Carmelo Vigna: il desiderio come orizzonte trascendentale

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Carmelo Vigna sottolinea il carattere enigmatico e paradossale del desiderio. Ma il paradosso ulteriore consiste nel mostrare che il desiderio è anche perfettamente razionale sul piano metafisico. L’antropologia non è sufficiente per comprendere l’intima natura del desiderio, che si rivela un movimento di intersezione tra finito e infinito, un orizzonte trascendentale. Non c’è nulla che non possa essere oggetto di desiderio, avverte Vigna, neppure la morte. Il desiderio si distingue dall’amore, perché implica sempre l’assenza del desiderato, e dalla volontà, perché si può desiderare qualcosa senza volerlo.1 Se guardiamo l’oggetto del desiderio, dobbiamo riconoscere che di volta in volta desideriamo qualcosa di utile o con-veniente con il desiderio o con il soggetto come essere desiderante.2 Spesso però commettiamo l’errore di considerare convenienti cose che in realtà non lo sono. Ad esempio si può assumere cibo con effetti positivi o negativi a seconda delle circostanze, condizioni e modalità di assunzione. Il problema non è nella cosa desiderata, ma nel desiderio stesso. Ci sono quindi desideri ordinati e disordinati. La questione decisiva è la meta del desiderio, la sua direzione. Il desiderio è difficile da decifrare anche perché volerlo decifrare significa esercitare il desiderio, che dunque ci sta sempre alle spalle. Si deve partire da questa evidenza: il desiderio è costitutivo e originario di ogni esistenza umana: «Una coscienza umana è essenzialmente desiderio, già solo per il fatto che vive come coscienza».3

Vi sono filosofi che hanno negato il desiderio come semplice costruzione illusoria o come errore dell’immaginazione: «sono tutti i filosofi che rifiutano la realtà del finito, ossia tutti i filosofi che sostengono la pura idealità del finito, come Hegel o Spinoza; e sono anche tutti i filosofi che rifiutano la realtà (trascendente) dell’infinito, ossia tutti i filosofi che sostengono la pura idealità dell’infinito, come Nietzsche o Marx».4 A questo punto però siamo rimandati all’ontologia. Infatti, si comprende il desiderio solo se si pone la realtà sia del finito che dell’infinito: «Desiderio, infatti, può darsi se la coscienza umana è il luogo simbolico in cui si ha a che fare con il finito delle cose, ma si ha pure notizia dell’esserci di un infinito».5 Se non avessimo qualche nozione dell’infinito e l’infinito non fosse reale, il finito non sarebbe appreso come tale. Vigna lamenta che quasi tutto il pensiero moderno abbia considerato il desiderio unicamente come una pulsione, come vis a tergo, come movimento determinato da una causa efficiente, ma non come movimento determinato da una causa finale. Infatti, senza un oggetto del desiderio il desiderio non si capisce. Ricapitolando, si dirà con Vigna che il desiderio è una struttura permanente della soggettività e che la relazione tra desiderio e oggetto desiderato è necessaria, vale a dire è una struttura teleologica. Se la relazione tra desiderio e oggetto desiderato è necessaria, quella tra il desiderio e questo o quell’oggetto particolare non lo è affatto. La relazione tra desiderio e cosa desiderata è dunque una relazione trascendentale. La trascendentalità della relazione desiderante è «la continua e illimitata sporgenza del desiderio umano su ciò che volta a volta l’esperienza storica gli offre».6 Vigna definisce razionale il desiderio trascendentale, dal momento che, desiderando ogni cosa e tutte le cose, il desiderio è un centro di unità dell’intera esperienza dell’uomo.

