Il vortice divino. Il monismo come interdipendenza tra zâhir-bâtin: il punto di vista musulmano e la filosofia mistica di Ibn ´Arabî

Presentazione, di Alberto De Luca

Come i genitori secondo la carne hanno un amore naturale particolare per i loro figli, così anche la mente ha un legame naturale con le proprie parole. E come i genitori che amano con passione innaturale i loro figli, li considerano più capaci e più belli anche se sono ridicoli, così anche alla mente insensata le proprie parole appaiono sagge, anche se sono peggiori delle altre. Non così alla mente saggia: quando le sembrano vere e belle, soprattutto allora non crede al proprio giudizio, ma incarica altri saggi di giudicare pensieri e parole perché non risulti inutile il lavoro (Gal. 2,2), e da questi prenda fiducia.

— San Massimo il Confessore

Questo testo si compone di quattro studi fatti da Andrey Smirnov a distanza di tempo tra loro. Nel corso del nostro scambio epistolare — e di questo vado particolarmente fiero e lo ringrazio per questa possibilità — rinvenni un filo conduttore tra questi suoi contributi, cui Smirnov diede subito il suo nome, che è appunto il titolo di questo stesso testo: il monismo come interdipendenza tra zâhir-bâtin ovvero il punto di vista musulmano e la filosofia mistica di Ibn ´Arabî.

La metodologia seguita dall’Autore è improntata ad una rigorosa comparazione oggettiva, che non è però fine a se stessa. Lo scopo esiste ed è ben chiaro. L’interpretazione della Realtà che Ibn ´Arabî fornisce, è estremamente importante; tanto rilevante che essa potrebbe essere «applicata» anche in contesti non musulmani. Del resto, questa «inter-disciplinarietà» del pensiero di Ibn ´Arabî è già stata evidenziata dal precedente lavoro di Smirnov (La Filosofia mistica e la ricerca della Verità, Simmetria, 2005). Se questo libro, però, manifestava convergenze e similitudini metodologiche tra mondo musulmano e cristiano, il presente testo accantona, invece, il confronto tra queste due grandi tradizioni per concentrarsi nell’esposizione della lettura akbariana della Realtà.

Rimane, pertanto, al lettore quel lavoro comparativo svolto in precedenza da La Filosofia mistica e la ricerca della Verità, un compito certamente arduo ma non impossibile, giacché è convinzione di chi scrive, che la lettura akbariana della Realtà può essere sicuramente trovata all’interno del Cristianesimo, pur se con le inevitabili quanto doverose differenze.

Smirnov è, quindi, riuscito — a mio modesto avviso, egregiamente — ad esaminare a fondo le differenze, ad esempio tra Rûmî ed Ibn ´Arabî, e riuscire alla fine a darne il giusto peso. Nell’esempio ora citato, le differenze sono per lo più metodologiche e semantiche piuttosto che metafisiche. Normalmente, poi, il riconoscimento di una differenza comporta l’erezione di una barriera, uno iato o meglio una discontinuità in forza della quale l’armonia viene minata.

L’atteggiamento dell’Autore è in questo senso paradigmatico: non si accontenta di evidenziare una differenza e non costruisce una barriera. La sua disposizione è, pertanto, talmente rara oggigiorno, che andrebbe maggiormente coltivata. Senza cadere nella retorica, attualmente il pensiero umano si accontenta delle sensazioni e quindi si limita alla constatazione formale della Realtà, che giocoforza gli restituisce la cifra della Sua varietà. Questa cifra, però, non è più leggibile dall’uomo, che ha perso la dimestichezza con quel numero che è l’Unità. Il risultato è, pertanto, la differenziazione e basta, quasi che il nostro cuore fosse solo diastole e non anche sistole.

Certamente, però, la differenza semantica può essere anche indice di un’assoluta divergenza, ma è compito di un attento studioso quello di indagare il senso ultimo delle parole degli autori che egli esamina.

Leggendo questo libro, si vedrà come un’intera scuola, quella akbariana, ed un intero «movimento» — mi si passi il termine certamente non confacente —, quello del sufismo, siano accomunati dalla conoscenza amorosa — cognitio experimentalis — come categoria, dall’intuizione come metodo, dalla libertà come criterio, dal simbolo come strumento e dall’intenzionalità come realtà.

Caratteristiche queste ampiamente rintracciabili anche all’interno del Cristianesimo, certamente con le debite differenze.

L’Autore si muove sicuro all’interno della filosofia mistica — già affrontata e definita in A. Smirnov, La Filosofia Mistica e la ricerca della Verità, Simmetria, Roma, 2005 — in cui è impossibile e, direi, proibito separare l’epistemologia dall’ontologia pena l’irrilevanza sul reale.

Questo permette anche di ricordare che la parola è primordiale, come ebbe a sostenere Bhartrhari, e che certamente solo un mistico può comprendere un altro mistico, ma forse un terzo mistico intenderebbe in modo diverso la medesima cosa. Non è pertanto possibile eliminare l’interpretazione e questo lo si vuole ribadire.

Questo studio, però, si inserisce in una ratio di più ampio respiro, tanto da poter dire che finis studii non est finis quaerendi. Da quando, infatti, Smirnov è stato tradotto in italiano — Sufismo e confraternite nell’islam contemporaneo. Il difficile equilibrio tra mistica e politica a cura di Marietta Stepanyants per la Fondazione Giovanni Agnelli — egli ha sempre, secondo chi scrive, evidenziato un carattere precipuo dell’insegnamento di Ibn ´Arabî che può essere chiosato da un pezzo della presente traduzione:

Ibn ´Arabî infatti porta a compimento il suo ragionamento presentandone l’inevitabile e logica conclusione, dicendo che quelli che stanno cercando di aiutare le persone ad abbandonare le fedi ‘erronee’, stanno in realtà impedendo a quelle persone di adorare Dio e quindi stanno agendo contro la Sua volontà.

Per poter capire questa conclusione, anche e forse soprattutto per lo scrivente, è necessario non solo considerare l’intervento di Smirnov a Torino che è stato citato più sopra, ma anche lo studio fatto sulla Hayra Sufî e l’Arte islamica. La contemplazione della decorazione attraverso i Fusûs al-Hikam.

Il «monismo etico» di Ibn ´Arabî discende dalla sua teoria epistemologica, la «perplessità», che è diretta conseguenza della wahdat al wujûd — unicità dell’esistenza. L’applicazione fenomenologia, se così si può dire, della «perplessità» conduce infine alla «tolleranza» religiosa.

Si tratta ora di vedere se quanto sopra riportato possa essere o meno una forzatura. Per farlo, si esaminerà succintamente il concetto di «perplessità» e di «tolleranza» in Ibn ´Arabî.

È bene ricordare sin d’ora che la perplessità non ha una connotazione negativa per lo Šaykh al-Akbar, tutt’altro, essa deriva dallo smarrirsi nell’Oceano divino. Esso è uno smarrirsi consapevole, uno stato cognitivo caratterizzato dall’abbandono della funzione logica attraverso il raggiungimento logico di un impasse logica (la ripetizione del termine «logica» è qui voluto).

Definisci l’universo (kawn) come meglio credi. Se vuoi di’ che è la Creazione (khalq); se preferisci, di’ che è la Verità (al-haqq); oppure, di’ che è la Verità-Creazione (al-haqq-al-khalq), se così desideri; ovvero, di’ che non è né la Verità da alcun punto di vista né la Creazione da alcun punto di vista; o meglio ancora, parla dello smarrirsi (hayra) in esso, poiché ciò che ti sforzi di comprendere è diventato chiaro (bânat al-matâlib) definendone i gradi (marâtib).1

Queste parole di Ibn ´Arabî forniscono al lettore la portata delle sue affermazioni e danno il senso di questa impasse logica: la nostra certezza epistemologica, che è anche chiarezza di visione, riposa nel nostro smarrimento di fronte all’Onnipotenza divina, innanzi all’armonia del Bello e richiama subito alla mente la docta ignorantia.

La Realtà è quindi costituita da ciò che vediamo — che logicamente elaboriamo per poi riconoscere — e da ciò che non vediamo, proprio come nel caso del ricamo, il filo colorato scompare sotto la trama per poi riemergere e delineare i contorni dell’ordito. Il fenomenico e l’essenziale non trovano qui posto: quanto non vediamo — interiore, al-batin — e quanto vediamo — esteriore, al-zahir — stanno sullo stesso piano e si presuppongono vicendevolmente.

Anche questo nostro discutere, però, per il fatto stesso di discuterne, ha richiesto il logico sezionamento della «cosa» in discussione. Questo significa che la «cosa», l’Onnipotenza divina o anche l’armonia del Bello non sono costituite dall’esteriore e dall’interiore in sé, quanto invece dalla loro relazione di reciproca traducibilità. È una conversione epistemologica cui corrispondono determinate realtà ontologiche; lo stesso Ibn ´Arabî conferma questa asserzione, parlando della perplessità nei Fusûs e dicendo che è data dalla moltiplicazione dell’Uno in vari aspetti (wujûh) e correlazioni (nisab),2 per cui essa non è solo perplessità nella conoscenza dell’Uno, ma anche perplessità nell’essere Uno.

Nell’impossibilità di stabilire una precedenza cronologica tra esteriore ed interiore — perché come si è visto rappresentano la traduzione l’uno dell’altro — la logica dell’essere umano collassa strutturalmente e gli permette quindi di transitare tra l’esteriore e l’interiore dell’Ordine universale e di collocare ogni essere in questo movimento di transizione.

Giunti a questo punto, pare di essere all’interno di un mulinello d’acqua che ci impedisce di sostare in un punto definito3 e quindi siamo portati in maniera aporistica ad affermare che il mondo è in Dio e Dio è nel mondo. Separare quest’ultima affermazione in due parti disunite, pregiudicherebbe un’autentica conoscenza della Realtà.

Riconosciuto nella perplessità, come brevemente esposta, l’unico atteggiamento di fronte a Dio e alla Sua Onnipotenza, è giunto il momento di considerare la «tolleranza», che appare come frutto di questo possibilismo che non è mai relativismo.

La precisione porta a puntualizzare che giammai Ibn ´Arabî usò il termine «tolleranza», che in arabo verrebbe reso con samâha, a parte in qualche rara occasione. La sua riflessione però sulle altre religioni difficilmente può essere chiamata diversamente che tolleranza. Infatti, se il mondo è in Dio e Dio è nel mondo, come prima affermato, allora l’«alterità» — elemento contraddistinguente il mondo — viene superata in quella stessa relazione, dato che non vi «alterità» in Dio. Ecco la «tolleranza».

Se ciascuna cosa nel mondo è una teofania divina — Dio è nel mondo — non v’è alcuna credenza in Dio — diversa quindi anche da quella cristiana o musulmana — che non sia vera. L’errore in cui si può incappare, è misconoscere il carattere autentico di ogni credenza e rivendicare il possesso della verità solo per se stessi.

Si è tentati, dunque, di sostenere che una credenza è tanto più vera quanto meno afferma di possedere la verità.

In questo senso si ravvede l’irrilevanza delle differenze riscontrabili fra le varie interpretazioni della Verità e la non-esistenza di un interpretazione superiore alle altre, che assicuri un accesso privilegiato all’esperienza del Divino.

Quanto affermato è certamente pericoloso — perché problematico — e problematico — perché pericoloso —, ecco il perché della successiva domanda aperta: a quale livello di esperienza religiosa noi possiamo affermare, ammesso che abbia un valore intrinseco di correttezza, quanto sostenuto nell’ultimo capoverso?

E ancora, nel contesto attuale — soprattutto occidentale — dove Dio ritorna di moda solo nei momenti difficili come salvagente e l’uomo comune non sa in realtà di cosa stia parlando, limitandosi a cercare genericamente qualcosa che lo salvi, ha senso affermare quanto sopra riportato?

Nel testo tradotto le parole, seguite dalla dicitura ndt tra parentesi, sono gli interventi del traduttore resisi necessari per dare maggiore scorrevolezza al testo in italiano. All’occorrenza sono state inserite anche delle note nel testo per spiegare maggiormente alcuni termini arabi e per segnalare alcune riflessioni sopraggiunte in cursu opera, per le quali si solleva l’autore Andrey Smirnov da qualsiasi errata interpretazione o refuso. Chiedo infine venia ai benevoli lettori per gli errori che siano sfuggiti, mentre ringrazio chi me li segnalerà.

Desidero ringraziare la rivista Dialegesthai, Andrey Smirnov per l’amicizia accordatami, Rinaldo Massi e Giorgio Giurini per i consigli profusi in cursu opera, Padre Georgios Ndagkas e Padre Matteo Cryptoferritis per la vicinanza spirituale, la mia famiglia e mia moglie Isabella che pazientemente mi ha aiutato nella revisione delle bozze.

1. Prefazione

Il tawhîd4 spesso è considerato — e a ragione — il pilastro sul quale si fonda la visione musulmana del mondo. Ibn ´Arabî è una delle figure più notevoli della storia intellettuale e spirituale musulmana.5 Questo è del resto testimoniato dalla ben nota e storicamente documentata controversia che lo coinvolse. Di cosa parla dunque Ibn ´Arabî nei suoi scritti sul tawhîd?

Il più grande Šaykh6 legge la relazione esistente tra Dio ed il mondo come la relazione tra zâhir e bâtin (manifesto-immanifesto).7 Zâhir (esterno, manifesto) e bâtin (interno, immanifesto) sono categorie largamente usate nel pensiero classico musulmano per denotare una coppia di opposti, la quale è caratterizzata da una reciproca necessità. La relazione zâhir-bâtin si presenta dunque come una relazione di opposti che si presuppongono vicendevolmente. Appare evidente, però, che laddove esista un’opposizione, si manifesti anche il bisogno di un principio che la unifichi. Tralasciando tutti gli altri casi possibili, quale è, allora, il principio unificante le relazioni Dio-mondo e zâhir-bâtin?

A questo punto, va ricordata una cosa molto importante: fin tanto che Dio (al-Haqq) ed il mondo (al-Khalq),8 secondo Ibn ´Arabî, «assolvono il ruolo» di opposti nella relazione zâhir-bâtin, nessuno di essi potrà mai essere il principio unificante.

Se le cose, quindi, stanno così, chi sarebbe questo principio allora?

Come Salman H. Bashier ha dimostrato nel suo eccellente libro,9 questa funzione sarebbe assolta da quello che Ibn ´Arabî definisce barzakh («istmo») — ciò che limita l’unità di due opposti ma che, come nel caso di un istmo tra due mari, li unifica in virtù del fatto che non permette loro di confondersi. Questo è precisamente quello che Ibn ´Arabî nel suo Kitâb inshâ’ al-dawâ’ir (il Libro della Costruzione dei Cerchi) definisce «la terza cosa» (al-shay’ al-tith), o, nei Fusûs e nelle Futûhât, «realtà delle realtà» (haqîqat al-haqâ’iq).10 Questo principio unificante è assolutamente semplice e ciò è reso possibile perché la comprensione da parte di Ibn ´Arabî della relazione al-Haqq/al-Khalq al pari di quella zâhir-bâtin, quale risultante nel tawhîd, è impeccabile.

Si deve, tuttavia, notare che il tawhîd in questione nel paragrafo precedente non è il tawhîd Allâh («l’unificazione-di-Dio»), ossia non è il principio del tawhîd come solitamente viene trattato nella dottrina musulmana. Dio è solamente una parte della relazione al-Haqq/al-Khalq, che è per così dire, soltanto una parte della relazione che risulta nel tawhîd. Questo implica che esso non sia sufficiente, affinché l’altro termine — in questo caso la Creazione o il Mondo (al-Khalq) — possa sussistere sempre. Tutto ciò accade perché al-Haqq ed al-Khalq, Dio e la Creazione, sono pensate sempre insieme da parte di Ibn ´Arabî.

Quanto ora esposto da un punto di vista squisitamente logico, è una conseguenza inevitabile della sistemizzazione akbariana delle categorie ontologiche fondamentali; conseguenza che Ibn ´Arabî ricorda al suo lettore, usando le più sorprendenti argomentazioni. Infine, è una conseguenza ampiamente nota ai suoi critici, ma che fu in qualche modo trascurata anche in molti studi moderni dedicati allo stesso Autore. Il «non-essere» proprio di al-Khalq («la Creazione» = il mondo) è necessario alla tesi dell’eternità di al-Haqq («il Vero» = Dio) e questi due non sarebbero stati mai possibili l’uno senza l’altro.

Wahdat al-wujûd («unicità dell’essere»), il nome dato alla dottrina di Ibn ´Arabî ad opera dei suoi prosecutori ma usata anche dai suoi detrattori contro lo stesso Ibn ´Arabî, è un elemento che destabilizza piuttosto il mio pensiero. Il tawhîd akbariano non è il tawhîd dell’essere (wujûd). Esso è piuttosto il tawhîd che risulta dall’interdipendenza zâhir-bâtin tra Dio ed il mondo, o tra le cose corporali (a´yân)11 non-esistenti (ma´dûma) e quelle esistenti (mawjûda) — persino il Sé Divino viene inteso da Ibn ´Arabî quale infinità delle cose non-esistenti (ma´dûma) o fisse (thâbita). Questo è il tawhîd che risulta dalla «terza cosa»: né esistente e nemmeno non-esistente, né temporale e nemmeno eterno.

Negli studi dedicati al sufismo, spesso leggiamo che Dio manifesta Se stesso come mondo divenuto zâhir, oppure che Egli si vela assumendo forme mondane per divenire immanifesto (bâtin). Questo è fondamentalmente corretto; tuttavia, a cosa corrisponderebbe tutto ciò, se questo fosse espresso nella terminologia ontologica di Ibn ´Arabî?

L’interdipendenza zâhir-bâtin di al-Haqq e di al-Khalq, significa che quelle entità, distinte l’una dall’altra ed in questo senso trascendenti, «convertono» l’una nell’altra. In altre parole, essi divengono l’un l’altro. Questo divenire è transizione e non trasmutazione. Sarebbe sbagliato, infatti, considerare questo divenire come una trasformazione di al-Haqq in al-Khalq oppure viceversa. Diversamente, essi sono così distinti l’uno dall’altro da essere sempre due e mai uno;12 tuttavia, il punto centrale rimane il fatto che essi non sono trascendenti l’un l’altro. La relazione tra di loro è dinamica e giammai statica. Le due modalità di transizione da al-Haqq ad al-Khalq hanno luogo in ogni «momento» (zamân, waqt),13 ovvero, ad ogni atomo di tempo: questa dinamica è pertanto il centro dell’Ordine Universale.

Al-Haqq ed al-Khalq sono due e non si confondono, questo è già stato affermato; nondimeno, però, la dinamica della loro reciproca «transizione», o «conversione», è una. Questo «essere-una» è precisamente la cosa che unifica i due. È qualche cosa di distinto dai due unificati, qualcosa che è sita «fuori» di essi. La lettura, che Ibn ´Arabî fornisce del tawhîd, è precisamente questo movimento di transizione dinamica al-Haqq/al-Khalq.

Per riferirsi a questa struttura fondamentale e complessiva dell’Universo, Ibn ´Arabî usa il termine di «Ordine» (al-´amr). L’«Ordine» è costituito da tre entità. Le prime due sono le entità eterne e quelle temporali riferite le une alle altre quali ad esempio zâhir-bâtin, mentre la terza, è l’unità delle precedenti due in quanto tale. In definitiva, la relazione zâhir-bâtin è il tawhîd stesso: l’unità è la possibilità dell’interdipendenza e dell’interrelazione zâhir-bâtin.

Il primo dei quattro articoli inclusi in questo libro esplora questo nucleo di nozioni e la logica della loro correlazione nel pensiero di Ibn ´Arabî, con una speciale attenzione per la concezione akbariana della tolleranza, in quanto una delle conseguenze della relazione logica al-Haqq/al-Khalq. Il secondo ed il terzo articolo affrontano questa logica di opposizione e la sua connessa unificazione in un contesto molto più ampio, allargandola così ad ambiti culturali (dottrinale, poi estetico quindi teoretico) musulmani più generici, piuttosto che specificatamente akbariano o sufico. In questo mondo, intendo dimostrare l’applicabilità universale, all’interno della sfera culturale musulmana, di questo principio di preparazione dell’opposizione e di superamento della stessa addivenendo ad un’unità. In questi due articoli incontriamo il tawhîd-della-fede, sotto forma di unificazione della conoscenza e dell’atto, e quello che forse potrebbe essere chiamato «tawhîd-della-percezione-estetica», in quanto unificazione delle due «stratificazioni» dell’arte del percepire l’oggetto.

Una domanda nasce spontanea, ossia se la visione che Ibn ´Arabî ha della relazione Dio-mondo quale interdipendenza zâhir-bâtin sia comune per l’intero pensiero del sufismo, o se piuttosto la posizione akbariana sia in realtà unica nel suo genere. Uno studio comparato sulla visione di Ibn ´Arabî e di Rûmî in merito ai concetti etici fondamentali serve per chiarire proprio questo problema. Nessun argomento seppe infatti resistere all’influenza esercitatavi dal pensiero di Ibn ´Arabî, tanto che anche autori notevoli quali lo stesso Rûmî aggiunsero sempre la propria impronta alle tracce, però, già lasciate dal primo.

Il mio apprezzamento più sincero va ad Alberto De Luca, i cui generosi sforzi mi rendono nuovamente possibile parlare al lettore italiano nella sua lingua natia, un’opportunità cui tengo molto.

2. Il concetto di «essere» nel sufismo: quanto può essere illimitata la tolleranza universale?14

2.1. Introduzione

Il celebre esponente del sufismo Muhyî ad-Dîn ibn ´Arabî giunse ad esporre una visione della tolleranza religiosa, la cui estrema apertura trova a stento rivali sia nel mondo musulmano quanto in quello occidentale. La sua concezione si fonda su una base ontologica e trova fondamento nella dottrina nota come «unicità dell’essere» (wahdat al-wujûd). In questo saggio si cercherà di dimostrare che una profonda comprensione della logica con cui procede Ibn ´Arabî, sia quando elabora la sua teologia sia quando sviluppa la sua teoria della tolleranza, è importante in ambedue i casi. È questa logica che fornisce la cornice all’interno della quale si sviluppa il pensiero di Ibn ´Arabî, giacché essa determina il significato delle tesi esposte dall’autore e definisce le condizioni necessarie affinché esse siano valide.

Per dimostrare tale assunto si procederà nella seguente maniera: innanzitutto, sarà presentato un profilo del concetto di tolleranza nel pensiero occidentale contemporaneo dal punto di vista della logica, poi verrà analizzata brevemente la connessione di questo concetto con le categorie «altro», «unità» e «molteplicità» ed in special modo si osserverà la relazione esistente fra generale e particolare, soffermandosi sull’importanza dell’aspetto logico di tale relazione al fine di delineare il concetto di tolleranza. In secondo luogo, sarà presentata l’interpretazione degli stessi concetti (sul piano nominale) elaborata da Ibn ´Arabî. Essi sono quindi: «altro» (gayr), «partecipazione» (mušâraka), «somiglianza» (mušâbaha), «uno» (wâhid),15 «singolarità» (ahadiyya),16 «molteplicità» (katra) ed altri ancora. Infine, si tratterà del nesso logico collegante queste nozioni fra di loro nel pensiero di Ibn ´Arabî, per farne una comparazione con l’inquadramento generale da esse offerto al discorso sulla tolleranza nel pensiero occidentale. La base logica comune per tale comparazione sarà fornita dal rapporto di negazione. Il presupposto è che l’«altro» si trovi in un rapporto di negazione con il mio «io», ossia, in altre parole, che i due «altri» stiano in un rapporto di negazione reciproca; conseguentemente, la tolleranza consiste nel superamento di tale negazione. Se gli «altri» sono visti come particolari, allora superare la loro mutua negazione significa raggiungere una sorta di universalità che faccia da ponte al di sopra della reciproca ostilità delle due parti. La tesi qui proposta è che Ibn ´Arabî segua il medesimo schema logico, intendendo però in maniera differente il procedimento di negazione e necessariamente quello di generalizzazione. La specificità della logica seguita da Ibn ´Arabî nel suo ragionamento si riassume nella specificità relativa a tali procedimenti ed è in ciò che consiste l’eccezionalità del suo pensiero.

