
Tuttavia è indispensabile tematizzare come debba intendersi l’intersoggettività. In effetti non ogni rapporto intersoggettivo concorre ad alimentare la verità, o apre uno squarcio sulla verità totale, potendosi anzi dare il caso di un rapporto intersoggettivo che offuschi e deformi la verità. È un dato di esperienza universale, quello espresso nell’affermazione “quoties inter homines fui, minor homo redii”.4 Si tratta dell’esperienza di quello che S. Giovanni chiamava “mondo”, come insieme di rapporti interpersonali dominati da falsi presupposti (la “tenebra”, la “menzogna”), maliziosamente fissati da un vasto, interessato consenso. In questo senso gli individui che scelgono di impostare la loro vita in base a un progetto violento attuano comportamenti sistematicamente volti a darsi reciproca legittimazione, costituendo non una facilitazione, ma una pesante ostruzione al vero.
Non apre, insomma, alla verità quel rapporto in cui i soggetti rapportantisi non siano veri. In questa falsità ci sembra consistere uno degli ingredienti essenziali di quella forte negatività (“l’enfer c’est les autres”), che Sartre riteneva l’inevitabile modalità di ogni rapporto intersoggettivo. Perché un rapporto aiuti al vero, occorre che il rapporto sia vero, il che implica che veri siano coloro che si rapportano.
Una affermazione come quest’ultima richiede ovviamente di venir calibrata, poiché il concetto di verità di sé corre il forte rischio di venire equivocato con una malintesa “autenticità”. Questa consisterebbe nella programmaticamente irriflessa esternazione, o comunque nella morbosa custodia di tutto ciò che immediatamente si produce in un soggetto. Una tale accezione della verità di sé comporta una messa-tra-parentesi della ragione, e una tendenziale riduzione del soggetto umano a una dimensione di (artificiosa) animalità, se non di vegetalità. Nella verità di sé (e dunque nella vera “autenticità”) è compresa invece la totalità di ciò che un soggetto è, al cui vertice sta la razionalità come consapevolezza dell’esistente. La verità di sé, mai del resto pienamente raggiunta, è data dalla scelta del soggetto di essere quello che è, di attuare la propria essenza o natura, nella sua totalità, in tutta la sua estensione, i suoi livelli e i suoi fattori.
Del resto, l’arrestarsi a un livello di “autenticità” come soggettivistico “lasciarsi vivere” non può costituire un fattore di vera comunione con gli altri, ma porta inevitabilmente o a un abbassamento grottesco della soglia di civiltà nei rapporti reciproci, nel contesto di uno spontaneismo azzeratore della dignità personale, o a una stizzosa conflittualità con gli altri. Solo andando al fondo di sé, uno raggiunge quella verità che è comune a tutti gli altri uomini, e può davvero instaurare un legame che sia al contempo dignitoso e amicale, capace al contempo di distacco e di attaccamento, di rispetto e di familiarità. Ci sembra che molto opportunamente Dante nel Paradiso immagini i rapporti tra i beati, paradigma di ogni rapporto vero, come il massimo della vicinanza e insieme di un cortese e discreto rispetto, laddove nell’Inferno si mescolano una velenosa avversione reciproca e una pseudo-vicinanza come grossolana complicità nel limite. L’espressione “andare al fondo di sé” implica perciò senza dubbio un sacrificio, e un cammino.
2. Equivoci da evitare: dialogicità “debole”
Quanto detto poco sopra concerne il risvolto soggettivo della questione, ma analogo rilievo andrebbe fatto per quanto concerne il lato “degli altri”.
Vi è infatti un secondo scoglio da evitare, quando si parla della intersoggettività come fattore veritativo: quello di intenderla come una condiscendenza all’altro, disancorata da riferimenti oggettivo-assoluti. Una tale accezione del rapporto intersoggettivo è stata teorizzata, come è noto, da un pensiero come quello di Habermas, per il quale la verità non sarebbe che l’opinione ultima a cui perviene la comunità dei ricercatori, o da Apel, che ha proposto una riformulazione del kantismo in chiave linguistica: per tali filosofie risulta impossibile attingere la realtà, e ciò di cui dovremmo accontentarci è una intesa, sempre relativa, limitata e rinegoziabile, tra soggetti parlanti. L’intersoggettività, in tal modo, più che fattore di verità, appare a nostro avviso come surrogato della verità. Invece di portare alla verità, la scherma insuperabilmente.