Il desiderio è dunque sempre desiderio di altro, è sempre inappagato, tranne quando termina nel tutto, giacché il tutto non lascia nulla fuori di sé. Ma questa verità del desiderio è misteriosa e sfuggente, perché anche quando ci capita, eccezionalmente, di sentirci così appagati da non desiderare altro, di sentirci felici, in realtà siamo già rosi dalla paura di perdere la felicità. L’oggetto del desiderio può avere una natura anche molto diversa. Se ad esempio desidero bere acqua, questa mi appaga se la incorporo. Il consumo condanna il desiderio alla ripetizione. Ma il desiderio cerca qualcosa che non lo neghi come desiderio; il desiderio sa che non può essere appagato da qualcosa di determinato, cerca un oggetto che sia in qualche modo una Totalità o un Intero. Insieme cerca però anche un oggetto che sia altro da sé e simile a sé. L’oggetto che soddisfa queste condizioni è l’essere umano che sempre abbiamo dinanzi. Richiamandosi a Lévinas e Sartre, Vigna ricorda che l’epicentro dell’apparire dell’altro uomo è il volto e più propriamente il suo sguardo, mentre la forma di comunicazione più articolata è il suo linguaggio (Apel, Habermas). Nonostante l’altro sia infinito solo in un certo senso, perché può ammalarsi e morire ed è sempre, in fondo, uno dei tanti altri, l’altro è pur sempre termine del mio desiderio, in quanto è una soggettività altra. L’altro si lascia includere nel mio orizzonte, si offre come soggettività solo se mi lascia essere a sua volta, cioè mi riconosce come altro. «Ma riconoscermi, da parte dell’altro, come una soggettività, significa riconoscermi come qualcosa di inoggettivabile, di non manipolabile; significa, da parte dell’altro, rinunciare in qualche modo a trattarmi come una delle cose del proprio mondo».7 Il bisogno dell’altro è il bisogno di riconoscimento della propria signoria, perché solo l’altro può darmi tale riconoscimento. L’altro però potrebbe non riconoscermi e atteggiarsi nei miei confronti in modo manipolatorio: «Può trattarmi non come persona, ma come una cosa qualsiasi: mi scambia con altri, mi usa fin quando gli fa comodo; in una parola, mi asservisce ai suoi disegni, come e quanto ogni altra parte del suo mondo».8

L’ambiguità non è solo quella dell’altro, ma anche la mia, infatti anch’io posso prendere l’altro in ostaggio, una volta che egli si offra di riconoscermi e si atteggi nei miei confronti come capace di riconoscere la mia signoria. La tentazione di usare la disponibilità dell’altro al riconoscimento approfittandone per ridurlo a schiavo, cosa o strumento della mia affermazione è ciò che impedisce lo stesso riconoscimento, poiché non posso pretendere che l’altro sia una cosa manipolabile e al tempo stesso una soggettività indipendente capace di riconoscermi come persona. Perciò se, in vista del riconoscimento o allo scopo di assicurarlo stabilmente, si riduce l’altro alla condizione di schiavo impotente, si commette l’ingenuità di togliere la condizione stessa del riconoscimento, che può essere effettuato solo da una persona, da una soggettività inoggettivabile. La contraddizione di un riconoscimento che pretende di fare a meno della sua condizione necessaria rappresenta una conferma della natura del desiderio, che è desiderio di un altro come soggetto in cui riposare come nel proprio fondamento.9 Ora, poiché la soggettività altra soddisfa solo parzialmente il desiderio e lo mantiene nell’incertezza e nell’ambiguità, il desiderio prosegue la sua ricerca di un Altro che finalmente possa rassicurarlo e appagarlo in modo sicuro e definitivo. La persona umana, in quanto soggettività altra, è solo formalmente infinita, dato che possiede un corpo finito. In quanto orizzonte trascendentale, infinito, il desiderio non può accontentarsi di un oggetto finito, ma ha bisogno dell’Assoluto. Questo Assoluto (Dio stesso) deve esistere necessariamente perché il desiderio umano è intrinsecamente e necessariamente desiderio di assoluto, mentre se l’assoluto non esistesse il desiderio non avrebbe senso alcuno. Ma di Dio non sappiamo se non ciò che egli non è; di qui lo sforzo che ogni teologia deve fare per dirne qualcosa (attraverso l’analogia o la ragione dialettica o l’intuizione o le ragioni del cuore). «Si sa solo che in Dio certamente deve essere contenuta almeno la capacità di appagare il desiderio, così come si sa che in Dio deve essere contenuta la capacità di essere fondamento dell’esserci del mondo».10 In tal modo non si produce una predicazione positiva riguardo l’essenza di Dio e non si contravviene alla regola della teologia negativa; ci si limita a rilevare ciò che Dio può fare o non fare per noi, e non ciò che Dio è in sé o ciò che realmente fa. L’oggetto di consumo, l’altro come persona umana, l’Altro come Assoluto e come Dio: ecco le tre tappe del desiderio che è per essenza desiderio d’assoluto.