2.2. Il concetto di tolleranza nel pensiero moderno

Il concetto di tolleranza in Occidente iniziò a formarsi in epoca romana, fu poi sviluppato lungo il corso della storia e tuttora la sua elaborazione è molto lontana dal dirsi conclusa, tanto che sarebbe folle tentare in questa sede di riepilogarne in qualsiasi modo la storia. È più efficace semmai mettere in evidenza alcune nozioni alle quali il concetto di tolleranza è strettamente correlato. Dunque si cercherà di delineare lo schema logico su cui si fonda il concetto di tolleranza, senza pretendere che tale schema sia riprodotto in ogni saggio dedicato al tema della tolleranza, ma nella convinzione che esso sia significativo per comprendere la logica su cui si basano tali saggi, implicitamente o esplicitamente. Come ultima annotazione preliminare, vorrei aggiungere che procedendo in questo modo non intendo aspirare ad alcuna scoperta straordinaria o inaspettata, ma penso piuttosto di riferirmi a nozioni che credo siano comunemente accettate.

L’idea di tolleranza può difficilmente essere compresa senza fare riferimento alla nozione di «altro». I concetti di «altro» e «alterità» sono stati elaborati in numerosi studi negli ultimi decenni, dopo essere divenuti oggetto di speciale attenzione da parte di filosofi ed antropologi. Tuttavia, già da lungo tempo l’«altro» aveva fatto la sua apparizione fra i filosofi, quantomeno fra quelli che erano interessati alla questione della tolleranza. Infatti, fin dal principio la tolleranza fu concepita come uno dei possibili atteggiamenti da assumere verso l’altro. Inizialmente, si trattò di una tolleranza intesa anzitutto come tolleranza religiosa, ma in seguito il concetto divenne più esteso fino ad includere anche gli ambiti non religiosi. Oggi, quando discutiamo di relazioni all’interno della società o fra culture differenti, è difficile evitare il concetto di «tolleranza verso l’altro», che si tratti di altri esseri umani, di altre culture o di altre religioni. Non basta dire, allora, che la nozione di «altro» è indispensabile per comprendere che cosa è la tolleranza; dovremmo piuttosto riconoscere che il concetto di tolleranza risulta inconcepibile senza la nozione di «altro», sicché riflettere sulla tolleranza equivale a riflettere sulla «mia» relazione con l’«altro» (o sulla relazione esistente fra i due «altri»).

Perché l’«altro» è così indispensabile alla riflessione sulla tolleranza? Credo che la risposta risieda nel fatto che l’«altro» si trova in una relazione di negazione con il mio «ego» e che la tolleranza rappresenti un tentativo di ridurre al minimo le disastrose conseguenze di tale negazione. È sufficientemente ovvio, ma contemporaneamente importante, ricordare che la relazione di negazione non può essere completamente superata, vale a dire eliminata (almeno non fino a quando «il lupo dimorerà insieme con l’agnello»).17 La tolleranza non è capace di cancellare la negazione, ma piuttosto di incanalarla in modo che non rappresenti più una minaccia per la sopravvivenza e/o il benessere generale.

Possiamo allora definire la tolleranza come un mezzo che ci consente di attraversare la negazione, di effettuare una transizione dalla negazione, quale modalità di relazione fra due opposti, all’unione, dimensione nella quale la reciproca negazione dei due opposti viene relativizzata. Tale transizione ci apre due prospettive: quella al cui interno i due «altri» mantengono un rapporto di incomparabilità e contrapposizione, e quella in cui i due individui trovano un’unione nonostante la loro contrapposizione e reciproca negazione.

La negazione che contraddistingue il rapporto esistente fra i due opposti, per quanto concerne la sua origine, ha un carattere fondamentalmente duplice. Per un certo verso, i due «altri» arrivano ad una contrapposizione solo se realmente hanno qualcosa in comune; dal punto di vista squisitamente biologico, infatti, due individui appartenenti alla medesima specie dispongono di risorse alimentari comuni e ciò li spinge a porsi in competizione fra loro. Nella società, gli esseri umani devono condividere risorse comuni e, dal momento che sono dotati di capacità differenti, entrano anch’essi in competizione fra loro. All’interno di un gruppo umano, differentemente da quanto avviene nel mondo naturale, questo rapporto di reciproca negazione fra due individui può essere superato attraverso qualche forma di economia e di coesistenza. Simile transizione dall’individuale all’universale esige l’esercizio di qualche forma di tolleranza, finché quest’ultima non riesca a sospingere la reciproca negazione dei due dal centro della loro relazione ai suoi margini, per poi prenderne il posto di comune accordo. Dall’altro verso, i due individui tendono a negarsi reciprocamente anche se non presentano tratti in comune, ma pensano che dovrebbero inevitabilmente averne. È questo il caso specifico del rapporto che si ha con la verità di tipo religioso o scientifico: la verità è presumibilmente una e se i due individui manifestano opinioni differenti, solo una di esse o nessuna delle due può dirsi veritiera, in nessun caso però possono esserlo entrambe. Quindi, le due controparti si negano vicendevolmente in forza del rapporto che esse hanno con la verità e, qualora prendessero la situazione molto seriamente, tale reciproca negazione potrebbe trasformarsi in un confronto drammatico, come è già successo del resto nella storia innumerevoli volte e come tuttora capita. L’unico modo per affrontare una siffatta situazione consiste nel convincere le due controparti del fatto che il loro contrasto non è di così vitale importanza e perciò può essere dirottato verso forme non distruttive, quali ad esempio discussioni pacifiche e così via.18 Questa tranquilla coesistenza di due concezioni della verità fra loro incompatibili sarà sempre basata su qualche forma di accordo comune o di consenso che si sostituisca alla contrapposizione in cui si trovano i due individui, relegandola ai margini della loro relazione. Quest’ultimo passo ci riporta alla prima modalità di superamento del rapporto di negazione in cui si trovano i due «altri».

Riassumendo, possiamo dire che, ridotta al minimo, la struttura logica della tolleranza si configura come una transizione dalla negazione alla neutralizzazione di tale negazione. Tale risultato può essere raggiunto assumendo il particolare nel generale ed arrivando così all’unità della molteplicità (prima causa di negazione). Qualora simile strategia risultasse inapplicabile per ragioni logiche (seconda causa di negazione: posti A e non-A, solo uno dei due è vero, non entrambi), la negazione con il suo carattere distruttivo viene spinta ai margini della relazione, laddove può continuare a sussistere mentre il centro è occupato dal reciproco consenso a coesistere.

Credo che la struttura logica qui descritta molto schematicamente e genericamente sia alla base di molte se non addirittura tutte le teorie moderne relative alla tolleranza in un modo o in un altro. Quando parliamo di multi-culturalismo, è per noi implicito che, al di là di ogni possibile diversità culturale, vi siano alcuni principi comuni sui quali le varie culture devono trovarsi d’accordo finché desiderano continuare a convivere. Tali principi comuni sono prioritari rispetto alle possibili deviazioni consentite dalle diverse culture e possono anche non essere particolarmente numerosi; tuttavia, in caso di conflitto, essi trascendono ogni specificità culturale e, pertanto, non possono ammettere alcuna violazione, altrimenti la tolleranza diverrebbe permissività e ne risulterebbe la dissoluzione della società. Questa tesi piuttosto nota rappresenta solo una delle implicazioni derivanti dalla struttura logica su cui si basa la relazione del singolo con i molti, i quali, assunti in una dimensione più generale, perdono una parte della propria diversità e i tratti specifici ai quali si deve la reciproca negazione. Le teorie moderne, benché lascino molto più spazio alla diversità culturale e alle caratteristiche particolari, facendoci credere che il conflitto per la verità religiosa o scientifica non conduce necessariamente alla soppressione dell’avversario, mantengono tuttavia intatta la struttura logica basata sulla negazione dell’«altro» e sulla sua neutralizzazione attraverso la tolleranza.

2.3. La struttura logica della tolleranza in Ibn ´Arabî

Passiamo ora a considerare la teoria della tolleranza proposta da Ibn ´Arabî. Le citazioni si riferiscono alla sua opera intitolata Fusûsal-Hikam (Castoni della Saggezza), testo relativamente breve che contiene la sinossi delle idee sapienziali del «Sommo Maestro» (Al-Šaykh al-Akbar), di cui saranno riportati i passaggi più significativi, tentando di interpretarli attraverso la struttura logica della tolleranza qui proposta. Dal momento che simile struttura, in base alla descrizione che ne abbiamo dato, risulta estremamente astratta, ci si aspetta che si riveli adeguata alla trattazione di ogni aspetto della tolleranza, a condizione che essa sia considerata fondamentalmente un atteggiamento da assumere nei confronti dell’altro.

Quantunque Ibn ´Arabî non usi il termine «tolleranza» (normalmente tradotto in arabo con samâha) e i vocaboli da esso derivati, eccetto che in rarissime occasioni,19 la sua lunga e dettagliata riflessione sulle altre religioni e sulle altre credenze (compresi i pagani e i non credenti) può difficilmente essere considerata in termini diversi dalla tolleranza. Inoltre, la nozione di «altro» (gayr) svolge un ruolo di prima importanza nella sua trattazione dell’argomento, e i testi citati nelle righe seguenti ce ne offrono ampia testimonianza. Per quanto riguarda la negazione, il suo significato è molto più evidente nella resa del termine arabo gayr, piuttosto che in quello italiano «altro», cosicché in arabo dire che «A è gayr-B» equivale a dire che «A è non-B» oppure che «A è altro da B»: «alterità» (gayriyya) e negazione sono dunque due concetti molti affini (vicini).

Ogni cosa nel mondo rappresenta l’«altro» (gayr) rispetto a qualunque altra cosa ed il mondo intero è dato dalla «moltitudine» (katra) di tali «altri», ognuno dei quali si trova in una relazione di un certo tipo con l’«Uno». L’«alterità», che rappresenta la caratteristica del mondo, viene superata in virtù di quella relazione, dato che non vi è alterità nell’Uno: questa transizione dai molti all’Uno neutralizza la reciproca negazione degli «altri».

Questa brevissima e per forza semplificata, benché non scorretta, esposizione del pensiero di Ibn ´Arabî ci spinge a ritenere che la struttura logica dell’alterità e del suo superamento tramite una sorta di generalizzazione sia fondamentalmente la stessa, che abbiamo precedentemente discusso. Anche spostando la nostra attenzione sul tema più specifico della tolleranza religiosa, tale conclusione sembra trovare conferma. Ibn ´Arabî sostiene che le differenze riscontrabili fra le varie credenze e di fatto anche fra fede e miscredenza, dovrebbero essere messe da parte a vantaggio di una comunione motivata dal fatto che tutti gli esseri umani sono immagine di Dio.20 Tale strategia sembra, dal punto di vista logico, la stessa sopra descritta, consistente nel dichiarare irrilevanti le differenze riscontrabili fra le varie interpretazioni della verità e nel superare il disaccordo attraverso la capacità, comune a tutti gli esseri umani, di impersonare la Divinità.

Nel leggere ora i passaggi del testo di Ibn ´Arabî direttamente collegati al tema qui discusso, terremo presente quanto appena detto, a partire dalla sua ontologia e procedendo in seguito attraverso le sue riflessioni sulla tolleranza religiosa. L’intenzione è quella di saggiare la possibilità di applicare la struttura logica generale della nozione di tolleranza ai fini della comprensione della posizione adottata da Ibn ´Arabî al riguardo. Quanto si è preliminarmente abbozzato circa le sue vedute, pare confermare siffatta applicabilità. È giunto adesso il momento di dare uno sguardo più approfondito ai testi del «Grande Maestro», del quale ci si limiterà a citare solo alcuni passaggi per ragioni di spazio. I brani scelti sono tuttavia quelli che segnano le tappe più rilevanti della riflessione sviluppata da Ibn ´Arabî e sono nello stesso tempo rappresentativi di tutta la sua opera.

Iniziamo con una citazione che ci porterà direttamente al cuore della concezione di Ibn ´Arabî. Nel parlare di come possa essere considerata la relazione esistente fra il mondo e Dio, il «Sommo Šaykh» dice:

definisci l’universo (kawn) come meglio puoi. Se vuoi, dì che è la Creazione (khalq); se preferisci, dì che è la Verità (al-Haqq); oppure, dì che è la Verità-Creazione (al-Haqq al-Khalq), se così desideri; ovvero, dì che non è né la Verità da alcun punto di vista né la Creazione da alcun punto di vista; o meglio, ancora, parla dello smarrirsi (hayra) in esso, poiché ciò che ti sforzi di comprendere è diventato chiaro (bânat al-matâlib) definendone i gradi (marâtib).21

La tesi qui enunciata è ben lungi dal rappresentare un’ammissione di relativismo, di scetticismo o di agnosticismo. Non è certamente casuale che Ibn ´Arabî affermi che «ciò per cui ci sforziamo (matâlib) è diventato chiaro» e questo non lascia spazio ad alcun dubbio o incertezza nella loro comune accezione. Tuttavia, tale chiarezza, che equivale alla certezza dal punto di vista epistemologico, viene equiparata da Ibn ´Arabî allo smarrimento. Per capirne il motivo, abbiamo bisogno di introdurre altri due termini, ossia zâhir e bâtin (esteriore-interiore).

I concetti di zâhir e bâtin non rappresentano in alcun modo un’invenzione di Ibn ´Arabî: essi erano, infatti, già in uso nel linguaggio teoretico della sua cultura musulmana fin dalle più antiche fasi del suo progressivo articolarsi nelle varie branche del sapere, ivi comprese la giurisprudenza (fiqh) e la filosofia. I due termini assunsero quasi la funzione di meta-categorie, utilizzate per organizzare il ragionamento nei più disparati campi del sapere. Nel sufismo, le due categorie zâhir e bâtin trovarono applicazione nel tentativo di esprimere in termini razionali il nesso esistente fra Dio ed il mondo, fra l’Uno e i molti. Si trattò di una novità piuttosto significativa, proposta dai pensatori sufi (fra i cui predecessori si dovrebbe includere l’autore del Kitâb al-fusûs — «il Libro delle gemme» —, attribuito ad al-Fârâbî)22 e naturalmente ripresa, nella sua sostanza, anche da Ibn ´Arabî.

Il rapporto in cui si trovano zâhir (esteriore) e bâtin (interiore) non corrisponde alla relazione esistente tra fenomenico ed essenziale, come potrebbe far pensare la somiglianza di tali parole sul piano nominale. Un simile parallelo, infatti, sarebbe altamente fuorviante, giacché zâhir e bâtin non si trovano subordinati l’uno all’altro in base ad una specie di gerarchia, come fenomeno ed essenza. Piuttosto si può dire che essi siano posti, per così dire, sullo stesso piano e normalmente ci si attende che queste due dimensioni si trovino in una specie di relazione armoniosa fra di esse; ciò significa che lo zâhir deve convertirsi nel bâtin e viceversa. Almeno tre fra gli importanti corollari che ne derivano, devono essere qui enunciati: in primo luogo, ne consegue che, ai fini della comprensione di ciò che la cosa è, il suo bâtin non è più importante del suo zâhir (come ci aspettiamo nel caso dell’essenza della cosa, che è più importante delle sue molteplici manifestazioni fenomeniche). Ciò che conta è la relazione esistente fra zâhir a bâtin: noi comprendiamo ciò che la cosa è, nel momento in cui comprendiamo come il suo zâhir ci conduce al suo bâtin e viceversa. In secondo luogo, il bâtin non è più inalterabile dello zâhir (laddove invece ci aspettiamo che l’essenza persista nonostante gli infiniti mutamenti subiti dalle sue manifestazioni fenomeniche). Dal momento che ognuna delle due dimensioni rappresenta la «traduzione» dell’altra, ogni mutamento a livello di zâhir modifica anche il bâtin e viceversa. In terzo luogo, la cosa persiste fintantoché fra zâhir e bâtin perdura la relazione di «reciproca traducibilità», e non fintantoché il suo bâtin permane immutato (laddove ci aspettiamo, invece, che la cosa non muti, a meno che non muti la sua essenza).

Nello schema logico qui proposto, l’ultimo concetto, ma non meno importante, da prendere in considerazione è quello di «cosa», del quale stiamo trattando i due aspetti corrispondenti a zâhir a bâtin. La «cosa» non è costituita solo da questi due aspetti, ma piuttosto dalla relazione di «reciproca traducibilità» che sussiste fra di essi. In altre parole, la «cosa» consiste nella possibilità che il suo zâhir si traduca nel suo bâtin, ovvero il suo bâtin nel suo zâhir. Naturalmente, questa «conversione» dell’uno nell’altro non rappresenta una specie di operazione alchemica bensì un procedimento epistemologico al quale corrispondono determinate realtà ontologiche.

Ibn ´Arabî applica questo schema generale, per risolvere la seguente questione d’impostazione «filosofica»: come è costituito l’Universo? È composto da unità e molteplicità? Per definire il Tutto Universale, Ibn ´Arabî adopera il termine al-kawn (come nella citazione sopra riportata), oppure, in alternativa, al-amr e aš-ša’n (entrambi questi termini, nel linguaggio comune, sono traducibili con «affare» o «cosa»). L’«esteriore» (zâhir) di questo Tutto corrisponde al mondo, spesso viene definito la «Creazione» (al-khalq), mentre l’«interiore» (al-bâtin) corrisponde a Dio, al quale generalmente ci si riferisce definendolo «la Verità» (al-haqq). La diretta corrispondenza fra zâhir e bâtin, ovvero fra il mondo e Dio, che abbiamo descritto, si suddivide in due livelli: primo, il mondo, in quanto «tutto», corrisponde a Dio; secondo, ogni cosa presente nel mondo corrisponde all’«in-sé-di-Dio».

Quindi, in che cosa consiste la «corrispondenza» che lega zâhir e bâtin e che propongo di chiamare «corrispondenza grazie alla traducibilità»? In senso lato, Ibn ´Arabî la descrive come un’incessante processo dovuto al respiro divino: mentre l’inspirazione «trascina» il mondo all’interno di Dio, l’esplicazione «espelle» il mondo al Suo esterno.23 Questi due momenti, inspirazione ed espirazione, rappresentano uno dei modi attraverso cui è possibile contemplare la traduzione di zâhir in bâtin e viceversa. Tali immagini vengono razionalizzate nella teoria della «nuova creazione» (khalq jadîd), secondo la quale ogni atomo di tempo (zamân fard) è costituito dall’annientamento del mondo in Dio e dalla sua creazione ex novo.24 Mi è quasi impossibile soffermarmi su questa teoria, sebbene sia estremamente interessante, preferisco invece citare un altro brano di Ibn ´Arabî allo scopo di fare più chiarezza intorno alla relazione esistente fra zâhir (il mondo) e bâtin (Dio):

non c’è alcun dubbio sul fatto che l’essere che ha un’origine (muhdat) è stato originato ed ha bisogno di un originatore che gli ha dato origine, perché aveva tale possibilità in se stesso (li-imkâni-hi li-nafsi-hi).25

Qui Ibn ´Arabî impiega il concetto di «possibile» (mumkin), che fu introdotto dalla scuola teologica della mu´tazala26 e sviluppato nell’ontologia di Ibn Sînâ. Con «possibile», generalmente s’intende la cosa per la quale l’esistenza e la non esistenza sono parimenti probabili, e che perciò ha bisogno dell’intervento di un fattore esterno (chiamato murajji’ ovvero «colui che dà preponderanza») affinché la bilancia penda da una parte piuttosto che dall’altra, rendendo quindi la cosa esistente o non-esistente: in tal caso essa diviene o «necessaria-attraverso-l’altro» (wâjjib bi-gayri-hi) o «impossibile-attraverso-l’altro» (mumtani´ bi-gayr-hi). Questa teoria è direttamente collegata alla nostra riflessione sull’altro e sull’alterità. Non è difficile notare che esistenza e non esistenza, da un lato, ed alterità, dall’altro, procedono sempre insieme, sicché la presenza di uno dei termini comporta l’inevitabile presenza anche dell’altro; viceversa, in caso di assenza di ogni alterità, possiamo solo parlare di «possibile-in-quanto-tale» (come fa Ibn ´Arabî nella citazione sopra riportata), ma non di «esistente-attraverso-l’altro» o di «non-esistente-attraverso-l’altro».

Esistono dottrine filosofiche secondo le quali il mondo è costituito da cose esistenti e noi possiamo parlare di alcune cose definendole non-esistenti in un certo senso. Simile divisione dell’universo in due sfere, quella dell’esistenza e quella della non-esistenza, non lascia alcuno spazio per il «possibile-in-quanto-tale». È a proposito dei sostenitori di simili teorie che Ibn ´Arabî dice:

alcuni teorici dalle menti deboli […] sono propensi a negare la possibilità (imkân) e sostengono solo la necessità attraverso il sé ed attraverso l’altro. Quanto a colui che ha afferrato la verità (muhaqqiq), egli afferma la possibilità e ne riconosce il regno della presenza (hadra), afferma anche il possibile (mumkin), sa che cosa è quel possibile e perché è possibile, se quello stesso possibile? (huwa bi-´ayni-hi) è necessario-attraverso-l’altro, e perché l’«altro», attraverso il quale lo statuto di necessità viene acquisito, è definito tale a buon diritto.27

La nozione di «possibile» elaborata da Ibn Sînâ presuppone che si possa parlare del possibile come di una «cosa» o come di un «in-sé», anteriormente alla sua esistenza (o non-esistenza). Questo equivale a dire che la cosa possiede il proprio sé (dât) indipendentemente dalla sua esistenza. È decisivo per la linea di pensiero, che qui sto cercando di ripercorrere, il fatto che tale «sé» si trovi nello stesso tempo all’esterno e all’interno del regno dell’esistenza e della non-esistenza. In altri termini, aggiungere o sottrarre esistenza alla cosa equivale a non modificarla in nulla se non in ciò che concerne l’attributo (îifa) di esistenza.

È per questa ragione che il «possibile» (mumkin) non può essere equiparato né alla «potenza» e nemmeno alla «forma» di Aristotele e neppure all’«idea» di Platone e ciò è ancora più evidente quando parliamo del «possibile» secondo Ibn Sînâ. Tuttavia, la questione diventa in qualche modo meno ovvia, se ci fermiamo a considerare la concezione «filosofica» di Ibn ´Arabî. Soltanto qualcuno dei suoi studiosi si è trattenuto dal definirla neo-platonica (si tratta ormai quasi di un luogo comune) o dall’affermare che, secondo Ibn ´Arabî, Dio contempla in Se Stesso le «idee» di tutto il Sé divino (dât), ma ognuno di essi, sostiene sempre Ibn ´Arabî, coincide esattamente con la cosa esistente che gli corrisponde, tranne che per quanto concerne l’attributo di esistenza — tale affermazione sarebbe stata impossibile nel caso dell’idea e delle sue copie materiali.

Il «regno della presenza» (hadra) dei possibili a cui si riferisce il «Sommo Maestro» nel passaggio più sopra riportato, corrisponde al Sé divino, che, ovviamente, esiste e la cui esistenza è «necessaria-attraverso-il-sé». Ciononostante, i possibili che costituiscono tale Sé divino non esistono ed Ibn ´Arabî si riferisce ad essi definendoli «fissi» (thâbit). Il concetto ontologico di «fissità» (thubût) fu introdotto nel pensiero musulmano all’epoca della mu´tazala e venne interpretato da diversi filosofi sia come distinto da esistenza e non-esistenza, sia come equivalente all’esistenza. Quanto ad Ibn ´Arabî, egli lo tratta come un concetto indipendente (accostandosi pertanto alla prima delle due posizioni), benché in certi passaggi sembri equiparare «fisso» e «non-esistente» (proponendo così una propria interpretazione del «possibile» e della relazione che esso ha con fissità, esistenza e non-esistenza). Ad esempio, egli afferma che «i possibili sono radicati nella non-esistenza»,28 oppure sostiene che «le individualità incarnate (a´yân) che sono caratterizzate dalla non-esistenza risiedono fisse in Lui».29

Qualunque sia l’innovazione introdotta da Ibn ´Arabî nell’interpretazione del possibile in rapporto alla non-esistenza, essa non modifica la natura della relazione che sussiste tra la cosa possibile e la cosa esistente, di cui stiamo trattando. Nell’ultimo passo citato, Ibn ´Arabî parla di a´yân, plurale di ´ayn, che significa «la cosa in quanto tale», in carne ed ossa, e che perciò ho reso nella mia traduzione con «individualità incarnate».30 Le cose possibili che sono «fisse» in Dio e, allo stesso tempo, non-esistenti (giacché non possiedono l’attributo di esistenza, attraverso il quale esse sarebbero diventate «necessarie» ed avrebbero cessato di essere «possibili») sono chiamate da Ibn ´Arabî «individualità incarnate», cose in quanto tali, poiché sono esattamente le cose che «appaiono» nel regno dell’esistenza, nella dimensione spazio-temporale, ovvero in questo mondo. Tale «apparizione» (zuhûr) corrisponde, dal punto di vista ontologico, al processo durante il quale ognuna delle possibili incarnazioni permanenti nel Sé divino acquisisce l’attributo di esistenza e perciò da il suo ingresso nel regno dell’«alterità», dove consegue una rigorosa differenziazione rispetto a tutti gli altri esseri presenti nel mondo.

