L’altro Parmenide. Nota critica a Livio Rossetti, Un altro Parmenide

Livio Rossetti, Un altro Parmenide, Diogene Multimedia, Bologna, 2017, 2 voll., 184+206 pp.

Un altro Parmenide si presenta già dal titolo come un libro ambizioso e impegnativo. Il suo autore,1 smentendo nei fatti la diffusa convinzione che dallo studio dei pensatori del passato non ci sia più niente da imparare, ci accompagna come attraverso un labirinto a ricercare nuovi accessi in un territorio, quello del mondo di pensiero parmenideo, dove invece ancora c’è molto da esplorare. Si delinea così un percorso interpretativo tra i frammenti e le testimonianze del Poema di Parmenide, al termine del quale la figura del pensatore di Elea appare con tratti decisamente innovativi, forse anche molto rivoluzionari. Ciò che Rossetti in effetti si propone, con una convinzione chiara e decisa, non è una semplice revisione dell’immagine del pensatore di Elea, che ne aggiusti qualche tratto ancora scomposto, ma un nuovo identikit,2 da ridisegnare completamente. Non è insomma l’altro Parmenide, quello finora trascurato o malinteso, che Rossetti intende promuovere e portare in primo piano, ma proprio un altro Parmenide, un Parmenide che sembrerebbe non avere nulla a che vedere con la figura che la manualistica ha consegnato alla storia. Da questa figura anzi occorre avere il coraggio di prendere decisamente congedo, per un nuovo inizio dell’ermeneutica parmenidea. Il volto di Parmenide deve cambiare: egli non è solo o anzitutto3 il filosofo dell’essere, ma più esattamente un sophos oltremodo attento e interessato alla comprensione del mondo reale.4 Il rovesciamento di prospettiva è netto e inequivocabile; il lettore non può rimanere indifferente.

L’invito alla scoperta di questo nuovo Parmenide è affascinante. Non resta perciò che entrare nelle pieghe del lavoro di Rossetti e vedere da vicino come si compone il mosaico dell’interpretazione. A far da guida si offre anzitutto un dato fattuale: «la considerevole varietà dei suoi [di Parmenide] insegnamenti» (I, 9). Con un moto di autentica sorpresa Rossetti osserva che, pur trattandosi di un dato di chiara evidenza, esso nondimeno è ordinariamente sfuggito all’attenzione degli studiosi, per motivi che Rossetti vede radicati in una lettura ideologicamente orientata dalla platonica sottovalutazione del mondo della natura. Eppure, egli nota, rimanendo semplicemente ai temi che sono trattati nei frammenti del Poema e nelle testimonianze della dossografia, gli insegnamenti di Parmenide riguardano argomenti che ai giorni nostri verrebbero considerati di interesse astronomico e cosmologico, geografico-geologico e biologico-genetico, oggetto di studi di psicologia e sessuologia, politica e diritto. Essi mettono in campo insomma una sorta di sapere disciplinare ed enciclopedico, che qualifica Parmenide come un intellettuale versatile e curioso, «un eminente cultore della polumathia» (I, 17); i cui interessi dunque difficilmente possono essere rinchiusi entro la sola dottrina dell’essere, come la manualistica ha tradizionalmente inteso fare. In questo modo Rossetti si fa portavoce autorevole di quel movimento di riscoperta e di valutazione positiva del sapere naturalistico parmenideo che caratterizza l’attuale stagione di studi eleatici.5 Questo sapere ha una valenza positiva e non può essere fatto coincidere sic et simpliciter, come nella canonica presentazione, con la doxa dei mortali, in cui non risiede alcuna giusta conoscenza. Più volte nel corso del libro Rossetti richiama la ricchezza del sapere peri physeōs rivelato dal complesso di frammenti e testimonianze. Egli ne fa dapprima una dettagliata rassegna, cui dedica tutto il capitolo 2° («Verso un inventario degli insegnamenti “secondari” offerti dal poema»), individuando ben 33 plessi tematici, che dovevano costituire il nucleo forte dell’insegnamento naturalistico di Parmenide. La ricerca laboriosa delle tracce sparse nei frammenti e nelle testimonianze dei dossografi costituisce quindi il piatto forte del lavoro di Rossetti, che dedica a questo scopo più della metà delle pagine del suo lavoro. Può essere sufficiente, per farsene un’idea, citare i soli titoli dei capitoli centrali, nei quali Rossetti analiticamente ricostruisce i tratti di quel sapere:

  • La luna secondo Parmenide (in B15).
  • All’origine della nozione di antipodi (a ritroso da Platone a Parmenide).
  • Patrimonio genetico e identità sessuale (in B18).
  • Destra-sinistra e tante femmine.
  • L’arte della dimostrazione (in B8,1-33).

Come si vede, emerge pian piano un Parmenide attento indagatore dei fenomeni naturali, capace di intuizioni durature (come ad esempio la scoperta che Espero e Fosforo costituiscono lo stesso corpo celeste, cioè il pianeta Venere) e ardite congetture (come quella che lavorando sulla sfericità della terra conclude alla scoperta degli antipodi e alla simmetria fra le grandi aree climatiche). Rossetti ha cura di sottolineare come nella sua attività di studioso naturalista Parmenide non si sia limitato a confermare nozioni già circolanti nell’area culturale greca,6 ma abbia anche fatto avanzare la conoscenza della natura con insegnamenti che mostrano forti tratti di originalità. È il caso della definizione del processo della procreazione, che per Parmenide deriva dal concorso del patrimonio genetico del maschio ma anche della donna, in netto contrasto con le opinioni mediche dell’epoca, che attribuivano invece alla donna solo una funzione recettiva; o, ancora, della spiegazione dei casi di incerta identità sessuale, che rendono il soggetto instabile, indeciso e inquieto.7 La distanza dell’immagine disegnata da Rossetti dalla usuale descrizione del sapiente di Elea come un filosofo speculativo, del tutto distratto o indifferente nei riguardi della vita reale, è enorme. Questa nuova immagine colma dunque una lacuna. È perciò senz’altro benvenuta l’operazione, che peraltro Rossetti conduce con il fiuto di provetto ricercatore, con la quale frammenti e insegnamenti appartenenti al sapere parmenideo sono riportati alla luce e segnalati come tappe miliari della progressiva conquista di una sicura e corretta conoscenza del mondo in cui l’uomo abita. Certamente, già altri studiosi si erano avviati lungo piste di ricerca parallele, se non anche convergenti, rispetto a quella percorsa da Rossetti.8 Il passo in più che egli compie, e che rende comunque meritoria la sua fatica, sta nella costruzione di un quadro d’assieme, non necessariamente sistematico, del Parmenide naturalista; dalla cui efficace mappatura è lecito perciò attendersi lo sviluppo di ulteriori avanzamenti nella conoscenza del pensiero dell’Eleate.9 Questo augurio, e i motivi che lo giustificano, consentono di ipotizzare che il lavoro di Rossetti possa agevolmente conquistarsi un posto di rilievo tra gli studi che indagano sul sapere che Parmenide aveva intono alla natura. Se motivo di discussione esso può generare, non sta certo qui. È invece nella trama di ragionamento che sostiene l’architettura dalla costruzione di Rossetti, è nell’intuizione fondante che guida l’interpretazione da lui proposta che si nascondono alcuni motivi che meritano una più attenta considerazione.10

Come è noto, ogni tentativo di accedere al sapere naturalistico parmenideo sconta la grande difficoltà costituita dalla scarsità di informazioni dirette, esplicitamente ricavabili cioè dal Poema di Parmenide. Ma questo limite, che ha costituito per molti un ostacolo insuperabile alla comprensione di quel sapere,11 nelle mani di Rossetti si rovescia in opportunità di ricerca. La presa d’atto che gli argomenti di tipo naturalistico nel Poema sono ridotti a pochi versi (poco più di una trentina, sostanzialmente da B10 a B19), peraltro estremamente problematici nella loro contestualizzazione testuale,12 diventa motivo di stimolo e quasi di sfida, in vista dell’obiettivo di completare il quadro evidentemente lacunoso di quel sapere. Rossetti è infatti convinto che Parmenide non possa essersi disinteressato del mondo della natura, come rinchiudendosi in una turris eburnea13 isolata da ogni contatto con il mondo. E ci sono buone ragioni che danno sostegno alla sua convinzione. Trattando delle età delle origini (e il V secolo è fuori ogni dubbio un’età delle origini) è infatti del tutto fuori luogo parlare di una settorializzazione del sapere, più consona alla contemporanea organizzazione burocratica dell’accademia. Un sophos del V secolo, nel momento stesso in cui fa avanzare il sapere del mondo nei suoi primi timidi passi, non ha idea alcuna di iscrivere la sua riflessione entro un settore particolare di ricerca. Il suo sguardo è globale, non specialistico. È il tutto, nelle sue parti, che lo interessa. La distinzione delle due culture, esito perverso dell’età della specializzazione, è insomma ancora di là da venire.