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Rispetto al desiderio d’assoluto, qualsiasi essere determinato si dimostra insufficiente. La dimensione dell’assoluto entra nella dimensione empirica solo nella forma negativa dell’intrascendibilità, dell’interalità inoggettivabile. L’inoggettivabilità e intrascendibilità della persona amata si accompagnano al carattere temporale e storico di un’esistenza determinata, sempre esposta allo scacco, sempre sul punto di annullarsi o di perdersi. Nella dimensione empirica l’assoluto appare dunque nella forma dell’inafferrabilità dell’essere che ci sta dinanzi. Il tempo scandisce questo sottrarsi nella forma del dileguarsi. L’assoluto avviene dunque nel tempo, ma nella forma del dileguare e del sottrarsi. E ciò significa che ogni istante del tempo è sacro, che ogni adesso è l’assoluto incarnato, ma solo intra-visto. Il desiderio d’assoluto è quindi in qualche modo desiderio di nulla: non esiste alcun oggetto empirico, compresi gli esseri umani, che il desiderio possa eleggere come adeguato e perfettamente conveniente. L’analisi di Vigna sembra implicare l’assoluta indifferenza del desiderio rispetto a qualsiasi oggetto determinato: che sia questo o quello ciò che ottiene, importa poco al desiderio d’assoluto. Nei termini della teoria mimetica, possiamo dire che il desiderio è originariamente fluttuante rispetto a qualsiasi oggetto, è sempre in attesa di qualcuno che gli indichi che cosa deve desiderare, che gli dica che cosa ha un valore sufficiente perché valga lo sforzo di impadronirsene. Il desiderio non esercita alcuna iniziativa propria nei confronti di un oggetto particolare. Essendo desiderio d’assoluto, non c’è nulla, nella sfera mondana, che possa destare il suo interesse per le proprietà che possiede.

Il desiderio però può essere fallace. Spesso il desiderio, che si nutre di ciò che gli con-viene, si appaga non di ciò che è bene, ma di ciò che appare bene e non lo è. Il desiderio sbaglia o fallisce per l’ambiguità del rapporto con la soggettività altra. Vigna approfondisce l’origine del desiderio malato, ricordando che la tradizione ebraico-cristiana raccoglie nei dieci comandamenti le possibili malattie del desiderio umano. Secondo Vigna nei due miti di Adamo ed Eva e di Caino e Abele è rappresentata la malattia del desiderio come crollo delle relazioni intersoggettive (rottura della relazione verticale con Dio e orizzontale tra gli uomini e rispetto al mondo ambiente). L’amicizia è il riconoscimento reciproco riuscito, il sospetto decreta il fallimento del riconoscimento reciproco, perché sospettare qualcuno significa rapportarsi a lui come a un nemico potenziale. La malattia che ha travolto le relazioni dei progenitori (Adamo ed Eva, Caino e Abele) è il sospetto, che percepisce nell’alterità dell’altro una minaccia. «Ora, spiega Vigna, questa identificazione è possibile solo se io mi pongo come la totalità del positivo. Solo in tal caso, infatti, ciò che è altro da me è immediatamente da porre come il negativo e dunque come ciò che insidia la mia positività; dunque come qualcosa da togliere. L’annientamento dell’altro come proposito originario è, in altri termini, il controcanto della posizione di me come di colui che è — almeno in intenzione — il padrone dell’intero dell’essere […] il desiderio malato è quello che ha preso a oggetto interale se stesso: si è fatto come “dio”».11 Per porsi in relazione al bene, il soggetto desiderante deve mettersi in rapporto con un (s)oggetto conveniente, ma se pone se stesso come la totalità del bene, evidentemente non può trattare l’altro come polo positivo di cui ha bisogno, ma solo come il non-bene da cui guardarsi e, se possibile, da distruggere. Nel sospetto si instaura un movimento di distruzione del rapporto con l’altro. Abele è prediletto da Dio. La predilezione di Dio esprime la condizione di pienezza della positività. Caino infatti è abbattuto e irritato e invidia il fratello fino al punto di ucciderlo. Qui la responsabilità non è di Caino, ma di Dio, arbitrario e ingiusto: «Come ad Eva e ad Adamo Dio era apparso un “padre padrone”, perché aveva tenuto per sé i frutti dell’albero della conoscenza del bene e del male, così a Caino Dio appare un “padre padrone” (cioè un padre arbitrario), perché preferisce, senza dare motivi, i doni di Abele e respinge quelli di Caino».12 Questa però è solo un’immagine di Dio, perché Dio dopo la colpa ama anche Caino, ama anche Adamo ed Eva e cerca di proteggerli. Il testo biblico suggerisce la differenza tra il modo in cui gli uomini immaginano che Dio sia e la realtà di Dio. Caino e Abele, da soli, non potrebbero entrare in conflitto. Deve intervenire un terzo che decreta la superiorità di uno dei due e ne fa il modello da imitare per l’altro. Chi proteggerà Caino dal rischio di essere ucciso se non lo stesso Dio che lo ha posto in rivalità con Abele? La teoria mimetica rende conto dell’evoluzione pericolosa del desiderio secondo l’altro — il desiderio mimetico — verso l’imitazione reciproca, la rivalità e la violenza estrema.13