A risultato analogo sembra pervenire anche una certa flessione dell’ermeneutica, per la quale si dà un inevitabile e insuperabile diaframma verso la verità, non dandosi alcun vero (immediato) accesso a un dato, ma sempre e soltanto un accesso mediato da a-priori comunicativi, rinvianti piuttosto alle soggettività comunicanti (al loro “circolo ermeneutico”) che alla oggettività del reale.
In generale la sottolineatura della centralità del dialogo, nella filosofia più recente, appare equivoca. Nel preciso senso che ci sembra ingiustificabile pensare che un errore diventi verità per il fatto che su di esso si trovi un accordo tra tanti, fosse pure tra tutti i soggetti comunicanti. La verità è il riconoscimento di ciò che è, e ciò che è precede e giudica l’intelligenza, non solo individuale ma anche (ci si passi il termine) “collettiva”. Dunque un’idea della indepassabilità del circolo dialogico intersoggettivo marcherebbe una rassegnazione alla non-conoscenza del vero. Più che di una collaborazione, pienamente umana, e perciò attraversata da una trepidante cura per un vero sempre meglio riconoscibile, si tratterebbe in ultima analisi di una calcolata complicità, ristagnante nelle brevi acque di un progetto ultimamente tecnico (“accordiamoci sulle ”istruzioni per l’uso“”). Rinunciando all’oceano del vero, ci si ritirerebbe nello stagno del già-noto.
Diverso sarebbe dire, come noi crediamo sia giusto, che gli altri sono importanti e necessari, ma in virtù della loro personale e indemandabile competenza al vero, in virtù di un loro, personale e personalmente immediato, accesso al vero. Un accesso al vero personale e immediato non significa infatti un accesso perfetto e autosufficiente. Proprio l’imperfezione del mio rapportarmi al vero, mi spinge a rapportarmi agli altri. Ma il mio rapportarmi agli altri in tanto può risultare costruttivo, in quanto io possa applicare una mia iniziale e insostituibile competenza al vero, tale da poter discernere ciò che in me e negli altri sia realmente vero, cercando di neutralizzare l’inevitabile componente di falsità presente di fatto nella comunicazione:5 senza un iniziale, autonomo e immediato, accesso al vero di ogni singolo soggetto intelligente, non ci potrebbe essere reciproco arricchimento in un dialogo intersoggettivo. In termini “spirituali” si potrebbe dire che non ci può essere vero rapporto tra uomini senza la possibilità di stare personalmente davanti alla Verità (“anche se tutti Ti tradissero”), con la certezza espressa nel Salmo 90:
Mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra, ma nulla potrà colpire te. Solo che tu guardi, con i tuoi occhi, vedrai il castigo degli empi.
Il problema è il mio rapporto con la Verità: se io lo vivo, usando la mia competenza al vero (“solo che guardi, con i miei occhi”), non devo temere (“nulla potrà colpire me”, nulla potrà recare un danno alla verità più profonda di me, niente di davvero importante di me potrà essere distrutto).
“Solo che tu guardi, con i tuoi occhi, vedrai il castigo degli empi”.
Se io uso la mia personale e indelegabile competenza al vero, “guardando” “con i miei occhi”, non solo non sarò io ad essere distrutto da quanti si voglia (“mille” o “diecimila”) si coalizzassero per concordare nella menzogna, tentando di piegare tutti al loro perverso progetto, ma vedrò loro cadere, vedrò “il castigo degli empi”, di coloro che credono sufficiente accordarsi sul falso per farlo diventare vero: “mille cadranno al tuo fianco e diecimila alla tua destra”.
Fondamentale è dunque la competenza personale al vero, che è strettamente legata alla possibilità di rapporto personale con la Verità assoluta. Come potrebbe infatti, usando una espressione evangelica,6 un cieco guidare un altro cieco? Finiremmo inevitabilmente, come i due orfani della poesia di Pascoli,7 con l’illuderci, raccontandoci favole, immersi in una realtà tenebrosa e potenzialmente minacciosa, e che il nostro discorrere non ci permetterebbe affatto di conoscere, e dunque di affrontare adeguatamente. Saremmo conniventi in un inganno reciproco, reso solo apparentemente più consolante dall’eventuale elevato numero di partecipanti.