Che Parmenide si sia interessato «anche»14 dei fenomeni naturali è dunque cosa fuori discussione. Si tratta allora di andare a scovare i reperti del sapere naturalistico parmenideo, disseminati e come stratificati nel vasto serbatoio della cultura classica antica. Rossetti vi attinge a piene mani, attentamente compulsando i materiali che il prezioso lavoro di raccolta reso disponibile da Diels 1903, e poi da Coxon 2009 e infine in tempi più recenti da Laks-Most 2016, hanno messo a disposizione degli studiosi. Le numerose testimonianze di autori dell’antichità attorno al pensiero di Parmenide vengono ampiamente sfruttate, non senza aver prima notato che nella maggior parte dei casi esse «sono dotate di un elevato tasso di stabilità semantica» (I, 30). Rossetti sfrutta ampiamente questo criterio ermeneutico della stabilità semantica: notizie che si presentano come non immediatamente evidenti (difficilmente inventate di sana pianta, perciò), ben strutturate e al tempo stesso sufficientemente coerenti con le restanti informazioni, impongono di riconoscere l’affidabilità dell’informazione da esse veicolata. L’adozione di questo criterio, che legittima dunque l’uso delle informazioni depositate nelle testimonianze, consente all’autore di lasciare alle spalle la vecchia querelle sull’utilizzabilità della letteratura secondaria nell’interpretazione degli autori antichi15. È su di esse in effetti che per buona parte Rossetti costruisce la sua interpretazione. Ma le testimonianze devono essere fatte parlare. Esse infatti per lo più informano solo sul contenuto dell’insegnamento di Parmenide, ma non anche su come egli sia arrivato alla conclusione. Occorre perciò far risaltare la trama che le connette in una struttura coerente che possa condurre all’idea di un sapere naturalistico del sapiente di Elea. Il metodo adottato da Rossetti per raggiungere lo scopo si rivela non solo interessante, ma anche estremamente fruttuoso. Esso consiste nel mettere in fila le testimonianze relative ad uno stesso argomento,16 seguendone il percorso che spontaneamente delineano, tanto in avanti, in direzione cioè delle conseguenze che sarebbe legittimo attendersi da esso, quanto all’indietro, risalendo al punto dal quale il percorso sembra essersi sviluppato. Ne do qui di seguito un piccolo esempio. Arrivato a discutere della questione degli antipodi e delle fasce climatiche terrestri, dopo aver analizzato le differenti testimonianze Rossetti così conclude: non solo Platone, «ma anche Aristotele, Epicuro/Lucrezio, Eratostene, Cicerone e Posidonio hanno tutti ben chiara la questione delle cinque fasce climatiche e/o antipodi senza aver contribuito alla sua ideazione. E intanto accade che alcuni di loro (Posidonio/Strabone, più altri) assicurino che quella è una teoria risalente a Parmenide. […] Su tutto questo mi sembra di poter dire che l’informazione disponibile, pur essendo molto lacunosa, tiene, in quanto ci sono indizi inequivocabilmente convergenti, che non presentano scompensi e pertanto sono in grado di offrire un’abbondante rassicurazione» (II, 59).

La conclusione che attesta la paternità parmenidea della questione è raggiunta attraverso un processo di ragionamento inferenziale, per il quale sono le stesse testimonianze, opportunamente interrogate, a indicare la trama del sapere naturalistico da esse rilasciato. Se alcuni autori mostrano di possedere delle specifiche conoscenze senza rivendicarne l’ideazione, a volte anche utilizzando termini tecnici senza spiegarne il significato,17 tutto ciò dimostra chiaramente che essi attingono a un patrimonio culturale già consolidato; l’indicazione puramente informativa offerta da altri circa l’origine parmenidea della conoscenza in oggetto ne esce in tal modo non solo confermata, ma anche rafforzata. Per via indiretta e a piccoli passi il lettore viene così condotto a ricostruire il panorama degli insegnamenti naturalistici di Parmenide. Rossetti può perciò annunciare solennemente che «sta affiorando un “sommerso”, un Parmenide “dimenticato” che non meritava l’oblio» (I, 34); della cui riscoperta egli va giustamente orgoglioso. Ma come si spiega questo clamoroso silenzio? La domanda è cruciale, non solo perché introduce alla completa legittimazione della scoperta di un altro Parmenide, ma più ancora perché, osservata nello sviluppo cui conduce, offre una preziosa opportunità di ingresso nel laboratorio di pensiero di Rossetti, in quel luogo fontale cioè da dove si sono sprigionate le intuizioni che il libro porta a compimento. Dove tuttavia, diversamente di quello che l’immagine della fonte lasciava presumere, non tutto è così limpido.

La risposta dunque muove da quello che, a giudizio dello studioso, è un dato di fatto clamoroso: nonostante la oramai più che secolare disponibilità di materiali di e su Parmenide, la linea dominante delle interpretazioni ha non di meno privilegiato in maniera pressoché esclusiva i soli frammenti della prima parte, cioè la dottrina dell’essere (che Rossetti chiama primo logos), rimanendo muta o disattenta davanti alle numerose informazioni che, come abbiamo visto, conducono chiaramente in direzione di un sapere naturalistico ampio e sviluppato. Su di quest’ultimo – che per l’autore doveva costituire almeno i 4/5 dell’intero Poema parmenideo, secondo una possibile ma pur sempre solo ipotetica ricostruzione – la cultura filosofica ha calato una silenziosa censura, come se una potente scure ideologica avesse reciso questo importante ramo del pensiero parmenideo e quindi bloccato sul nascere la ricerca in direzione del sapere peri physeōs. Sul banco degli imputati Rossetti chiama Melisso e poi Platone, che hanno, il primo, confezionato la filosofia dell’essere18 e, il secondo, imposto la centralità dell’ontologia nel pensiero di Parmenide; la degradazione a mera opinione di tutto il sapere naturalistico contenuto nel Poema ne è spontanea conseguenza. Da «questa sorta di blocco mentale» (I, 14) non hanno saputo divincolarsi neppure le poche eccezioni che hanno cercato di rivalutare positivamente la cosiddetta dottrina della doxa,19 poiché esse tutte restano ancora impantanate entro l’impianto platonico. «Come se – commenta Rossetti –, con o senza il sapere sul mondo, l’immagine di Parmenide rimanesse inalterata» (I, 16).

La nuova immagine di Parmenide, che risulta dalla inevitabile e opportuna riabilitazione della doxa,20 richiede infatti niente di meno di un cambiamento radicale di paradigma, «una vera e propria torsione» ermeneutica (II, 149). La prospettiva di lavoro è chiara e Rossetti intende percorrerla senza indecisione e fino in fondo. Se a impedire la giusta valutazione del sapere naturalistico di Parmenide è stata la presupposizione - che in realtà si rivelerebbe essere niente più che pregiudizio - che il suo messaggio si concentrasse esclusivamente sull’essere, ebbene non resta che prendere le distanze da questo erroneo pregiudizio e accettare che non è sull’essere che si deposita il vero nucleo del pensiero di questo sophos. Ricorrendo a una metafora sportiva, ci sono giustificati motivi per «asserire che il sapere naturalistico non è di serie B’, ma di “serie A” al pari del sapere dell’essere» (I, 94). Il sapere peri physeōs di Parmenide, provvisto come è di un elevato fattore di coerenza logica e forza dimostrativa, non sfigura dunque in nessun modo nel confronto con la dottrina dell’essere, con la quale il sophos di Elea è tradizionalmente identificato. Solo che la riconquista della giusta posizione a lungo negata non è più sufficiente. Come se il podio del vincitore fosse troppo angusto e non ci si potesse salire in due, l’equivalenza dei due saperi agli occhi di Rossetti non tiene a una più attenta riflessione. Se un primato deve esserci, ebbene questo non va assegnato al sapere dell’essere. E così, solo poche righe più oltre, Rossetti continua: «Dopodiché non è chiaro se alla filosofia dell’essere Parmenide ha davvero attribuito un’importanza preminente. L’autore potrebbe anche aver deciso di scorporare la sezione sull’essere solo perché, essendo tanto astratta, era proprio necessario assegnarle un posto a parte (senza per questo istituire una preminenza retta da motivazioni “ideologiche”)».21

Il ribaltamento richiesto è così compiuto. Ora è al sapere dell’essere che tocca il posto nello scantinato precedentemente destinato al sapere naturalistico. Non si vede infatti a cosa possa servire un insegnamento che si presenta in tutta la sua astrattezza (e infatti è lontano dal mondo reale degli uomini – non è un caso che sia una occupazione dei divini). Sta lì, quasi senza un motivo. Solo nella visione (ideologica) di Platone l’essere acquista la nota centralità, salendo al piano nobile della filosofia. E poi, siccome occorre nobilitare le proprie origini per accreditare se stessi, questa nuova collocazione è stata alla fine proiettata indietro anche sull’Eleate. Dietro il Parmenide teorico dell’essere c’è insomma una illecita operazione di marketing culturale, diremmo noi oggi, da smascherare senza incertezze. Va detto perciò a chiare lettere che «Parmenide è “diventato” filosofo solamente per iniziativa di altre persone, post mortem» (I, 94). Le affermazioni sono forti. Esse vanno ampiamente oltre la questione iniziale della forte rilevanza positiva dell’insegnamento naturalistico di Parmenide, poiché mettono in gioco altre più generali questioni, quali la relazione tra filosofia dell’essere e conoscenza del mondo o l’identità propria della filosofia. Solo che a questo punto il piano del discorso cambia. Il livello ampio di generalizzazione di queste nuove problematiche fa sì che le risorse dell’esegesi filologica non siano più sufficienti a guidarne la discussione, dal momento che riguardano Grundfragen che attendono risposta filosofica. Non è insomma con il richiamo di un verso, come pensa di fare Rossetti, che si dà risposta a esse. Dovremo allora intraprendere un più ampio percorso, che dall’analisi del rapporto tra sapere dell’essere e sapere del mondo ci porta diritti alla discussione sulla natura della filosofia.22 Dove, vedremo, c’è evidentemente molto di Rossetti e poco di Parmenide. Con conseguenze importanti: perché solo se il discorso regge, regge anche l’interpretazione che su quel discorso implicitamente si appoggia.