Riassumendo, possiamo affermare quanto segue: nessuna cosa, quando è un «possibile» privo di esistenza si differenzia da un’altra e nemmeno da Dio stesso (se non per l’attributo di «necessità-di-esistenza-attraverso-Se-stesso», come sottolinea Ibn ´Arabî).31 La stessa cosa risulta invece differenziata rispetto ad ogni altra cosa presente nel mondo e, naturalmente, rispetto a Dio, quando essa giunge a possedere l’attributo di esistenza e ad essere perciò denominata «necessariamente-esistente-attraverso-l’altro». La medesima differenza intercorre naturalmente tra questa cosa e Dio. La relazione esistente tra i due «stati» (hâl) della cosa corrisponde alla relazione che sussiste fra il suo aspetto bâtin ed il suo aspetto zâhir. Da questo punto di vista, diciamo che la transizione tra questi due ultimi si compie con una sottrazione di esistenza, mentre il movimento contrario, da bâtin a zâhir, avviene mediante un’attribuzione di esistenza. I due movimenti di transizione (da zâhir a bâtin e da quest’ultimo al primo) avvengono in ogni atomo di tempo, e così zâhir e bâtin si traducono l’uno nell’altro pur mantenendosi distinti (tamayyuz) l’uno dall’altro.

Coloro «che conoscono la verità», sostiene Ibn ´Arabî, sanno che i possibili stessi sono definiti «necessari-attraverso-l’altro» e sanno perché a tale «altro» venga attribuita la denominazione di «alterità». Se ci chiediamo che cosa si intenda con la parola «altro», credo che sia possibile offrire due risposte, differenti quantunque non in contraddizione fra loro. Da un lato, s’intende il «Necessario-attraverso-Se-stesso», giacché conferisce ad ogni mumkin (possibile) la sua esistenza, trasformandolo in un wâjib (necessario); così, tutte le cose esistenti nel mondo sono tali attraverso il Sé divino. Dall’altro lato, se consideriamo che il mondo in quanto tale non presta alcuna attenzione alla propria relazione con il Sé divino, possiamo dire che l’«altro», mediante il quale la cosa in questione esiste, è qualcos’altro e corrisponde a ciò che nel linguaggio filosofico viene solitamente designato «la causa della cosa» (´illa oppure sabab). Questa seconda risposta è la risposta di coloro che, afferma Ibn ´Arabî, non riescono a vedere la realtà dell’Universo, cioè il suo essere costituito dalla relazione zâhir-bâtin che unisce il Sé divino e il mondo, mentre la prima risposta è quella di coloro che sono in grado di testimoniare la verità.32

Tutto ciò ci introduce ad un altro concetto importante ai fini della nostra discussione sull’alterità e la sua natura. Le idee maturate da Ibn ´Arabî intorno a tale argomento non sono molto comuni, se considerate nel contesto delle principali correnti filosofiche e sapienziali musulmane sia precedenti sia a lui contemporanee. Dal momento però che tali idee sono la diretta conseguenza della relazione zâhir-bâtin esistente fra Dio ed il mondo, di cui abbiamo già parlato, non risulterà troppo difficile afferrarne l’essenza.

La migliore formulazione del concetto di causalità elaborato da Ibn ´Arabî è rappresentata dalla definizione che egli stesso fornisce: «la causa è causata da ciò di cui è causa (al-´illa ma´lûla li-mâ hiya ´illa la-hu)»,33 cioè la causa è l’effetto del suo stesso effetto. Questo sembra un paradosso, di cui Ibn ´Arabî è pienamente consapevole; inoltre, è l’apparente assurdità di questa e di simili conclusioni che conduce allo «smarrimento»34 (hayra) con cui si esprime l’autentica conoscenza circa la realtà dell’universo, come sostiene il Maestro nel primo dei passaggi sopraccitati.35 Ritengo che l’assurdità sia solo apparente, poiché la tesi in questione, manifesta una piena coerenza, se si considera la natura della relazione zâhir-bâtin quale viene concepita da Ibn ´Arabî. La cosa-zâhir non è altro che la cosa-bâtin più l’esistenza, mentre la cosa-bâtin non è altro che la cosa-zâhir meno l’esistenza. La cosa, o, come preferisce dire Ibn ´Arabî, il «sé» (dât), ovvero l’«individualità incarnata» (´ayn), rimane la stessa in entrambi gli aspetti, sia zâhir che bâtin, indipendentemente dall’aggiunta o dalla sottrazione di esistenza. Ciò significa che nessuno dei due aspetti, esteriore o interiore che sia, gode di alcuna priorità sul piano logico, dal momento che rappresentano l’uno la traduzione dell’altro.36 È possibile sceglierne uno a caso, tanto per iniziare, ad esempio l’aspetto bâtin, e decidere di denominarlo «causa», per passare poi a considerare l’aspetto zâhir, che definiremo «effetto». Se arrivati a questo punto ci chiedessimo: «perché la causa ha causato esattamente quest’effetto e non un’altro?», la risposta sarebbe la seguente: «perché l’effetto era questo, e ha fatto sì che la causa lo causasse esattamente così». Con una sorta d’inversione di marcia, ci ritroveremo dunque al punto di partenza, per scoprire che la causa non è altro che un effetto del suo stesso effetto. Questo incessante andirivieni fra zâhir e bâtin è la perfetta esemplificazione della hayra, termine che, oltre che «smarrimento», significa «vortice, mulinello» e quindi rappresenta in modo efficace il costante movimento circolare. Tale movimento vorticoso, che ci impedisce di sostare in un punto definito e che, non appena abbiamo raggiunto un lato, continuamente ci riporta dall’altra parte, ci costringerà ad ammettere, seguendo Ibn ´Arabî, che l’universo è o Dio o la creazione, oppure Dio-la-creazione o ancora né-Dio-né-la-creazione; si potrebbe però anche parlare, come egli afferma in un altro passaggio, di al-amr al-khâliq al-makhlûq wa al-amr al-makhlûq al-khâliq, cioè la «cosa (l’universo) è il-Creatore-il-creato e la cosa (l’universo) è il-creato-il-Creatore», oppure, secondo una diversa traduzione, «l’universo è il Creatore creato e l’universo è la creatura creante».

Riflettendo sulle conseguenze di tale visione, Ibn ´Arabî giunge ad affermare che:

Nulla ritorna dalla Verità ai possibili, ad eccezione di ciò che viene dato da essi stessi secondo i loro stati (ahwâl) . Così, la manifestazione (at-tajallî) differisce a causa delle diversità di stato (hâl),37 e l’effetto (ašar) si imprime sullo schiavo conformemente a ciò che egli è. Tale è la ragione per cui il bene (hayr) non gli viene concesso da nessun altro se non da se stesso; è il contrario del bene non gli viene dato da nessun altro se non da se stesso. Egli benedice il suo sé e lo tormenta; dunque, che biasimi solo il suo animo ed elogi solo se stesso.38

Giunti a questo punto, è difficile che qualcosa risulti più pertinente del trarre alcune conclusioni di carattere etico dalla teoria della causalità qui proposta. Il passaggio in questione riporta alla nostra attenzione ancora una volta il concetto di «altro» e ci ricorda il tema principale della nostra riflessione. Tenendo conto della prospettiva in cui ci troviamo, potremmo riformulare la posizione di Ibn ´Arabî nel modo seguente: il cambiamento che avviene a causa della transizione da bâtin (al-Haqq, il Sé divino) a zâhir (il mondo) consiste nell’apparizione dell’alterità (gayriyya). L’alterità è presente nel mondo perché ogni cosa acquista esistenza e risulta quindi realmente differenziata da tutte le altre cose. Nel movimento a ritroso (da zâhir a bâtin) l’esistenza viene sottratta da tutte le cose: con essa scompare l’alterità, e le cose, pur conservando i propri sé e rimanendo esattamente le medesime, eccetto che per l’attributo di esistenza, non si presentano più come «altre» nella relazione esistente fra loro.

Ibn ´Arabî, quando affronta la questione dell’«eccellenza» (tafâdul) e della «superiorità» (´uluww), evidenzia quest’ultimo punto in modo molto chiaro. Da un lato, egli dice, noi vediamo che le cose esistenti eccellono una sull’altra in virtù dei propri attributi, e così alcune di esse risultano superiori ad altre; dall’altro lato, Ibn ´Arabî sostiene che

ciò che appare nella Creazione ha le stesse capacità (ahliyya) di qualunque altra cosa che la superi. Così, qualunque parte del mondo è il mondo intero (majmû´), vale a dire che esso accetta (qâbil) le realtà delle individualità separate (mutafarriqât) del mondo intero.39

Tale situazione è determinata dal fatto che ogni cosa dimorante nel Sé divino risulta indifferenziata rispetto ad ogni altra cosa e perciò è capace di accettare la sua «realtà» (haqîqa), cioè di diventare ciò che è. Da questo punto di vista non è possibile alcuna predominanza (tafâdul). Allo stesso modo, non vi è altezza relativa o superiorità relativa (´uluww idâfa) nell’Altissimo (al-´Alî), afferma Ibn ´Arabî, quantunque le «individualità incarnate» in stato di fissità (a´yân thâbita) dimorino in Lui;40 nel mondo delle cose esistenti, invece, si dà la superiorità di una cosa sull’altra. Questa superiorità è conseguenza dell’alterità, la quale, secondo Ibn ´Arabî, è a sua volta espressione della gelosia di Dio, poiché Egli:

ostacolò la conoscenza della verità di cui abbiamo parlato, cioè del fatto che Egli è l’incarnazione delle cose,41 e la occultò con la gelosia (gayra), cioè con il «tu» distinto dall’«altro» (gayr).42

In arabo i termini «gelosia» ed «altro» derivano dalla medesima radice (g-y-r) e si scrivono e si pronunciano in modo identico, tranne che per una lettera. Ibn ´Arabî usa giustappunto questo gioco di parole per sostenere l’idea che l’alterità delle cose visibili nel mondo nasconda l’unità del loro dimorare in Dio. Da qui muove lo stesso Autore per proporre una tesi di enorme rilevanza ed interesse: se sei giunto alla piena comprensione di come è costituito l’universo, non vi è cosa o persona che tu possa considerare un avversario al quale contrapporre con forza il tuo agire. Non si tratta di una norma morale; piuttosto, le implicazioni contenute nella concezione di Ibn ´Arabî rappresentano forse la forma più accentuata di ciò che chiamerei «incapacità di ostilità», giacché, secondo il Grande Maestro del sufismo, tu «non sei capace» di guardare il tuo avversario come se fosse qualcosa su cui indirizzare di proposito l’influsso proveniente da parte tua. Questo dipende dal fatto che non può esserci solo la «tua» parte, se comprendi che cosa è l’ordine universale: la «tua» parte non si differenzia dalla «sua» (quella del tuo avversario) fino a che vi è implicato il bâtin delle cose. Ibn ´Arabî sviluppa tali riflessioni parlando dell’«energia» (himma) che il mistico acquisisce attraverso la scoperta, all’interno di se stesso, della verità attinente all’ordine universale: quanto più egli comprende tale ordine, tanto più possiede l’energia che pone il mondo intero a sua «disposizione» (tasarruf) e tanto meno ne fa realmente uso.

Quanto maggiore è la sua conoscenza, tanto minore è la sua capacità di disporne attraverso l’energia. Vi sono due tipi di ragioni che stanno alla base di questo. La prima consiste nella sua autentica comprensione (tahaqquq) della condizione (maqâm) di schiavitù, laddove egli scorge la radice della sua creazione naturale. La seconda consiste nell’unità (ahadiyya) di colui che dispone e di colui che è a sua disposizione: egli non riesce a vedere contro chi potrebbe dirigere la propria energia e ciò lo trattiene dal farlo.43

Le due ragioni sopraccitate tengono conto delle due diverse prospettive, zâhir e bâtin (mondana e divina), relative all’ordine universale. Essere un «vero schiavo», secondo quanto afferma Ibn ´Arabî, significa essere soltanto nel mondo, quindi scoprire in se stessi esclusivamente il lato zâhir e, quindi, essere solo oggetto a disposizione e non soggetto che dispone. Dall’altro lato, se afferriamo il lato bâtin, ci rendiamo conto del fatto che in esso non esiste alcuna alterità e quindi nemmeno alcuna differenziazione, giacché esse sono assorbite in una rigorosa unità (ahadiyya).44

A questo punto (mašhad) egli si accorge del fatto che il suo avversario (munâzi´) non si discostava dalla sua verità (haqîqa), in base alla quale egli si trovava nello stato di fissità della propria incarnazione e nello stato del suo non-essere. Così, nulla era giunto all’esistenza, ad eccezione di ciò che egli manteneva inesistente nella condizione di fissità. Dunque, egli non si discostò dalla propria verità né danneggiò il sentiero. Questa è la ragione per cui il termine «conflitto» (nizâ´) non rappresenta altro che un accidente, sostenuto dal velo che offusca gli occhi della gente.45

C’è ancora un’importante considerazione da farsi, riguardo alla nozione di «altro». L’alterità che differenzia ogni cosa esistente da tutte le altre è, secondo Ibn ´Arabî — che su questo punto si rivela estremamente risoluto — assoluta. Chiamando le cose del mondo «veli» (hijâb) di Dio, Ibn ´Arabî sottolinea che «una di esse non è l’incarnazione dell’altra, perché due cose simili (šabîhân) sono diverse (? ayrân) per colui che sa che esse sono simili».46

Nel parlare della mušâraka («partecipazione», «associazione», «condivisione»), il Maestro conclude che «in realtà non esistono associati (šarîk), poiché ognuno ha la propria parte (hazz) di ciò di cui si disse che essi vi stanno prendendo parte (mušâraka)».47

Si noti quali sono le implicazioni di tale posizione circa il processo di generalizzazione. Le cose del mondo non condividono alcunché, secondo Ibn ´Arabî, ma ciò che non impedisce loro di costituire un’unità perfetta. Tale unità non è data dai tratti comuni che esse possiedono, e per compiere una transizione dallo stato di differenziazione, molteplicità e assoluta alterità in cui si trovano, alla condizione di unità, esse non hanno bisogno di perdere alcuna delle caratteristiche che segnano la loro differenza, ma, al contrario, le conservano tutte quante. Si tratta di un processo di unificazione estremamente sobrio, dal momento che ogni elemento di diversità viene rispettato e nessuno di essi deve essere sacrificato per il fine dell’unità.

A partire dalla base ontologica sopra descritta, Ibn ´Arabî sviluppa il tema della tolleranza religiosa. Sia il legame ontologico con la teorizzazione che egli ne fa, sia il terreno su cui essa si fonda, vengono forniti dalla seguente osservazione del «Grande Maestro»:

niente di ciò che è esistente ed esiste nell’universo è altro (gayr) in rapporto all’identità (huwiyya) della Verità; piuttosto, rappresenta l’incarnazione di tale identità.48

L’alterità, come abbiamo potuto vedere, è presente fra le cose del mondo, dove è assoluta. Per quanto riguarda invece il rapporto esistente fra le cose e Dio, Ibn ´Arabî sostiene che non c’è separazione imputabile all’alterità. La relazione di traducibilità (zâhir-bâtin) — cioè una reciproca e costante transizione dall’uno all’altro — che sussiste fra Dio ed il mondo esclude ogni alterità fra di loro. Nello stesso tempo, essi non sono ovviamente identici bensì distinti (tamayyuz) l’uno dall’altro.

Dal momento che ogni cosa nel mondo rappresenta un’incarnazione dell’identità divina, non vi è nulla che non sia vero e non vi è credenza in Dio che possa essere definita falsa. L’unico modo per cadere in errore consiste nel misconoscere il carattere autentico di ogni credenza religiosa, rivendicando l’esclusivo possesso della verità e negandolo così a tutte le altre religioni. Un’affermazione così radicale è soltanto la logica conseguenza della concezione ontologica di Ibn ´Arabî, il quale non esista a trarre tutte le conclusioni implicite nella sua visione teorica, senza preoccuparsi di quanto insolite esse possano apparire.49

Ecco ad esempio una sua affermazione:

adesso ti è chiaro che l’Altissimo Iddio è presente in ogni direzione (fî´ ayniyyat kull wijha) e che non vi sono nient’altro che credenze (i´tiqâdât).50

Queste due proposizioni devono essere considerate, sul piano logico, come causa ed effetto: poiché Dio è dappertutto, non può esistere «la» credenza, ma solo una pluralità di credenze, nessuna delle quali, in senso stretto, è «migliore» delle altre.51 Non c’è alcun dubbio sul fatto che Ibn ´Arabî fosse un musulmano di tutto rispetto, nient’affatto propenso all’indifferenza religiosa o al riconoscimento dell’«uguaglianza» di tutte le religioni. Egli ritiene, nondimeno, che nessuna delle credenze religiose esistenti, in contraddizione fra loro o almeno incompatibili, sia l’unica vera e che, nello stesso tempo, ognuna sia vera, a condizione che non affermi di possedere la verità assoluta:52

presta attenzione a non legarti ad alcuna credenza definita (’aqd makhsûs ) e a non misconoscere la verità presente in tutte le altre. In tal caso, ti sfuggirà un beneficio copioso (khayr katîr); inoltre, ti sfuggirà la conoscenza dell’ordine (al-amr) universale quale esso è. Coltiva dunque nel tuo animo un interesse primario per le varie fedi, nessuna esclusa, giacché l’Altissimo Iddio è troppo grande per essere compreso da una sola fede e non dalle altre.53

2.4. Prospettive comparativistiche sulla categoria di tolleranza nel pensiero occidentale ed in Ibn ´Arabî

Avevamo avanzato l’ipotesi che la struttura logica generale del concetto di tolleranza, delineata nella prima parte dello studio, ci avrebbe permesso di ricostruire la posizione elaborata da Ibn ´Arabî intorno a tale tema. Nella seconda parte abbiamo esaminato alcuni suoi testi ed esplicitato il filo logico seguito dal «Sommo Maestro», che, secondo lui, giustifica la sua posizione. Credo che l’obiettivo sia stato raggiunto. In forma molto astratta e generalizzata, le idee di Ibn ´Arabî si adattano alla logica della tolleranza quale via per superare la reciproca negazione degli opposti, raggiungendo una qualche sorta di unità e di universalità. Tuttavia, ciò di cui tale schema logico generale non rende conto è l’evidente radicalismo delle teorie di Ibn ´Arabî stesso. Inoltre, tale suo radicalismo sembra contraddire il fondamento stesso della nozione di «tolleranza nell’interesse di qualcosa», dato che l’Autore giustifica la più estrema forma di comportamento attraverso la stessa logica da lui seguita per trovare un fondamento alla diversità delle dottrine religiose.54 Tale radicalismo non è giustificato dalla struttura logica del concetto di tolleranza religiosa. Da dove nasce, dunque?

Esso non appare frutto di una scelta arbitraria da parte di Ibn ´Arabî, quale conseguenza del suo tentativo di comunicare la propria esperienza personale o le proprie impressioni in una forma che risulti intelligibile agli altri. Ciò che a noi appare come il carattere radicale delle conclusioni a cui giunge Ibn ´Arabî, rappresenta in realtà la diretta ed inevitabile conseguenza dell’interpretazione del processo di generalizzazione da lui elaborata, mediante il quale si effettua una transizione dalla molteplicità all’unità superando la reciproca negazione dei numerosi opposti.

Nel pensiero occidentale la tolleranza quale riconoscimento di alterità non è mai stata interpretata in modo assoluto. Dal punto di vista storico, il concetto iniziò a trovare applicazione nell’ambito delle relazioni sociali, poi tale ambito prese ad estendersi gradualmente ed oggi è ancora lontano dall’avere esaurito le proprie possibilità. Dal punto di vista logico, la tolleranza, se diventa assoluta, permettendo deviazioni di ogni sorta, cessa di essere tale e si trasforma in «permissività» ed «indifferenza». Ciò dipende dal fatto che la tolleranza è sempre finalizzata al raggiungimento di qualche scopo, e tale scopo deve corrispondere a qualcosa che sia necessariamente comune a tutti. È questo elemento comune che consente di compiere il processo di generalizzazione, impedendo alla diversità di trasformarsi in contrapposizione distruttiva.

Ibn ´Arabî segue un processo di generalizzazione differente: secondo lui, la reciproca negazione degli opposti viene superata non in virtù dell’esistenza di un elemento comune in essi presente, quasi si trattasse di una proprietà di carattere generale a cui ricorrere per tentare di risolvere le eventuali contraddizioni risultanti dalla negazione l’uno dell’altro: è piuttosto in virtù della «transizione di traduzione» (zâhir-bâtin) che la diversità assoluta, priva di qualsiasi elemento comune, si dimostra possibile senza essere d’ostacolo ad un’armoniosa unificazione, per amore della quale non è quindi necessario sacrificare alcuno degli elementi a cui si devono appunto la diversità e la reciproca negazione.

Le osservazioni precedenti ci suggeriscono la seguente risposta alla domanda che ci eravamo posti, espressa dal titolo del presente studio: la tolleranza religiosa può essere assoluta, cioè illimitata, come dimostra la visione di Ibn ´Arabî, senza ridursi ad indifferenza o permissività. La condizione essenziale perché ciò si verifichi, tuttavia, è costituita dall’adozione di un’interpretazione piuttosto specifica della relazione di negazione e del suo superamento. Questo superamento avviene tramite un processo di generalizzazione tale da produrre un’unificazione perfetta, senza dover sopprimere alcuno dei tratti distintivi ai quali si devono la contrapposizione e la reciproca negazione dei singoli particolari unificati.

È questa la chiave interpretativa dell’ontologia di Ibn ´Arabî, che fa da sfondo alla sua concezione della tolleranza.

3. La diversità culturale come «alterità» logico-significativa: il caso della conoscenza e della fede

Ogni qualvolta ci accingiamo ad iniziare uno studio comparato tra due culture, metodologicamente iniziamo da una delle due per poi passare all’altra. Un’altra cultura esiste sempre, infatti, ogni qualvolta si parli di una delle due. È pertanto a causa dell’alterità che si possono distinguere due culture. Questa alterità è sempre da noi conoscibile e quindi uno studio comparato è, in ultima analisi, uno studio dell’alterità.

In questo breve studio parlerò di un tipo di alterità che definisco logico-significativa. Ambedue, la logica e la semantica, sono riunite in questa definizione concettuale. Vuol dire che quando parliamo di un concetto, ad esempio di «conoscenza» o di «fede», in realtà siamo incapaci di arrivare al suo contenuto senza prendere in considerazione la logica che lo costruisce e che lo lega ad altri concetti; del resto noi non potremmo afferrare la logica del ragionamento che ingloba la «conoscenza» e la «fede» senza capirne la sostanza semantica.

È piuttosto comune parlare di un’alterità semantica, che distingue i phaenomena caratterizzanti i nomi comuni presenti in culture diverse quali ad esempio la «conoscenza» o la «fede». Non è, invece, di dominio comune parlare della logica distinguente due culture in base allo sviluppo del diverso contenuto semantico di tali concetti. Ritengo che in certi casi questo approccio sia, invece, cruciale. Questi sono, per l’appunto, i casi che si presentano, quando le culture sotto esame sono contraddistinte da un’alterità logico-significativa e non solo da quella semantica.

Esemplare è in tal senso il caso della cultura Occidentale e Musulmana. Esaminerò, dunque, come le modalità della «conoscenza» e della «fede» siano riferite l’un l’altra, sperando di chiarire così gli aspetti logici e semantici in quanto tra loro interconnessi. Inutile dire che questo sarà uno schema e nulla di più; intanto, però, dobbiamo cominciare da questo schizzo per svilupparlo più tardi in un ritratto completo.

Mi sia permesso iniziare da una cosa nota ai più. Il pensiero musulmano, contrariamente all’uso invalso in Occidente, non fa distinzioni tra secolare e religioso. Nella cultura classica musulmana non troviamo una legge «canonica» separata da quella «temporale», nessuna poesia «spirituale» distinta da una «profana» e nessuna arte «religiosa» divisa da un’arte «secolare» etc etc.