La malattia del desiderio, secondo Vigna, è la sua tendenza a instaurare una relazione di dominio, è la sete incondizionata di riconoscimento, la pretesa di ottenerlo a ogni costo dalla soggettività che esso ha di fronte, senza comprendere che l’estorsione del riconoscimento è impossibile perché contraddittoria; quando il soggetto che pretende il riconoscimento si cura solo di ottenerlo a qualsiasi condizione, anche attraverso la coercizione, allora non può che fallire, perché ciò che pretende gli può essere corrisposto solo da una libera soggettività. Il soggetto che, desiderando il riconoscimento, non esita a sottomettere la volontà del soggetto che non intende corrispondere al suo desiderio, alla fine afferra il nulla, perché dimentica che il bisogno di riconoscimento vale per qualsiasi soggettività: «Anche la soggettività che mi offre riconoscimento deve essere a sua volta da me riconosciuta. Il bisogno del riconoscimento è, allora, per ogni soggettività, un lato solo della propria struttura; l’altro lato deve essere l’offerta del riconoscimento. Deve esserlo, perché ogni soggettività possa essere riconosciuta».14 Affinché il bisogno di riconoscimento sia universalmente soddisfatto è necessario l’intreccio di un chiasma in cui ciascuna delle due soggettività tratta l’altra come incondizionata: «Ognuna, infatti, è solo appagata da questo, dall’essere riconosciuta nella propria incondizionatezza trascendentale da parte di una soggettività che, nell’atto del riconoscere, questo compia a sua volta sul fondamento della propria incondizionatezza trascendentale».15 La relazione è dunque circolare, giacché una soggettività trascendentale, per essere tale, deve essere riconosciuta da un’altra soggettività trascendentale la quale potrà esercitare il riconoscimento solo se a sua volta è riconosciuta dalla prima. Il movimento di riconoscimento è simultaneamente di entrambe le soggettività. Ma Vigna va oltre. Affinché le soggettività si riconoscano simultaneamente e incondizionatamente, è necessario che ciascuna di esse sia già riconosciuta di fronte all’altra. La reciprocità del riconoscimento implica dunque una certa asimmetria. Un’analisi approfondita del rapporto di riconoscimento mostra infatti che «la reciprocità simmetrica (quella di coppia o quella amicale) sia, nella sua configurazione storica, impensabile senza la reciprocità asimmetrica (quella genitoriale o di dipendenza), perché si finirebbe, se la si pensasse isolata, col porre delle soggettività che si intrecciano nel riconoscimento simmetrico senza essere ancora delle soggettività».16 Il riconoscimento simmetrico è possibile solo sulla base di quello asimmetrico e questo presuppone un riconoscimento originario da parte di una Soggettività altra rispetto alla soggettività semplicemente umana. Diventa quindi necessario pensare Dio come primo riconoscitore.