Cominciamo dunque dalla prima questione. Essa chiama in causa la dottrina dell’essere, il suo ruolo nell’economia del Poema e la relazione che essa instaura con l’insegnamento intorno al mondo. Rossetti non ha dubbi: del sapere dell’essere «la dea non fa nulla, quasi non sapesse che farsene» (II, 157). Nessuno sviluppo ne viene fuori. Nel Poema non è dato incontrare da nessuna parte una qualsivoglia ripresa di quanto hanno prodotto i settantacinque esametri del primo logos. Questi sono consegnati, da Parmenide stesso, ad una sorta di «“splendido” isolamento» (II, 158). O forse c’è un qualche passaggio-cerniera nell’intero Poema? «Si cercherebbe invano una sola dichiarazione che dica cosa consegue dal fatto che l’essere è […] un’inferenza del tipo “se tale è l’essere, allora….”», constata sicuro Rossetti (I, 95). Il fatto è che «nel poema non si fa nulla per delineare un embrione di metafisica» (I, 95). Il Parmenide metafisico, il Parmenide filosofo dell’essere semplicemente non esiste, con buona pace dei Platone e degli Heidegger. Anzi, di più, una analisi libera da condizionamenti di sorta deve fare i conti con il fatto che dopo B8, 49, di essere non si parla più. Lo afferma chiaramente la dea annunciando al suo discepolo di terminare «il discorso affidabile e il pensiero intorno alla verità» (B8, 50-51). Parmenide dà quasi «l’impressione di essersi momentaneamente smarrito e di non sapere cosa sia il caso di dire» (I, 107). Ma «cominciamo a temere che non lo sappia nemmeno la dea!» (I, 105). Sicché non può nemmeno essere «escluso che, giunto al verso 49 [di B8], l’autore, fors’anche rendendosi conto di non essere pronto a ideare sviluppi all’altezza dei 49 versi precedenti, abbia deciso di ‘fermare i motori. La sua scelta – commenta Rossetti – non sarebbe incomprensibile» (I, 100)23. Del resto, cosa ci vuoi fare con l’essere? La questione dell’essere si chiude senza nemmeno aprirsi veramente. Verso la fine del libro, tuttavia, forse sorpreso dalla resistenza ancora forte della questione, troppo ingombrante perché la si possa annullare d’un colpo solo, Rossetti pare aprire uno spiraglio. Filosofia dell’essere senz’altro no. Si può al massimo consentire, per evitare la sconsolante conclusione sopra riportata e salvaguardare l’onore di Parmenide (e della dea), che essa dia luogo a un acuto e originale, ma cognitivamente neutro, «esperimento mentale» (II, 165), con il quale Parmenide ha verificato le capacità del pensiero di conquistare la meta che si prefigge. Questo e niente di più. Come provetto retore, il sophos di Elea scopre che le obiezioni a un ragionamento possono essere vinte semplicemente mettendo il pensiero «’sotto la custodia’ della contraddizione» (II, 167). «Questa obbligazione a pensare sotto la minaccia della contraddizione» è garanzia sufficiente di sicuro risultato; che peraltro sarà tanto più consolidato e durevole quanto più ampio, cioè universale, sarà l’orizzonte teorico di validità del ragionamento. Il concetto di to eon si rivela particolarmente adatto a questo scopo. Esso si dà «in una forma già universalizzata che ha il potere di istituire un’entità non approssimativa ma precisa e, d’altronde, deprivata di ogni riferimento specifico» (II, 166)24; tale dunque da poter essere applicato ad ogni cosa. Qui allora può essere verificata tutta la forza della contraddizione, che mette in catene il pensiero stesso (B8,30-31) e lo vincola nelle sue conclusioni, per quanto lontane dalla esperienza esse possano essere.

Se ciò che non c’è non c’è, allora ciò che c’è è e non può non essere del tutto esente da ciò che non c’è, quindi non può avere né inizio né fine (II, 165).

Basterebbe perciò da solo il frammento 8 a confermare la potenza e l’utilità della scoperta parmenidea. È con considerazioni come queste, «così prossime alla stravaganza», che Parmenide si è dunque conquistato un posto di rango nell’Olimpo filosofico; facendo però pagare alla filosofia il prezzo di un’astrazione che ha finito per esiliarla «in una terra di nessuno che non ha modo di mettersi in relazione con il mondo in cui tutti noi ci troviamo a vivere e operare» (II, 167). La filosofia si è trovata così ad avere a che fare solo con «un essere di ragione ante litteram»25, di cui Parmenide può anche essersi sentito appagato, perché rivelatore delle potenzialità dell’umana intelligenza,26 la cui utilità cognitiva è però irrecuperabile. Un Parmenide insomma «massimo eroe ellenico della verità parlata», come lo descriveva quasi un secolo fa Calogero (Calogero 1936), e al tempo stesso traditore della realtà, da cui si è irrimediabilmente allontanato, tentato dall’Apollo metafisico, come nella spumeggiante ricostruzione nietzscheana (Nietzsche 1973). Stando così le cose, si capisce allora bene il tentativo rossettiano di strappare il sapiente di Elea al destino di irrilevanza, cui sembra irrimediabilmente condannato, qualora si continui a vedere in lui il teorico dell’essere. E questa liberazione può essere fatta nell’unico modo che la contemporanea cultura dell’efficienza tecnica sembra in grado di tollerare, alzando cioè il vessillo di realtà e facendo risaltare l’utilità del relativo sapere; utilità che, ovviamente, solo il sapere naturalistico, non certo quello metafisico, può avere.

Discorso chiuso, si direbbe. Rossetti annulla così, con un tratto di penna, tutto il dibattito novecentesco sulla metafisica.27 Altro che oblio dell’essere; qui c’e la sua eliminazione duratura dalla scena. Parola di Parmenide, cui, con buona pace di Severino,28 è inutile far ritorno per riascoltare la parola della filosofia. Perché Parmenide quella parola non l’ha detta. O forse, l’ha detta sì, ma intendendo tutt’altro. Ma è bene non tirare conclusioni affrettate; almeno non prima di essere andati un po’ più in profondità nello studio della questione. E qui il discorso si fa intricato. Quella infatti che sembra una pura lettura testuale, impegnativa solo per la filologia, chiama invece a raccolta una ben definita, benché mai dichiarata, opzione filosofica, meglio, metafisica. E allora, come detto sopra, dobbiamo cambiare il metodo della ricerca. Dobbiamo cioè passare dall’analisi delle risposte alla ricostruzione teoretica delle domande che le hanno suscitate, con l’obiettivo di rendere evidente la questione che è all’origine della ricerca. Spesso, infatti, la risposta non si trova perché la domanda è sbagliata o anche impropria, e non già perché risposta non si dia. Cercando dalla parte sbagliata, è normale trovare poco o nulla. Che è quanto capita a Rossetti. Egli con la sua avanzata strumentazione filologica è andato su e giù per il poema parmenideo e le innumerevoli testimonianze alla ricerca, infruttuosa, di un ipotetico sapere dell’essere. Ma, chiediamoci meglio, di cosa è andato alla ricerca? Lo abbiamo già visto. Ciò che Rossetti cerca nel poema di Parmenide è una chiara dottrina dell’essere, che precisi in modo circostanziato l’oggetto del suo discorso. Una qualunque dottrina si configura infatti «come un insegnamento dotato di virtualità sistemiche» (II, 149); esso deve cioè essere in grado di dire qualcosa del mondo, almeno porre le premesse perché questo avvenga indicandone i possibili svolgimenti. Ma «di queste conseguenze, di questo “se, allora …” non vi è traccia» (I, 108). La dottrina dell’essere non riesce ad andare oltre la prima parola, “essere” appunto. Di più, quando con B8,49 il discorso sull’essere si chiude definitivamente e in maniera esplicita, si resta delusi. Dopo aver ascoltato gli astratti insegnamenti che la dea ha svolto nei primi settantacinque esametri, «chi non si attende che il poeta abbia cura di dirci perché mai valeva la pena fare questa grande fatica?» (I, 98). Ma anche qui, silenzio. La conclusione per Rossetti può essere di conseguenza una sola:

Pertanto, quale che sia il senso da attribuire ai dodici esametri finali del fr. 8 e ai quattro del fr. 9, i numerosi elementi di fragilità rinvenuti si traducono in un chiarimento importante: da queste dichiarazioni non scaturisce nessuna indicazione univoca riferibile alla dottrina dell’essere. Né il breve cenno sull’errore dei mortali (B8.53-59), né l’annuncio di un’offerta di idee plausibili (B8.60 61), né l’insistenza sui nomi che i mortali attribuiscono alle cose (B9), e tanto meno la successiva presentazione di molti insegnamenti a carattere naturalistico hanno attitudine a presentarsi come dispiegamento del potenziale sistemico delineato dalla dottrina dell’essere e nulla permette di pensarlo. Contrariamente a quanto sostenuto in molti modi da vari interpreti, in questi sedici versi il potenziale sistemico della dottrina dell’essere non viene né dispiegato né decodificato, tanto meno chiarito. Di conseguenza anche la funzione di ponte o cerniera rimane un’aspettativa, molto più che una realtà (I, 106).29

Una cosa colpisce di tutta questa analisi, ed è il cambiamento di stile del pensiero. Che improvvisamente in maniera del tutto inattesa si fa pesante, come pedestre; abbandona il ritmo lieve, dionisiaco, che ha consentito in precedenza a Rossetti di guardare oltre la trama lacerata di singoli frammenti e testimonianze e di riannodare così fili e cogliere potenziali cognitivi inespressi, perché perduti o perché semplicemente rimasti impliciti, del sapere dell’Eleate. Adesso invece domina lo spirito di gravità. Rossetti sembra indossare i panni del contabile, vuole la prova provata del sapere in tutta la lucente durezza di una esplicita affermazione. Quell’approccio, utilizzato come un versatile strumento dalla forte valenza euristica,30 viene ora silenziosamente messo da parte e sostituito da atteggiamento frenato, minuzioso, didascalico, che proibisce a se stesso di guardare oltre le affermazioni effettivamente fatte nel Poema. Rossetti cerca la catena logica che consenta di inferire in maniera evidente, senza mediazioni e con lineare successione, un discorso sul mondo muovendo dal discorso sull’essere. L’essere deve generare una qualche conoscenza, deve porsi come la causa di ulteriori passi cognitivi, dalla sua posizione devono conseguire degli effetti, un «allora»; altrimenti, a cosa serve? Ma, è noto, Parmenide da nessuna parte ha fatto questo passaggio.31 Come in una sorta di partita doppia della filosofia, Rossetti ora vorrebbe che per ogni voce in uscita (relativa alle cose del mondo) venisse certificata la corrispondente voce in entrata (relativa a qualche aspetto dell’essere). Non trovandola e, soprattutto, non trovando alcuna diretta indicazione riguardante la funzione che l’insegnamento sull’essere può esercitare sulla conoscenza mondana, conclude come sappiamo. E così, non solo tutta la meditazione parmenidea intorno all’essere si scioglie come neve al sole ma, nella frana di ponti cerniere e passaggi di sorta tra i due logoi, il Poema stesso viene disarticolato e come disgiunto in due parti tra loro dissociate e senza alcuna relazione reciproca.32 Rossetti infatti nota che «la serie delle discontinuità e delle disarmonie tra B8.1-49 e B8.50-61 (più B9) è imponente e preoccupante» (I, 106). Le osservazioni meravigliate e un po’ ironiche circa lo smarrimento di Parmenide e della dea, sopra riportate, trovano qui la loro giustificazione.