Questo non vuole, però, dire che la cultura musulmana non abbia tracciato una linea di demarcazione tra quanto appartiene alla sfera religiosa e quanto appartiene alla vita mondana. Al contrario, tale distinzione esiste ed è piuttosto rilevante. Tutto questo viene, infatti, espresso rispettivamente dalle nozioni di dîn (letteralmente, «la religione») e dunyâ letteralmente, «il mondo più prossimo»).55 Tale distinzione presuppone, dunque, la separazione tra le due nozioni sopra riportate ed inoltre — e non è da poco — delinea un’opposizione tra queste.

In questa maniera, ambedue i pensieri Occidentale e Musulmano tendono alla differenza, laddove questa è intesa come un’opposizione tra le due sfere. Quello che mi chiedo, pertanto, è come sia strutturata questa opposizione e su cosa essa si basi. Ed infine, dato che l’opposizione presuppone un concetto unificante, come si realizza, allora, l’unificazione nei due casi, ossia Occidentale e Musulmano?

Questo è l’interrogativo che pongo.

Per quanto riguarda la cultura Occidentale, ebbene qui «fede» e «conoscenza» costituiscono una contraddizione, perché la «fede», dal punto di vista logico, dovrebbe essere intesa e trattata come «non-conoscenza», per esempio come una negazione logica della «conoscenza».

In questo modo, durante il Medio Evo, la filosofia funse da ancella alla teologia con il permesso accordatele da quest’ultima, quindi, di studiare qualunque cosa che, però, non riguardasse la fede. L’Illuminismo invertì, invece, questa subordinarietà, mettendo, difatti, la ragione autonoma in una posizione di superiorità e limitando la fede a quelle aree, dalle quali essa non potesse nuocere al dominio della ragione. Questa logica relativa alla fede ed alla conoscenza è più stabile del contenuto oscillante che informa queste categorie.

Ora, se logicamente parlando la fede è «non-conoscenza», come è possibile allora «conoscere tramite la fede»? O meglio ancora, come può la credenza (che è qualsiasi cosa che sia apparentabile alla fede e che è sottoposta alla categoria della «non-conoscenza») fungere da base per una conoscenza, al pari di ogni costruzione teoretica? Ad essere sinceri, dobbiamo ammettere che queste sono domande che sorgono solo dopo aver sviluppato un nucleo logico-significativo delle due nozioni, «conoscenza» e «non-conoscenza», ed averli quindi riferiti l’uno all’altro come un’opposizione dicotomica. Solo dopo, siamo in grado di scoprire come questo nucleo appaia sorprendente e paradossale, a partire dalla fede e dalla credenza, che sono «non-conoscenza», e che potrebbe essere considerato anche come una conoscenza valida sotto certi punti di vista.

Non importa quanto elaborati siano questi paradossi, essi non minano minimamente la validità dell’assunto iniziale. Caso mai, è questa relazione logico-significativa dalla conoscenza alla non-conoscenza, che costituisce il fondamento di tutte quelle domande, problemi e paradossi; a ben vedere, infatti, questi ultimi cesserebbero semplicemente di essere senza questa relazione.

La medesima cosa accade nel momento in cui concentriamo la nostra attenzione verso il pensiero musulmano. Qui certamente non noteremo nessuna dicotomia tra opposti. Questa particolarità è già stata introdotta da quanto detto in apertura: pur esistendo distinzione ed opposizione tra «religioso» (dîn) e «mondano» (dunyâwî), non riusciamo tuttavia a scorgere alcuna divisione tra sfere, proprio mentre ci aspetteremmo una netta divisione tra parti. Questa è la parte logica delle cose; ma ci ritornerò più tardi.

L’aspetto semantico viene alla luce non appena scopriamo che la cultura musulmana oppone la «conoscenza» (’ilm) non alla «non-conoscenza» bensì all’«azione» (´amal). Di conseguenza, «fede» o «credenza» semplicemente non possono contraddire la conoscenza, siccome non appartengono alla categoria che si oppone alla «conoscenza». Tutto questo ci riporta all’aspetto logico e questo ritorno-alla-logica sposta la nostra attenzione e ci permette di intendere perché e come l’«azione» possa essere un’opposizione logica e consistente alla «conoscenza».

Questo può accadere perché gli opposti qui non sono mutuamente esclusivi. Anzi è vero il contrario: essi abbisognano l’uno dell’altro come reciproca condizione di esistenza. Intendo tutto ciò in modo ontologico e non solo logicamente: affinché possa esistere un opposto, infatti, la sua controparte dovrebbe altrettanto esistere. Questo, però, non è chiaramente il caso delle opposizioni di tipo dicotomico. Inoltre, gli opposti, per così dire, si convertono l’uno nell’altro. Tale conversione (o potremmo dire anche transizione) è la ragione della loro reciproca necessità ontologica.

Quindi, conoscenza ed azione nell’ambito della cultura musulmana sono degli opposti, che significano, secondo le regole logico-significative di questo dominio, che loro si presuppongono l’un l’altro e si convertono l’un l’altro. Adesso, siamo pronti per introdurre un altro concetto, ovvero quello che riunisce insieme questi opposti, unificandoli.

Questa unificazione è prodotta dalla transizione reciproca degli opposti; inoltre, potremmo dire anche che questa unità — frutto del processo di unificazione — è quella transizione. La conoscenza si converte, dunque, in azione (o si potrebbe dire pone in essere l’azione); l’azione è determinata e prodotta dunque dalla conoscenza. È questa reciproca conversione della conoscenza e dell’azione che li unisce; questa unità che significa necessità dell’uno attraverso l’altro, è la «fede» (îmân).

La fede pertanto elimina l’opposizione tra la conoscenza e l’azione e funge loro da collante generale. «Il fatto-di-essere-generale» è determinato dalla transizione dall’opposizione «inferiore» all’altra, anche se «il fatto-di-essere-generale» non li «include» in ogni senso, o meglio nel senso che un’idea include una possibilità per le sue «incarnazioni individuali» al pari di una nozione di sintetizzazione che include le opposizioni sintetizzate.

Quanto detto, serve a spiegare come mai nell’ambito della cultura musulmana la fede non possa contraddire la conoscenza.

La transizione dalla conoscenza all’azione costituisce e stabilisce (ithbât) la fede. La vera idea di ragione che realizza la sua autonomia liberandosi dal dominio della fede è semplicemente scorretta (in questo caso sarebbe possibile continuare a cercare gli altri argomenti che attestano questa affermazione). Nella cultura musulmana questa idea — l’autonomia della ragione — è priva di significato; secondo una frase comune inglese essa non ha semplicemente senso e pertanto non può essere discussa. «Liberarsi» dalla «supremazia della fede religiosa» e «liberare la mente dal suo dominio» equivarrebbe a dire, eliminare l’unità ed il coordinamento della conoscenza e dell’azione, sbilanciandole pertanto.56

D’altra parte, in base alle regole logico-significative dell’ambito culturale musulmano qualsiasi tipo di conoscenza, che è connessa armoniosamente e che conduce all’azione, produce la fede (l’unica eccezione a priori che viene in mente, è il rifiuto netto del monoteismo quale tesi esplicita).

Ecco del perché i teologi musulmani, nel passato e nel presente, rivendicano, spesso entusiasticamente, che tutto nella cultura musulmana è «illuminato dalla luce della fede» e che ogni azione, inclusi i movimenti di un vasaio o di un falegname, è «inseparabile dalla fede».

Questa tesi è certamente corretta — solo se intesa all’interno dell’ambito logico-significativo della cultura musulmana. Non si dovrebbe interpretare la conoscenza — per esempio, la conoscenza del falegname che si estrinseca nei movimenti della sua mano che pialla il legno — come «inclusa nella» fede e di conseguenza — conseguentemente per il pensiero Occidentale — come conoscenza «religiosa», che in forza delle stesse regole logico-significative, potrebbe essere opposta ad una conoscenza «non religiosa», determinando così l’opposizione tra fede e conoscenza. Ciò che sarebbe, invece, vero dal punto di vista Occidentale. Fintanto che rimaniamo nell’ambito del pensiero musulmano, la conoscenza e l’azione come tali sono «fuori» della fede e perciò non possono contraddire la fede stessa.57

In virtù dello stesso imperativo logico-significativo, la cultura musulmana non impedisce lo sviluppo di una conoscenza scientifica.58 Negli scritti dei più importanti teologi musulmani, incluso quelli contemporanei, si può cogliere il desiderio di ravvedere nell’intera summa scientifica uno degli elementi costitutivi della fede che — come implicazione — non contraddice in nessun modo.59

Alla fine di «Anna Karenina» (parte 8, capp. XII-XIII), Lev Tolstoy descrive nel dettaglio l’acume improvviso di Levin — o ad essere più preciso, la sua consapevolezza improvvisa e nitida — con riferimento a quanto lo stesso Levin aveva già conosciuto come «verità spirituali che aveva succhiato dal latte materno». Tutta la sua vita si svolse all’insegna di una lotta tra questa conoscenza-fede preistorica ed un’altra conoscenza promossa dalla ragione e verificata dalla scienza. Questi due generi di conoscenza sono incompatibili, perché esprimono delle verità incompatibili. Una persona potrebbe possederli ambedue, ma dovrebbe collocarli «in diversi domini o strati» della sua personalità. Questi due generi di conoscenza sono la fede (conoscenza-in-virtù-della-fede) e la conoscenza (prodotta dalla ragione in quanto unica autorità in materia) ed alla fine, comunque uno di loro vince.

Questa breve citazione esaurisce quasi la problematica relazione tra fede e conoscenza. Espressi in poche pagine, i pensieri di Tolstoy occuperebbero, invece, volumi se tutte le loro implicazioni fossero spiegate. Comunque, il mio intento non è quello di cimentarmi in questa spiegazione. Ciò che mi prefiggo invece è di indicare la base logico-significativa di una simile spiegazione, base che è la medesima delle idee non sviluppate nel monologo di Levin.

La cultura musulmana, e così qualunque altra, può essere spiegata come una serie di nuclei logico-significativi organizzati secondo le regole che stanno all’interno dell’ambito di quella stessa cultura, ma che potrebbero differire in altre culture. Il caso della fede e della conoscenza è solo uno di tanti possibili esempi.

Le medesime procedure logico-significative vanno applicate al nucleo «corpo- anima». Corpo ed anima, essendo delle opposizioni mutuamente determinate, costituiscono l’umana «Egoità» (’anâ’iyya) in virtù della loro reciproca conversione e transizione.60 L’«Egoità» è un’entità assolutamente semplice e non include il corpo e l’anima come sue parti. Completamente indivisibile, questa entità è qualcosa in cui il corpo e l’anima, esterni ad essa, raggiungono quell’unità in grado di dominare al di là dell’opposizione che li contraddistingue.61 Le teorie del parallelismo psicofisico, la discussione su cosa affligga la filosofia e la psicologia moderna Occidentale, mancano semplicemente di un fondamento in questo ambito logico-significativo.

Comprendere le cause logico-significative dell’identità culturale è chiaramente un lavoro lungo e caratterizzato da una continua attenzione verso le operazioni della propria mente, che non è, certamente, avulsa dagli imperativi logico-significativi della propria cultura madre. Questa comprensione è l’unica maniera utile per un dialogo autentico con una cultura che si trovi con noi in una relazione di alterità logico-significativa e non solo semantica.

4. La hayra (perplessità) Sûfî e l’Arte islamica: la contemplazione della decorazione attraverso i Fusûs al-Hikam

Durante l’ultimo secolo la decorazione islamica, ma più in generale anche l’arte islamica, ha attirato l’attenzione di molti studiosi, storici dell’arte e filosofi. Sebbene l’investigazione dei manufatti sia ancora lontana dall’essere completa, per comprendere la natura dell’arte islamica e i suoi principi generali giocoforza sono state avanzate delle linee guida generiche. Per schematizzare questi tentativi di chiarimento in un modo molto grossolano e forse piuttosto arbitrario, direi che essi andrebbero ripartiti in tre grandi gruppi. Nel primo, troviamo le precisazioni filosofiche (Massignon, Burckhardt e Nasr); nel secondo, quelle suggerite dagli storici dell’arte (Grabar ed Ettinghausen); nel terzo, infine, quelle che esprimono la lettura dell’arte islamica da parte dei Sûfî (Ardalan e Bakhtiar). Non pretendo che questa mia «classificazione» sia di tipo «scientifico»; questi gruppi sono talvolta sovrapposti, come nel caso di S. H. Nasr nei cui testi è difficile scindere gli argomenti filosofici dai convincimenti Sûfî-Ishrâqî-´Irfânî dello stesso autore. Sto quindi solo avvertendo che in questo articolo non seguirò nessuna di queste tre linee di investigazione e di spiegazione. Piuttosto cercherò un comune «sfondo logico» sul quale s’inscrivono (oppure, che «sta dietro») i vari phaenomena della cultura islamica; in questa prospettiva comparerò la decorazione islamica ed il discorso «filosofico» Sûfî. Per «sfondo logico» non intendo esattamente la «struttura» logica, ma piuttosto una certa procedura di costruzione di una tale struttura e di riempimento della stessa attraverso un suo proprio significato; lo «sfondo logico» è, infatti, una procedura logico-significativa (ndt) della formazione dei phaenomena culturali. Credo per l’appunto che questa procedura sia comune ai vari phaenomena della cultura islamica e che renda conto della loro profonda affinità. Questo spiega il titolo del mio articolo: non tenterò pertanto di leggere il significato sufico nella decorazione islamica. Invece, leggerò i passaggi filosofici[^62] di Ibn ´Arabî’per rinvenire e svelare la summenzionata procedura; poi, testerò l’applicabilità di questa procedura alla decorazione islamica con l’obiettivo di stabilire se essa dia conto di almeno alcuni dei suoi tratti tipici ed per lo meno degli aspetti del suo significato estetico.

Permettetemi di iniziare con i testi di Ibn ´Arabî. Leggerò e commenterò alcuni suoi passaggi che trattano della questione della verità.

Quale è la vera costituzione dell’universo? Come può essere svelata questa vera costituzione da un essere umano; in altre parole, quale è la metodologia epistemologica capace di svelare la verità? Questi due grandi problemi, ontologici ed epistemologici, fanno parte del discorso di Ibn ´Arabî’, giacché essi sono supposti costantemente in ogni ragionamento filosofico.

Lasciate che io scelga una delle innumerevoli scorciatoie al cuore della filosofia dello Šaykh al-Akbar prevista da lui stesso nei suoi testi e costituita, infatti, da un breve passaggio di poche parole. Nel terzo capitolo dei Fusûs?, Ibn ´Arabî dice che la perplessità (hayra) è causata dalla

moltiplicazione dell’Uno in vari aspetti (wujûh) e correlazioni (nisab).62

La perplessità, hayra, è, senza esagerare, il concetto-fulcro dell’epistemologia di Ibn ´Arabî. È importante tenere ben presente che per lui la perplessità ha una connotazione positiva e non negativa. Ovvero, essere perplesso, per esempio, non significa «essere privo» di certezza oppure di verità. Al contrario, essere perplesso significa «possedere». Ad ogni modo, la questione cruciale è capire che cosa si possieda?

Permettetemi di allargare un po’il contesto della citazione, fatta poc’anzi, ai commenti di Ibn ´Arabî al versetto coranico «Essi ne hanno già traviati molti» (Cor., 71: 24). Egli spiega che quelle parole di Nûhsignificano che loro li hanno resi perplessi nella moltiplicazione dell’Uno in virtù dei suoi aspetti e delle sue correlazioni (hayyarû-hum fî ta´dâd al-wâhîd bi-l-wujûh wa-l-nisab). La preposizione «in» () — non «per» (bi-) come si poteva invece attendersi — è usata qui di proposito. Ibn ´Arabî non parla esclusivamente di epistemologia, ma intende anche l’ontologia. Hayra indica non solo la «perplessità nella conoscenza dell’Uno», ma anche «la perplessità nell’essere dell’Uno».

Ecco come Ibn ´Arabî illustra questo punto:

l’Ordine (Universale) è perplessità, e la perplessità è agitazione e movimento ed il movimento è vita63 (al-´amr hîra wa-l-hîra qalaq wa haraka wa-l-haraka hayât).

Leggo qui la parola araba hyr come hîra e non come hayra seguendo l’intenzione di Ibn ´Arabî’di identificare la perplessità ed il «vortice» hyr; la perplessità può essere letta come hîra e non come hayra, i dizionari arabi ce lo confermano, ed il «vortice» (hîra) è una delle immagini preferite da Ibn ´Arabî nei suoi testi per alludere alla vita ed all’ordine universale.64 L’essere umano «perplesso», hâ’ir, si trova in costante movimento. Non può raggiungere una posizione stabile, non è fissato in nessuna parte. Questo è perché, dice Ibn ´Arabî, l’essere umano è «perplesso nella moltiplicazione dell’Uno»: questa «moltiplicazione» non è solo epistemologica bensì anche ontologica e l’essere umano perplesso si muove nel vortice della vita e dell’Ordine cosmico e contemporaneamente realizza che egli è tale movimento.

Ma possiamo derivare questo movimento, questa perplessità onto-epistemologica — hayra — da ogni concetto filosofico? Penso che la risposta sia positiva. Hayra è il movimento tra due opposti che si presuppongono l’un l’altro e che hanno senso solo nella loro congiunzione; questo è il motivo per cui è senza fine il movimento dall’uno all’altro, dato che questi due opposti possono sussistere solo insieme, e perché l’Ordine Universale viene costituito attraverso questa costante transizione dall’uno all’altro.

Questi due opposti sono Dio ed il mondo, al-Haqq e al-Khalq. Queste due nozioni sono forse le più generali e hayra, intesa come transizione tra loro, è esemplificata anche da molte altre, e più particolari, coppie di opposti, come per esempio ´abd «schiavo» e rabb «signore»,65 e dal movimento e dalla transizione tra loro. Questa è la ragione per cui hayra è l’autentica verità in sé, dato che questo movimento è il principio basilare dell’Universo.

Lasciate che io prenda un’altro passo e faccia quindi un’altra considerazione. Al-Haqq e al-Khalq sono gli aspetti «interni» (bâtin) ed «esterni» (zâhir) dell’Ordine Universale. Hayra significa movimento costante dall’esterno all’interno e viceversa senza un punto d’arresto. Questo principio ontologico fondamentale spiega la teoria della causalità di Ibn ´Arabî,66 la sua etica e la sua antropologia (per richiamare solo alcuni degli aspetti del suo insegnamento). Ogni essere (ogni sûra, «forma», per usare la terminologia di Ibn ´Arabî), viene considerato dallo Šaykh al-Akbar attraverso la logica della correlazione zâhir-bâtin e di quella della loro transizione, svelando così significati altrimenti non evidenti in sé.

Vorrei riepilogare. La questione posta sopra era: essere in hayra significa possedere qualcosa? Ora possiamo finalmente rispondere. Hayra significa capacità di transizione tra gli aspetti zâhir e bâtin dell’Ordine Universale e l’abilità di collocare ogni essere in questo movimento di transizione zâhir-bâtin. Così l’ultima verità della cosa in questione è svelata ed è riempita da significati autentici.

Adesso lasciate che mi occupi della decorazione islamica. Ne discuterò pochi esempi e tenterò di stabilire, se la procedura di costruzione della struttura della correlazione e della transizione zâhir-bâtin e se il relativo «riempimento significativo» di questo movimento di transizione, sia rilevante per la comprensione di cosa sia la decorazione islamica. Certamente questo modo di trattare la decorazione non è né esaustivo e nemmeno proprio allo storico d’arte. Comunque, penso che questa breve investigazione e i principi che ciò ha richiamato e svelato siano abbastanza rappresentativi almeno per una certa parte delle decorazioni islamiche.

Diamo un’occhiata a questa copertina colorata del Qur’an fatto nel Maghrib nel diciottesimo secolo:

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Parte centrale dell’ultima pagina del Qur’an fatto per il principe del Marocco nel 1729 (National Library, Cairo)

Questo è un esempio di un’intricata ed affascinante decorazione geometrica. Senza esagerare, si può dire che disegni come questi abbondino in tutto l’Islam. Lasciate che vi fornisca alcuni esempi di questo tipo di decorazione:

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Parte centrale dell’ultima pagina del Qur’an fatto in Marocco nel 1568 (British Library, London)

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Parte centrale dell’ultima pagina del Qur’an fatto a Valencia nel 1182/83 (Istanbul University Library)

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Parte centrale di una pagina dal Qur’an prodotto da Abdallah Ibn Muhammad al-Hamadani nel 1313 (National Library, Cairo)

L’ultima decorazione incorpora motivi vegetali, il penultimo include elementi epigrafici ed i primi due sono pure decorazioni geometriche. La prima delle decorazioni differisce dalle altre in virtù del fatto che risulta composta da venature di colore che mutano il loro stesso colore, dopo essersi intersecate.

La molteplicità dei colori che è distintiva di questa decorazione rende evidente che il modello decorativo non è subito apparente. Non è afferrabile, per così dire, di primo acchito. Stavamo cercando un simile modello decorativo, un’immagine complessiva da essere subito percepita in questa decorazione, ma i nostri sforzi si sarebbero subito rivelati inutili. Effettivamente, nessuna venatura trattiene il suo colore quando s’interseca con un’altra; essa, «emergendo» dopo poco tempo di «immersione» sotto la vena che incrocia, cambia il suo colore, come se suggerisse un’interruzione di questo movimento successivo. Osservandolo, noi non possiamo che richiamare le parole di Ibn ´Arabî’:

Chi segue il lungo sentiero è influenzato e perde il fine desiderato67 (Sâhib al-tarîq al-mustatîl mâ´il khârij ´an al-maqsûd).68

Lo Šaykh al-Akbar parla di hayra come opposta al «lungo sentiero» della dissertazione e dell’argomentazione organizzate secondo i principi aristotelici della razionalità. La prima delle decorazioni sembra un’illustrazione di questa idea. Il contrasto del colore pare essere indirizzato a dividere l’immagine nel dominio dell’evidente e manifesto, e nel dominio del velato, coperto e nascosto. Il primo appare come zâhir, ergendosi di fronte ai nostri occhi, mentre il secondo pare avanzare dietro o meglio nascosto sotto la superficie e costituisce il bâtin dell’immagine. Questo contrasto zâhir-bâtin è puntellato dalla distinzione del colore così evidente nella prima delle decorazioni. Ma ciò non è meno importante per le altre decorazioni, e la varietà dei colori è solo un significato supplementare che accentua la struttura zâhir-bâtin.

Le decorazioni ottenute attraverso la connessione di interruzioni di colore erano famose nella cultura islamica. Un termine speciale venne coniato per denotare tale genere di lavorazione. La locuzione «del colore interrotto» fu resa in arabo con mujazza´. La parola mujazza´ è spiegata nel Lisân al-´arab come muqatta´ al-lawn, «di colore interrotto», e deriva da jaz´ che significa «tagliare una corda in due metà». Questa spiegazione si conforma esattamente alla natura della decorazione ottenuta tramite la connessione di interruzioni di colore fatta da venature colorate che paiono essere state tagliate in due.

«Tagliare in due» sembra essere il significato basilare di jaz´, e gli esempi portati da Ibn Manzûr lo confermano, come ad esempio kharaz mujazza´ «rosario di due colori» (normalmente nero e bianco), lahm mujazza´oppure metaforicamente jaza’ usata al posto di huzn «disagio» perché il disagio «ritaglia» l’essere umano dalle sue preoccupazioni. Sebbene soprattutto associata con l’interruzione del colore e con la discontinuità del colore, mujazza´ può significare anche ogni frazionamento in due parti irrispettoso del colore oppure di ogni percezione sensibile.

L’«interruzione» e la «discontinuità» sono termini negativi che implicano solo l’assenza, la mancanza di qualcosa (mancanza di integralità e di continuità). Io sostengo che essi siano quindi inadeguati a capire cosa mujazza´, la decorazione, trasmetta allo spettatore, piuttosto che a dire cosa non trasmetta. Il contenuto positivo di tajzî´ «tagliare in due» è, secondo me, rappresentato dalla procedura di costruzione della struttura zâhir-bâtin per la percezione sensibile.

Questa struttura a due strati, suppongo, sia percepita come una correlazione zâhir-bâtin ed il movimento tra quei due strati — lo zâhir ed il bâtin — e la transizione dall’uno all’altro e viceversa, costituisce, per così dire, il «contenuto» del processo di percezione della decorazione ed il significato estetico della decorazione mujazza´.