Chi crede non può non pensare, a questo proposito, alla personalità di Cristo, ai lunghi tempi da lui dedicati alla preghiera, rapporto diretto col Padre, e alla sua coraggiosa disponibilità a contraddire chiunque non fosse obbediente alla verità, non indietreggiando dal contraddire i suoi discepoli più prossimi, al punto da chiamare “satana” quel Pietro, a cui pure poco prima aveva affidato il compito di guidare la sua Chiesa.8 Gesù, pur essendo interessato come nessun altro a raggiungere e a scuotere l’intelligenza e il cuore della gente a cui parlava, non si preoccupava di istituire un “circolo ermeneutico” con i suoi uditori, per Lui la verità non era oggetto di negoziazione: parlava “con autorità”,9 dunque con assoluta sicurezza. Il che non toglie che questa sicurezza a Lui, obbediente al Padre, creatore del cielo e della terra, derivasse anche dal tenere conto di tutti i fattori della realtà, includendo in ciò la massima capacità di osservazione degli altri e di rapporto positivo con loro, e l’assimilazione di tutto il positivo che negli altri poteva incontrare, a partire dalla valorizzazione massima del suo rapporto con Sua Madre e col suo padre “putativo”, Giuseppe. Tuttavia, a chiunque legga con serietà il Vangelo, non può non apparire la grande forza con cui Gesù parla “con autorità”; nulla lascia intendere che Egli si “confrontasse” con gli Apostoli, concertasse con loro la “strategia” comunicativa o operativa da adottare; al contrario gli Apostoli appaiono, lungo tutto il corso dei tre anni di predicazione pubblica di Gesù e fino ai giorni della Sua Passione, come spesso spiazzati e disorientati davanti al comportamento di Gesù, che sfugge di continuo ad ogni logica di prudente negoziazione dialogica. Così, analogamente, la Chiesa, per chi è credente, parla “con autorità”, ossia non deriva da un consenso democraticamente controllabile la forza per affermare ciò che afferma, ma lo afferma in nome di Colui che, avendola fondata, le ha affidato il compito di trasmettere la Sua verità. L’apparente “dogmatismo” della Chiesa, la sua indisponibilità a mediare il dogma e a riformulare il contenuto del suo annuncio e della sua pretesa, è in perfetta continuità con l’apparente “dogmatismo” di Cristo, che ha avuto la pretesa, umanamente inconcepibile, di dirsi la Verità.10
Ma anche a chi credente non è, riteniamo dovrebbe risultare chiaro come il non avere un proprio, insostituibile accesso al vero, renderebbe un soggetto personale totalmente dipendente dall’intersoggettività, che, a sua volta, essendo fatta da tanti individui, ognuno dei quali sarebbe incompetente al vero, fluttuerebbe in una insuperabile relatività di cangianti opinioni. Nemo dat quod non habet: una intersoggettività così intesa non potrebbe dare a un individuo la certezza del vero, non potrebbe dare del vero con qualità di certezza. La somma di tante incertezze non può restituire una vera certezza.11
Si potrebbe allora riassumere così quanto vogliamo dire: gli altri sono necessari per conoscere la Verità, ma non sono sufficienti; occorre che io impegni tutta la mia energia, conoscitiva e affettiva, impegnando la mia, insostituibile e indelegabile, libertà. Non vi è alternativa, o proporzionalità inversa, tra “altri” e “io”. Anzi, tra il fattore personale e quello dialogico non solo non c’è alternativa, ma si dà rimando ed intensificazione reciproca: più vado al fondo di me, più scopro di avere bisogno di altri; e più approfondisco il rapporto con altri, più capisco che il mio atteggiamento “profondo” è decisivo nel consentirmi un arricchimento nel rapporto.12 Perciò senza il mio personale pormi davanti alla verità, che non può non richiedere un, almeno implicito, riferimento adorante alla Verità Prima (“non può avere pace l’uomo che non pensi come se al mondo esistessero solo lui e Dio”, dicevano i Padri del Deserto), senza questo non c’è verità, ma opinione condivisa, ossia, poco o tanto, complicità nella menzogna.