Si tratta perciò di esaminare se sia vero che nel Poema non venga delineato nessun sapere intorno all’essere e, soprattutto, di capire di che tipo sia il sapere dell’essere cercato da Rossetti. La cui risposta dissolutoria ha in verità una sua logica. Essa si svolge in piena coerenza con una implicita presupposizione, per lui ovvia al punto da non essere esplicitamente tematizzata, ma in realtà non così scontata: e cioè che una filosofia debba configurarsi necessariamente in maniera dottrinaria e che un sapere autentico vada a configurarsi solo come un insieme di insegnamenti sul mondo delle cose, esplicitamente strutturati in una riconoscibile forma gerarchica.33 Letto con questa chiave di ricerca, il poema di Parmenide in effetti non risponde a nessuno dei due prerequisiti. Ma si può dire senza tema di smentite che i prerequisiti della conoscenza sistematica valgano assolutamente per la filosofia? È veramente questa la ragione originante e legittimante la possibilità della ricerca filosofica, nell’antichità come ai giorni nostri? Rossetti in effetti si muove nel solco della filosofia occidentale, per la quale, almeno fino a Nietzsche, tutto ciò è un dogma indiscusso. La filosofia è scienza, vale a dire conoscenza, esposta in maniera dimostrativa e sistematica, dei princìpi delle cose mondane. Una siffatta configurazione però ha un padre riconosciuto, Aristotele, e almeno due precursori, Melisso e soprattutto Platone, invocati anche da Rossetti. La statura speculativa di questi due giganti del pensiero, che hanno segnato la via della filosofia occidentale,34 tuttavia non deve far velo. Amicus Plato, sed magis amica veritas, recita un vecchio adagio. E la verità in questo caso è che non ci sono motivi veri che giustifichino la assolutizzazione e nemmeno la generalizzazione della forma dottrinaria del sapere filosofico. Il pensiero rifiuta gabbie preformate e sa liberamente creare le sue forme espressive e teoretiche. Sebbene infatti la speculazione filosofica abbia prevalentemente assunto la forma dottrinaria del sistema scientifico,35 resta nondimeno ampiamente discutibile che tale forma sia la forma della filosofia. Se veramente fosse così, se il compito della filosofia fosse quello di offrire cataloghi ordinati di conoscenze intorno alle realtà mondane, ne verrebbero fuori conseguenze paradossali; non solo infatti dovrebbero essere degradati dal ruolo filosofico pensatori asistematici, come la gran parte dei presocratici, Pascal, Kierkegaard e lo stesso Nietzsche;36 ma, più ancora, ciò metterebbe oggi la filosofia nella difficile situazione di dover competere con la scienza, che a buon diritto rivendica esattamente quella funzione. La conoscenza del mondo naturale costituisce effettivamente, da Galileo in poi, il compito essenziale della scienza. E questa, per svolgere le sue indagini sperimentali sui fenomeni della natura, non ha più bisogno del supporto di quel tipo di filosofia, per quanto questa orgogliosamente rivendichi il titolo di scienza prima.37 Attratti da questa conclusione difficilmente contestabile, non sono allora pochi coloro che con un atteggiamento mesto, più o meno di facciata, si accodano dietro al feretro della filosofia per accompagnarla con la massima riverenza al mausoleo della nostalgia. Dove la filosofia è sepolta con tutti gli onori, perché morta. Ma il feretro è vuoto e la filosofia, a dispetto di tutti coloro che ne celebrano il funerale, fa ancor sempre sentire il suo vivo appello.38

Rossetti ha chiuso troppo presto la porta. Non c’è insomma solo l’approccio dottrinario al sapere filosofico. L’adozione del modello sistematico come chiave unica di interpretazione è operazione quanto meno non così scontata. Nel caso di Parmenide poi è decisamente fuorviante. E non solo per i motivi cronologici sopra richiamati. C’è almeno un indizio da prendere in considerazione; un indizio all’apparenza del tutto formale, tale tuttavia da richiedere una più attenta considerazione: intendo dire la forma di comunicazione del pensiero. Melisso, in parte Platone, senza dubbio Aristotele adottano tutti la forma del trattato, di un procedimento di indagine cioè dove il sapere è garantito dalla tenuta dei nessi logici che il pensiero ha saputo costruire.39 Parmenide compone un poema in esametri, dove la rivelazione della verità è affidata al mythos (B2, 1) di una immortale, al racconto cioè garantito dall’autorevolezza di chi lo propone. La cosa non è irrilevante dal punto di vista teoretico né ha significato puramente formale. Non la si risolve invocando esigenze di conformistica imitazione del modello omerico o di retorica comunicazionale;40 nella forma poetica si gioca invece una questione autenticamente filosofica, che ha a che fare con il momento della posizione delle domande originarie, di quelle domande cioè che non hanno un contesto speculativo già definito, essendo esse invece a definire ogni successivo orizzonte di pensiero.41

Restiamo ancora un momento su questo ragionamento. Abbiamo infatti bisogno almeno di indicare qualche punto fermo per la filosofia; senza di che, il nostro sarebbe solo un simpatico vagabondaggio attorno a questioni essenziali. La filosofia in ultima analisi dà voce al millenario aggirarsi del pensiero umano attorno alle grandi questioni che interpellano l’uomo nel suo esistere mondano e che generano il filosofico stupore. Cosa significa essere al mondo? cosa significa l’essere del mondo? Domande come queste - nella nostra tradizione occidentale così ovvie da sembrare banali, tali dunque da non meritare alcun soggiorno presso di esse – sono in verità potenti costrutti di senso, che solo la capacità preveggente di pensatori delle origini, di coloro cioè che hanno dato avvio a una tradizione culturale, ha avuto la potenza di formulare.42 Ma siffatte questioni hanno dovuto esser delineate, poste, formulate; non si trovano già confezionate da qualche parte. Allo stesso modo delle risposte, che esse sono state e sono tuttora capaci di originare, quelle domande hanno dovuto attendere la maturazione di spiccate sensibilità, la forza di potenti intuizioni in grado di problematizzarle. Solo domande ben poste possono infatti aprire la strada a fruttifere ricerche. Per noi epigoni, che camminiamo su un solco già tracciato dalla tradizione cui nativamente apparteniamo, è rara occasione suscitare nuove domande, provare stupori autentici. La weberiana epoca del disincanto, che ci pervade intimamente, non lascia sfuggire quasi nulla al controllo della razionalità tecnica; e anche quando qualcosa ha la forza di sorprenderci nella sua imprevedibilità, agisce potente in noi la presupposizione che comunque questo evento inatteso ha una sua nascosta necessità, che la ragione scientifica prima o poi saprà trovare. Questa nostra sicurezza non deve però portarci a facili generalizzazioni. Non sempre, non dappertutto è così. La condizione antica non aveva la stessa esperienza e lo stesso sguardo sul mondo. Per gli antichi il mondo era Chaos e Tuchē governava i destini. Ora senza la scoperta di un qualche regolarità in fenomeni all’apparenza disordinati, senza trasformare Chaos in kosmos, non si dà alcuna possibilità di pensare il mondo. E proprio in questa direzione si è mossa la ricerca dei sophoi dei secoli VI e V a.C., ponendo così le premesse teoriche della cultura, non solo filosofica, dell’Occidente.

Non è dunque l’esigenza dottrinaria, che la ragione si occupa di distendere in potenti catene argomentative rette da una forte logica dimostrativa, quella che si presenta anzitutto davanti alla riflessione sapienziale dei primi pensatori. Essi sono invece interpellati da una istanza originaria, che sottragga il mondo al caos dove niente rimane identico e identificabile, dove cioè l’uomo si sente in balìa di forze imprevedibili o capricciose, da cui non sa proteggersi. Lo sguardo nuovo che essi gettano sul mondo fa emergere la trama di una realtà consistente e coerente, che un nuovo sapere, la sophia di cui sono alla ricerca, può assicurare. Ma questo nuovo sapere, nell’atto iniziale che esso pone, non si presta a essere compattato nelle strutture argomentative tipiche della formulazione dottrinaria; esso richiede una forma comunicativa adeguata, dove la verità emerga progressivamente dal racconto e si affermi per la sua capacità di aprire scenari di senso. Abbiamo così il detto primordiale di Anassimandro, la comunicazione oracolare di Pitagora, l’aforisma ricco di suggestioni di Eraclito. Allo stesso ambito appartiene anche il Poema filosofico di Parmenide, dove una «divinità dai molti nomi» (Ruggiu 1991, 31) conduce pian piano il suo discepolo a pronunciare la parola essenziale, essere; la cui forza non risiede nelle catene dei ragionamenti che la ragione sa pur costruire,43 ma solo nella gratuità di una comunicazione di verità che chiede di essere accolta con fiducia.44 Quello della dea è un mythos, una parola autorevole e credibile, credibile perché autorevole, in ogni caso eccedente le possibilità di intelligenza dei mortali.45 La dottrina come la immagina Rossetti, come un insieme di conoscenze definite e ben strutturate in tutte le sue giunture, nel Poema di Parmenide allora non c’è perché non ci può essere.46 Il che non deve far trarre la conclusione che allora nel Poema non ci sia alcuna forma di sapere. Certo, si tratta di un sapere che non veste la forma di un sistema di dogmata, ma che non per questo è silente sul mondo o ininfluente per la comprensione della realtà. È anzi un sapere capace di orientare l’esperienza del mondo, fornendo il necessario punto di ancoraggio di ogni ulteriore acquisto cognitivo. Dire infatti è; dirlo in maniera tale da escludere ogni altra possibile alternativa; definire di conseguenza la totalità del reale, la natura,47 come to eon, come il tutto segnato dal fatto primordiale di essere; far emergere dalla condizione ontologica fondamentale i caratteri essenziali che to eon deve possedere; chiamare infine ta eonta i singoli fenomeni naturali: questa è la grande conquista, che Parmenide ci ha lasciato in eredità. Eppure fatichiamo a riconoscerla, questa eredità, tanto ci appartiene, ci è connaturale, apre l’orizzonte supremo di significato da noi sentito come immediato e unico.48 Il cuore pulsante del Poema perciò è tutto nella scelta fondamentale di centrare ogni possibile discorso sull’essere. Prima di B8 e della sua rigorosa dimostrazione dei caratteri di to eon, prima delle critiche ai mortali che si ostinano a camminare lungo la via segnata dal non essere, prima della apertura del mondo dei fenomeni naturali alla spiegazione del loro manifestarsi, c’è dunque la posizione stessa dell’esti originario. L’essere è, la physis va pensata in termini di essere, essa è to eon. Questo è l’atto originario con cui Parmenide traccia la strada alla conoscenza del mondo.