Quindi la continuità è inferita dalla percezione della decorazione. Essa è la continuità del movimento di transizione del zâhir-bâtin e più tale transizione è intricata, più la decorazione appare meravigliosa alla percezione radicata nell’estetica della cultura islamica.

La decorazione mujazza´ fu distinta nel pensiero islamico dalle altre tipologie decorative e di abbellimento, e specialmente dall’arte importata dei mosaici (fusayfisâ’ o mufassas ). Un termine speciale, come abbiamo visto, fu usato per denotare la decorazione mujazza´ e per alludere al significato della sua composizione a due strati. Più intricata è la relazione tra zâhir e bâtin, più profondo sarà il piacere estetico e la delizia che la decorazione recherà allo spettatore.

Vorrei citare un paio di testimonianze per tale tipo di percezione della decorazione che la letteratura classica islamica ci offre.

Dando conto di al-Bayt al-Mukarram e dei suoi dintorni, Ibn Jubayr menziona il marmo di colore interrotto (rukhâm mujazza´ muqatta´) che copre parte dei muri e dei recinti. Egli non risparmia parole per esprimere la sua estasi ed ammirazione:

fu messo insieme in un ordine sorprendente (intizâm), in una sistemazione che ha del miracoloso (ta’lîf), di eccezionale perfezione, di superbo rivestimento di marmo (tarsî´) e di discontinuità di colore (tajzî´), di eccellente composizione e disposizione (tarkîb wa rasf). Quando uno guarda tutte quelle curve, intersezioni, cerchi, scacchi come figure e gli altri (modelli) dei vari generi, lo sguardo fisso è rapito dalla bellezza (husn), come se uno stesse facendo un viaggio (yujîlu-hu) attraverso dei fiori sparsi di colore differente.69

La parola ijâla, che rendo qui come «fare un viaggio», significa anche «spedire intorno», «compiere un movimento circolare». Ancora una volta, non possiamo che richiamare la spiegazione fornita da Ibn ´Arabî circa la parola hayra come movimento circolare infinito. In ambo i casi, nella sofisticata dissertazione teoretica di Ibn ´Arabî e nell’immediata percezione sensibile della decorazione mujazza´ da parte del viaggiatore Ibn Jubayr, il movimento circolare è il movimento tra gli aspetti zâhir e bâtin, e la sua infinità, espressa in virtù della sua circolarità (ma non causata da essa), è fondata nella logica della correlazione zâhir-bâtin, come gli stessi zâhir e bâtin hanno un senso solo se insieme e solo grazie alla loro reciproca transizione, cosicché il movimento dall’uno all’altro e viceversa è, come dire, il centro della loro vita e del loro essere.

Se la struttura zâhir-bâtin è abbastanza complicata, la contemplazione della decorazione diviene non solo pura percezione sensibile e delizia, ma cresce nella contemplazione simile alla meditazione teoretica degna di un saggio. Parlando del al-Jâmi’al-’Umawî, al-Muqaddasî70 rileva il suo asciutto stile di esame tecnico delle dimensioni, posizioni e direzioni ed improvvisamente esprime il suo sincero sentimento di ammirazione:

la cosa più sorprendente è la sistemazione del marmo dal colore interrotto (rukhâm mujazza´), ogni shâma alla sua cosa uguale (kull shâma ilâ ‘ukhti-hâ). Se un uomo di sapienza andasse a visitarlo per un anno intero, ne dedurrebbe una nuova formula (sîgha) ed un nuovo intreccio (´uqda) ogni giorno.71

L’«intreccio», ´uqda è il punto di intersezione del zâhir-bâtin. Questa intersezione è, per così dire, un apice del movimento di transizione del zâhir-bâtin, siccome è il luogo in cui zâhir e bâtin si confondono immediatamente e direttamente. Nessuno dubita che tale posto sia percepito come una sorta di centro generatore per il nuovo sîgha, come alMuqaddasî sostiene. Il termine sîgha viene solitamente reso in inglese con «formula». Forse questa non è la migliore traduzione in questo caso, dato che «formula» è associata a «forma», mentre sîgha non è sûra (l’equivalente arabo di «forma»). Parlando di decorazione majazza’, Ibn Jubayr e alMuqaddasî usano shakl e sîgha, mentre, secondo gli autori arabi, fusayfisâ’, «mosaico» si accompagnerebbe alle «forme». La differenza tra le due è la differenza che intercorre tra la percezione tramite la transizione e il movimento del zâhir-bâtin, e la percezione «di primo acchito», la percezione dell’evidenza, della forma solo manifestata.

Al-Muqaddasî parla di «uomo della sapienza» (rajul al-hikma). Questo ci porta al concetto di verità. La verità autentica non può essere liberata dalla bellezza autentica, ossia, non esistono separatamente in assoluto, anzi esisterebbe una forte interrelazione tra i due. Adesso possiamo vedere come esattamente tale percezione sia recepita nella cultura islamica. La transizione zâhir-bâtin comporta la verità della cosa in questione (come nel caso della correlazione al-Haqq/al-Khalq nella filosofia di Ibn ´Arabî, ma anche come in molti altri casi di pensiero non-sufico) e schiude il suo vero significato.

Il profondo sentimento estetico nasce al di fuori di questo infinito movimento di transizione del zâhir-bâtin che costituisce la percezione sensibile della meravigliosa decorazione. Così la verità e la bellezza autentica si confondono e divengono — in un certo senso — lo stesso.

È risaputo come il Qur’an e la Sunna critichino «gli ornamenti dorati», zukhruf, e, in un senso più ampio, l’«abbellimento», zakhrafa. Il significato della parola zakhrafa è spiegato nell’arabo classico come, tamwîh, «nascondiglio», tazwîr, «distorsione» e kidhb, «bugia». In ogni caso, questa nota posizione espressa nei testi classici della religione islamica non implica un completo ed assoluto rifiuto della bellezza e del bello. Ciò che viene negato e denunciato, credo, è la mancanza e l’adeguatezza del zâhir-bâtin. Nella cosa muzakhraf, sia essa un muro o un discorso, l’evidente e il manifesto (zâhir) non devono essere privi dell’interno (bâtin); oppure, possiamo dire, non è possibile passare da un tale zâhir al bâtin perché la naturale e normale correlazione tra i due era stata rovinata dalla zakhrafa del zâhir. È a causa di questo disaccordo tra lo zâhir e il bâtin che la zakhrafa è detta «nascondiglio» e «bugia».

L’assenza della conformità di zâhir-bâtin è comunque incompatibile con la vera bellezza, dato che l’intuizione estetica della cultura islamica sembra essere radicata nel movimento di transizione del zâhir-bâtin.

La procedura logica ed etimologica di cui stavo parlando, costituisce la base profonda dei vari phaenomena della cultura islamica.

Vorrei concludere dicendo che un’adeguata comprensione di questa procedura ed il suo giusto ruolo compendia molte delle spiegazioni che gli studiosi occidentali propongono per la natura della decorazione islamica. Ad esempio, quando Eva Bayer, descrivendo i tratti distintivi della decorazione islamica, dice che

la loro ricchezza e variabilità scaturiscono dalle suddivisioni e dalle estensioni lineari della rete geometrica e dal continuo collegamento ed avvolgimento delle forme che provocano nuove sub-unità e nuove forme72

oppure quando Oleg Grabar tratta uno dei principi della decorazione islamica, dicendo che

la decorazione può essere meglio definita come una relazione tra forme piuttosto che come una somma di forme. Questa relazione può essere meglio espressa in termini geometrici,73

essi aggiungono ben poco di nuovo alla correlazione zâhir-bâtin e alla procedura di generazione del significato, che incide per questi come per gli altri principi della decorazione islamica proposta dagli studiosi.

5. Dualismo e Monismo: quanto sono realmente diverse le due concezioni etiche del sufismo?

Generalmente il «bene» ed il «male» sono considerati quali categorie universali informanti i principi etico-morali. In questo senso nemmeno l’etica islamica costituisce un’eccezione. Il Corano usa i concetti di khayr (bene) e sharr (male) per denotare ciò che il mondo nel suo insieme, ovvero tutto quanto succede in esso, può procurare all’essere umano. L’assunzione dei concetti di «bene» e di «male» quali categorie filosofiche fu opera anche del Mu´tazilismo e più tardi anche del Tasawwuf, che non si discostarono comunque dalle linee generali già adottate dall’etica islamica.74 Va ricordato preliminarmente che sia i falâsifa (lett: filosofi), che i Mu´taziliti quanto i Sûfi erano largamente debitori delle teorie aristoteliche e neoplatoniche.

Sebbene i Mu´taziliti ed i Sûfi procedano da intuizioni indotte dalla meditazione del Corano, i loro punti di vista differiscono da questo stesso almeno sotto un certo aspetto. Il Corano considera il bene ed il male come categorie relative, il che significa che una cosa è male non perché partecipa di un principio che sia intrinsecamente «male», bensì perché i suoi «malefici effetti»75 prevalgono su quelli «benefici».76 Il fiqh77 adotta i medesimi argomenti sia per proibire che per sanzionare, pertanto il proibito può essere facilmente sancito non solo ad hoc ma anche prescritto come obbligatorio se in una determinata situazione il suo «benefico effetto» prevale sull’altro. I Mu´taziliti, invece, si sforzano sempre di considerare il bene e il male come categorie non-relative, affermando al contempo che gli esiti ed il senso delle azioni di Dio sono solamente «bene» e giammai «male»: a comprova di ciò, per esempio, essi sostengono che la punizione dei peccatori non è «malefica» per loro stessi, ma è piuttosto una manifestazione di Dio «concernente» il loro destino che deriva dalla Sua «benevolenza».

Il sufismo può essere considerato un interprete di questo modo islamico di intendere il bene ed il male, che segue un approccio filosofico78 «non-relativistico». Le riflessioni sull’etica compiute da Rûmî e da Ibn ´Arabî, due tra i maggiori esponenti del sufismo, appaiono di primo acchito vicendevolmente opposte. Queste, infatti, possono essere qualificate apparentemente come «dualismo etico», se ci riferiamo a Rûmî (che accetta la dicotomia bene/male in quanto principi fortemente distinti), e «monismo etico», per quanto riguarda Ibn ´Arabî (la cui convinzione di base, che proviene dal suo ontologismo, è che «tutto sia bene»). Questa classificazione sembra essere confermata dal modo differente — ed in ossequio alla loro idea di fondo sintetizzata tra parentesi poco sopra (ndt) — di trattare alcune tematiche etiche tradizionali quali amore (’ishq) ed amato (ma’shûq), tentazione (fitna), gratitudine (shukr), pazienza (sabr) e lamento (shakwa), autonomia del libero arbitrio (ikhtiyâr) ed azione (fi´l), nonché dall’atteggiamento dei due autori nei confronti delle altre religioni. Ad ogni buon conto, dimostrerò, dopo aver comparato alcuni testi di riferimento, che questa differenza intercorrente tra questi due grandi Maestri del tasawwuf non è poi così marcata come può sembrare a prima vista. La teoria epistemologica che Ibn ´Arabî chiama perplessità (hayra) considera la verità come un intreccio di due opposti che, solitamente, sarebbero considerati mutuamente escludenti. Il suo «monismo etico» quindi non «si applica» al di fuori della dualità, ma al contrario la presuppone in accordo con l’economia della mente «perplessa» (ha’ir). Rûmî invece vede la questione da un’altra angolatura, dato che le sue tesi dualiste si estrinsecano in una disamina che lo conduce, logicamente parlando, a quanto è compatibile con un «monismo etico».

M. Fakhry ha strutturato il suo fondamentale studio — Teorie etiche nell’Islam — su un assunto di fondo in base al quale vi sarebbe scarsezza di pensiero etico nella filosofia islamica. Ci sono buoni motivi per essere d’accordo con questa asserzione, a patto che ci si riferisca solo al pensiero dei falâsifa (che è l’oggetto principale dell’attenzione di M. Fakhry), oppure a quello Ismâ´îlî e, per estensione, a quello Ishrâkî (che non è stato nemmeno trattato nel suo libro).79 Queste correnti filosofiche islamiche infirmarono il loro modo di intendere il bene ed il male a quello greco, ossia fu principalmente aristotelico e neoplatonico, e conseguentemente svilupparono un’etica basata su queste impostazioni. Ma sulla base di quanto concerne il Kalâm ed il Tasawwuf, l’asserzione di Fakhry non pare del tutto valida.

Prenderò in considerazione le basi del pensiero etico di due dei più illustri esponenti del sufismo, Jalâl al-Dîn Rûmî (1207-1273) e Muhyî al-Dîn Ibn ´Arabî (1165-1240), all’interno di una prospettiva islamica di approccio ai concetti di bene e di male. Nel fare questo, effettuerò una distinzione tra le ricezioni religiose e quelle filosofiche del tema quale possono essere le comprensioni «relative» ed «assolute» di queste categorie.

L’etica islamica sembra non fare eccezione all’assunzione comune che il «bene» ed il «male» siano le idee morali universali e basilari. È piuttosto ovvio che il concetto di «bene» (khayr) sia una delle nozioni coraniche principali. La frequenza del suo ripetersi, fra le altre cose, lo testimonia. Il termine khayr («bene») appare nel Corano 176 volte, per non parlare dei suoi derivati. Il termine sharr («male») è di gran lunga meno frequente, dato che compare solo 31 volte in tutto il Corano. Malgrado in una forma molto semplificata queste constatazioni riflettono l’approccio tendenzialmente «ottimistico» dell’Islam nei confronti dei problemi etici basilari. Chiaramente, khayr e sharr non sono gli unici termini che denotano i concetti di bene e di male, anche se nella presente disamina essi sembrano risultare gli unici.

Nel Corano e nella Sunna il bene ed il male vengono trattati alla stregua di concetti relativi piuttosto che assoluti. Questo significa che se la Sharî´a proibisce delle cose, ciò non avviene perché quelle cose partecipino ad un certo principio che sia essenzialmente malefico, bensì perché il bene, che risulta da quelle cose proibite, è di gran lunga e senza dubbio maggiore del male che esse recano. Tale è, per esempio, il gioco d’azzardo che, quantunque rechi delizia all’anima umana (il che è certamente un bene), risulta essere un male che senza ombra di dubbio sovrasta il precedente bene, giacché è probabile che il giocatore d’azzardo perda il suo cammello e più tardi muoia di inedia insieme con la sua famiglia. Nel gioco d’azzardo ciò che è più importante e malefico, è il fatto che il gioco assorba totalmente l’uomo e tolga ogni spazio nella sua anima per la vera fede e per il vero affetto.

Lo stesso si applica forse alla cosa più importante nella morale religiosa. Le persone sono persuase ad adottare la vera fede perché l’Islam porterà certamente del bene ai suoi seguaci sia in questa vita che in quella futura, mentre è probabile che altre fedi portino dei benefici ai propri aderenti sulla terra ma causeranno inevitabilmente del male dopo la morte (questo è un dato certo almeno nel caso dei mushrikûn).80 L’equilibrio tra bene e male è piuttosto ovvio e si suppone che informi il comportamento umano.

L’atteggiamento adottato dal fiqh è fondamentalmente lo stesso. Le «cinque categorie» (al-ahkâm al-khamsa) classificano gli atti umani come bene o male dopo aver tolto le azioni di tipo mubâh (che sono quelle che lasciano indifferente il Legislatore). L’aspetto giuridico si somma così alla valutazione etica delle azioni umane. È importante notare che questo aspetto etico non è determinato o messo in secondo piano da quello giuridico nel ragionamento del fuqahâ’. La valutazione più «radicale» è espressa dalle categorie wâjib-mahzûr («obbligatorio»-«proibito»), mentre le proibizioni e le prescrizioni non-obbligatorie rientrano nella classe degli opposti sunna-makrûh. In ogni caso anche la più «estrema» di queste categorie non esprime giudizi di valore sulla cosa, poiché gli stessi giudizi possono essere mutati facilmente, cambiando il contesto in cui le si vanno a valutare e questo non fa altro che invertire l’equilibrio fra il bene ed il male. Il khamr (l’alcool) ne costituisce un esempio lampante. Il suo consumo è assolutamente proibito (mahzûr — quindi siamo all’interno delle «proibizioni obbligatorie», ndt) in situazioni normali a causa del male che ne risulta dal suo uso. Ma se un musulmano avesse un principio di soffocamento, potendo così morire, e non avesse altra cosa da bere, lui o lei non solo possono ma sono obbligati a salvare la propria vita bevendo dell’alcool. Quindi l’uso del khamr in una situazione determinata non è solo permesso, ma anche «obbligatorio» (wâjib).

La filosofia astrae però da questo tipo di valutazioni relative oppure dipendenti dal contesto: essa adotta un punto di vista «assoluto» che risulta dall’atteggiamento filosofico di base che la tradizione Occidentale di solito chiama «spirito critico». Il filosofo non sarebbe d’accordo di prendere in considerazione qualcosa di esterno e di non appartenente alla cosa, quale terreno per la sua stessa qualificazione. La base e la fondazione di tutte le qualità della cosa hanno bisogno di essere scoperte nella cosa (in re) e non al di fuori di essa.

I Mu´taziliti furono i primi pensatori islamici a tentare di costruire un sistema di valutazione etica che fosse «assoluto». Considererò quindi due aspetti, tra la varietà di quelli considerati dai primi Mutakallimûn, che sembrano importanti ai fini della presente trattazione.

Il primo aspetto è la questione attinente alla qualificazione degli atti Divini. Raramente i Mu´taziliti sono stati d’accordo fra loro, ma questa è stata una di quelle volte in cui lo sono stati. Come riferisce al-Ash’arî, tutti condivisero l’idea che il male creato da Dio lo fosse solo metaforicamente (majâz) e non nella sua realtà (haqîqa). Alla luce della teoria semiotica del ma’nâ (letteralmente, «senso») e della sua indicazione (dalâla), che già fu sviluppata nel primo pensiero filosofico e filologico islamico, questa tesi significa quanto segue. Ogni atto divino e tutte le cose create da Lui indicano come loro ma’nâ («senso») solo il «bene» finché viene considerata la «propria» indicazione, oppure la «vera» indicazione (haqîqa). Ma il Corano parla del «male» recato a chi non crede agli atti di Dio, ovvero, le calamità in questa vita e la punizione in quella futura. In ogni caso i Mu´taziliti sostengono che il «male» non è il senso proprio indicato da queste azioni Divine. Il «male» è il senso proprio di altre cose, il luogo che gli atti Divini occupano in tali casi e perciò indicano il «male» come il loro senso metaforico.81 Similmente i Mu´taziliti risolsero il problema della dannazione dei non-credenti (la’na). Secondo loro non è male ma «giustizia» (’adl), saggezza, bene ed appropriato (salâh) ai non-credenti (Maqâlât al-islâmiyyîn, Wiesbaden 1980, p. 249).

Il secondo aspetto è dato dalla questione se l’atto prescritto dalla Sharî´a sia un «atto che è benefico» (hasana) in sé oppure in virtù del comandamento di Dio, e, conseguentemente se l’atto proibito sia un «atto che è malefico» (sayyi’a) in sé o a causa della proibizione divina. I Mu´taziliti hanno fatto del loro meglio per offrire una spiegazione razionale a queste due problematiche sollevate e seguendo una medesima linea di ragionamento alcuni di loro convennero che quanto Dio non avrebbe mai potuto prescrivere come obbligatorio e viceversa non avrebbe mai potuto proibire, è «bene» e «male» in sé. La stessa cosa per i comandamenti, che potevano essere stati dati in un senso opposto a quello che noi troviamo nella Sharî´a, essi sono «bene» o «male» solo perché Dio comandò così, non avendo essi in sé delle qualità «benefiche» o «malefiche».

In questo senso i primi Mutakallimûn dichiararono il carattere assolutamente «benefico» degli atti Divini e fondarono la Legge divina nella morale universale, tracciando una distinzione tra i comandamenti eticamente giustificati e quelli determinati arbitrariamente.

Dei Falâsifa, degli Ismâ´îlî e dei primi Ishrâqî, non si può proprio sostenere che siano stati degli innovatori82 dell’etica musulmana. Nella filosofia, principalmente, essi seguirono il paradigma neoplatonico quando trattarono il problema del bene e del male e si ancorarono ai modelli aristotelici e platonici contenuti nei libri sui temperamenti e sul miglioramento degli stessi (il trattato Tahdhîb al-akhlâq confonderebbe anche il più paziente dei lettori in virtù delle loro sconfinate classificazioni delle facoltà dell’anima), o semplicemente riprodussero i prototipi greci aggiungendovi ben poco di nuovo (ossia, Risâla fî mâhiyyat al-´adl in italiano Trattato sull’Essenza della Giustizia di Miskawayh).83 Tutto ciò non potrebbe proprio aiutare nello stabilire i problemi etici che ha affrontato la comunità musulmana.

Ora è giunto il momento di considerare i fondamenti del pensiero etico di Jalâl al-Dîn Rûmî ed Muhyî al-Dîn Ibn ´Arabî.

A prima vista essi sembrano essere incompatibili, se non addirittura in contraddizione. Parliamo allora di loro in generale e dopo soffermiamoci sui dettagli ed sugli esempi concreti.

Il pensiero di Rûmî potrebbe essere esposto come segue. Il bene ed il male sono due opposti che mai si incontrano. Il fine dell’essere umano è quello di distinguere l’uno dall’altro, considerarli separatamente e mai mescolarli. Queste due nozioni sono pertanto lo strumento atto a definire le categorie etiche ed universali: ciascun atto umano è classificato come bene o male ed il fine dell’uomo è fuggire il male e tenersi vicino il più possibile al bene.

Prese in questa forma generalizzata, le basi etiche del pensiero di Rûmî appaiono fin troppo familiari a qualsiasi comunità cristiana od ebrea. E forse questo non è incidentale, se noi prestiamo attenzione al fatto che il pensiero persiano antico aveva influenzato senza alcun ombra di dubbio sia i pensatori che i poeti quanto i filosofi musulmani. La rigida distinzione tracciata tra il bene ed il male come due principi dell’universo è la caratteristica basilare di questo antico lascito sassanide. L’affermazione che alcuni autori contemporanei fanno, asserendo che lo Zoroastrismo avrebbe potuto influenzare il pensiero ebraico ed avrebbe potuto generarne la morale non è completamente priva di fondamenti. Ora se questo è vero almeno a grandi linee, allora questa somiglianza tra fondamenti etici, che troviamo negli scritti di Rûmî ed in quelli di autori cristiani ed ebrei, sembra meno sorprendente.

Per quanto riguarda Ibn ´Arabî, la sua posizione sembra notevolmente diversa da quella di Rûmî. Al-Šaykh al-Akbar sostiene che nulla è male «come tale» (bi al-´ayn), e che ogni cosa nell’universo dovrebbe essere valutata piuttosto positivamente, quindi come bene. Allora quale è il motivo delle prescrizioni e delle proibizioni della Legge divina?

Rûmî è piuttosto preciso su questo punto ovvero quando separa il bene dal male e dice che «il Dio Supremo […] si compiace solo del bene» (Kitâb fî-hî mâ fî-hî, Tehran 1330, p. 179). Ma se, come Ibn ´Arabî sostiene, ogni cosa è bene-in-sé e mai male, giacché tutto nel mondo appartiene al dominio dell’esistenza (wujûd) e quest’ultima appartiene solo ed unicamente a Dio (la teoria che sarebbe stata chiamata più tardi wahdat al wujûd, «unicità dell’esistenza»), perché qualcosa dovrebbe essere proibita? Anche se molti studiosi del pensiero di Ibn ´Arabî vi hanno scoperto dei parallelismi con il pensiero neoplatonico, mi sembra corretto rendere giustizia allo Šaykh al-Akbar e dire che almeno nella prospettiva presente che stiamo esaminando, egli non segue la tendenza del pensiero neoplatonico che adotta l’idea del male quale assenza di esistenza. Questa idea che eguaglia il materiale al male era facilmente fruibile agli intellettuali islamici ed al-Fârâbî o Ibn Sînâ sono solo i nomi più famosi che se ne avvalsero. Ma Ibn ´Arabî insiste che questo non è il caso ed ogni cosa ammirabile al mondo, come per esempio l’aglio, è solamente buona quando considerata in se stessa. Allora perché il Profeta detestò proprio l’aglio? In verità il Profeta non provò antipatia per l’aglio «in quanto tale», continua Ibn ´Arabî, ma per il suo odore (râ’iha) (Fusûs al-hikam, Beirut 1980, p. 221).