Dunque l’intersoggettività che noi riteniamo sia un fattore della conoscenza del vero non è da intendersi come mero dialogo, nel senso di negoziazione di opinioni da condividere; oltre all’elemento dialogico (comunicare idee, accettando benevolmente di considerare con attenzione le idee altrui) occorre la presenza di un fattore affettivo (la benevolenza verso gli altri e la serietà nella tensione al vero, resa urgente dall’incombere della morte): ma questo è reso possibile da un terzo fattore, il riconoscimento almeno implicito di un Altro, che viene prima dei dialoganti umani, e che costituisce il fondamento della possibilità di un rapporto non reciprocamente ingannante o ingannevole.
Il motivo per cui una certa impostazione filosofica ancora oggi tende a guardare con sospetto argomenti come quello che abbiamo appena accennato, è l’obiezione della verità come violenza. Secondo questa impostazione una verità che precedesse l’incontro con l’altro sarebbe violenta: posso conoscere come vero solo ciò che non ferisce l’altro, impedendo così il dialogo. In proposito però osserviamo come nessuna verità possa ferire, se affermata nella sua profondità cioè nella sua connessione alla totalità: perché la totalità del vero è il Bene totale, infinita Misericordia rigeneratrice, davanti a Cui nessun male è più obiezione insormontabile. Una verità particolare, per quanto scomoda, diventa accettabile se collocata sullo sfondo di un contesto totale buono, mentre al contrario nessuna ingannevole accondiscendenza può supplire la mancanza di tale sfondo.13
Se uno rimane ferito da qualcosa che si presenta come verità significa o che ciò che lo ferisce non è verità (ad esempio essendolo solo parzialmente, e venendo strumentalizzata in funzione di un progetto non-vero, e, allora sì, violento), e allora lo può ben lasciar perdere, oppure che lui stesso non è vero, ma è abbarbicato a una immagine di sé parziale e superficiale, ritenendosi ad esempio consistere in un particolare (come il potere, il denaro, la bellezza, la salute, il piacere), e anche allora è lui, e non la verità, ad essere violento.
3. Altro equivoco: una angelizzazione del rapporto io-tu
Un autore tra i più importanti della filosofia dialogica novecentesca, Martin Buber, sostiene che “tra l’io e il tu non vi è alcuna conoscenza concettuale”,14 o ancora che “dove si dice tu, non c’è un qualcosa. Il tu non confina. Chi dice tu non ha qualcosa, non ha nulla. Ma sta nella relazione”.15 Tali espressioni ci appaiono esagerate e non realistiche: è infatti impossibile che l’altro non sia conosciuto anche concettualmente, né in ciò si deve vedere necessariamente una forma di violenza. Ad esempio il temperamento di un altro a cui voglio bene posso ben elaborarlo concettualmente, ed esprimerlo poi in parole; solo una sensibilità esasperata potrebbe vedere in ciò un tradimento dell’amicizia o della fiducia.16 Più realisticamente si dovrebbe dire che l’altro è sempre al tempo stesso soggetto ma anche, in qualche modo, oggetto di una relazione conoscitivo-affettiva: è sì principalmente soggetto, ma non può non essere anche oggetto, sia pure di una oggettivazione il più possibile funzionale alla sua soggettivizzazione, al rapportarsi a lui come soggetto.
Del resto, dal punto di vista teologico-spirituale, per quanto concerne il rapporto col Tu di Cristo, è di fatto impossibile dare continuativamente del Tu a Colui che pure è oggettivamente (sempre) presente e il dialogo col Quale, più di chiunque altro Meritevole di adorante attenzione continua, costituisce profondamente la struttura della vita; è in altri termini impossibile, praticamente, pregare sempre. Quello che è realisticamente possibile è cercare di pregare il più possibile, sapendo che comunque non è irriguardoso verso di Lui che in certi momenti pensiamo a Lui non come uno “a cui”, ma come uno “di cui” si parla. A ciò ci costringe il limite della nostra condizione conoscitiva, immersa nella materia e con una inevitabile componente di, lenta e progressiva, argomentatività.