Quando dunque Parmenide pone l’affermazione fondamentale della filosofia, che cioè l’essere è, egli non sta concludendo un ragionamento, ma sta ponendo l’inizio di tutti i ragionamenti. Sbaglia perciò Rossetti a pensare che «la dottrina dell’essere sia stata da lui [Parmenide] percepita come un punto di arrivo» (II, 168). Un ragionamento, che concludesse con la trionfale dichiarazione che l’essere è, sarebbe infatti di scarso aiuto, una vuota tautologia che non farebbe avanzare di un passo il pensiero. Rossetti lo nota, e nota pure che per giungere alle medesime conclusioni non c’è bisogno di nessuna comunicazione divina. Quale altro predicato potrebbe infatti essere adeguato ad un soggetto così denso? La rigorosa logica della ragione lo esclude. Le cose cambiano però se, ben al contrario, la nozione di essere, la posizione dell’essere, ha costituito la parola iniziale da cui il pensiero ha preso le mosse. La lettura del Poema richiede che si tenga conto di questo fatto. Comincia in questo modo a delinearsi l’importanza ed anche l’efficacia della sapienza parmenidea. Ma proprio quell’atto originario è ciò che Rossetti non è disposto a riconoscere. La sua denuncia dell’assenza di una dottrina dell’essere in Parmenide e, più in generale, il suo rifiuto di attribuire un qualunque interesse teorico o pratico per il discorso parmenideo sull’essere hanno origine qui, nel fraintendimento radicale di questa problematica. Egli pare non avere la pazienza di seguire la faticosa costruzione parmenidea del percorso della verità, l’unico che porta al vero sapere, e attende direttamente Parmenide al varco dei fenomeni naturali, dove ha modo con perizia e, come abbiamo visto, anche con buon successo, di recuperare l’insegnamento naturalistico dell’Eleate. Il fatto è che l’orizzonte teorico di Parmenide risulta capovolto rispetto a quello dei suoi lettori moderni. Il nostro sguardo si muove già sempre entro un quadro ontologico definito; la possibilità di pensare in termini di essere non è messa in dubbio.49 Non è più dunque l’essere, ma sono invece le cose mondane, i fenomeni naturali ad attirare la nostra attenzione. Questi vogliamo conoscere; con essi abbiamo a che fare. Ma questo appunto è il nostro approccio. Non quello di Parmenide, o almeno non in primo luogo quello di Parmenide. La curvatura, che Rossetti imprime all’ontologia parmenidea, è evidente, sin da quando sceglie di non prestare attenzione al frammento 2, il luogo dove Parmenide pone la questione della krisis, della scelta fondamentale tra essere e non essere. La cornice teorica della sua costruzione si delinea per conseguenza, come si evince bene dalla seguente affermazione, in precedenza già notata, sulla quale ora conviene tornare con l’obiettivo di far risaltare meglio il profilo dell’ontologia implicita di Rossetti.

Se ciò che non c’è non c’è, allora ciò che c’è è e non può non essere del tutto esente da ciò che non c’è, quindi non può avere né inizio né fine. (II, 165)

C’è un sottile, quasi impercettibile slittamento lessicale che si produce nel testo e che pregiudica in radice l’interpretazione. Rossetti parla di essere; ma essere diventa dapprima, con una leggera flessione, esserci; e infine assume le fattezze di una cosa che è, anzi meglio, che c’è. Dall’azione, che la forma verbale dell’infinito esprime nella sua pienezza, il discorso conclude al soggetto formale, definito dalla forma participiale, che a quell’azione dà corpo e operatività. È però anzitutto il primo passaggio che interessa, dove una piccola particella dal valore avverbiale, il ci che si aggiunge a essere, opera una potente dislocazione semantica. Essa infatti introduce, e al tempo stesso delimita, lo spazio in cui avviene di essere. Il fatto di essere viene così come ingabbiato entro confini che lo determinano e al tempo stesso lo condizionano. Essere ha allora valore se ha un ci, se avviene in un luogo; non parla più dunque di una condizione di stabile permanenza, ma diventa affermazione della presenza di una cosa in un luogo. Il significato locativo si attesta come prevalente, dal momento che ciò che conta è che una cosa abbia un ci, occupi un luogo: «allora ciò che c’è è», abbiamo appena sentito dichiarare da Rossetti.50

In questo modo però Rossetti interpreta correttamente l’esti parmenideo? È significa c’è? E quindi, al contrario, non è *significa non *c’è? Se fosse così, la dea si involverebbe in una contraddizione insanabile. Dopo aver appena parlato di hodoi *per pensare (B2,2), ella verrebbe a dire che una di queste, la seconda in elenco, *ē mēn ouk estin, sarebbe la via che non c’è. *Una via che *non c’è, però, come potrebbe mai essere una possibilità per pensare? Perché parlare di hodoi al plurale, se una delle due vie in realtà non c’è? È veramente così poco logica questa dea che ha appena promesso di guidare il suo giovane discepolo nella ricerca della verità (B1,28)51? E se fosse così, quale credibilità avrebbe tutto il resto del messaggio della dea? Ma essere non significa esserci. E, per conseguenza, to eon, l’ente, ciò che è, non significa una delle tante cose che ci sono. Cosa vuol dire dunque la dea, quando pronunzia questa che diventerà la parola della filosofia d’Occidente? Domande di questo genere trovano risposta solo nella meditazione filosofica. Anche in questo caso occorre pertanto dilatare i margini della questione, provando a ricostruire lo sfondo teorico di essa. Impostando nel suo poema la riflessione sull’essere, Parmenide carica questo verbo52 di un tono speculativo, che scopre una valenza radicale e comunque non percepita nell’uso quotidiano del termine. Egli va così oltre il significato immediato del termine, che indica il puro darsi di una cosa; ne fa emergere una dimensione, che potremmo definire fondazionale, la quale intensifica il senso ordinario di esistenza con l’aggiunta di un carattere di stabilità, di permanenza costante. Pensare, come Parmenide richiede, in termini di essere conduce infatti ad andare incontro ai fenomeni della natura come a realtà che posseggono una consistenza, perché appunto sono enti, sono cose che sono, che cioè portano impresso il tratto radicale e insuperabile di essere. In questo modo la natura cessa di essere evanescente, incerto accadere di eventi, per acquisire invece la forma di una solida e consistente realtà, stabilmente presente.

Seguire la via di questo pensiero non era per nulla scontato, quasi una cosa inevitabile, come invece sembra oggi a noi tutti, inconsapevoli parmenidei. Perché è di un’evidenza fattuale che i fenomeni naturali si presentano all’osservazione diretta con i tratti della continua trasformazione nello spazio e nel tempo, del mutamento qualitativo e quantitativo, della nascita e della morte. A questo livello l’essere appare sempre puntuale, finito, transitorio; il sole, ad esempio, in alcuni momenti c’è e in altri no. I mortali dalla doppia testa non si ingannano dunque nei loro semplici ragionamenti. Il loro errore sta alla radice, è quello di camminare su una via che accoglie il non essere, di generalizzare frettolosamente quanto i sensi sono in grado di accertare, magari ipotizzando un principio del buio in lotta con la luce, come Parmenide accusa in B8,53-59. Ma allora, come altro intendere l’esperienza dei sensi? Come poter dire che il sole è anche quando non c’è? Come poterlo pensare come esistente, anche quando non ci sono evidenze di sorta che giustifichino questo pensiero? Risolvere l’aporia, affermando correttamente che il sole è semplicemente assente, non è sprofondato nel nulla ma è solo scomparso dal nostro orizzonte percettivo, è già parlare inconsapevolmente il linguaggio di Parmenide. L’assenza è, in effetti, solo una diversa modalità di essere, quella dell’esser-via lontano, come le lingue antiche e moderne della parte occidentale del mondo testimoniano.53 Il concetto di assenza trova perciò la sua condizione di pensabilità solo nella preventiva affermazione dell’essere. Solo se la realtà si mantiene, senza essere vinta dal nulla, anche quando esce fuori dal nostro orizzonte di percezione, solo se la si pensa in termini di essere, come dunque ciò-che-è, un ente che mantiene immutata la sua condizione, è possibile garantire la continuità della realtà stessa e quindi ricercare le ragioni che possano spiegare questo suo alterno apparire. Diversamente, non solo l’altrove non potrebbe essere pensato come assenza, ma ancor di più l’apparire mattutino del sole, per continuare l’esempio, sarebbe niente più che un fortuito – e dunque inspiegabile – evento.54.