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Il riconoscimento reciproco rappresenta la felicità del desiderio. Il rapporto di dominio si delinea per lo più come conseguenza di una richiesta di riconoscimento che non è stata soddisfatta. L’io diventa violento perché non riesce a ottenere quel riconoscimento che è condizione essenziale per essere se stesso.17 La relazione di dominio deriva dal fatto che la soggettività vive la propria intrascendibilità assoluta come assoluto potere trascendente che non si pone in relazione con l’altro, ma che lo produce e lo usa. Una soggettività che ha bisogno di annientare non solo la soggettività dell’altro, ma persino l’alterità dell’altro, non può essere che una soggettività sistematicamente predisposta a relazioni di dominio. Vigna definisce oblativa la relazione che si realizza quando una sola delle due soggettività è disponibile al riconoscimento. Una soggettività ha bisogno di essere riconosciuta e quando la soggettività oblativa sollecita un riconoscimento che non le è accordato, si instaura una situazione in cui una soggettività insiste nel riconoscimento offerto, mentre l’altra insiste nella direzione del dominio. Sembra che la soggettività riconoscente debba rassegnarsi a soccombere, ricevendo strumentalizzazione in cambio del riconoscimento accordato. Ma non è così. «La soggettività violenta, spiega Vigna, non può impadronirsi del riconoscimento, perché esso non è prodotto inevitabilmente dalla paura della morte, e quindi non è effetto necessario della minaccia della soggettività violenta; esso è, piuttosto e in ultima istanza, un effetto della libera decisione della soggettività riconoscente».18 La soggettività violenta anzi intuisce perfettamente che è proprio questo tipo di riconoscimento che le risulta inafferrabile. A sua volta, la soggettività riconoscente non può lasciarsi assorbire dall’oggettivazione dell’altro, «perché l’altro non è il padrone onnipotente dell’esserci dell’alterità (soggettiva)».19 In altre parole, la soggettività riconoscente può sempre far riferimento ad altri. E l’insidia consiste nel fatto che la soggettività oblativa, in seguito al non riconoscimento della soggettività violenta, può a sua volta esigere con violenza il riconoscimento della propria signoria. Ciò accade quando la soggettività riconoscente si rapporta all’altro come se questi fosse l’unico fondamento/compimento della propria soggettività. Ma nessun progetto di potenza e dominio può determinare altro che violenza, altro che mancato riconoscimento. Il desiderio non è appagato né dalla relazione di dominio, né da quella oblativa, nonostante il fatto che la soggettività oblativa tenda verso una parziale e unilaterale realizzazione del fine. Il fine può essere realizzato compiutamente solo nella relazione di riconoscimento, un chiasma che evita l’oggettivazione, una relazione dove «ciascuna delle due coscienze si nutre, così, della trascendentalità, ossia della soggettività trascendentale, dell’altra; ciascuna delle due coscienze si rende nel contempo disponibile perché questo accada».20 La felicità è la condizione in cui il desiderio è appagato senza sacrificio della libertà, in cui l’oggetto che appaga è infinito, perché è una persona, una soggettività trascendentale. Perciò la sua infinità non è da intendersi in senso ontologico. Infatti le relazioni di reciproco riconoscimento sono soggette al tempo e consentono una felicità solo relativa e storicamente situata. La felicità assoluta si può pensare solo se la soggettività trascendentale con cui mi pongo in relazione è un Altro assoluto, è Dio stesso. E allora la condizione ulteriore è la disponibilità, da parte di Dio, a impegnarsi in una relazione di reciproco riconoscimento con un essere umano. Nel vangelo questa disponibilità, conclude Vigna, è data per certa. Gesù testimonia che la volontà di Dio è di porsi in relazione con gli uomini nella figura di colui che serve, «cioè nella figura di colui che per primo offre riconoscimento».21 Gesù rappresenta quindi il compimento nello spazio e nel tempo di questa volontà divina, di questo desiderio di porsi in relazione di riconoscimento con gli uomini.