Se è comprensibile una reazione alla “mistica dell’avere”, che tutto totalmente oggettiva, incluso il tu, non sembra reggere alla prova di una realistica quotidianità una “mistica dell’essere”, che pretenderebbe di mantenere su livelli, per così dire, angelici i rapporti, evitando qualsiasi oggettivizzazione.17
4. Quale intersoggettività
Abbiamo visto finora come non debba essere intesa l’intersoggettività, veniamo ora a tratteggiarne in positivo alcune linee essenziali. In sintesi si potrebbe dire che la verità del soggetto è al contempo frutto e condizione della verità che il soggetto conosce. E la verità di un soggetto è resa possibile dalla verità di altri soggetti con cui egli ha un rapporto autentico. Vi è in effetti un dinamismo per cui, reciprocamente: a) l’essere vero dell’altro mi spinge ed aiuta ad essere vero, facilitandomi il rapporto alla verità totale; b) il mio essere vero, la serietà con cui vivo la verità di me stesso, mi consente di rapportarmi alla verità sintetica nella sua globalità.18
Ma che cosa si deve intendere per umanità più vera? Ontologicamente parlando una umanità è vera quando attua la propria natura, ovvero nella misura in cui il dinamismo operativo volontario è espressivo della struttura ontologica profonda. Ciò non è ovvio nel caso dell’uomo, come invece lo è nel caso degli enti naturali infraumani.19 L’uomo infatti è libero; inoltre la condizione effettiva in cui si trova la natura umana reca i segni di uno sconvolgimento,20 che rende non immediato né facile conoscere la verità e fare il bene, e anzi inclina l’uomo, come tutta la storia dimostra, al male.
Quanto più un essere umano si avvicina alla verità di sé, tanto più vengono rimossi i motivi reali di conflitto con gli altri esseri umani. Affermando sé stesso come centro, infatti, uno si pone inevitabilmente contro gli altri. Al massimo possono esistere rapporti di complicità, magari superficialmente21 gradevoli, ma non di vera amicizia. In sintesi dunque un essere umano è vero quando riconosce che il suo vero bene è oltre la propria immediata misura e coincide profondamente con il vero bene di ogni altro essere umano.
Come viene ad attuarsi questa verità di sé, che è effetto e condizione di verità anche relativamente alla totalità del reale? Anche a livello puramente naturale, come diceva la metafisica aristotelico-tomista, ciò che è in potenza non passa all’atto, se non in virtù di ciò che è già in atto (quod non est non incipit esse nisi per aliquid quod est). Nella fattispecie è una soggettività più vera della mia che mi aiuta ad essere vero.22 Ma ciò è tanto più vero nella concreta economia delle cose, segnata, come abbiamo già accennato, dal peccato originale e dalla redenzione: è fondamentale l’incontro con umanità più vere. Non posso cambiare la mia umanità autocentrica ed egoista, legata alla menzogna, senza un aiuto esterno. In primo luogo dunque c’è l’altro, un altro più vero. Ci sia consentito richiamare a questo proposito un passaggio di una poesia di S. Giovanni della Croce:
Cuando tú me mirabas, su gracia en mí tus ojos imprimían: por eso me adamabas, y en eso merecían los míos adorar lo que en ti vían. No quieras despreciarme, que si color moreno en mí allaste ya bien puedes mirarme después que me miraste que gracia y hermosura en mí dejaste.23
Ciò che rende buono, buono anche a vedersi (tanto da essere amabile: “por eso me adamabas”) un soggetto, che di per sé sarebbe incapace di essere vero, così che la stessa apparenza esteriore sarebbe di “color moreno”, segnata dal male e dalla fragilità, è lo sguardo di un altro (nella poesia di Giovanni della Croce lo stesso Verbo di Dio, ma analogicamente ogni soggetto umano nella misura della sua verità): “cuando tu me mirabas, su gracia en mí tus ojos imprimían”, lo sguardo dell’altro restituisce una “grazia” a chi è guardato. Poiché quanto più una persona è vera, tanto più riconosce nell’altro, oltre la scorza più immediata dell’apparenza, oltre l’eventuale fango che può suscitare disprezzo, una verità più profonda, un diamante prezioso, quella dignità infinita che commuove il padre del figliol prodigo.24 E questo sguardo che sa andare oltre l’apparenza fa cambiare il soggetto che abbraccia (non solo ne coglie la verità, ma in qualche modo la attua, la aiuta ad emergere): il guardare al centro buono dell’altro, offuscato dal “color moreno”, dalla coltre del limite (morale) brutto e abbruttente, ha reso buona anche tale apparenza esteriore (“gracia y hermosura en mí dejaste”), perché ha a iniziato a far (ri)scoprire alla persona la sua interiore dignità.25
Ci si potrebbe infine chiedere perché l’automanifestazione di un soggetto induca un altro soggetto all’automanifestazione. Se cioè ciò che l’altro mi rivela nella sua epifanicità pratico-corporea non fosse altro che sé stesso, visto come un atomo chiuso, ciò non mi provocherebbe ad automanifestarmi fino in fondo: sinteticamente per il fatto che “un cieco non può guidare un altro cieco”. Quanto più uno è chiuso in una sua esclusiva autoaffermazione, tanto meno può provocare all’unità.