Ecco allora il contributo decisivo che Parmenide ha offerto alla nostra ordinaria comprensione del mondo. Il suo sguardo acuto è riuscito a vedere in ciò che passa una permanente struttura immutabile, sottratta al divenire temporale, dunque stabilmente definita. Essere indica allora il permanere di ciò che passa, lo stare stabile di ciò che sembra vacillare.55 Non c’è allora bisogno di pretendere, come fa Rossetti, un passaggio letteralmente formalizzato tra il sapere dell’essere, che Parmenide ha per la prima volta dispiegato, e gli insegnamenti naturalistici, che Rossetti ha così sapientemente ricostruito, perché il passaggio è nei fatti. C’è una sequenza logica, che sostiene la descrizione e spiegazione dei fenomeni naturali su uno scenario, preliminarmente aperto dalla posizione dell’essere, entro il quale solamente quei fenomeni possono costituire eventi dotati di senso.56 Il Poema di Parmenide mostra così una profonda unità teorica, prima ancora che tematica. Esso muove da un’intuizione unitaria, che penetra nel «cuore che non trema» (B1,28) della realtà e lì trova la possibilità di dare ordine ai fenomeni naturali, che risultano anzitutto problematici per l’esperienza quotidiana. In questo modo Parmenide ha segnato la strada della cultura filosofica e poi scientifica successiva; e questa è anche la ragione per cui il suo è un posto di primo piano dell’Olimpo filosofico. Dispiace che Rossetti abbia voluto sottovalutare queste ragioni. Questo fatto sbilancia il suo lavoro e fa apparire monocromatico l’identikit di Parmenide. Per quanto vivo possa allora essere il colore scelto per il contorno, esso non è tuttavia in grado di restituire la complessità e la profondità del profilo del sapiente di Elea. Il quale appare nella ricchezza del suo sapere di studioso dei fenomeni naturali, che lo accomuna a molti altri sapienti dell’area greca; ma perde del tutto la caratura di un apripista, di pensatore capace di tracciare la strada della filosofia. Il Parmenide che Rossetti ci consegna, il Parmenide scienziato, è figura che affascina gli studiosi del passato; egli appartiene però inesorabilmente alla preistoria della scienza. Non si legge di certo il suo Peri Physeōs per avere oggi informazioni scientifiche sul mondo; al più esso può essere oggetto di dotta citazione in qualche nota a margine nei libri degli scienziati naturalisti. Non è questo infatti il Parmenide che ha costretto il pensiero successivo a misurarsi con le sue affermazioni. Il Parmenide “parlante” ancora oggi, dopo venticinque secoli e nel bel mezzo di una cultura segnata dall’approccio scientifico e tecnico, è il sapiente che ci ha posti di fronte alla questione centrale dell’essere trovando in esso la garanzia di ogni sapere. Il già citato grido di vittoria con cui Rossetti chiude il suo studio: «stiamo dunque perdendo un “filosofo dell’essere”, ma per “acquistare” una mente oltremodo penetrante e versatile» (II,183) – si smorza così in una più mesta considerazione. Abbiamo infatti acquistato una mente oltremodo penetrante e versatile, avendo però perduto un filosofo acuto e profondo nell’interpretare la condizione umana. Il bilancio finale della filosofia non credo possa dirsi in attivo; e purtroppo, nemmeno in pareggio.


  1. Una versione in lingua francese del presente saggio è stata pubblicata su Revue de philosophie ancienne, XXXVIII (1), 2020, pp. 143-179. Livio Rossetti vanta una lunga consuetudine con il pensiero di Parmenide e degli Eleati. Dopo i primi interessi socratici, la sua attenzione è andata progressivamente concentrandosi sui presocratici e, tra questi Parmenide, con l’intento di avviare «un progressivo decondizionamento dall’immagine tràdita degli esordi della filosofia in Grecia», come si dice nella pagina di presentazione di Rossetti sul sito di Eleatica (http://www.eleatica.it). ↩︎

  2. Significativamente il primo paragrafo dell’epilogo si intitola esattamente «Verso un nuovo identikit» (II, 150. I numeri, romani e poi arabi, tra parentesi si riferiscono rispettivamente al volume e alla pagina del libro cui questo lavoro è dedicato. I frammenti di Parmenide invece vengono citati secondo l’edizione canonica di Diels-Kranz). ↩︎

  3. Questa indecisione non è la mia, ma, come vedremo, dell’autore stesso. ↩︎

  4. «Stiamo dunque perdendo un “filosofo dell’essere”, ma per “acquistare’ una mente oltremodo penetrante e versatile, una mente impegnata a organizzare e far progredire la conoscenza del mondo su molti fronti diversi e accendere una intera serie di punti di luce con tale determinazione da risultare tenacemente refrattaria a ogni tentativo di ricondurre il tutto ad unità» (II 183). Filosofo va scritto tra virgolette, sostiene Rossetti, perché nel V secolo a.C. si può parlare al più di una «filosofia virtuale». Su questa problematica Rossetti era intervenuto già con un lavoro precedente (Rossetti 2015a). ↩︎

  5. Che trova negli appuntamenti di Eleatica, ideata e discretamente diretta da Rossetti e ormai giunta alla XI edizione, momenti di viva discussione. La riabilitazione del sapere naturalistico parmenideo ha avuto il suo lancio con l’edizione del 2008, con le lezioni di Nestor-Luis Cordero dal combattuto titolo Parmenide scienziato? (Cordero 2008). ↩︎

  6. Come la natura riflessa della luce lunare, già intuita da Anassimandro. ↩︎

  7. B18. Rossetti pensa che Parmenide abbia in mente più che i casi di ermafroditismo, come ritengono i più, quelli di omosessualità. Non fa quindi meraviglia che Parmenide abbia potuto derivarne «il corollario non esplicitato, ma inequivocabile» che, essendo l’omosessualità un evento naturale, «non avrebbe senso criminalizzare e punire gli omosessuali e tantomeno incoraggiare l’omofobia» (II, 82). Ma in questo modo forse Rossetti sovraccarica il testo di convinzioni culturali contemporanee. ↩︎

  8. Opportunamente richiamati nella ricca bibliografia posta in appendice a ognuno dei due volumi. ↩︎

  9. Si veda, ad esempio, Cherubin 2019 la quale, pur non citando il lavoro che qui ci interessa, rimanda agli studi preparatori che Rossetti aveva già pubblicato in precedenza (Rossetti 2015b e Rossetti 2016). ↩︎

  10. Credo di conoscere già l’obiezione di Rossetti: ma questi sono fatti. Vero. Ma i fatti, Nietzsche ce lo ha ricordato, da soli sono muti. Parlano solo attraverso l’interprete. Che li fa parlare con le sue parole – sue, dell’interprete, non dell’interpretato. Uno spazio di discussione insomma c’è. ↩︎

  11. Inducendo così gli interpreti a non frequentare tutta questa sezione, come discretamente lascia intendere Rossetti. Che comunque considera motivo principale di questa dimenticanza il residuo di platonismo operante nelle interpretazioni di scuola dell’eleatismo. ↩︎

  12. Si pensi a B14-15 e anche a B15a, che però Rossetti non prende in esame. Su questi insegnamenti, egli annota, abbiamo a che fare «sempre e solo [con] briciole, quindi non un puzzle scomposto ma molto peggio: punte di iceberg diventate, in certi casi, poco meno che impercettibili» (I, 13). ↩︎

  13. Rubo l’espressione allo stesso Rossetti («fantasmagorica torre d’avorio» [I,141]), che però la usa per indicare la dorata prigione del sapere parmenideo dell’essere. Avremo modo di ritornare su questa convinzione, centrale nell’interpretazione di Rossetti. ↩︎

  14. Anche (I, 9)? o solo, come frasi come la seguente («che egli possa essersi proposto come filosofo o come il teorico dell’essere è del tutto escluso» - II, 154) invitano a pensare? Sulla scelta tra queste due opzioni si misura, come vedremo, la distanza della mia lettura da quella di Rossetti. ↩︎

  15. Non senza aver comunque notato, en passant, che «spesso accade che venga deliberatamente ignorata la sezione A del Diels-Kranz» (I, 13 n. 8). Dal canto suo, Rossetti apprezza talmente la «loquacità» di quelle testimonianze, da lasciare che esse sovrastino talora la voce parlante del Poema. È così per la dottrina dell’essere, che deve accontentarsi dello spazio lasciato libero per essa dalle testimonianze. I testi spiegati con le testimonianze? Rossetti direbbe che il loro suono è talmente alto che non può essere ignorato. Ma anche il testo tràdito ha un peso che non si può accantonare. Il difficile equilibrio tra testo e testimonianze costituisce uno, forse il più importante, dei motivi che richiedono attenzione e prudenza da parte dell’interprete. ↩︎

  16. Ha così modo di mostrarsi tutta l’importanza e l’utilità dell’inventario stabilito nel capitolo 2. ↩︎

  17. È il caso del termine e della nozione di antipodes (antipodi) utilizzata da Zenone, il quale, osserva Rossetti, la «considerava già di pubblico dominio, tanto dal ritenersi esonerato dall’offerta di spiegazioni» (II, 37). ↩︎

  18. La lettura che Rossetti dà del sapiente di Samo è senz’altro originale. La sua discussione tuttavia eccede dai limiti di questo saggio. ↩︎

  19. Rossetti le elenca già in sede introduttiva (si tratta di Coxon, Bollack, Cerri, Graham e poi ancora Mourelatos, Casertano, Ruggiu), riconoscendo a esse un importante, ancorché insufficiente, posto nell’opera di revisione dell’immagine tradizionale del pensiero di Parmenide. ↩︎

  20. Uso per l’ultima volta questo modo tradizionale di chiamare ciò che Rossetti opportunamente denomina come sapere naturalistico o secondo logos, avendo l’obiettivo di sottolinearne dignità culturale e forza epistemica. ↩︎

  21. L’accusa di ideologia va però maneggiata con cautela. Può essere infatti un boomerang e ritorcersi contro chi l’ha lanciata. ↩︎

  22. Ritorneremo più avanti su ciò che Rossetti intende per filosofia. Qui aggiungo solo che in uno scritto di prossima pubblicazione sulla rivista Φιλοσοφια, dal significativo titolo di Parmenides Misinterpreted, Rossetti aumenta la dose affermando con decisione che «indeed, not even a philosophy surfaces from his surviving fragments». ↩︎

  23. L’affermazione, convinta e priva di incertezze, del nuovo paradigma naturalistico parmenideo non arretra nemmeno davanti a affermazioni come queste, estremamente improbabili, di un sophos che parla di cose che egli stesso non sa dominare. ↩︎

  24. Al lettore attento non sarà sfuggita la movenza aristotelica del discorso. To on esti katholou malista pantōn, scrive Aristotele in Metafisica, B 4, 1001a 21. ↩︎

  25. Perché ante litteram? Qui Rossetti si tradisce e lascia intravedere la sua idea di filosofia. Se Parmenide avesse scoperto lui l’essere come un ens rationis, non lo si potrebbe dire anticipatore di qualcuno o di qualcosa. Ma evidentemente per Rossetti questo è l’unico significato accettabile del concetto di essere. Il che giustifica l’osservazione che Parmenide possa aver parlato di essere senza riconoscerne l’autentica natura. L’essere in definitiva è un concetto vuoto senza oggetto, come la sua identificazione quale ens rationis lascia intendere. L’errore di Parmenide, e degli studiosi che si ostinano a pensare l’essere in e al modo di Parmenide, sarebbe pertanto quello di affaccendarsi attorno a un concetto vuoto, di una qualche validità logica ma epistemicamente irrilevante. La consonanza di una simile posizione con la primissima filosofia analitica e neopositivistica è alquanto evidente. ↩︎