Il desiderio è appagato solo nel rapporto di riconoscimento reciproco tra esseri umani. Questa è la vera natura del desiderio, rispetto alla quale la relazione di dominio e quella oblativa sono errori e deviazioni in rapporto all’etica normativa della reciprocità del riconoscimento. Nella sua natura essenziale il desiderio è desiderio di totalità, ma, avverte Vigna, gli è fatale l’errore di porsi come la totalità del positivo, relegando l’altro nella negatività. In tal modo il soggetto in cerca di riconoscimento ha già soppresso in partenza la libera soggettività che sola potrebbe riconoscerlo. Dopo aver ridotto l’altro a negatività, il soggetto non può chiedere di essere riconosciuto e distrugge la relazione nel momento in cui ne abusa come di uno strumento per affermare se stesso. Ma togliendo ogni spazio alla soggettività dell’altro, il soggetto che si pone come la totalità del positivo pregiudica il proprio riconoscimento e la realizzazione di sé. Ponendosi come totalità, il soggetto che cerca di compiersi nel riconoscimento da parte di un altro soggetto, tradisce la natura essenziale del proprio desiderio, che aspira a mettersi in rapporto con una totalità. Nessun soggetto può mettersi in rapporto con una totalità se si presenta come la totalità del positivo. Al di fuori del riconoscimento reciproco, in cui due soggettività si riconoscono senza subire alcuna forma unilaterale di strumentalizzazione e oggettivazione, la relazione di dominio e quella oblativa si possono considerare la moneta corrente con cui si ripaga il desiderio. Se il soggetto pretende di essere riconosciuto come totalità, come «dio", toglie in partenza ogni possibilità di realizzare il suo desiderio il quale, essenzialmente, non parte da una totalità, ma tende a una totalità. Esso parte da una totalità solo se un altro lo riconosce come tale. L’accecamento assume spesso la forma di una discussione riguardo la forma del rapporto di dominio, considerato come inevitabile. La conflittualità dei rapporti tra uomo e donna ha fatto perdere di vista il fatto che la vera questione, per un’etica della differenza sessuale, è quella dell’alternativa tra riconoscimento e dominio, non quella di decidere chi, tra maschio e femmina, debba esercitare il ruolo di padrone e chi quello di servo. In questa cattiva infinità del conflitto, obietta Vigna, il rapporto rimane conflittuale, improduttivo e inautentico, finché maschio e femmina non si riconoscano reciprocamente e «realizzino l’unica rivolta giusta, quella di entrambi contro le proprie pulsioni narcisistiche e predatorie».22

4

Si osservi, in accordo con la teoria mimetica, che un altro può valere come totalità quando assume la funzione di modello, così prestigioso da porsi come imitabile e al tempo stesso inimitabile. Secondo l’ipotesi mimetica l’uomo non ha desideri propri; il suo desiderio rimane fluttuante finché non incontra un mediatore, qualcuno che gli insegna che cosa debba desiderare. L’oggetto desiderato ha un significato metafisico, giacché il suo possesso avvicina il discepolo alla condizione del modello (o mediatore) di cui egli imita il desiderio. Ogni desiderio, leggiamo in Mensonge romantique et vérité romanesque,23 è desiderio di essere. Nella mediazione esterna il modello rimane trascendente e quindi non si assiste all’evoluzione conflittuale del rapporto discepolo/modello che invece si verifica nella mediazione interna. La mediazione esterna (René Girard), come la relazione di riconoscimento (Carmelo Vigna), soddisfa l’esigenza del soggetto di porsi in relazione con una soggettività trascendente, con una totalità che tuttavia lo riconosca a sua volta come soggettività trascendente e totalità. Nella mediazione interna, invece, il discepolo diventa modello del modello, mentre il modello diventa discepolo del discepolo: l’imitazione reciproca di modello e discepolo conduce presto all’indifferenziazione mimetica. L’escalation della rivalità mimetica si conclude infine con l’espulsione violenta di uno dei due contendenti. Nel processo di intensificazione della rivalità mimetica la posta in gioco non è più l’oggetto conteso, ma il prestigio che ciascuno dei contendenti esige a spese dell’altro. Il modello rimane insieme imitabile e inimitabile: lo dimostra il paradosso per cui, allo scopo di impadronirsi del prestigio del modello/rivale, ciascuno dei due si sforza di prendere il posto del rivale/modello. Se il modello non fosse inimitabile non ci sarebbe alcun motivo di imitarlo per la sua singolarità; se non fosse imitabile, nessuno lo assumerebbe come modello.24