Solo se un soggetto rivela, in sé stesso, più di sé stesso, può instaurarsi un rapporto di progressiva, reciproca automanifestazione, che porti a un consolidamento della verità di sé. Occorre in effetti che si renda in qualche modo sensibile, nell’altro, un Fattore che vada oltre la sua limitata finitezza, e sia presente anche al fondo di me, come qualcosa che costituisce il mio più intimo centro, il cui emergere non posso non desiderare come la condizione indispensabile per la mia piena autocoscienza e realizzazione.26 Ogni soggetto desidera questo Fattore, questa Totalità, e quando questa emerge in modo più luminoso e trasparente in un altro, non può non provocare a parteciparne.
Con questo abbiamo anche il bandolo per rispondere alla domanda su come l’emergere autoepifanico della forma spirituale in un soggetto provochi un corrispettivo emergere della forma spirituale dell’altro: i due centri spirituali sono in qualche modo rimandi ad un Intero che li precede e li permea.
5. Conclusione
Quella di rapportarsi non solo pacificamente, ma altresì amichevolmente, quella anzi di costruire con gli altri una unità quanto possibile forte e profonda, è una esigenza strutturale e inestirpabile nell’animo umano. Per chi è credente ciò è il riverbero nell’uomo dello stesso mistero trinitario, e l’anticipo naturale della legge fondamentale della vita cristiana, che è la carità, che vede nell’altro un costitutivo essenziale della stessa identità di ognuno (un membro dello stesso Corpo).
Tuttavia questa dimensione strutturalmente comunionale dell’essere umano non può essere ridotta a una dialogicità “debole”, tale cioè da prescindere da una indelegabilmente personale competenza al vero. Come sul piano del valore la persona è al tempo stesso legata strutturalmente agli altri e portatrice, in quanto singola, di un valore infinito, così sul piano gnoseologico ci sembra che l’intersoggettività sia non solo condizione per, ma prima ancora frutto di un personale rapporto col vero. Teologicamente, senza un personale accesso al vero, la scelta fondamentale della vita, per o contro la proposta del Creatore, non avrebbe senso. Ma poiché la vita stessa ha come senso di prendere posizione davanti a tale proposta, e con serietà eterna di esito, non appare possibile, da un punto di vista teologico, negare tale personale capacità, che è del resto, filosoficamente, un elemento costitutivo della dignità dell’uomo come persona.
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Abbiamo iniziato a farlo altrove: La verità in Blondel o la non-possedibilità del vero [1a], “Divus Thomas”, 26 (anno 103) [2/2000], pp. 110-132; La verità in Blondel o la non-possedibilità del vero [2a], “Divus Thomas”, 29 (anno 104) [2/2001], pp. 179-202; Motivi dell’antirealismo moderno, “Divus Thomas”, 32 (anno 105) [2/2002], pp. 175-201; Riflessioni sulla necessità e possibilità del vero, “Divus Thomas”, 35 (anno 106) [2/2003], pp. 73-85. ↩︎
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Per quanto concerne i contenuti della verità filosofica l’apporto degli altri è insostituibile, a partire dall’apparentemente banale debito del linguaggio e del sapere: che cosa davvero conosciamo che non abbiamo ricevuto dal rapporto, prima con i nostri genitori, poi con educatori, amici, libri, istituzioni scolastiche o informative, insomma dal rapporto con altri? Come notava Maritain: Cartesio, che pur pretendeva di “depromere ex thesauro mentis” tutta la verità di cui aveva bisogno, è molto più dipende di quanto immaginasse dalla sua balia. ↩︎
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Non sono infatti solo i contenuti della verità ad essere in gran parte debito del rapporto con gli altri, lo è anche l’involucro affettivo, per così dire, la qualità certitudinale del vero. Nel senso che lo stesso contenuto di verità cambia qualità (cambia livello di certezza) a seconda che sia o no oggetto di comunicazione intersoggettiva. Posso infatti compiere delle riflessioni corrette su una certa cosa, ad esempio su un problema che ho o una persona che conosco, ma è diversa la qualità della mia conoscenza, è diversa la certezza se di quella cosa parlo con un altro, e la qualità è tanto migliore quanto più il rapporto è serio, e serio è l’altro, con cui comunico. ↩︎