  26. Untersteiner (1958, lxvi-lxvii) vede in questo tratto il divino nell’uomo. ↩︎

  27. Rossetti non lo cita, ma il suo pensiero credo che possa essere bene sintetizzato nella frase che Carnap scolpisce nel paragrafo conclusivo del suo Uberwindung der Metaphysik durch logische Analyse der Sprache: «Metaphysiker sind Musiker ohne musikalische Fähigkeit» (Carnap, 1931, 240). ↩︎

  28. Il riferimento è al noto saggio di Emanuele Severino Ritornare a Parmenide (Severino 1964). ↩︎

  29. E se la cerniera si fosse trovata nei frammenti andati perduti? Per Rossetti questa sarebbe però solo una provocazione (oltre che un colpo basso della storia). ↩︎

  30. Per attribuire a Parmenide un «rigetto del maschio-centrismo» (II,109), se non proprio «una sorta di impensato proto-femminismo» - un altro dei temi che Rossetti individua tra le righe del Poema (II, 110) – è sufficiente portare coerentemente avanti il ragionamento, una volta riconosciuto alle donne il ruolo attivo nel processo generativo. ↩︎

  31. In verità un passaggio c’è; ma non ha la forma di una catena inferenziale fatta di se … allora (v. nota 57). ↩︎

  32. Sull’assenza di un quadro unitario del Poema, che verrebbe a comporsi di due sezioni totalmente irrelate, Rossetti è tornato nelle sue Lezioni eleatiche tenute in occasione di Eleatica 2017. Qui non affronto la questione, che ho discusso intervenendo nel dibattito aperto dalle Lezioni con un saggio che riassume la mia opinione già nel titolo, amabilmente provocatorio, Da un Parmenide paranoico a un Parmenide schizofrenico?. Il saggio farà parte degli atti di Eleatica 2017, la cui pubblicazione è prevista nel 2020. ↩︎

  33. Scrive Rossetti all’inizio dell’ultimo riassuntivo capitolo: «abbiamo potuto appurare che la dottrina dell’essere non perviene a configurarsi come un insegnamento dotato di virtù sistemiche, né il poeta-sophos riesce a dirci qualcosa di preciso sulla natura dei tanti altri insegnamenti che non hanno nulla in comune con quella particolare dottrina» (II,149). ↩︎

  34. È nota l’affermazione di Whitehead che «the safest general characterization of European philosophical tradition is that it consists of a series of footnotes to Plato» (Whitehead, 1978 39). ↩︎

  35. L’apice di questo tipo di speculazione, avviato da Aristotele, si raggiunge senza dubbio nella spinoziana Ethica more geometrico demonstrata e più ancora nella Wissenschaftslehre di Fichte e nella Enzyklopädie der philosophischen Wissenschaften hegeliana. Fichte e Hegel sono apparentemente assenti dall’orizzonte teorico di Rossetti. Mentre Spinoza viene esplicitamente chiamato in aiuto della dimostrazione dell’inadeguatezza del profilo teorico dell’essere parmenideo (I, 99). ↩︎

  36. Rossetti intuisce la problematica, trova cioè che alcuni pensatori sfuggono al ritmo sistematico; ma non sospetta che le cause possano essere altre rispetto a quelle da lui ipotizzate. Scrivendo del periodo aurorale della filosofia, egli nega con forza che i presocratici possano essere definiti filosofi. La filosofia non nasce con Talete (e nemmeno con Socrate), così Rossetti titola un precedente lavoro, già richiamato (Rossetti 2015a). Al più si può concedere loro una filosofia virtuale, cioè un’attenzione a temi che solo nei filosofi «professionisti» (da Platone in poi) avranno la giusta collocazione. La filosofia, quella vera, professionale, ha un sicuro andamento sistematico, si configura come sistema, è cioè scienza. ↩︎

  37. O forse sì. In verità la scienza teorica, soprattutto la fisica, fa continuamente appello alla filosofia, come sostiene chi si imbatte nel corso della ricerca in questioni primordiali (Laplane-Mantovani 2019). Il contributo che la filosofia può dare è però proprio quello di una fondazione dei principi primi della ricerca. ↩︎

  38. Ma se la filosofia non è scienza, si dirà, cosa è? Il discorso, lo si può intuire facilmente, è lungo e complesso; richiederebbe da solo uno sviluppo dedicato, che non può essere certo svolto qui. Indico perciò solo un avvio di risposta, che sfrutta il carico etimologico della parola filo-sofia. Nel termine greco sophia, che la compone, è condensata una esperienza del mondo che ha una qualche riferimento all’acquisto di una comprensione profonda, di tipo valutativo, capace cioè di fare emergere il senso nascosto, della realtà. In esso si esprime qualcosa di diverso dalla conoscenza (in greco gnōsis) o dalla scienza (in greco epistēmē). Questa dimensione valutativa, capace di cogliere il «goȗt de la recherche» (Chantraine, 1968, 1031) è andata per lo più perduta nelle lingue moderne. Si mantiene in qualche misura in quelle neolatine, nella evidente parentela di sapere/sapore (francese: savoir/saveur; spagnolo: saber/sabor), mentre scompare del tutto in quelle di origine sassone, dove il sapere è totalmente risucchiato dal conoscere (knowledge, Wissenschaft) e l’unica forma di sophia conosciuta è la saggezza (wisdom, Weisheit). Ma la filosofia, notava Heidegger in Was ist das – die Philosophie (Heidegger, 2006) parla greco. ↩︎

  39. Platone compone dialoghi, certo, e non trattati. Ma nei dialoghi della maturità, dalla Repubblica in avanti, quando l’attenzione di Platone si indirizza in direzione della definizione della natura e delle applicazioni dell’epistēmē, anche la dialettica del pensiero acquista sempre di più i tratti dell’insegnamento dottrinario. ↩︎

  40. Come sostengono molti studiosi (ad es. Robbiano 2006). Il peso della tradizione epica ovviamente esiste e si fa anche sentire, come hanno notato molti studiosi, da Diels 1897 a Fränkel 1930 e Mourelatos 1970. Ma non credo possa essere addotto come motivo sufficiente a spiegare la scelta parmenidea del poema in versi. In Parmenide gioca qualcosa di più di un semplice tributo culturale alla tradizione omerico-esiodea; quasi si trattasse di una semplice sovrastruttura funzionale, sovrapposta al pensiero per sostenerlo tecnicamente nella comunicazione. In verità, come avviene nella vera poesia, il pensiero nasce sostanzialmente già formato, non va alla ricerca di contenitori che lo accolgano, indifferenti alla natura di ciò che contengono. Ridurre la forma del pensiero poetante di Parmenide a qualcosa di esteriore ed estrinseco, effetto di fattori culturalmente contingenti, fa perdere l’opportunità di penetrare entro la natura di un pensiero che pone l’atto originario del pensare e che vede nel metro epico la «modalità espressiva appropriata al procedere mitopoietico e alla parola come mythos» (Ruggiu, 1991, 155). ↩︎

  41. «Le dire de la Parole n’est jamais là que pour l’initialité du dédit qui nous rappelle depuis au silence de l’inacquittable, et dont l’abstension inapparente soutient toute possibilité de fondation» (Beaufret, 1955, 11). ↩︎

  42. Rossetti sfiora solo la questione, quando nota che altre tradizioni culturali, come quella cinese, non hanno le parole – in quanto non hanno il relativo concetto – per esprimere l’intuizione invece centrale nella tradizione occidentale, l’essere (II, 159). Ma questo non avviene perché, come pensa Rossetti, la domanda sull’essere sia inutile e retorica, ma perché nella tradizione cinese si è delineata una differente visione del mondo. ↩︎

  43. Queste catene ci sono, ma entrano in gioco solo più avanti, in B8 (v. nota 45). ↩︎

  44. «Ora io parlerò, e tu custodisci la parola avendola ascoltata» (B2,1). Così la dea si rivolge al giovane al momento di iniziare la sua rivelazione dell’essere. ↩︎

  45. È la dea stessa, dopo aver reso consapevole il suo giovane discepolo della natura straordinaria dell’esperienza a lui concessa - la sua via (hodos) è lontana dal sentiero (patos) battuto dagli uomini (B1,27) -, a definire come mythos il suo annuncio di verità (B2,1). Per Rossetti, in questo condividendo l’opinione della maggior parte degli interpreti, la scelta lessicale non ha un valore particolare che meriti di essere rilevato; il termine utilizzato da Parmenide porta con sé il significato generico di parola, significato peraltro condiviso con logos, che si ritiene occupi il centro dello spettro semantico. Mythos perciò sarebbe un mero sinonimo di logos, cioè di una parola-ragione, che ha nella necessità dei legami istituiti dalla ragione argomentativa la giustificazione della verità dei risultati. Ora, a tacere dell’ambientazione teorica aristotelica del ragionamento, l’assimilazione di mythos a logos non tiene nel giusto conto del fatto che lo stesso logos, cui la dea fa appello in B7,5-8,49 quando chiama il giovane a collaborare nella ricerca dei sēmata caratterizzanti to eon, è infine qualificato come pistos (B8,50), credibile e degno di fiducia. È una qualificazione che giunge del tutto inattesa, sembrando persino contraddittoria, dal momento che il logos deve la riuscita del suo percorso solo alla sua capacità di tessere stretti legami logici lungo i passi del suo procedere. Sono le inflessibili le catene della necessità (B8,14-16.26.30-31) a tracciare la via, imponendo al pensiero il loro fermo sigillo. Come può pertanto il logos esser detto credibile? Quale atto di fiducia richiede? La contraddizione si rivela però apparente, se solo concentriamo la nostra attenzione non già sullo sviluppo del discorso, ma sull’avvio dello stesso. C’è infatti un momento del discorso, quando questo appunto muove il primo passo, che resta come scoperto, privo di adeguato sostegno. Essendo l’inizio del discorso, non avendo cioè niente di dato precedentemente cui far riferimento, il logos non può applicare la sua ferrea logica e garantire così la necessità dell’inizio. Il logos scopre così una sua dipendenza radicale da un atto di libertà che lo mette, nell’atto stesso in cui lo pone, nella giusta via e direzione. C’è dunque un dire iniziale, che il logos non sa fondare e da cui al contrario viene fondato; un dire, la cui forza veritativa non è garantita dall’architettura del ragionamento, ma dall’autorevolezza del soggetto che lo pronuncia e che in questo modo pone il principio che dà regola e l’inizio che dà avvio; un dire, infine, che richiede ascolto e custodia, perché costruito sulla fiducia. Nel caso della dea di Parmenide, questo principio è l’essere. Il logos si rivela perciò pistos perché ha svolto le conseguenze del principio rivelato dalla dea nel suo mythos (Fratticci 2008).E tuttavia, proprio perché estraneo alla logica della necessità incontrovertibile, il mythos può essere anche rifiutato. Come farà Gorgia che, negando fiducia al mythos della dea, si farà guidare dallo stesso logos verso ben altri esiti. ↩︎