Il parossismo mimetico della mediazione interna corrisponde al rapporto di dominio della concezione di Vigna. Nella relazione di dominio il desiderio non si compie nel suo telos trascendentale perché il soggetto, ponendosi come totalità, assoggetta l’altro, lo riduce a oggetto, togliendosi però la possibilità di essere riconosciuto da una soggettività trascendentale. Nella relazione mimetica l’assunzione del mediatore come guida fallisce perché il soggetto mira a prendere il posto del modello, giacché esige di valere come modello, ma anche di essere inimitabile e unico. E il soggetto che si pone come unico, che aspira a essere il suo mediatore, a prenderne il posto, ha già rinunciato alla condizione di modello, la sola che giustifichi il processo imitativo di partenza. Perciò sia nella relazione di dominio di Vigna che nella mediazione interna di Girard si assiste alla caduta ontologica di un soggetto che distrugge la condizione necessaria affinché possa essere soddisfatta la sua esigenza di valere come soggettività trascendentale e libera. Infatti il soggetto può valere come soggettività trascendentale solo per un’altra soggettività trascendentale. Sia per Vigna che per Girard la riduzione della soggettività indipendente a oggettività strumentale rappresenta la deviazione e il tradimento della vera natura dei rapporti tra gli esseri umani, la cui soggettività trascende infinitamente qualsiasi oggetto.25 Tolta la soggettività trascendentale, è tolta anche la possibilità sia dell’imitazione (Girard), sia del riconoscimento (Vigna). L’imitazione è infatti una specie di riconoscimento dell’altro come modello indipendente e irriducibile a oggetto: posso diventare rivale del mediatore del mio desiderio solo se non lo considero più come modello da imitare e quindi da fare esistere come realtà indipendente, ma lo riduco a ostacolo della mia affermazione. Prima di toglierlo di mezzo come ostacolo, l’ho già espulso come modello. Se l’imitazione presuppone il mantenimento del modello imitabile nella sfera dell’autonomia e quindi lo percepisce come indisponibile a qualsiasi forma di oggettivazione, allora sembra improprio definire mimetica la relazione di mediazione interna, giacché in questa sede è distrutta la condizione di modello trascendente, senza la quale l’imitazione si converte presto in espulsione del rivale. Sia la mediazione esterna che la relazione di riconoscimento configurano l’oggetto come del tutto irrilevante nell’appagamento del desiderio, la cui vera natura è metafisica: il soggetto è attratto da un soggetto e solo una soggettività trascendentale può soddisfarlo.


  1. C. Vigna, “Il desiderio e il suo altro”, in AA. VV., L’enigma del desiderio, S. Paolo edizioni, Milano 1999, p. 49. ↩︎

  2. C. Vigna, “Etica del desiderio umano”, in C. Vigna (a cura di), Introduzione all’etica, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 122. ↩︎

  3. Cit., C. Vigna, Il desiderio e il suo altro, p. 53. ↩︎

  4. Ivi, pp. 53-54. ↩︎

  5. Ivi, p. 54. ↩︎

  6. Ivi, p. 57. ↩︎

  7. Ivi, p. 65. ↩︎

  8. Ivi, p. 66. ↩︎

  9. Ivi, pp. 67-68. ↩︎

  10. Ivi, p. 72. ↩︎

  11. Ivi, p. 78. ↩︎

  12. Ivi, p. 79. ↩︎

  13. Tutta l’opera di René Girard si fonda sull’antropologia mimetica, da Mensonge romantique et vérité romanesque, Paris 1961 (trad. it., R. Girard, Menzogna romantica e verità romanzesca, a cura di L. Verdi-Vighetti, Bompiani, Milano 1965) a Je vois Satan tomber comme l’éclair, Paris 1999 (trad. it., Vedo Satana cadere come la folgore, a cura di G. Fornari, Adelphi, Milano 2001). A Giuseppe Fornari, principale allievo di Girard, si deve una rielaborazione originale dell’antropologia mimetica come teoria capace di mostrare la verità teologica del vangelo in tutta la sua evidenza (G. Fornari, Fra Dioniso e Cristo. La sapienza sacrificale greca e la civiltà occidentale, prefazione di R. Girard, Pitagora editrice, Bologna 2001). Per una sintesi complessiva del pensiero di Girard: C. Tugnoli, Girard. Dal mito ai vangeli, edizioni Messaggero, Padova 2001. ↩︎

  14. Cit., C. Vigna, Etica del desiderio umano, pp. 141-142. ↩︎

  15. Ivi, p. 142. ↩︎

  16. Ibidem↩︎

  17. Ivi, p. 145. ↩︎

  18. Ivi, p. 148. ↩︎

  19. Ibidem↩︎

  20. Ivi, p. 153. ↩︎

  21. Ivi, p. 154. ↩︎

  22. Cit., C. Vigna, “Intorno all’etica della differenza. Uomo e donna tra conflitto e reciprocità”, in C. Vigna (a cura di), Introduzione all’etica, p. 253. ↩︎

  23. Cfr. nota 13. ↩︎

  24. Cit., C. Tugnoli, Girard. Dal mito ai vangeli, capitoli I-II. ↩︎

  25. C. Tugnoli, “Bioetica della vita e della morte”, in C. Tugnoli (a cura di), La bioetica nella scuola. L’emergenza del dibattito su etica e scienza, FrancoAngeli, Milano 2002, p. 38. ↩︎