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Cfr. Imitazione di Cristo, l. I, cap. 20; l’autore vi cita a memoria, molto probabilmente dalla settima delle Lettere a Lucilio di Seneca: “Inimica est multorum conversatio: nemo non aliquod nobis vitium aut commendat aut imprimit aut nescientibus allinit. Utique quo maior est populus cui miscemur, hoc periculi plus est. […]. (3) Quid me existimas dicere? avarior redeo, ambitiosior, luxuriosior? immo vero crudelior et inhumanior, quia inter homines fui”. ↩︎
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Falsità dimostrata dalla componente (più o meno consistente, a seconda del soggetto) di contraddittorietà dei messaggi che pressoché inevitabilmente gli altri comunicano. ↩︎
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Lc, 6, 39: “Disse loro anche una parabola: ”Può forse un cieco guidare un altro cieco? Non cadranno tutt’e due in una buca? “”. ↩︎
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“”Suonano a morto? Suonano a martello? “ […] ”Forse“ ”Ho paura“ ”Anch’io“ ”Credo che tuoni: […] come faremo?“ ”Non lo so, fratello: […] stammi vicino, stiamo in pace, buoni“”. ↩︎
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Mt, 16, 13 sgg. e Mt, 16, 22: “Ma Pietro lo trasse in disparte e cominciò a protestare dicendo: ”Dio te ne scampi, Signore; questo non ti accadrà mai“. [23] Ma egli, voltandosi, disse a Pietro: ”Lungi da me, satana! Tu mi sei di scandalo, perché non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini! “”. ↩︎
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Lc, 4, 32: “Rimanevano colpiti dal suo insegnamento, perché parlava con autorità”. Cfr. anche Mc, 1, 27: “Tutti furono presi da timore, tanto che si chiedevano a vicenda: ”Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono! “”. ↩︎
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Gv, 14, 6: “Gli disse Gesù: ”Io sono la via, la verità e la vita“”. ↩︎
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Mentre la somma di tanti punti di vista parziali può dare un punto di vista più completo e più perfetto di ognuno dei punto di vista che concorrono a formarlo. Ancora una volta: parziale e imperfetto non equivalgono a incerto. ↩︎
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Nel senso che potrei avere a che fare con degli altri eccellenti, e in sé “luminosissimi”, ma se il mio “cuore” è mal disposto non ne ricavo alcun frutto. Così ad esempio è accaduto con le autorità religiose ebraiche contemporanee a Gesù, che hanno dimostrato una assoluta refrattarietà a lasciarsi metter in discussione da quell’Uomo. ↩︎
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Cfr. il Salmo 141: “MI percuota il giusto e il fedele mi rimproveri, ma l’olio dell’empio non profumi il mio capo: è meglio che mi percuota e rimproveri su un particolare, chi mi dà il tutto, cioè la certezza della vita eterna, piuttosto che profumi il mio capo con accondiscendente adulazione, chi poi può solo dirmi ”siamo trascinati nell’eterno gorgo del nulla". ↩︎
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Ich und Du, tr. it. Paoline, Alba 1993, Il principio dialogico e altri saggi (IUD), p. 67. ↩︎
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Idem., p. 60. ↩︎
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A meno che, ovviamente, il giudizio sia ingeneroso, o espresso con rancore o ironia distruttiva, o sia comunicato a degli interlocutori che lo potrebbero utilizzare maliziosamente. ↩︎
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Il rispetto, o addirittura la venerazione, che merita un tu, non esclude che di un tu io possieda qualcosa. Una pretesa del genere sarebbe un eccesso di raffinatezza spiritualistica, che finirebbe poi con l’essere controproducente. ↩︎