  46. Adottando la stessa logica di Rossetti, per assurdo si potrebbe sostenere che anche nella Teogonia di Esiodo non venga comunicato nessun sapere, perché anche Esiodo non trae delle conseguenze nette da premesse altrettanto chiare. Nessun “se-allora” nemmeno là. Nessun sapere, dunque? Non credo che Rossetti vorrebbe sottoscrivere questa conclusione. Ma è mitologia, si dirà. Certamente. Purché non si interpreti la mito-logia, in sintonia con un sentire aristotelico, come logos del mythos, che una seria analisi razionale farebbe dunque dissolvere come fumo nell’aria. ↩︎

  47. Qui sta la giustificazione del titolo del poema parmenideo, Peri physeōs. È la natura come un tutto, oggi diremmo l’universo, a costituire l’oggetto formale della speculazione di Parmenide. Solo una volta assestato lo sguardo sul tutto della natura, solo costituito il tutto come natura, i singoli fenomeni possono essere apparire come naturali, cioè parti del tutto della natura, di cui mantengono la prerogativa fondamentale, l’essere che li costituisce come cose-che-sono, enti.In una comunicazione privata Rossetti confessa di non capire la necessità di questa distinzione. Eppure è la scienza, antica e contemporanea, che ne fa uso. Quando il fisico parla dell’universo, studiandone magari l’espansione, non sta parlando di una realtà diversa da quello che siamo io e il mio computer, che tuttavia vedo immobile alla stessa distanza da me. Ma io e il mio computer non siamo l’universo, ma solo il modo in cui l’universo esiste qui e ora. Ne siamo le singole emergenze. Che, per essere comprese adeguatamente, devono essere pensate come parti di un tutto governato da leggi certe. Il fatto è che Rossetti oppone essere a mondo e dunque non accetta che ci sia bisogno di parlare di un qualcosa che sia oltre il mondo. In questo modo però egli ha già travalicato l’orizzonte parmenideo, collocandosi senza disagi dentro un’ottica di trascendenza metafisica di ispirazione platonica; nella quale sì l’ontos on iperuranico è cosa diversa, anzi opposta agli onta mondani. Ma se restiamo a Parmenide, to eon è esattamente il mondo naturale, e gli eonta le sue singole e concrete emergenze. ↩︎

  48. Non bisogna però fare l’errore di generalizzare l’affermazione. In quel noi non sono infatti compresi tutti gli uomini del pianeta, ma solo le culture che parlano la lingua della filosofia greca. Che poi oggi la globalizzazione abbia pressoché imposto l’inglese come moderna koinē e, con l’inglese, la cultura che tale lingua veicola, è altra questione. ↩︎

  49. Almeno fino a Nietzsche, che col suo nichilismo ha dato dignità metafisica allo spunto solamente retorico di Gorgia. Con Nietzsche la questione dell’essere, la questione se l’essere costituisca il fondamento del pensare, è divenuta di nuovo problematica. Perché lo Übermensch afferma di avere la forza di auto sostenersi nel vuoto di ogni fondamento. Che poi il progetto nichilista stia finalmente mostrando tutta la sua evanescenza e insostenibilità è solo un ulteriore motivo per ritornare a meditare l’essere che Parmenide ha avuto la forza di dire. ↩︎

  50. Per chiarire ancora meglio, ciò che fa problema nella lettura di Rossetti non è che egli parli di esserci, ma che riduca l’essere all’esserci. Se parliamo della realtà nel suo complesso, l’universo per esprimerci in termini a noi più consueti, la questione centrale non è quella di trovare il luogo del suo essere (e quale luogo potrebbe darsi per l’universo?), ma quella di coglierne la nascosta consistenza e regolarità, stabilire cioè se sia o no lecito parlarne in termini di essere. Quando poi il discorso si sposta dall’universo alle singole realtà, fenomeni ed eventi, in cui esso si dà, allora la domanda del luogo, in cui le singole cose sono (esse sì che ci sono, qui o là), risalta in tutta la sua forza, portando con sé nuove domande, come vedremo a breve.In verità, una possibilità di parlare di esserci relativamente all’universo si dà, ma in altro contesto metafisico. Nel contesto di una metafisica dualistica, che ipotizza qualcosa d’altro oltre il mondo materiale oggetto dei sensi – che si dia cioè qualcosa come un mondo intellegibile, immateriale, distinto dal mondo dei sensibili –, allora la distinzione dell’uno dall’altro rende possibile il discorso della localizzazione del mondo materiale, che è da qualche parte rispetto a quello ideale. Ma così ci siamo allontanati dalla visione di Parmenide, entrando in un orizzonte platonico. Il dualismo ontologico infatti legittima la questione del ci sopra discussa. Così come fa sorgere la problematica del possibile passaggio dall’uno all’altro, la domanda sull’esistenza (ex-sistere: stare venendo fuori da. Di nuovo una prospettiva spaziale) del mondo presente. Questa opzione, intuita da Anassimandro nel suo celebre frammento, viene però chiusa dalla decisa affermazione dell’unicità dell’essere parmenideo. ↩︎

  51. Kahn denuncia espressamente la presenza di una «gratuitous contradiction» nel ragionamento della dea (Kahn, 1969, 703 n. 4), attirandosi l’accusa di attribuire alla dea una «mauvaise foi», giacché «la déesse aurait proposé un but qu’elle savait d’avance impossible à atteindre» (O’Brien, 1987, 155); ma fare i conti con la contraddizione, accettare che «la déesse fait ici son autocritique. […] Il s’agit bien ici d’une contradiction, mais c’est la déesse elle-même qui l’a mise en évidence» (O’Brien, 156) è l’unico modo per evitare di dire che il ragionamento della dea sia «en quelque sorte pervers» (Collobert, 1993, 80). Non è difficile vedere quanto poco accettabili siano simili tentativi di giustificazione, che derivano tutti dalla errata convinzione della inesistenza della seconda via indicata dalla dea, che avrebbe pertanto solo una realtà virtuale, affermazione dal puro «caractère fictionnel» (Couloubaritsis, 1990, 184). ↩︎

  52. È fondamentale riconoscere che la rivelazione della Dea prende avvio dalla assicurazione della forma verbale, per passare solo dopo alla sua ipostatizzazione nella figura dell’eon. B2,3.5 non oppone, come abbiamo visto, una via esistente a una non esistente, ma una via esistente, denominata esti, tale cioè che su di essa valga solo il pensiero che ragiona in termini di essere, a una allo stesso modo esistente e ampiamente frequentata dagli uomini dalla doppia testa (B6,5), lungo la quale però il pensiero non riesce a sfuggire alla trappola del non essere. L’opposizione posta da Parmenide tra einai e mē einai non va intesa pertanto come opposizione di esserci/esistere e non esserci/esistere. ↩︎

  53. In greco, latino, ma anche in francese, italiano o inglese, nel termine ass-ente (greco: ap-eonta) risuona l’ente↩︎

  54. Una conferma e contrario la si trova in Senofane, il quale secondo testimonianze convergenti sostiene (senza peraltro trovare alcuna incoerenza in ciò che dice) che il sole sarebbe formato di nuvole infuocate e scintille che si disgregano ogni sera per poi ricomporsi di nuovo al mattino successivo (21 A32.33.40 DK). Egli in effetti con queste affermazioni esprime un modo naïf, preriflessivo di guardare il mondo; allo stesso modo dei bambini. Ho potuto sperimentare con mio nipote di cinque anni la stessa cosa, quando una sera mi ha chiesto se il sole c’era ancora. Egli non lo vedeva, e faticava a immaginare che potesse essere ancora, dal momento che per lui semplicemente non c’era. ↩︎

  55. L’idea di saldezza, di stabile permanenza è espressamente affermata da Parmenide nell’avverbio bebaiōs, che Parmenide pone quasi come una colonna a conclusione del verso 1 del frammento 4: leusse d’omōs apeonta noō pareonta bebaiōs. Qui Parmenide stabilisce che le cose assenti (apeonta) sono nondimeno per la mente stabilmente presenti (pareonta bebaiōs). Infatti to eon non può essere diviso da se stesso. Esso è il tutto che è, nel passare delle sue manifestazioni. ↩︎

  56. Stabilito il collegamento tra i due momenti del sapere parmenideo, esso andrebbe ricostruito nel dettaglio. Occorrerebbe mostrare cioè meglio e con gli opportuni riferimenti testuali come e dove Parmenide prepara la transizione dall’uno all’altro, dando in questo modo pienezza e compimento a un’intuizione teorica, che nasce e si mantiene unitaria. Questo impegno tuttavia richiede uno studio particolare, che supererebbe l’ambito tematico del presente studio. Nel saggio Apeonta pareonta. On B4 DK (di prossima pubblicazione per i tipi della Imprensa da Universidade de Coimbra) ho sostenuto la tesi che i luoghi di questa transizione sono gli ultimi due versi di B1, dove viene posta la questione dei dokounta, e B4, dove si produce esattamente il passaggio da to eon agli eonta. Due luoghi testuali, significativamente non interessati dalla lettura di Rossetti. Per lui infatti anche i dokounta sono doxai, opinioni incerte e non vero sapere. ↩︎