Questo è possibile perché la cosa in quanto tale (´ayn) non può essere mai qualificata come «riprovevole» (makrûh)84: «riprovevoli» sono solo i suoi effetti esterni e relativi.85

L’«ontologismo» di Ibn ´Arabî lo conduce a conclusioni che sembrerebbero piuttosto bizzarre quando siano formulate senza un ragionamento filosofico. Forse la cosa più impressionante per la mentalità di un musulmano è affermare che nessuna religione sia sbagliata e che ogni credente adora solo l’Unico e Vero Dio. A pensarci bene questo non è solo impressionante ma anche teoricamente piuttosto inusuale (ndt). Ibn ´Arabî infatti porta a compimento il suo ragionamento presentandone l’inevitabile e logica conclusione, dicendo che quelli che stanno cercando di aiutare le persone ad abbandonare le fedi «erronee», stanno in realtà impedendo a quelle persone di adorare Dio e quindi stanno agendo contro la Sua volontà. Per esempio anche l’odioso Faraone del Corano appare nel Fusûs al-hikam quale servo di Dio; risulta evidente quindi che non possiamo essere d’accordo con il coerente ragionamento logico di Ibn ´Arabî almeno fin tanto che non accettiamo la sua posizione ontologica che è detta wahdat al wujûd.

Questa tolleranza religiosa di Ibn ´Arabî (di cui ho citato solo alcuni tra i numerosi esempi) contrasta con la posizione di Rûmî. Trattando del problema della vera fede, Rûmî è infatti piuttosto risoluto nel tracciare una netta demarcazione tra Islam e tutte le altre religioni. Egli non esita a criticare non solo le credenze pagane o le azioni degli avversari dell’Islam, ma anche lo stesso Cristianesimo (Fî-hî, p. 124-125), procedendo da motivazioni ortodosse abbastanza «evidenti» a chiunque (manifestando un comportamento molto letteralista, per esempio, Rûmî si interroga su come possa l’umile ‘Isâ — Gesù — reggere i sette cieli con il loro peso). Affrontando poi il problema dell’amore (’ishq), Rûmî nutre qualche dubbio che «il vero amato» (ma’shûq haqîqî) sia rinvenibile in altri oggetti che non siano «il vero amato» in sé (Fî-hî, p. 160). Non è pertanto difficile notare come sia differente questa posizione da quella di Ibn ´Arabî che — invece — considera Dio non contenuto — e quindi limitato — da una qualsiasi direzione (´ayn, letteralmente «dove») bensì ritrovabile in ogni dove; sono ancora distanti anche quando Ibn ´Arabî sostiene che l’essere umano deve sempre cercare Dio e non solo quando si indirizza verso la qibla — ovvero per pregare (ndt) — (Fusûs, p. 80, 114 etc.), e sono distanti infine quando Ibn ´Arabî sostiene che qualsiasi tentazione (fitna)86 non può essere facilmente superata, deviando semplicemente dall’«erroneo» oggetto di affezione bensì rendendolo l’unico «reale», ovvero considerandolo una manifestazione di Dio (al-Futûhât al-makkiyya, Beirut, vol. 4, pp. 453-456).

Stavo sostenendo che la posizione di Ibn ´Arabî è abbastanza coerente con la sua assunzione di base, ovvero che la Realtà è una ed è anche onnicomprensiva e perciò è impossibile differire da Essa o deviare in qualche modo dal Reale in ciascuna delle nostre azioni. Rûmî dubita invece che l’essere umano sia più di una creatura posta sotto il comando di Dio e ci avverte di non sottovalutare il nostro vero valore. Nel Fî-hî Rûmî compara l’uomo con l’oro puro e dice che sarebbe una totale follia farne un vaso di terracotta potendo invece farlo d’oro. Il gioiello prezioso dello spirito umano è per Rûmî, non diversamente da Ibn ´Arabî, l’immagine di Dio.87 Per riassumere, Rûmî non è un avversario della wahdat al-wujûd di Ibn ´Arabî; ma allora se è così, perché le concezioni etiche dei due pensatori appaiono così diverse?

Rûmî procede da un dualismo «bloccato» tra bene e male che mai si ricompone, mentre la posizione di Ibn ´Arabî sarà poi definita monismo etico. Ora, non ci dovrebbero essere dubbi sul fatto che l’eredità culturale persiana abbia influenzato non poco il pensiero di Rûmî, cosa che invece non è avvenuta per Ibn ´Arabî. La differenza tra i due pensatori quindi sarebbe determinata dalla diversità del loro ambiente culturale originario? O forse c’è molta più somiglianza di quanto appaia di primo acchito tra i loro punti di vista, dovuta da premesse ontologiche comuni?

Per rispondere a questo interrogativo, vorrei approfondire come Rûmî spieghi la relazione tra l’esistenza del bene e del male ed il fatto che Dio sia soddisfatto solo dal bene.

Trattando questo tema, Rûmî presenta la nozione della volontà Divina (irâda) e diversamente dai Mu´taziliti, egli non esita a dire che Dio voglia il bene ed il male, (Fî-hî, p. 179), il che equivale a dire che Dio li crea entrambi. Cosa è dunque il male (sharr) di cui sta parlando Rûmî?

Per un certo verso è il male reale e non quello metaforico, che egli ha in mente. Su questo punto Rûmî differisce dai Mu´taziliti per la loro tendenza universale a trattare ogni male cagionato dagli atti di Dio all’essere umano come majâz (metafora) e non come realtà. D’altra parte, questo male, siccome è il male reale (haqîqatan), non metaforico, è male «in quanto tale» (bi al-´ayn). Questo punto di vista si palesa chiaramente quando Rûmî dice:

il disposto del male (sharr) sarebbe stato male (qabîh) se Lui lo avesse voluto per causa sua (li-´ayni-hi) (Fî-hî, p. 180)

il che sarebbe impossibile se il male non fosse stato male in sé (bi al-´ayn). Questo significa che Rûmî non fruisce della possibilità che Ibn ´Arabî invece «sfrutta» quando dice che ogni cosa è esclusivamente bene in quanto tale, ma che è anche bene o male in base ai gusti umani, alle affezioni ed ai dispiaceri, in breve, che ogni cosa è bene o male solo «in quanto stabilita» (bi al-wad? ‘), ovvero che lo è relativamente e non assolutamente e neppure sostanzialmente.

Rûmî segue un’altra strada. Egli dice che il male non è voluto per causa sua, ma piuttosto nell’interesse del bene. Questa sua tesi è del resto collegata ad un’altra che ritiene che nessun bene possa essere recato all’essere umano in questo mondo, se quell’essere umano non stia già patendo un determinato male. Come l’insegnante è pre-disposto dall’ignoranza dei suoi alunni ad istruirli, come il panettiere è pre-disposto dalla fame dei suoi clienti ad alimentarli, come il dottore è pre-disposto dalla malattia dei suoi pazienti a guarirli, allo stesso modo Dio è pre-disposto dal male presente nel mondo a portare il bene alle persone che lo dimorano (Fî-hî, p. 179). Alla stessa maniera Rûmî affronta il tema del sovrano e dei suoi subalterni, che è ciò che è più analogo alla relazione intercorrente tra Dio e l’uomo e nel merito dice che i re sono disposti dalla disubbidienza ed anche dal pericolo degli attacchi dei nemici a manifestare il loro potere e la loro autorità, sebbene loro non siano contenti in sé, quando devono esercitare la loro autorità e quindi la forza.

Esaminando unitamente queste due tesi scopriamo che, secondo Rûmî, è impossibile volere il bene senza volere il male, (anche se il male non è mai voluto per sé, ovvero in quanto male, ma in funzione del bene, ndt) . Rûmî è abbastanza risoluto su questo punto:

l’avversario dice (che Dio) vuole il male in ogni caso e sotto ogni aspetto. Ma è impossibile volere la cosa senza le sue pertinenze (lawâzim) (Fî-hî, p. 179).

Questo aggiunge una dimensione nuova e molto importante all’acuta distinzione tra bene e male tracciata da Rûmî, dato che significa che è impossibile stabilire il bene in maniera esclusiva e scacciare quindi il male una volta per tutte, almeno in questo mondo, e che il male ed il bene sono per loro natura così intrecciati che essi non procedono separatamente. In questo senso la posizione di Rûmî sembra molto più vicina a quella del monismo di Ibn ´Arabî ed in special modo al suo concetto di perplessità (hâ’ir), che ragiona sugli avvicendamenti senza sosta tra uno degli opposti — il bene ed il male — e l’altro e viceversa e che considera ognuno dei due, quale prerequisito indispensabile per l’altro.

Dobbiamo ora ritornare al tema principale della nostra discussione e per poter arrivare ad una conclusione in questa nostra piccola ricerca, dobbiamo rispondere alla seguente domanda: in che modo, secondo Rûmî, il male — il prerequisito indispensabile del bene —, viene esemplificato nel caso della diretta relazione etica (non ontologica) Dio-uomo, che è il caso della legge Divina, delle sue prescrizioni e delle sue proibizioni?

Negli esempi trattati sopra (il panettiere, il maestro eccetera) il male è condizione necessaria per il bene ed è rappresentato da un certo stato dell’oggetto in cui dovrà successivamente manifestarsi il bene: fame delle cose per alimentarsi, ignoranza delle cose per essere istruito. Qualcosa di simile è rintracciabile nell’essere umano in quanto tale e quando si tratta genericamente della sua relazione con Dio: la svogliatezza dell’uomo nel seguire la via del bene e la sua inclinazione nella scelta del male, richiese — per questa e solo per questa ragione — che gli fosse data la Legge. Nel suo famoso discorso Rûmî dice che nessuno definisce quale proibizione la frase «non mangiare le pietre» e parimenti dire «rifocilla il viandante» non si qualifica come prescrizione, anche se queste frasi esaminate esclusivamente da un punto di vista linguistico sono delle proibizioni (nahy) e delle prescrizioni (´amr). Esse non sono chiamate così perché non c’è nessuna difficoltà nel loro cammino di perfezionamento, perché l’essere umano potrebbe naturalmente e senza esitazione comportarsi in siffatta maniera. L’essere umano è dotato di un’anima che gli comanda di compiere cose cattive (nafs ‘ammâra bi al-sû’) (Cor. 12: 53) ed è questa anima cattiva che Dio vuole e che Egli crea per l’uomo affinché, prendendone a pretesto, Egli possa riversare su di lui i Suoi benefici influssi e condurlo verso il bene. Questo significa che lo spirito umano è un locus spiritualis (ndt) dove due domini, quello della sua propria anima incline al male e quello che viene da Dio stesso, entrano in conflitto.

Così l’essere umano nel pensiero di Rûmî ha la possibilità di scegliere liberamente tra i due domini opposti, quello di Dio e quello della sua propria anima, e di procedere quindi in entrambe le due direzioni, che gli si presentano come opzioni da scegliere.

Anche Ibn ´Arabî è concorde nel ritenere che l’essere umano sia dotato di capacità di scelta nel rispettare o meno la legge di Dio. Ma qualunque cosa egli scelga, egli sta comunque rispettando il comandamento di Dio, sebbene non sia quello che prende la forma della Legge (´amr taklîfî) bensì quello che viene detto «il comandamento creativo» (´amr takwînî). Il primo non è immediato e perciò sarebbe disubbidito, mentre il secondo è diretto ed il suo adempimento non può essere mai evitato (Fusûs, pp. 165, 97-98, 115-116).

6. Appendice: brevi cenni sul sufismo, di Alberto De Luca

L’espressione sufismo viene impiegata per rendere nelle lingue occidentali il termine arabo tasawwuf (propriamente «iniziazione»), parola che serve a designare la mystica islamica o, più esattamente, la realtà più profonda ed interiore della religione fondata sul Corano e predicata dal Profeta Muhammad.

In origine, essa era definita anche come la «scienza dell’interiore» (´ilm al-bâtin) oppure come la «scienza della realtà essenziale» (´ilm al-haqîqa).

L’etimologia del termine tasawwuf possiede, in realtà, una triplice derivazione:

  • la prima (la meno conosciuta probabilmente), vede i sûfî (coloro che seguono il sufismo) derivare il loro nome da un certo al-Gawt ibn Murra, detto sûfa, vissuto cinque generazioni prima del Profeta. Questi sarebbe stato il primo a votarsi completamente al culto esclusivo di Dio prestando servizio nel Tempio della Mecca: capostipite di un lignaggio sacerdotale, permetteva quindi l’inizio del Pellegrinaggio da ´Arafa ed i suoi discendenti — sûfa — portavano un toupet di lana per significare il loro servizio nella Ka´ba;
  • la seconda (la più frequente), implica che il termine sufismo derivi, per l’appunto, dal materiale del toupet. Esso era, infatti, fatto di lana che si rende in arabo con la parola sûf;
  • la terza, infine, fa derivare sufismo dalla parola safâ’ — «purezza» — o da suffa, con riferimento agli Ahl al-suffa, la «Gente della veranda», ossia alcuni compagni del Profeta che vivevano da asceti in un’area della moschea di Medina, dediti esclusivamente alla scienza sacra, agli atti di culto e al «ricordo di Dio» (dhikr).

Dalla parola safâ’ si può quindi già intuire la natura essenziale del sufismo: esso consiste in una Via (tarîq) — o «procedimento» (sulûk) — per pervenire alla «Prossimità del Principio divino». In questo senso, «il viandante» (sâlik) si sbarazza progressivamente di «tutto ciò che è altro che Dio» (kullu mâ siwâ ‘Llâh). È questa, infatti, la «purezza» interiore del sûfî, che Junayd al-Baghdâdî (?-910) definirà come «colui che Dio fa morire a se stesso e vivere in Lui». Quanto alla prima derivazione, essa ha in vista la fonte storica ed allude al primo esempio di sufismo ante-litteram in seno alla comunità del Profeta, quando essa era dunque ancora una realtà senza nome.

Questa succinta analisi etimologica non è certamente in grado di esaurire la discussione intorno all’origine dell’espressione, ma tutti i Maestri del sufismo sono invece concordi nel fare risalire l’origine della loro Via al Libro di Dio (il Corano), agli insegnamenti e alla pratica del Profeta (Sunna), fonti primarie di ogni insegnamento islamico tradizionale.

Non v’è, pertanto, autentico sufismo senza un’autentica adesione all’Islam.

Un’applicazione piuttosto importante discende dalle osservazioni che hanno preceduto, ossia che la Legge religiosa è l’aspetto esteriore (al-qišr, la «scorza») dell’Islam, mentre il sufismo quello interiore (al-lubb, il «nocciolo»). Quest’ultimo riconosce il proprio inizio nei ritiri d’isolamento, di digiuno e di preghiera compiuti dal Profeta nella grotta Hirâ’nei pressi della Mecca, dove egli ricevette la prima rivelazione del Corano (circa 608) per mezzo dell’arcangelo Gabriele.

È quindi il Profeta ad essere l’archetipo ed il prototipo dello stesso sufismo. Il fatto paradigmatico è, appunto, la sua ascensione celeste fino al Trono di Dio dove ha la visione del Suo volto glorioso di luce, episodio che accade qualche anno prima dell’Egira. Nel Profeta risiede, pertanto, il fondamento delle discipline spirituali dei Maestri, nonché la scienza degli stati interiori (ahwâl) e delle stazioni della Via (maqâmât). È dal Profeta che ogni Via spirituale ha inizio, con la trasmissione delle sua baraka («influenza spirituale») trasmessa mediante un solenne Patto di alleanza lungo linee di Maestri, che risalgono a lui attraverso alcuni compagni, primo fra tutti il genero e cugino ´Alî a cui si ricollegano la maggior parte delle linee iniziatiche (salâsil, pl. di silsila) delle turuq (pl. di tarîqa), le confraternite del sufismo.

Questa trasmissione da maestro a discepolo in ambito iniziatico si è svolta in modo parallelo a quello della trasmissione delle tradizioni profetiche (hadîth) per quel che concerne la scienza canonica dell’Islam, ma la sua natura riservata le ha conferito, specialmente nei primi tempi, una maggior discrezione tanto da far persino dubitare alcuni della sua effettiva esistenza. La tradizione conserva comunque testimonianze inconfutabili sulla sua presenza fin dalla prima ora, come l’insegnamento di ´Alî al discepolo Kumayl, o le riunioni private di Hasan al-Basrî (642-728) sulla «scienza esoterica».

Nei primi due secoli le figure spirituali emergenti sono quelle di asceti (zuhhâd) che disprezzano il mondo e le sue delizie, interamente dediti a mortificare la loro anima carnale, ad osservare uno scrupolo rigoroso sulla liceità di tutto quel che viene loro da questo «basso mondo», timorosi del loro destino postumo e desiderosi del compiacimento divino.

Un cambiamento sostanziale avviene nel III secolo e coincide con l’affermarsi dei termini sûfî e del collettivo sûfiyya, per designare la gente della Via, specialmente quella della scuola di Baghdad, nuova capitale del califfato abbaside.

In quest’epoca di grande fermento intellettuale e di elaborazione minuziosa di tutto il sapere islamico anche la spiritualità si ammanta di una veste adeguata alle nuove situazioni cui andava incontro una società certo più sofisticata, ma impoverita rispetto alla purezza primordiale delle origini: la cultura del deserto aveva ceduto il passo a quella urbana della metropoli.

Junayd al-Baghdâdî e Husain ibn Mansûr Hallâj (giustiziato a Baghdad nel 922) — rappresentanti emblematici delle due correnti fondamentali del sufismo, quella «sobria» e intellettuale e quella «estatica» e passionale — sono due figure chiavi di quest’epoca. Il primo per la sua elaborazione dottrinale della scienza del Tawhîd (l’«Unicità divina», ma anche l’unione dell’iniziato con la Realtà suprema), base di ogni successivo sviluppo dottrinale di ordine metafisico; il secondo per il carattere provocatorio e paradossale delle sue enunciazioni (le shatahât, o «locuzioni teopatiche»), famosa fra tutte la frase Anâ-l-Haqq, «io sono il Vero» cioè Dio, che lo porterà al patibolo.

Il paradosso dell’«Identità suprema» — dal momento che l’essere possibile è da sempre e per sempre distinto dall’Essere necessario — non sarà mai compreso dai dottori della Legge ed è proprio al-Hallâj a segnare il solco che vede il sufismo definitivamente contrapposto ai depositari della saggezza interiore. Non si tratta, beninteso, di una reale contrapposizione fra esoterismo ed exoterismo, piuttosto solo dell’ostilità di una certa classe di rappresentanti dell’aspetto più letteralista dell’Islam. Questo, però, indurrà nei Maestri del sufismo una maggiore necessità di giustificare le loro dottrine e le loro pratiche agli occhi della Sharî´a.

La sintesi perfetta fra queste diverse componenti della Rivelazione muhammadiana viene, alla fine, raggiunta da Abû Hâmid al-Ghazâlî (1058-1111), autore del notissimo Ihyâ’ ´ulûm al-dîn (la «Rivificazione delle scienze religiose»), che contribuisce in modo notevole a ristabilire una sorta di tregua fra le parti e ad allontanare dal sufismo il sospetto di eresia. Di poco posteriore è anche l’istituzionalizzazione dei legami e delle norme che regolano il rapporto fra maestro (šaykh) e discepolo (murîd): è la nascita vera e propria delle «confraternite» (turuq) del sufismo quali oggi le conosciamo, prima fra tutte la Qâdiriyya, che viene fatta risalire al santo di Baghdad ´Abd al-Qâdir al-Jîlânî (1078-1166).

L’inventario tassonomico di queste turuq è alquanto lungo, ma la maggior parte può essere facilmente ricondotta a una delle linee spirituali primarie in cui va ad innestarsi come il ramo nel tronco: la già menzionata Qâdiriyya, la Suhrawardiyya, la Shâdhiliyya, la Rifâ´iyya, la Kubrawiyya, la Mawlawiyya, la Naqshbandiyya, la Khalwatiyya, la Chistiyya e la Tijâniyya, nomi che indicano la filiazione (nisba) di ciascuna di esse dal rispettivo santo fondatore.

Nell’Islam, tuttavia, va ricordato che il fatto istituzionale delle confraternite è un elemento puramente accidentale; l’essenziale è costituito dal ricollegamento a una linea ininterrotta di Maestri. Se questo ricollegamento, a partire dal XIII secolo, si è dato la struttura formale delle confraternite, ciò è avvenuto al fine di assicurare alla società islamica in modo capillare un tessuto connettivo con il suo cuore spirituale.

La sfera del sufismo coincide con quella della santità (in arabo walâya), ma il diverso clima spirituale conferisce a questa nozione una coloritura diversa da quella che la santità assume nel contesto cristiano. Può essere, infatti, utile ricordare come la nozione cristiana di santità sia espressa in arabo dal termine qadâsa e non da walâya. Il santo, per i musulmani, è più esattamente l’«amico» (walî) di Dio ovvero colui che gli è vicino. Non a caso è attorno alla nozione di «vicinanza» (qurb) che una tradizione santa, comunicata da Dio tramite il Profeta, definisce quanto vi è di essenziale nella via del sufismo:

Il Mio servo non si avvicina a Me con nulla di meglio di quel che Io gli ho reso obbligatorio. Ed egli non cessa di avvicinarsi a Me con le opere supererogatorie fino a quando Io l’amo, e quando Io l’amo, sono Io l’udito col quale sente, la vista con cui vede, la mano con cui afferra, il piede con cui cammina; e se Mi domanderà, gli concederò; e se si rifugerà presso di Me, gli concederò rifugio.

La chiave interpretativa di questo processo è il cuore (qalb), che funge contemporaneamente da centro dell’essere e da organo sottile, incaricato di presiedere alla conoscenza contemplativa, ossia diretta e intuitiva delle realtà trascendenti e di Dio stesso, il quale è lo scopo ultimo della Via, vale a dire il sufismo.

Il cuore è l’intermediario fra l’anima (nafs) e lo spirito (rûh): la prima è solitamente intesa come anima inferiore e sede dell’egoità e delle passioni, mentre il secondo è l’elemento sopraindividuale dell’essere, il quale permette all’uomo di ritornare alla sua origine trascendente. Questo è del resto affermato dal Corano che alla Sura 15: 28-29 così si esprime:

E quando il Tuo Signore disse agli angeli […] Io vado a creare un uomo; poi, quando l’avrò ben formato e avrò insufflato in lui del Mio spirito, gettatevi prosternati davanti a lui.

Dalla purezza o corruzione del cuore dipende, in definitiva, l’esito del destino postumo e della realizzazione spirituale del credente musulmano, conformemente alla parola del Profeta:

Vi è nel corpo un piccolo pezzo di carne: se esso è (spiritualmente) sano tutto l’essere è sano e se è corrotto tutto l’essere è corrotto e questo è il cuore.

La via comporta pertanto necessariamente due fasi. Quella purgativa, in cui ci si sbarazza di tutti gli attaccamenti e le passioni purificando la propria anima (tazkiyyat al-nafs), conformemente al versetto:

prospererà colui che si purifica (tazakka), glorifica il nome del suo Signore e prega. (Cor., 87: 14-15)

Questo è il momento della mujâhada, lo «sforzo» contro le tendenze oscure e centrifughe della nostra individualità, chiamata anche al-jihâd al-akbar, la «grande guerra santa». In seguito, avviene la «lucidatura del cuore» (tasfiyat al-qalb) affinché in esso si rispecchino le realtà superiori ed angeliche e le illuminazioni dominicali. A partire da questo momento ha inizio la fase contemplativa o mushâhada, che realizza la sua pienezza nelle stazioni della conoscenza, dell’estinzione, della permanenza, della sintesi e, infine, dell’unificazione.

Interrogato sul sufismo, Shiblî (861-945) rispose: «il suo inizio è la Gnosi (ma’rifa) e il suo fine è l’Identità suprema (tawhîd)». All’inizio vi è il Tawhîd della professione di fede — Lâ ilâha illa ‘Llâh, «non vi è divinità se non Dio» —, al termine vi è il Tawhîd che solo l’Essere divino fa di se stesso: solo quando l’essere contingente è «estinto» (fanâ’) a se stesso e reso «permanente» (baqâ’) attraverso Lui può contemplare che, nell’unità divina, non vi è altri che Lui a proclamare la sua unità.