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Il concetto di verità di sé può apparire come spurio a chi proviene dalla tradizione tomistica. Vorremmo perciò, a quanto abbiamo appena detto sugli equivoci da evitare nell’intendere tale espressione, aggiungere en passant l’osservazione che essa in realtà non è del tutto estranea al pensiero di S. Tommaso, che ad esempio nel De Veritate scrive che il “verum” può anche essere detto (sia pure in quarto luogo): “de homine, qui est electivus orationum suarum, verarum vel falsarum, vel qui facit aestimationem de se vel de aliis veram vel falsam per ea quae dicit vel facit” (q. 1, a. 3). Un uomo è vero o falso allorché a) si rapporta a Dio (alla verità sintetica totale) in modo vero o falso (“electivus orationum suarum, verarum vel falsarum”: può parlare e pregare bene oppure male, può rivolgersi agli altri e al Suo Creatore e Signore in modo adeguato, oppure malizioso), b) si rapporta alla essenza propria e altrui (facendo una “aestimationem de se vel de aliis”) in modo vero o falso, e ciò non solo per quello che pensa, ma anche per quello che dice, e anche per quello che fa (“per ea quae dicit vel facit”): per cui l’integralità del soggetto esprime la verità (o la non verità) di sé. Anche per l’Aquinate dunque un soggetto umano può essere detto vero o falso, dove è da rimarcare che non tali termini non sono una approssimativa traduzione di “buono o cattivo”, ma implicano un riferimento alla conoscenza. ↩︎
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Un cavallo non può non comportarsi secondo la propria natura di cavallo, un abete secondo la propria natura di abete: né gli animali, né le piante, né le realtà inorganiche infatti sono dotate di libero arbitrio. ↩︎
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La teologia cristiana pone l’origine di questo dissesto in un disastro, collocato alle origini della storia umana, ossia il peccato originale. ↩︎
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Ammoniscono i Padri del Deserto che una amicizia tra due esseri umani che abbia una causa puramente naturale, si trasforma col tempo in feroce inimicizia. ↩︎
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Cfr. Martin Buber: “l’uomo diventa io a contatto con il tu”, IUD, p. 79. Ma, come abbiamo già notato, è anzitutto un dato fenomenologico che non ogni tu può aiutare: non ogni rapporto ci restituisce a noi stessi e ci fa crescere. Atteniamoci per il momento ad una descrizione del fenomeno: non si tratta di dare dei giudizi di valore su persone. E nemmeno si tratta di dividere gli esseri umani in categorie definitivamente cristallizzate: chiunque può acquisire o perdere la capacità di essere di richiamo alla verità, essendo vero lui stesso. E il fatto di essere vero è inevitabilmente legato alla libertà: la verità di me esiste, e precede la scelta, ma alla libertà è demandato il compito di attuarla, e la libertà è per essenza passibile di cambiamento. Può ad esempio scegliere a un certo punto diversamente da come aveva scelto per anni, e fino a un minuto prima. ↩︎
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Cantico spirituale, strofa 32 e 33 (cfr. Opere complete, Roma 1975, p. 502). Come saprà il lettore che abbia una certa familiarità col dottore carmelitano (o con testo biblico) il mistico di Fontiveros si ispira al Cantico dei Cantici: anche la Sulamita vi riconosce di essere “bruna” (1, 5). Ma nel Cantico veterotestamentario non viene posta alcuna relazione tra lo sguardo dello Sposo e la trasformazione della sposa. ↩︎
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Come esprime mirabilmente il quadro di Rembrandt, Il figliol prodigo. Si veda anche l’insegnamento di Giovanni Paolo II nella Dives in misericordia, circa il rapporto del padre verso il figliol prodigo ↩︎
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Perché questo accada peraltro occorrono tanto la libertà del soggetto umanamente più autentico, quello diciamo così guardante, quanto quella del soggetto guardato, affinché questi riconosca nello sguardo dell’altro, superando l’orgogliosa pretesa di autosufficienza, una capacità di cogliere la verità di sé meglio di quanto lui stesso possa fare, e perciò accetti tale nuovo punto di vista su sé stesso, e in base a ciò cambi, con la sua autocoscienza, la sua stessa realtà (nel suo risvolto di comportamento consapevole e volontario). ↩︎
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Dunque solo in una reciprocità di automanifestazione i soggetti umani possono conoscere (di una conoscenza non astratta) il loro più profondo io, il centro che abita la profondità più intima della propria essenza. E nessuno può non desiderare tale conoscenza della verità di sé. Anche se è possibile soffocare e distorcere tale desiderio, così da essere, occasionalmente o programmaticamente, falsi. ↩︎