Proprio in questo senso, ´Abd Allâh al-Ansârî (1006-1089) dirà:

l’Unità dell’Unico nessuno l’afferma: chiunque l’affermi la nega. L’affermazione dell’Unità, in chi parla di tale Sua qualità, è vano discorso che l’Unico annienta. L’affermazione della Sua Unità a Se stesso è l’affermazione vera della Sua Unità.

Molto sinteticamente, la religione (al-dîn), come sarà definita dal Profeta in una famosa tradizione, è strutturata in tre gradi: l’islam (la «sottomissione»), che consiste nella pratica dei cinque pilastri noti; l’îmân (la «fede»), che è l’adesione del cuore alle verità rivelate; e infine l’ihsân (la «perfezione») — l’essenza del sufismo —, che nelle parole dello stesso Profeta consiste «nell’adorare Dio come se tu Lo vedessi», dove non s’intende certo una semplice attitudine psicologica.

In altre parole, si tratta dei tre gradi della Legge (sharî´a), della Via (tarîqa) e della Verità essenziale (haqîqa).

Già all’inizio si è detto che il modello del sufismo è mutuato dalla pratica del Profeta e dall’esempio di vita ascetica, cui erano dediti alcuni dei suoi compagni di elezione. La vita austera e la rinuncia al mondo, quindi, hanno sempre caratterizzato le «genti (della Via)» (al-qawm), comunemente chiamati «i poveri» (al-fuqarâ’), benché questa povertà corrisponda in certi casi solo a un distacco interiore e non sia sempre necessariamente accompagnata anche da una effettiva indigenza di ordine materiale. Per Abû l-Husayn al-Nûrî (c. 840-907), infatti, il sufi è «colui che non possiede nulla e da nulla è posseduto». A partire da Tustarî (818-896), fondamentali elementi della Via vengono considerati il silenzio, la solitudine, la fame e la veglia, elementi che verranno tutti condensati nella pratica del «ritiro cellulare» (khalwa) compiuto sotto la guida e la sorveglianza di un maestro esperto. Questo ritiro — che può essere ripetuto più volte — non deve però mai superare il periodo massimo di quaranta giorni (anche se ripetibile). A questi ritiri non accedono comunque che i discepoli che hanno già compiuto dei progressi sulla Via, in assenza dei quali una tale pratica potrebbe risultare pericolosa, se non addirittura nociva. Tutti, indistintamente, sono invece tenuti a recitare quotidianamente, ad ore stabilite e per uno specifico numero di volte, le orazioni dell’ordine: è la pratica del wird (il «rosario»), che consiste in una serie di formule sacre quali, per esempio, la «richiesta di perdono», la «preghiera sul Profeta» e la «professione di fede».

Oltre a queste formule, il discepolo sarà istradato a praticare per quanto possibile il dhikr, l’«invocazione» o «ricordo di Dio», mediante uno dei suoi nomi o con la «professione di fede» (Lâ ilâha illa ‘Llâh), ma potrebbe anche utilizzare una delle numerose formule della «preghiera sul Profeta» in ottemperanza all’ordine divino di pregare per lui (cfr. Cor., 33: 56) e alla tradizione profetica in base alla quale i più vicini a lui nel Paradiso saranno coloro, che più hanno pregato per lui in questo mondo.

Il dhikr, come la «preghiera del Cuore» del cristianesimo esicasta ed il japa induista, è la pratica principale di tutto il sufismo, la chiave che — unitamente all’osservanza scrupolosa della Legge e alla sincerità d’intento — apre la porta del cuore, tempio interiore della presenza divina conformemente alla santa tradizione:

i cieli e la terra non Mi contengono, ma Mi contiene il cuore del Mio servitore fedele.

Personalità illustri del sufismo hanno contribuito in modo considerevole allo sviluppo e alla grandezza della civiltà islamica; molti sono stati dottori della Legge, letterati, poeti, calligrafi, uomini di stato e guerrieri, ma soprattutto si sono distinti per avere dato luogo a una vasta letteratura spirituale, di grande profondità e bellezza espressiva, uno dei monumenti del genio umano di ogni tempo e luogo che solo la stoltezza ed ottusità di certi uomini può misconoscere.

La loro dottrina, oltre agli aspetti più tecnici concernenti le modalità del viaggio iniziatico, i suoi mezzi, le condizioni, le tappe e gli stati di realizzazione, ruota attorno essenzialmente all’esposizione in chiave metafisica e iniziatica del pilastro centrale della religione, ossia la duplice testimonianza di fede: da un lato quella già menzionata e concernente l’unicità divina — il Tawhîd, appunto — e dall’altro quella relativa alla missione legiferante del Profeta, la Risâla, a partire dalla quale è stata sviluppata anche tutta la dottrina concernente la santità.

L’approccio a questi «due temi» verrà svolto a partire dalle due tendenze fondamentali, quella «gnostica» e quella «passionale», già riscontrate nelle persone di Junayd e di Hallâj, veri precursori di questi due aspetti della dottrina.

L’apice e, si potrebbe dire, la fioritura perfetta della letteratura iniziatica rappresentata da queste due «scuole spirituali» si ha, però, attorno al XIII secolo e due ne sono i protagonisti: il primo è l’andaluso Muhyî ad-Dîn ibn ´Arabî (1165-1240), propugnatore della wahdat al-wujûd (la dottrina dell’essenziale unicità dell’Essere, la cui definizione terminologica, così come oggi viene usata, va ascritta al suo discepolo più profondo, Qunawî) e autore delle monumentali Futûhât al-makkiyya e dei Fusûsal-hikam; il secondo è l’anatolico Jalâlu-l-Dîn Rûmî (1207-1273), cantore dell’inesprimibile splendore divino e autore del celebre Mathnâwî.

Sarà, tuttavia, soprattutto Ibn ´Arabî a influenzare col suo poderoso pensiero la gran parte delle successive generazioni di spirituali musulmani; perfino quelli che gli saranno ostili o esprimeranno delle riserve nei suoi confronti non potranno fare a meno di riconoscere il tributo dovuto alla sua opera, che gli è valsa l’appellativo di al-Šaykh al-Akbar, «il più Grande dei Maestri» (o anche se si vuole «il Sommo Maestro»).

L’approccio diretto ai suoi scritti rimane in ogni caso appannaggio di un’élite; sia per la loro mole, sia per la difficoltà e la complessità della sua dottrina, infatti, sono pochi quelli in grado di poterla padroneggiare con sufficiente competenza. Ciò non ha comunque impedito che una eco dei temi e delle nozioni ricorrenti si sia diffuso a livelli quasi popolari, non di rado con delle semplificazioni e distorsioni che hanno allarmato sia i dottori dell’esteriore sia i Maestri del sufismo. Non va, infine, nemmeno taciuto il pericolo di una certa «scolastica akbariana» nel suo senso più deteriore.

Tutto questo può dare un’idea della penetrazione del sufismo nella società islamica. Benché destinato a una cerchia ristretta e tale sia rimasto per un lungo periodo di tempo, con la nascita delle confraternite esso ha permeato e chiamato a sé grandi folle di fedeli. Alcune delle turuq principali contano al giorno d’oggi centinaia di migliaia di affiliati — talvolta persino diversi milioni — sparsi in tutto il mondo.

Una propagazione di tale ampiezza si giustifica come una forma estrema di partecipazione spirituale all’irraggiamento della luce profetica, ma essa comporta anche, necessariamente, una progressiva e sempre più gerarchizzata struttura all’interno delle turuq medesime. In tal modo, infatti, la cerchia più interna di ciascuna tarîqa tiene al riparo da ogni volgarizzazione il cuore della dottrina e ne impedisce la divulgazione impropria, compito non secondario ma anzi vitale.

Nel secolo appena trascorso, a partire soprattutto dalla seconda metà, il sufismo ha cominciato a penetrare anche in Occidente, e non solo attraverso il fenomeno dell’immigrazione, bensì fra gli stessi europei e americani che hanno aderito all’Islam.

Francia e Svizzera hanno ospitato i primi «germogli» di questa forma di spiritualità. Un indubbio contributo alla sua penetrazione è venuto, in origine, dall’opera del francese René Guénon (1886-1951), anche se sarebbe forse più corretto dire che più che le sue opere pubblicate, centrate attorno alla nozione dell’unità essenziale e dell’origine unica e primordiale di tutte le forme tradizionali, hanno contribuito le più discrete indicazioni del suo epistolario e l’esempio della sua adesione personale. Al Cairo, dove vive senza più lasciarlo gli ultimi venti anni della sua vita, è noto col nome di Šaykh Abdel-Wâhid Yahyâ ed egli stesso è ricollegato, attraverso il pittore svedese John Gustav Aguelii — Abdul Hâdî (1869-1917) è il nome musulmano di quest’ultimo —, all’importante Maestro shâdhilita ´Abd al-Rahmân ‘Illaysh al-Kabîr (c. 1845-1922), a cui dedica tra l’altro il suo Symbolisme de la Croix.

A partire da Guénon, formata sulla sua opera, nasce tutta una generazione di «intellettuali» europei, primi in ordine di tempo i suoi amici, collaboratori e corrispondenti. Uno di costoro, l’alsaziano Frithjof Schuon (1907-1998), noto anche come Šaykh ‘Aïssa Nureddin, fonda a Losanna — nel 1934 — la prima branca europea di una tarîqa, la Shâdhiliyya-’Alawiyya dello Šaykh Ahmad al-’Alawî di Mostaganem (1869-1934), ma è anche risaputo che egli si sia progressivamente allontanato tanto dalla cosiddetta «ortodossia guénoniana» che da quella islamica tout-court con gravi fratture nell’ordine da lui fondato e col suo trasferimento a Bloomington (Indiana, USA), attorno agli anni 1980, la vicenda è andata vieppiù degenerando.

Arrivati a questo punto, si è ritenuto utile presentare anche una piccola bibliografica ragionata sul sufismo, divisa in opere del sufismo e sul sufismo: le prime sono traduzioni in lingua italiana di testi scritti da Maestri del sufismo, mentre le seconde sono costituite da studi sul sufismo e per questo non necessariamente compiuti da Maestri. Nella redazione di questa bibliografia non si è seguito, in ogni caso, alcun criterio cronologico né con riferimento agli autori e nemmeno alle date di edizione degli stessi testi.

6.1. Opere del Sufismo

  • Scritti scelti di al-Ghazâlî, a cura di Laura Veccia Vaglieri e Roberto Rubinacci, UTET, Torino, 1970
  • Al-Ghazâlî, La nicchia delle luci, Tea, Torino, 1970
  • Al-Ghazâlî, Lettera al discepolo (O figlio contenuta all’interno degli Scritti scelti), Sellerio, Palermo, 1992
  • Al-Ghazâlî, L’unicità divina e l’abbandono fiducioso, Il Cerchio, Rimini, 1995
  • Al-Ghazâlî, Il concerto mistico e l’estasi, Il Leone verde, Torino, 1999
  • Al-Ghazâlî, L’inizio della retta guida, S. I. T. I, Trieste, 1989
  • Al-Ghazâlî, La perla preziosa, Mimesis, Milano, 1992
  • Al-Ghazâlî, Il libro della meditazione, S. I. T. I, Trieste, 1988
  • Al-Ghazâlî, Le perle del Corano, Rizzoli, Milano, 2000
  • ´Abd el-Kader, Il libro delle soste, Bompiani, Milano, 2001
  • Al ´Arabî al-Darqâwî, Lettere di un maestro sufi, SE, Milano, 1997
  • Al Hallâj, Diwan, Marietti, Genova, 1987
  • Al-Jilani, Il segreto dei segreti, L’Ottava, Catania, 1992
  • al-Jili, L’uomo Universale, Mediterranee, Roma, 1975
  • al-Qushayrî, Trattato sulla scienza del sufismo, trad. parziale in G. Scattolin, Esperienze mistiche nell’Islam. Secoli X e XI, EMI, Bologna, 1996
  • ash-Sha’rani, Il libro dei doni, Istituto Orientale di Napoli, Napoli, 1972
  • ash-Sha’rani, Vite e detti di santi musulmani, Tea, Milano, 1988
  • As-Sulami, Il libro della cavalleria, Atanor, Roma, 1990
  • As-Sulami, Le malattie dell’anima e i loro rimedi, Pizeta, Milano, 1999
  • Al-Yafi’i, Il giardino dei fiori odorosi, Istituto per l’Oriente, Roma, 1965
  • Farid ad-Din Attar, Il verbo degli uccelli, SE, Milano, 1986
  • Farid ad-Din Attar, Parole di sufi, Luni, Milano, 1994
  • Ibn al-’Arif, Sedute mistiche, L’Ottava, Catania, 1995
  • Ibn´Arabî, La sapienza dei profeti, Mediterranee, Roma, 1987
  • Ibn´Arabî, L’alchimia della felicità, RED, Como, 1996
  • Ibn´Arabî, Il libro dell’estinzione nella contemplazione, SE, Milano, 1996
  • Ibn´Arabî, L’epistola dei settanta veli, Voland, Roma, 1997
  • Ibn´Arabî, Il nodo del sagace, Mimesis, Milano, 2000
  • Ibn´Arabî, Il mistero dei custodi del mondo, Il Leone Verde, Torino, 2001
  • Ibn ‘Ata Allâh, Sentenze e colloquio mistico, Adelphi, Milano, 1981
  • Jami, La perla magnifica, Istituto Orientale di Napoli, Napoli, 1981
  • Jami, Frammenti di luce, Psiche, Torino, 1998
  • Rumi, Poesie mistiche, Rizzoli, Milano, 1980
  • Rumi, Il libro delle profondità interiori, Luni, Milano, 1996
  • Rumi, Canzoni d’amore per Dio, Gribaudi, Torino, 1991
  • Rumi, Canzoniere, Semar, Roma, 2000
  • Rumi, Il canto dello spirito. Aneddoti dal Mathnawi, Mimesis, Milano, 2000
  • Abu ´Abd ar-Rahman Sulami, I custodi del segreto, Luni, Milano, 1997
  • Abu ´Abd ar-Rahman Sulami, Introduzione al sufismo, Il Leone Verde, Torino, 2002
  • Ibn Sab’in, Le questioni siciliane, Officina Studi Medievali, Palermo, 2002
  • Kalâbâdhî, Il sufismo nelle parole degli antichi, Officina Studi Medievali, Palermo, 2002
  • Al-Qâshânî, La domanda essenziale, Il Leone Verde, Torino, 2001
  • Al-Qâysarî, La scienza iniziatica, Il Leone Verde, Torino, 2003
  • Ibn Hazm, Il collare della colomba, ES, Milano, 1996

6.2. Opere sul Sufismo

  • Seyyed Hossein Nasr, Il Sufismo, Rusconi, Milano, 1975
  • S. H. Nasr, Ideali e Realtà dell’Islam, Rusconi, Milano, 1977
  • Alberto Ventura, L’Esoterismo islamico, Atanor, Roma, 1981
  • Titus Burckhardt, Introduzione alle dottrine esoteriche dell’Islam, Mediterranee, Roma, 1979
  • Marijan Molé, I mistici musulmani, Adelphi, Milano, 1992
  • Eva de Vitray-Meyerovitch, I mistici dell’Islam, Guanda, Parma, 1991
  • G. Anawati / L. Gardet, Mistica islamica, aspetti e tendenze, esperienze e tecniche, SEI, Torino, 1960
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  1. Andrey Smirnov utilizza sovente la locuzione «filosofo mistico» oppure «filosofia mistica» per riferersi ad Ibn ´Arabî. Se la cosa può suscitare un certo scalpore, essa non è in definitiva così ardita. A favore di questa locuzione che appare quantomeno inusuale in Italia, c’è la parte finale della corrispondenza Qunawi-Tusi. Per maggior chiarezza riportiamo il brano in arabo e la traduzione:

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    «In modo analogo, a colui che conquista la stazione della «certezza di visione», dopo che ha superato il livello della scienza certa, incombe il desiderio di raggiungere la «certezza reale», la quale annovera tra i suoi statuti anche quello dello studio per riunire assieme ciò che risulta dalla dimostrazione e ciò che è frutto della visione diretta. Questa è una delle ragioni determinanti per eseguire questa «cordatura»; [si è preferito «cordatura» perché in un certo senso richiama agli incroci tra le venature multicolore della decorazione], e per la preponderanza dell’audacia di avventurarsi in ciò dopo la rinuncia, nella speranza del successo in questo intento. E la pace [sia con voi].» La frase evidenziata è quanto si reputa essere una prova molto solida per poter parlare, assieme a Smirnov, di «filosofia mistica»: come ben si può vedere quando si parla di «filosofia mistica», non si ha in mente la «polemos» quanto invece la sublimazione della visione diretta con la speculazione intellettiva (ndt).


  1. Ibn ´Arabî, Fusûs al-Hikam, Dâr al-kitâb, Beirut, 1980, p. 112. ↩︎

  2. Ibn ´Arabî, Fusûs al-Hikam, Dâr al-kitâb, Beirut, 1980, p. 72. ↩︎

  3. Del resto Smirnov usa nello studio sulla Hayra la parola inglese «whirlpool», che in italiano è «vortice» oppure anche «mulinello». ↩︎

  4. In senso stretto è l’atto di fede con cui si afferma che Dio è Uno ed Unico (wâhîd). Potendo sintetizzare al massimo, esso è il puro monoteismo. Per i musulmani esso è espresso magnificamente nella prima parte della Professione di Fede: lâ ilâha illâ llâh («non c’è divinità al di fuori di Dio»). Vista l’ampiezza della tematica, che sarà anche affrontata nel proseguio della prefazione da Smirnov, a titolo introduttivo si rimanda comunque all’Encyclopaedia of Islam, «tawhîd» (ndt). ↩︎

  5. Valga solo come introduzione alla vita di questo grande Maestro l’invito a consultare Encyclopaedia of Islam alla voce «Ibn ´Arabî». Le opere di traduzione delle sue opere come quelle di carattere biografico sono innumerevoli, alcune decisamente ottime altre più discrete, tanto da scoraggiare il traduttore a proporne un elenco, per il timore che quest’ultimo possa risultare fortemente lacunoso (ndt). ↩︎

  6. Al-Šaykh al-Akbar, in italiano «il più grande Maestro», è il titolo con il quale Ibn ´Arabî viene ricordato nel mondo musulmano e non solo (ndt). ↩︎

  7. La relazione zâhir e bâtin è connessa al discorso sugli universali e coinvolge nel discorso il concetto di alshay’ che tra breve si incontrerà. Ora, l’universale possiede fondamentalmente due valori che sono logici solo astrattamente: la cosa-per-sé — valore assoluto — e la cosa-in-sé — valore generale. In più a quanto ora detto, l’universale è considerabile anche per il suo valore in quanto né comune e nemmeno speciale. Quest’ultimo valore è assimilabile a quello assoluto, implicando però una relatività in sé: fondamentalmente esso è quindi a-logico (ndt). ↩︎

  8. È la creazione del mondo naturale, ovvero un atto di creazione che ha luogo attraverso la materia ed il tempo e che presuppone quindi una causa prima. Essa viene contrapposta alla creazione dall’inesistenza (ibda’) (ndt). ↩︎

  9. Bashier S.H., Ibn al-´Arabî’s Barzakh. The Concept of the Limit and the Relationship between God and the World, Albany: SUNY Press, 2004. ↩︎

  10. Alhaqîqa è propriamente realtà, essenza, verità. Nella mystica musulmana costituisce la realtà profonda che solo l’esperienza dell’unione con Dio rende possibile. Interessante ed importante è pertanto la relazione che esiste tra la creatura umana e alhaqîqa, laddove il primo, in base alla visione musulmana, è rigorosamente abd, «servo», del Reale. Affrontando senza indugi la questione, si può affermare che nell’esistenza attuale del Reale (fî wujûd al-haqq), non appartiene al servo altro che la determinazione logica d’essere (hukm), non l’essenza concreta (ÿayn). Nell’esistenza nella sua attualità, che è esclusivamente della Realtà divina o identica ad essa, si può dire di un suo aspetto che è «il servo», perché esiste una relazione intelligibile per la quale un certo aspetto è «determinato» (c’è un hukm) come «servo» rispetto ad un altro, ma esso non è «effettivamente» servo, cioè dipendente in tutto e per tutto. Questo è vero perché siamo nel dominio dell’attualità dell’esistenza, che non distingue di per sé, in quanto atto universale, tra le «entità». L’aspetto di servo non può riguardare l’esistenza reale in sé bensì le relazioni specifiche dei Nomi correlati con un loro oggetto. Con altre parole, ciò che conta nel manifestarsi sono le energie divine (ëu’ûn) corrispondenti ai Nomi, che fondano le «individualizzazioni» (aÿyân) nella Scienza divina ab intra, tra cui intercedono relazioni. Quest’ultime non sono esistenti di per sé (sono un ens rationis) e non si manifestano concretamente, se non grazie alle «individualizzazioni» concrete ab extra che ne rappresentano gli estremi tra cui esse intercorrono. Esiste poi una «relazione» particolare tra Scienza divina e Principio, laddove nella prima si ritrova la relazione tra individualizzazione concreta ed intelligibile, mentre al secondo, in veste di datore dell’esistenza, si attribuisce una «individualizzazione» sui generis nel contesto delle relazioni. Astraendo da siffatta relazione tra Scienza divina e Principio, si può anche dire che il «servo», in quanto carattere intelligibile nel contesto dell’Esistenza vera e attuale, ha una dimensione di coestensività (è un trascendentale) quanto all’essere o esistenza. In questo senso, esso non ha «privazione» e l’unica cosa che lo caratterizza logicamente è l’esser necessario per altro da sé (wâjib biÈayrihi). In quanto essenza concreta, dal punto di vista dell’esistenza attuale o non esiste, perché le «individualizzazioni» immanifeste restano sempre «inesistenti» oppure esiste effettivamente ed allora in questo è vero e reale, per l’Esistenza reale. L’argomento è di enorme importanza e segnala indubbiamente alcune similitudini con la teologia cristiana orientale, che forse andrebbero prese in considerazione. Cfr. The Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1999 (ndt). ↩︎

  11. Plurale di ´ayn, significa fondamentalmente occhio, ossia l’organo della vista. In ambito filosofico il plurale di questo termine denota più precisamente le cose particolari che vengono percepite nel mondo esteriore. Una traduzione valida di questo termine è, quindi, «le cose in quanto tali» (ndt). ↩︎

  12. Questo è il motivo per cui le formulazioni del pensiero akbariano non possono essere qualificate come panteismo, almeno nel senso normale di questo termine. ↩︎

  13. Esiste un trattato interessante di al-Qaysarî, intitolato nihâyat albayân fî dirâyat alzamân («La fine dell’esposizione circa la conoscenza del tempo»), che affronta direttamente la questione problematica e rischiosa del tempo. Tenuto conto non solo di quanto quest’ultimo espone, ma anche di quanto lo stesso Aristotele disse a suo tempo, si ritiene, potenzialmente sbagliando s’intende, che la nostra percezione del tempo, in quanto esseri umani, sia profondamente illusoria e finanche inconsistente. In realtà, infatti, il numero del movimento (arithmos kinêseôs) secondo l’anterioreposteriore (come esposto da Aristotele in Phys, IV, 11, 219b 1-2) quantifica il susseguirsi delle creazioni, in forza del fatto che Dio è ad ogni momento all’opera, ossia che la creazione stessa muta di istante in istante. Il tempo, in cui noi siamo gettati, sarebbe quindi l’indice esponenziale della serie delle creazioni di Dio, che in definitiva ha senso solo per Lui (ndt). ↩︎

  14. Questa traduzione dall’inglese è stata enormemente facilitata dalla consultazione via internet di questo che fu l’intervento di Andrey Smirnov a Torino al Convegno «Sufismo e confraternite nell’Islam contemporaneo» presso la Fondazione Giovanni Anelli nel 2003 (a cura di Marietta Stepanyants). Esiste quindi già una ottima traduzione italiana e la presente non può che esserne debitrice (ndt). ↩︎

  15. Da questo deriva al-wâhidiyya, che è un nome relativo. In ambito filosofico indica l’assenza di divisione nelle particolarità (juz’iyyât), di ciò che è necessario per la sua essenza. Generalmente, i filosofi indicano l’indivisibilità in parti (ajzâ’) del necessario per sua essenza con il termine di ahadiyya, e la sua indivisibilità nelle particolarità (juz’iyyât) col termine di wâhidiyya, e spesso dicono di esso che non ha una «causa iniziale» (sabab minhu), così come parlano della sua autosufficienza (’adam alihtiyâj), ossia rispetto all’agente, al fine, al luogo ed alla materia, dicendo che esso non ha «causa» efficiente (sabab), «ciò causa per cui» (sabab lahu), «ciò causa in cui» (sabab fîhi) e «ciò causa da cui» (sabab ‘anhu). Le parti in cui si nega che si suddivida sarebbero elementi costitutivi di un tutto, in senso sia reale che concettuale; le particolarità elementi dell’essere che presentano un rapporto tuttoparte, e in questo senso qualsiasi qualità particolare risulta coestensiva a quell’essere stesso, e si può dire che quell’essere qualificato in tal modo speciale è identico a quell’essere qualificato in un altro modo speciale. La ahadiyya sarà l’unità in sé, la wâhidiyya l’unità per sé. Per il sufismo il termine designa, invece, un luogo teofanico (majlâ) in cui l’Essenza si manifesta come attributo e l’attributo come Essenza. Ogni cosa, quindi, di ciò in cui si manifesta l’Essenza nella determinazione d’essere in ragione (hukm) della wâhidiyya, è identica all’altra, ma per l’aspetto della teofania dell’Unicità (attajallî alwâhidî), non per quello del dare a ciascun avente diritto ciò che propriamente gli spetta, che sarebbe la teofania della Divinità o rapporto di Divinità, funzione divina (attajallî alilâhî). ↩︎

  16. Il termine al-ahadiyya è sostanzialmente un nome relativo. Filosoficamente parlando, denota la non divisibilità in parti del necessario per se stesso, senso che è presente anche nel termine wâhidiyya. Nel sufismo è il grado designante la duplice emanazione (fay¼ân) delle entità e delle loro predisposizioni, in primis nella Presenza della Scienza (ÿilmiyya) ed in secondo luogo della loro esistenza e delle loro perfezioni in atto nella Presenza della realtà esterna (ÿayniyya). Esso è il primo (aqdam) dei gradi della natura divina (alilâhiyya), e nonostante essa sia tutta intera in esistenza allo stesso modo, tuttavia l’intelletto attribuisce ad una certa sua parte la priorità rispetto ad un’altra, come la Vita rispetto alla Scienza, e la Scienza rispetto alla Volontà, e così via. Non esiste tra gli esseri (akwân), per la teofania dell’ahadiyya, un luogo di manifestazione più perfetto di te stesso, quando ti immergi in te stesso (fî dâtika) e dimentichi gli aspetti in cui tu puoi essere considerato, e ti allontani con te in te dai tuoi pensieri (stati mentali): allora tu sei in «te» (anta fî anta) senza che tu possa riferire a te qualcosa di ciò che ti spetta degli attributi di realtà come principio, oppure che è tuo dei caratteri di creatura. Questa particolare situazione propria dell’uomo è il più perfetto luogo di manifestazione per la ahadiyya in mezzo agli esseri del mondo. La ahadiyya è l’inizio del manifestarsi dell’Essenza, ed è impossibile che la creatura ne assuma la qualificazione perché quella significa la semplicità (îirâfa) dell’Essenza al di là del rapporto come principio reale e come creatura, mentre al «servo» è attribuita la qualità di creatura, e quindi non c’è modo che questo avvenga (ndt). ↩︎

  17. Is. 11,16. ↩︎

  18. Questo punto è estremamente difficile da interpretare. Da una parte il singolo abbisogna della Verità, che deve ritenere indubitabile affinché egli possa uniformarvisi come ad un modello per la propria condotta etico-morale. Dall’altra parte, però, è anche vero che questa necessità del singolo urta con la medesima necessità di un altro singolo, dal quale differisce quanto a forma. Il problema è pertanto quello che l’Illuminismo ha certamente cercato di affrontare in buona fede anche, ma che sostanzialmente non ha risolto. Il nervo scoperto è costituito, quindi, dalla Verità stessa: è essa stessa unica quanto ad essenza e a forma, oppure è unica essenzialmente variando invece con riferimento alla propria manifestazione? Se passa la visione di una sola Verità con varie manifestazioni, si potrebbe definire, senza arrivare a forzature, la verità del singolo quale «relativamente assoluta». Personalmente, questa è una soluzione che convince e che non è assolutamente un’apertura al relativismo (ndt). ↩︎

  19. Se si vuole vedere un esempio di tale uso, si consulti Muhyî ad-Dîn ibn ´Arabî, Al-futûhât al-makkiyya (Rivelazioni o Conquiste meccane), vol. 4, Dâr sâdir, Beirut, senza data, p. 491. ↩︎

  20. Il discorso sull’essere umano quale imago Dei è ampiamente sviluppato nel Cristianesimo, che lo prevede «accompagnato» dal concetto di similitudo Dei. Il primo parrebbe definibile quale «stato potenziale» da cui giungere ad uno «stato attuato». Rimane, però, non solo l’insensatezza in assoluto di un simile discorso, ma anche la cifra dell’irraggiungibilità dell’essere-Dio. Tali osservazioni hanno, invece, una sensatezza ed una propedeuticità quando sono intese come tali, ovvero indicazioni di un modello da perseguire ben sapendo che il suo raggiungimento sarà comunque impedito (ndt). ↩︎

  21. Muhyî ad-Dîn ibn ´Arabî, Fusûs al-hikam (Castoni della Saggezza), Dâr sâdir, Beirut, 1980 (II edizione), p. 112. ↩︎

  22. Noto in latino con il nome di Alfarabius oppure di Avennasar, egli è anche detto il «secondo maestro», essendo Aristotele il primo. Il suo pensiero affermava la superiorità della ragione umana rispetto alla fede (ndt). ↩︎

  23. Questo richiama molto quanto espose Cusano, parlando di complicatio ed explicatio. La relazione potrebbe essere visualizzata anche considerando una mano chiusa, formante il pugno, ed una mano distesa. Il pugno rappresenta la contrazione (complicatio), dove tutto è racchiuso, contenuto in esso. La mano distesa rinvia alla dilatazione (explicatio), in cui tutto viene svolto, disteso in tutta la sua potenzialità. Inoltre anche il movimento cardiaco è utilizzabile in questo senso: la sistole e la diastole rappresentano infatti i due «momenti» contrattivi e dilatativi dell’essere umano (ndt). ↩︎

  24. Un’applicazione di questa teoria, potrebbe essere quella di un ramo staccato da un albero, che viene bruciato. Trascorso del tempo, sarà trovata della cenere. La maggior parte delle persone, avendo visto l’ardere del ramo, sarà a questo punto indotta a ritenere che il ramo sia divenuto altro, appunto la cenere. In altre parole, una certa sostanza continuerebbe ad esistere attraverso l’intero processo e ad un determinato punto cambierebbe forma per diventare qualcosa di altro. In realtà tale convincimento è illusorio e pertanto falso. Il legno non muta mai in cenere. Ciò è solo apparenza. Il «fatto-di-essere-legno» è per il legno uno stato ontologico irriducibile. Il legno non è altro che legno. Ovviamente anche quando il ramo bruciava, era sempre di legno, ma non era lo stesso ramo che prima che iniziasse a bruciare. Anche nel suo «essere-di-legno» esso ha un «prima» e un «dopo». Quindi affermare che «il ramo diventa cenere» è un’apparenza illusoria, ma anche affermare che «il ramo perdura allo stato ontologico proprio al fatto-di-essere-di-legno-ramo» è una concessione al senso comune. Ogni cosa intesa come tutto ontologico e considerata come entità esistente in modo continuo, non è in realtà altro se non una successione di esistenze momentanee o una serie di istanti ontologici (ndt). ↩︎

  25. Ibidem, p. 53. ↩︎

  26. Anche nella variante mu’tazila, indica il nome di un movimento religioso fondato a Basra nella seconda metà del secondo secolo dall’Egira, che divenne una delle più importanti scuole di pensiero musulmano. Esso verrà affrontato nel proseguio del libro. Per maggiori informazioni vedere The Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1999 (ndt). ↩︎

  27. Ibidem, p. 67. ↩︎

  28. Ibidem, p. 96 ↩︎

  29. Ibidem, p. 76. ↩︎

  30. La locuzione «individualità incarnate», stante a significare a´yân, sarà ritrovata anche in altri punti del libro (ndt). ↩︎

  31. Ibidem, p. 53. ↩︎

  32. La prima risposta viene data da chi ha compreso che il mondo è in Dio e Dio è nel mondo, mentre la seconda è tipica di chi ritiene che il mondo sussista di per sé e quindi si affanna a ricerca le «cause seconde» in un movimento frenetico e senza fine (ndt). ↩︎

  33. Ibidem, p. 185. ↩︎

  34. Lo stesso termine può essere inteso come perplessità. Ambedue i vocaboli, però, possono portare ad equivocare sulla reale intenzione che ha portato a sceglierli. Non si tratta, infatti, di situazioni contraddistinte da un indeterminato ed indeterminabile stato confusionale, bensì della possibilità data all’essere umano di prendere atto della sua stessa impossibilità di abbracciare la Realtà così come essa, ovvero la parte visibile e quella che non lo è, ma che perciò non è meno esistente (ndt). ↩︎

  35. L’aporia in questo caso induce ad un’impasse logica nella mente dell’uomo, la quale lascia poi spazio allo stupore. Quest’ultimo più che una sensazione è uno stato ontologico dell’uomo, caratterizzato dalla possibilità di poter conoscere la Realtà antinomica che egli stesso vive. Nel preciso istante in cui la creatura umana abbandona ogni tentativo tassonomico della Realtà, ebbene proprio in quel preciso istante l’uomo prende coscienza e quindi conosce la stessa Realtà (ndt). ↩︎

  36. La mente umana collassa strutturalmente a questo punto, proprio grazie all’uso della logica (ndt). ↩︎

  37. Alhâl è lo stato ovvero qualcosa che sopraggiunge al cuore senza sforzo o invito. Uno dei suoi tratti distintivi è la sua sparizione, cioè esso è per sua natura discontinuo. Sovente è possibile che esso si ripresenti successivamente ed in maniera sostanzialmente simile a quella precedente, ma talvolta può anche non accadere. Da questa differenza nella tipologia di accadimento nasce il disaccordo. Colui per il quale, quello stato simile è fatto seguire, ne afferma la continuità, mentre colui per il quale il simile non è fatto seguire, afferma la sua mancanza di continuità (ndt). ↩︎

  38. Ibidem, pa. 96. ↩︎

  39. Ibidem, p. 153. ↩︎

  40. Ibidem, p. 76. ↩︎

  41. Ovvero a´yân (ndt). ↩︎

  42. Ibidem, p. 110. La citazione in sé è fondamentale e se viene suddivisa in tre parti ci rivela tutta la sua importanza. La prima parte è: «ostacolò la conoscenza della verità di cui abbiamo parlato»; questo significa che la conoscenza piena e definitiva è preclusa in certo senso all’uomo. La seconda parte, invece, è: «cioè del fatto che Egli è l’incarnazione delle cose»; ovvero Dio è la-cosa-in-sé, questo significa che ogni cosa in sé è Dio e che pertanto Dio è nel mondo ed il mondo è in Dio. Infine, la terza parte manifesta il occultamento (gayra) delle due parti ora commentate: «e la occultò con la gelosia, cioè con il “tu” distinto dall’“altro”»; questo vuol dire che la piena conoscenza all’uomo è impedita dal velo costituito dall’«alterità», definibile e percepibile dall’essere umano, ma non valido in sé, giacché se Dio è ogni-cosa-in-sé, non esiste allora un «tu» distinto da un «altro» (ndt). ↩︎

  43. Ibidem, p. 128. ↩︎

  44. Viene ribadito quanto esposto nella nota 40 (ndt). ↩︎

  45. Ibidem, p. 128 ↩︎

  46. Ibidem, p. 124. ↩︎

  47. Ibidem, p. 191. ↩︎

  48. Ibidem, p. 122. ↩︎

  49. Quanto afferma Ibn ´Arabî, entra qui in contrasto con ciò che apparirebbe essere il dovere di ogni credente: affermare la propria visione religiosa e negarne validità alle altre. In realtà, il dovere del credente si ferma solo alla prima parte di tale enunciato, ovverosia affermare e seguire la propria tradizione, non preoccupandosi di quelle altrui, dato che il preoccuparsi per gli altri comporterebbe in ogni caso una distrazione a detrimento del corretto assolvimento dei doveri religiosamente sanciti. L’argomento è molto delicato e talmente pericoloso, che lo stesso Ibn ´Arabî venne ritenuto sospetto ai suoi tempi da quelli che oggi giorno si ammantano del vessillo di difensori della tradizione. A ben vedere, questa situazione è frutto di quella stessa Realtà antinomica, in cui l’uomo è coinvolto e che lo dovrebbe, invece, portare alla perplessità, come Ibn ´Arabî ha spiegato (ndt). ↩︎

  50. Ibidem, p. 114. Ali’tiqâd: il credere, la credenza. Per un verso è un giudizio mentale decisivo che ammette la dubitabilità (incertezza), mentre l’altro, decisivamente non comune, è un giudizio mentale decisivo, o preponderante, e comprende quindi la scienza, vale a dire un giudizio mentale decisivo che non ammette la dubitabilità, la credenza in senso comune e l’opinione, cioè il giudizio in base al lato preponderante (ndt). ↩︎

  51. Il discorso sulle «credenze» intese come le forme religiose che oggigiorno vengono seguite dai rispettivi fedeli, è stato affrontato anche da R. Pannikar nei libri: La nuova innocenza, CENS, 1994; La porta stretta della conoscenza, Rizzoli, 2005; La realtà cosmoteandrica, Jaca Book, 2004 (ndt). ↩︎

  52. Il punto è particolarmente critico e pone l’uomo di fronte ad un grande interrogativo, ossia pronunciarsi a favore dell’«assoluto» o del «relativo». Ebbene, anche in questo caso c’è un grande tranello che l’essere umano dovrebbe fugare, ovvero quello di aderire completamente ad una delle due alternative. In realtà, infatti, ogni credenza, per dirla con Ibn ´Arabî, è relativamente assoluta e questo non è certamente un mero gioco di parole (ndt). ↩︎

  53. Ibidem, p. 113. ↩︎

  54. Ibidem, pagg. 157, 200-1, 211. ↩︎

  55. Dunyâ viene inteso solitamente come mondo terreno in contrapposizione al mondo celeste. Cfr. The Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1999 (ndt). ↩︎

  56. Questo sarebbe il punto di vista dei paesi musulmani più restii agli standard occidentali. ↩︎

  57. La «conoscenza del mondo vicino» (´ilm dunyawî), comunque, potrebbe contraddire la «conoscenza religiosa» (´ilm dinî). In primo luogo questo può verificarsi nel caso di una loro diretta (e quindi non implicita) contraddizione; in secondo luogo sarebbe causato da un conflitto nel dominio della conoscenza e della non conoscenza tra conoscenza e fede, il che implica una logica abbastanza diversa per gli ambedue conflitti e decisioni. In questo senso può tornare utile Ibn Rushd, ’Fasl almaqâl’↩︎

  58. Non parlo qui di quei casi noti di estremismo e di fanatismo che sono eccezioni e che appunto confermano la regola e che — si dovrebbe chiaramente capire — contraddicono la vera logica della cultura musulmana nella sua correttezza. ↩︎

  59. Per quanto riguarda l’ultimo secolo, M. Iqbal ne è una brillante esemplificazione. ↩︎

  60. Un esempio eccellente di questa procedura logico-significativa è rintracciabile nel libro di M.N. al’Attas «Prolegomena to the Metaphysics of Islam: An Exposition of the Fundamental Elements of the Worldview of Islam» (Kuala Lumpur: ISTAC, 1995, pp.225-227). L’autore fa riferimento alle teorie di Ibn Sînâ, ma questo modo di ragionare, come giustamente lo stesso sottolinea, è abbastanza rappresentativo del pensiero musulmano. ↩︎

  61. Questo punto ha bisogno di una delucidazione. Il corpo e l’anima sono opposti se presi «come tali». Ma quando li trattiamo «come tale», non possiamo parlare in ogni senso della loro unità. Questo significa che possiamo parlare dell’«anima» o del «corpo» giammai però dell’«essere umano», fin quando l’«essere umano» è uno, ovvero un’unità e non è solo quindi un corpo separato da un’anima. Dopo aver realizzato tale unità ed afferrata l’umanità dell’«Egoità», il corpo e l’anima «come tali» cessano di essere e possiamo dunque parlare unicamente dell’assolutamente semplice ed indivisibile «Egoità» quale unità di corpo ed anima. Logicamente parlando, questa unità trasgredisce ogni opposizione tra i due, e, semanticamente, trasgredisce gli stessi loro ambiti semantici: l’«Egoità» è priva di ogni traccia del «corpo» e l’«anima» si trova all’interno di se stessa. La logica e la semantica sono mutuamente determinante, sviluppandosi da un nucleo logico-significativo. ↩︎

  62. Ibn ´Arabî, Fusûs alHikam, 2nd ed. Bayrût: Dâr al-kitâb al-´Arabî, 1980, p. 72 ↩︎

  63. Fusûs, pp. 199-200; vedere anche p. 73. ↩︎

  64. La versione originale in inglese riporta il termine whirlpool, che in italiano è «vortice» oppure anche «mulinello». Per quanto riguarda la traduzione in inglese del termine arabo gyr, l’autore deve certamente averne consultato la radice sul Lane: quest’ultima gyr, richiama il concetto di «mulinello» e quindi di «vortice» (ndt). ↩︎

  65. Vedere Fusûs, p. 74. ↩︎

  66. Per motivi personali, la visione del sufismo convince di più della rigida causalità propugnata dai peripatetici islamici. Si può sbagliare, ma cogliere una linearità che dir si voglia, implica pur sempre la possibilità stessa di riconoscerla tale da un punto terzo e perciò stesso esterno alla stessa linearità; quindi, il ravvisarla è possibile solo se si è per l’appunto terzi rispetto ad essa, oppure se si ha una conoscenza diretta, infusa della linearità stessa, la qual cosa è possibile solo se si «coincide» con quest’ultima. Questa «coincidenza» è chiaramente negata dalla linearità peripatetica, dal momento che essa afferma inequivocabilmente che un membro di una sequenza non può essere la sequenza. La negazione dell’impostazione peripatetica, quindi, porterebbe a concludere che il far parte di una sequenza, costituisca un «velo» per la creatura. È un ragionamento razionale, basato sul sillogismo aristotelico, quello che fa optare per la linearità, ma della quale alla fine non vi sono prove razionalmente convincenti. Asserire la linearità causale, equivale allo sforzo di definire Dio: ambedue appaiono tentativi ed appunto per questo non raggiungono la Verità. Al pari della teologia negativa anche la concezione «sufica» della causalità — e massimamente quella di Ibn ´Arabî — asserisce, quindi, l’impossibilità di distinguere tra causa ed effetto. Come per la negazione, allora, anche qui questa impossibilità significa che non c’è modo di distinguere quando tutto è Uno ed Uno è tutto. E dunque ecco la critica nei confronti dei Mutakallimun, dei Falasifa, degli Zahiriti e dei Batiniti: usare la logica per definire la causalità è insensato. L’unico atteggiamento corretto è dunque quello di affermare tutta o negare tutta l’Uni-Totalità (ndt). ↩︎

  67. Fusûs, p. 73. ↩︎

  68. Stretched path è il sentiero che non conosce interruzioni. Il contrasto è qui con gli «incroci» delle venature. Lo stretched path avrà le sue acque sempre di colore uguale, mentre due fiumi diversi che si incrociano vedono cambiare di colore le proprie acque (l’esempio più classico è dato dai fiumi amazzonici). Come tale non scaturisce nella dinamica zâhir-bâtin (ndt). ↩︎

  69. Ibn Jubayr, Rihlat Ibn Jubayr, Bayrût, Misr: Dâr al-kitâb al-lubnânî, Dâr al-kitâb al-misrî, p. 75. ↩︎

  70. Uno dei più famosi geografi del mondo musulmano. Per maggiori informazioni vedere The Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1999 (ndt). ↩︎

  71. Al-Muqaddasî. Ahsan al-taqâsîm fî ma’rifat al-aqâlîm [Mukhtarât]. Dimashq: Wizârat al-thaqâfa wa-l-irshâd al-qawmî, 1980, p. 146. ↩︎

  72. Bayer E. Islamic Ornament. Edinburgh: Edinburgh University Press, 1998, pp. 125-126. ↩︎

  73. GrabarO. The Formation of Islamic Art. New Haven: Yale University Press, 1987, p. 187. ↩︎

  74. L’autore nel testo impiega il plurale (islamic ethics), quindi la traduzione esatta sarebbe «etiche islamiche». Questo però sembra una concessione filosofica e metodologica dell’autore, in forza della quale egli prende in considerazione la possibilità che vi siano delle etiche islamiche senza che questo possa sfuggire dal suo denominatore comune: l’essere comunque islamiche. In più avvertiamo che l’uso del termine «islamico» nel testo da parte sia dell’autore che dello stesso traduttore va equiparato sic et simpliciter al termine, forse più preciso dottrinalmente, che è musulmano (ndt). ↩︎

  75. La locuzione «bad» effects viene resa con «effetti malefici», mentre «good» effects con «effetti benefici» (ndt). ↩︎

  76. La distinzione è nettamente quantitativa e si fonda su una mera constatazione di quelli che sono i rapporti di forza in campo (ndt). ↩︎

  77. In origine il vocabolo designa «conoscenza, comprensione, intelligenza» ma poi viene applicato ad ogni branca dello scibile finché non diviene termine tecnico designante la giurisprudenza; una scienza quest’ultima che è sostanzialmente rerum divinarum atque humanarum notitia (ndt). ↩︎

  78. L’autore non intende minimamente giustapporre il sufismo alla filosofia, soprattutto se quest’ultima viene intesa come attualmente essa è, ovverosia polemos o speculazione fine a se stessa. Se invece la filosofia viene restituita al suo ambito semantico naturale, e non si capisce perché non lo si dovrebbe fare, dove essa esprime la tensione dell’amore verso la conoscenza, allora l’uso che l’autore ne fa, non dovrebbe stupire molto ed anzi costituire un ulteriore passo di riavvicinamento verso il vero significato originario delle parole proprio quando ci si è resi conto dell’abnorme e patologico mal vezzo di mutare il significato ai termini in nome di una curiosa teoria che definisce una lingua «viva», nella misura in cui essa è in grado di mutare gli etimi (ndt). ↩︎

  79. Gli Ishrâkiyyûn sono i «seguaci della Saggezza illuminativi» ed il suo membro più noto ed autorevole, anche perché ne fu il propiziatore è Shihâb al-Dîn Suhrawardî. Per maggiori dettagli sia sul «movimento» Ishrâkî che su Suhrawardî si rimanda a The Encyclopaedia of Islam, Brill, Leiden, 1999 (ndt). ↩︎

  80. I mushrikûn sono non-credenti in senso stretto, anche detti kâfirûn asliyyûn (ndt). ↩︎

  81. Se ne deriva che la vera essenza di ogni atto divino è puro bene, mentre è solo l’aspetto metaforico quello in cui appare il male (ndt). ↩︎

  82. Il termine «innovatore» non ha qui nulla a che vedere con la nozione di bi´da, che esprime un concetto negativo esemplificante un comportamento non risalente a quello del Profeta e quindi non sicuro perché non compiuto o prescritto dallo stesso Profeta (ndt). ↩︎

  83. Filosofo e storico, che viene descritto come un Mazdeo fattosi poi musulmano, diede ampio risalto all’etica. Nacque a Rayy intorno al 320 E/932 d.C. (ndt). ↩︎

  84. «Azione biasimevole» che fa parte delle cinque categorie giuridiche con cui vengono catalogati le azioni umane secondo la Sharî´a (ndt). ↩︎

  85. Mutatis mutandis noi possiamo conoscere Dio solo attraverso le Sue manifestazioni, le Sue enérgeiai: ecco ritornare il tema così importante per la teologia cristiano-orientale delle enérgeiai già segnalato in In Principio era Dio. Unità e complessità del concetto di Dio nell’Esicasmo cristiano, nella Qabbalah ebraica e nel Sufismo islamico, Simini-De Luca, Bari, 2004 (ndt). ↩︎

  86. Ogni tentazione è una divisione (fitna) sia costitutiva dell’essere umano — microcosmo — sia della comunità in cui l’uomo vive — macrocosmo (ndt). ↩︎

  87. Ora l’essere immagine è il dono di Dio all’essere umano mentre la somiglianza a Questi è compito affidato allo sforzo della creatura (ndt). ↩︎